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HENRY ZHAO*
Contestare Confucio
(marzo-aprile 2007)
In Occidente, lo studio della filosofia cinese è stato a lungo
confinato in un piccolo ambito specialistico: pochi eruditi trasmettevano il loro sapere a uno sparuto numero di studenti,
che a loro volta un giorno lo avrebbero trasmesso a pochi altri
studenti. Questi specialisti costituivano una specie rara, sopravvissuta grazie alla protezione di alcune rispettabili università. Se la disciplina suscitava scarso interesse all’interno delle
istituzioni accademiche, figuriamoci all’esterno. Per questo
non può non sorprendere l’ampiezza del dibattito che nei cir-
* Henry Zhao si occupa di letteratura e critica letteraria con un particolare impegno, anche di traduzione, per la conoscenza in occidente
degli scrittori cinesi. Oltre a molti articoli in cinese pubblicati su riviste
di letteratura e critica letteraria e in miscellanee, si segnalano, in inglese: (con L. Ling-Chi Wang, eds.), Chinese American Poetry: An Anthology (Asian American Voices), University of Washington Press, 1992;
(ed.), Lost Boat: Avant-garde Fiction from China, Wellsweep Press, London 1992; (con J. Cayley, eds.), Under-sky Underground (Chinese Writing Today), Wellsweep Press, London 1994. To Go Pop of Not, That’s
Beyond Question, «New Left Review», 2, 2000, pp. 139-144; (con C.
Yanbing, eds.), Fissures. Chinese Writings Today, Zephyr Press, Brookline (MA) 2000; «Storiografia e fiction nella gerarchia culturale cinese»,
in Il romanzo I. La cultura del romanzo, a cura di F. Moretti, Einaudi,
Torino 2001, pp. 47-70; The River Fans Out: Chinese Fiction Since the
Late 1970s, «European Review», vol. 11 (2), 2003, pp. 193-208.
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coli sinologici occidentali, finora dominati da un silenzio da biblioteca, si è improvvisamente diffuso attorno alla filosofia tradizionale che, da un secolo a questa parte, è tornata in auge in
Cina. Ancora più sorprendenti sono le aspre critiche che uno
studioso più anziano ha rivolto all’indirizzo del più famoso sinologo francese in un pamphlet a lui intitolato. Se fossi
François Jullien, lo considererei un onore.
Sembrava che la passione che in Cina infervora il dibattito
sulla filosofia confuciana fosse inconcepibile per gli esperti
stranieri, abituati a seguire tali dispute con meravigliata attenzione ma sempre da una certa distanza. Almeno fino ad ora.
Contre François Jullien, il libro di Jean-François Billeter, avvampa di sdegno quasi a ogni pagina. Di nazionalità francosvizzera, classe 1939, anche Billeter è un esperto di civiltà cinese, noto in particolare per il saggio su Li Zhi (pensatore ribelle
vissuto nel XVI secolo durante la tarda dinastia Ming) e per gli
studi sullo Zhuangzi, uno dei testi classici del taoismo. A Billeter si deve inoltre l’istituzione del Dipartimento di sinologia
dell’università di Ginevra, dove ha insegnato fino al pensionamento nel 1999. A giudicare da questo pamphlet è chiaro tuttavia che egli non si è ritirato dalla vita intellettuale. Per parte
sua, François Jullien, obiettivo polemico di Billeter, ha avuto
una carriera più spettacolare. Docente di filosofia cinese all’università di Parigi VII , è una delle figura di spicco della vita intellettuale francese, regolarmente intervistato da giornali come
«Le Monde» e «Le Débat» e ricercato da molti industriali e investitori desiderosi di «comprendere» la multimillenaria cultura cinese allo scopo di fare affari nella Repubblica di Confucio,
Sun Tzu e Lao Tze.
Nato nel 1951, Jullien aveva iniziato in realtà a studiare filosofia greca alla Scuola Normale Superiore, prima di passare
all’inizio degli anni Settanta allo studio della Cina, nella speranza che la filosofia cinese (come egli stesso ha spiegato nei suoi
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libri e nelle numerose interviste degli ultimi quindici anni) potesse incoraggiare una messa in discussione dei «grandi universali» del pensiero europeo. Ma perché proprio la Cina? Perché,
secondo Jullien, quella cinese è l’unica civiltà storica a essere
realmente «altra» rispetto all’Europa: il mondo arabo e quello
ebraico, infatti, «sono strettamente connessi alla nostra storia.
Anche all’India siamo molto legati, anzitutto dal punto di vista
del linguaggio, tenuto conto delle numerose affinità esistenti
fra greco e sanscrito. Se vogliamo uscire davvero dall’Europa,
quella della Cina è l’unica strada percorribile: la cultura giapponese ne è solo una variante». Fra il 1975 e il 1977, Jullien ha
soggiornato a Shanghai e a Pechino, dove ha conseguito il dottorato di ricerca con una tesi su Lu Xun, uno scrittore iconoclasta che anticipa gli sviluppi della letteratura cinese moderna.
Dal 1978 al 1981 ebbe un incarico ufficiale a Hong Kong e dal
1985 al 1987 ha vissuto in Giappone. Rientrato a Parigi nel
1989, si è rivelato un saggista estremamente fertile, pubblicando in media un libro all’anno: ventitré in tutto i titoli sino a oggi, l’ultimo dei quali è una risposta quasi immediata alle critiche di Billeter. La stampa francese ha sempre accolto con prontezza e con favore ogni sua nuova fatica editoriale. D’altra parte, i testi di Jullien sono ampiamente tradotti in tutto il mondo:
quattro sono apparsi in cinese e, cosa abbastanza insolita, addirittura sei in Vietnam.
Procès ou création (“Processo o creazione”, 1989), prima
opera pienamente matura, è dedicata agli scritti del filosofo
confuciano Wang Fuzhi, vissuto nel XVI secolo, che secondo
Jullien sarebbe all’origine del «pensiero dei letterati cinesi».
Nel libro si trovano già delineati i principali temi e il metodo
«comparativo» che egli avrebbe approfondito nei volumi successivi, seguendo in questo un indirizzo estremamente coerente. D’altro canto, Jullien sostiene che il pensiero cinese non solo è sostanzialmente differente da quello europeo, ma sovente
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è persino ad esso superiore. Muovendo dalla nozione di «processo» anziché da quella di «creazione», la filosofia cinese difatti può aggirare l’ingombrante enigma dell’essere e, quindi,
della metafisica. Processo o creazione assicurò all’allora giovane
e promettente studioso un’ampia notorietà. Dopo essersi occupato di Dio, Jullien si volge nel libro successivo allo studio dell’arte. In Elogio dell’insapore (1991),1 sostiene che, nonostante
la semplicità della produzione artistica cinese suggerisca una
«mancanza di sapore», essa in realtà supera qualsiasi «sapore»
in quanto aperta ai potenziali cambiamenti e persino a una possibile «liberazione interna». Nell’arte così come nella filosofia,
la Cina è di gran lunga vincente sull’Europa.
La propension des choses (“La propensione delle cose”, del
1992) affronta un’altra imponente questione filosofica, prendendo le mosse dall’ambigua espressione shi (che, secondo il
dizionario, può significare di volta in volta «potere, influenza,
autorità, forza; aspetto, circostanze, condizioni»). Richiamandosi a Leibniz, l’autore preferisce tradurre con «propensione».
Ma ciò non rende più semplice la sua interpretazione.
L’anno seguente, con Figure dell’immanenza2 Jullien propone «una lettura filosofica dell’I Ching», che presenta come «il
libro in assoluto più strano». Ancora una volta, l’immanenza cinese viene contrapposta alla trascendenza occidentale, per sottolinearne la superiorità. Il Libro dei Mutamenti, sostiene lo
studioso, è in netto contrasto con il pensiero europeo perché, a
differenza di quest’ultimo che nello spiegare il mondo si concentra sull’essere o su Dio, non ricorre al mistero o all’astrazione. Ancora una volta, tuttavia, Jullien giustifica la superiorità
dell’antica filosofia cinese interpretandola in maniera molto libera, secondo un’ottica ellenistica ed europeizzata. Se si considera che nella sua prospettiva lo studio della civiltà cinese è
concepito espressamente come «una deviazione per accedere
alla Grecia», il paradosso non può che balzare agli occhi.
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D’altra parte, proprio al raffronto tra queste due grandi civiltà è dedicato il successivo Strategie del senso in Cina e in Grecia del 1995.3 In questo voluminoso saggio di oltre 400 pagine,
Jullien passa in rassegna i più antichi classici del pensiero confuciano e taoista (gli Analecta, Mencius, Lao Tze, Chuang Tzu),
individuandovi la comune tendenza a privilegiare una forma
indefinita di discorso che rifiuta di affrontare gli universali (la
«sostanza» delle cose) per integrare invece tutte le possibili
prospettive, così da valorizzarne le diversità. Questa «deviazione» ci riporta a una tematica rimossa dal logos greco, rendendocela «accessibile» (e facendo apparire, per contrasto, il pensiero dei Greci «astratto e stagnante»). Sia l’argomentazione sia
la conclusione sono tipici dell’opera di Jullien.
Sempre nel 1995 (un anno molto fertile per l’autore), esce
un secondo libro, Fonder la morale (“Fondare la morale”) che
racconta di un immaginario dialogo fra Mencius e un filosofo
illuminista, nel quale si fondono i ritratti di Pascal, Rousseau,
Schopenhauer e Kant. Né sorprenderà che quest’ultimo venga
battuto dal sapiente cinese. Spostando l’attenzione dall’etica alla teoria della politica e alla strategia militare, il Trattato dell’efficacia (1997)4 cerca di dimostrare che, nello studio della guerra e delle pratiche diplomatiche, gli occidentali (Aristotele,
Niccolò Machiavelli, Karl von Clausewitz) risultano meno convincenti dei teorici cinesi (Sun Tze, Hanfeizi, Guiguzi). Mentre
i primi sembrano confidare sulla «consunzione per superare le
resistenze», i secondi infatti hanno mostrato l’efficacia dell’inazione.
In Il saggio è senza idee del 19985 (certamente il suo libro
più largamente tradotto), Jullien sostiene che, a differenza dei
filosofi occidentali che costruiscono il proprio sistema concettuale per astrazione, i pensatori cinesi si affidano alla saggezza
ma non alle «idee». I cinesi cioè accettano la realtà così com’è,
giudicando ogni idea astratta come un pregiudizio contro la na203
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tura. Perciò rifuggono dall’astrazione, al contrario degli europei che per questo si allontanano dalla vera filosofia.
Nel 2000, in Il nudo impossibile,6 Jullien ritorna sulla produzione artistica analizzando in modo più approfondito quell’impressione di «mancanza di sapore» che aveva già esplorato
in Elogio dell’insapore. Presente da sempre nella tradizione occidentale, la rappresentazione del nudo è quasi del tutto assente nell’arte cinese. Questa diversa propensione estetica è alla
base di un ulteriore raffronto filosofico che porta Jullien a concludere che la rappresentazione del nudo costituisce una rivelazione del presente. Mentre valorizza l’assenza, l’approccio cinese rende possibile un «accesso sensuale all’ontologia».
Nel 2003, La grande immagine non ha forma7 mostra quanto l’arte occidentale sia ossessionata dall’aspirazione a superare
l’«oggettività» dell’oggetto, finendo così con l’inseguire il fantasma della realtà. Al contrario, l’arte cinese non si accontenta
dell’apparenza dell’oggetto. La «grande immagine» rifiuta anzi
la verosimiglianza e per questo non si riduce mai a immagine
parziale, imprigionata in una forma statica.
Quelli che abbiamo ricordato sono soltanto alcuni dei libri
pubblicati da Jullien sino a oggi. All’accusa di eclettismo egli ribatte che, sì, i temi affrontati nella sua opera – la strategia, la
semplicità, la moralità ecc. – possono apparire «discontinui»
(come riconosce in «Le Débat»). Ma queste sono «angolazioni»
dalle quali muovere per «ritornare alla questione centrale dei
pregiudizi della ragione europea. Non potendo affrontare questo tema in modo diretto, non mi restava che una sola possibilità: spostarmi da un punto a un altro, intrecciando una sorta di
rete problematica». In ogni libro Jullien riesce a tirar fuori un
paio di frasi a effetto, perlomeno in francese, che mostrano
quanto la filosofia cinese sia piacevolmente differente e nondimeno comprensibile. Ai suoi occhi, essa non solo è superiore a
quella dell’Occidente ma risulta anche estremamente illuminan204
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te per gli stessi occidentali. Naturalmente, è legittimo sollevare
qualche dubbio: se è vero che il pensiero cinese è tanto più penetrante di quello dell’antica Grecia e di tutte le altre civiltà,
perché mai alcuni fra gli stessi cinesi non si accorgono della sua
grandezza? Limitarsi a rispondere che ciò è dovuto al fatto che
la Cina non è «altra cosa» rispetto alla Cina non basta.
È a questo punto che entra in gioco la riflessione di Billeter.
Nel suo pamphlet, l’anziano studioso vede in Jullien l’ultimo
esponente di una lunga tradizione intellettuale europea che ha
eretto a mito l’assoluta alterità cinese. Gli esempi citati sono
quelli di Victor Segalen, Marcel Granet, Richard Wilhelm e
Pierre Ryckmans, autori accomunati dall’idea che anzitutto la
Cina sia il «fondamentalmente altro». Ma le origini del mito risalgono a Voltaire e all’«illuminismo sinofilo» settecentesco.
Naturalmente, Voltaire e i philosophes si servivano della Cina in
modo strumentale, tratteggiandola come l’opposto del regime
che combattevano in patria. Secondo Billeter, Jullien si è appropriato di questo mito, aggiornandolo e, al tempo stesso, occultandone il significato politico. La sostanza della sua riflessione è questa. Voltaire e i suoi contemporanei avevano costruito
la propria visione della Cina in base all’immagine che ne davano i gesuiti, loro nemici. Costoro avevano tutto l’interesse a
tratteggiare in un luce positiva sia le istituzioni dell’impero sia
l’ideologia confuciana che ne assicurava il fondamento concettuale, in quanto aspiravano a convertire l’impero dall’alto, attraverso la figura dell’imperatore. Era il confucianesimo, spiegavano pertanto, a costituire la stupefacente «chiave di volta
dell’universo intellettuale dei mandarini». Per Billeter, proprio
i gesuiti sono gli iniziatori di quel mito della Cina intesa come
meraviglioso «altro», di cui Jullien è l’ultimo divulgatore. Il nodo della questione, a suo avviso, sta nel comprendere l’uso politico a cui soggiace la filosofia cinese, nel passato (come ideologia dell’impero) e nel presente.
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Di tale ideologia Billeter offre una sintetica ricostruzione
storica. Quella che a uno sguardo retrospettivo possiamo considerare la «prima fase» del confucianesimo si sviluppa tra il VI
e il III secolo a.C. in un’epoca in cui la Cina, più che un Paese
vero e proprio, era un’espressione geografica. I principati e i regni che si combattevano a vicenda erano infatti molti, proprio
come nell’antica Grecia. Del resto, non diversamente dalla
Grecia, esistevano differenti scuole filosofiche in concorrenza
fra loro per conquistare il consenso dei re e dei principi; tali
scuole sopravvissero finché Confucio (551-479 a.C.) e i suoi seguaci non riuscirono a unificare i diversi indirizzi di pensiero.
Sotto la dinastia Qin (221-206 a.C.), il primo tentativo di
consolidare l’impero ebbe vita breve ma fu estremamente spietato: i governanti bruciarono infatti tutte le opere dell’antichità
a eccezione dei testi che almeno formalmente osservavano la
legge.
Di diversa natura fu il secondo tentativo compiuto, sotto la
dinastia Han, a partire dal 206 a.C. Con la collaborazione degli
intellettuali di corte, i ministri ricostruirono l’impianto dottrinale della cosmologia e dell’etica confuciana «preimperiale»,
come la chiama Billeter. Il mandarinato aveva difatti assoluta
necessità di una filosofia che fosse in grado di sorreggere ideologicamente il neonato impero. Con i mandarini della dinastia
Han entriamo così nella «seconda fase», che mescola gli aspetti originari del confucianesimo al «legalismo» brutalmente
coercitivo dell’età precedente.
Il successo dei primi ideologi fu tale che le istituzioni dell’impero, che la filosofia tradizionale ha contribuito a legittimare, sono sopravvissute per oltre duemila anni, prima di crollare
all’inizio del XX secolo. «Quella che oggi chiamiamo “civiltà
cinese”», osserva Billeter, «dipende strettamente dal dispotismo imperiale», al contrario della filosofia greca che, indipendente da ogni forma di dispotismo, ha agito come fonte ispira206
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trice della «libertà politica e della democrazia che percorrono
la storia europea». Billeter aggiunge che, in Cina, anche quei
concetti che all’apparenza sembrano puramente filosofici, come nello Zhongyong (che di solito viene tradotto «dottrina del
giusto mezzo», ma che Jullien preferisce rendere con l’espressione dottrina delle «regole»), nacquero in realtà come tecnica
di governo proposta alla burocrazia imperiale.
Anche le successive fasi del confucianesimo hanno carattere politico. Durante la dinastia dei Song Meridionali e la dinastia Ming (XII-XVII secolo), la filosofia confuciana conobbe
un sofisticato sviluppo grazie al contributo di molti studiosi influenzati dal buddhismo e dal taoismo. Per indicare tale risveglio intellettuale, si parla appunto di «terza fase» o (in Occidente) di neoconfucianesimo. A partire dal 1644, tuttavia, gli
imperatori della dinastia Manciù, avendo necessità di legittimare un potere fondato su una minoranza etnica, restaurarono
una concezione più conservatrice dell’etica confuciana, che trasformarono di fatto in fondamentalismo dogmatico. Dopo l’esperienza traumatica dell’invasione militare e culturale da parte
dell’Occidente nel XIX secolo, il confucianesimo è stato visto
in gran parte come il principale ostacolo alla modernizzazione
del Paese. Eppure nella seconda metà del Novecento si registrano numerosi tentativi volti a resuscitarlo. Tali sforzi hanno
indotto a parlare di una «quarta fase» della tradizione confuciana o anche di nuovo confucianesimo (xin ruxue). La riflessione di Billeter, estremamente critica verso l’immagine idealizzata e spoliticizzata che Jullien restituisce della filosofia cinese,
poggia dunque su un terreno molto solido.
Inoltre, Billeter ha buon gioco nel demolire i presupposti filosofici di Jullien, sottolineando che ciascuna delle sue opere inscena un «confronto mancato». In effetti, sebbene affermi di
voler affrontare una differente tradizione di pensiero, Jullien
non cede mai la parola ai grandi fautori di tale tradizione: le ci207
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tazioni scarseggiano così come i riferimenti alle interpretazioni
storicamente più prossime ai testi classici. Né lo studioso inquadra i filosofi che cita nel contesto in cui si situano. Invece, si limita a considerare un insieme di concetti isolati offrendo una ricostruzione omogeneizzata del panorama filosofico cinese. Inoltre, puntella il mito dell’alterità per mezzo del suo particolare
metodo di traduzione, come se fosse possibile estrapolare dal
loro contesto concetti complessi come quelli di dao o di shi e
renderli con approssimazioni di gusto New Age. «Processo» è
infatti un vocabolo improprio per tradurre dao, come fa Jullien,
e può impressionare solo i profani. In sostanza, ciò che Billeter
rimprovera al sinofilo Jullien è di tradire l’autentico spirito cinese. Anziché focalizzarci su particolari parole, argomenta l’anziano studioso, faremmo meglio a studiare l’intero contesto, e questo è possibile unicamente se partiamo dall’esperienza umana
condivisa e da una comprensione delle fondamentali «caratteristiche comuni». I cinesi, secondo Billeter, non hanno un’alta
considerazione dei propri antenati perché, paradossalmente, sono «persone libere e responsabili»: non avrebbero potuto sopportare a lungo il dispotismo. In contrasto con l’atteggiamento
ellenizzante di Jullien, Billeter cerca di descrivere i cinesi come
persone che vivono «fra di noi» mettendo in risalto l’aspetto politico della loro tradizione filosofica.
D’altronde, dopo aver ricostruito le reali origini di tale tradizione al servizio dell’impero, Billeter si sofferma sul fermento intellettuale che ne ha accompagnato il declino. Proprio
questi sono i passaggi più interessanti del libro: il comportamento dei cinesi che vivono in un mondo reale infatti può gettare luce sulla complessità dei problemi meglio di quello dei cinesi che vivono in un mondo sinologico. Secondo Billeter, nei
primi decenni del XX secolo la moderna intellighenzia uscita
del Movimento del Quattro Maggio8 si divide rispetto al pensiero cinese tradizionale in quattro diversi atteggiamenti: i radi208
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cali iconoclasti (come Chen Duxiu, fondatore del Partito comunista cinese) rifiutano del tutto l’ideologia tradizionale; gli
intellettuali critici (come lo storico Gu Jigang, di indirizzo scettico-liberale) ne contestano la sorgente «sacra»; i comparatisti
(come Feng Yu-Lan, autore della prima storia della filosofia cinese) provano a confrontarla con la filosofia occidentale; infine, i puristi (come l’educatore confuciano Qian Mu) affermano
che essa è incomparabile con quella dell’Occidente e incomunicabile agli occidentali.
Di fatto, possiamo ulteriormente semplificare questa suddivisione in due macrogruppi: da una parte i critici, dall’altra gli
apologeti. A quest’ultimo raggruppamento appartengono sia i
comparatisti sia i puristi che, muovendo da diverse premesse,
giungono alla medesima conclusione: la superiorità cinese. Secondo Billeter, Jullien sarebbe per l’appunto un tipico comparatista convinto, come i suoi omologhi cinesi, della superiorità
della filosofia cinese su tutte le altre filosofie. Tanto le tesi dei
critici quanto quelle degli apologeti hanno trovato continuatori negli storici delle generazioni successive. Lungi dall’esaurirsi, pertanto, nel corso degli anni il confronto è diventato semmai più incandescente, soprattutto dopo il decollo economico.
Billeter cita a esempio due giovani studiosi: Mou Zhong Jian e
Li Dong-jun. Il primo è un moderno purista che in Il grandioso percorso della Cina (un saggio del 2005 scritto in cinese arcaico) si dichiara convinto che la civiltà occidentale abbia ormai superato il proprio picco, sia dal punto di vista culturale sia
da quello economico, e che il XXI secolo sarà il secolo della Cina. Docente all’università di Nankai, Li Dong-jun è invece una
studiosa di indirizzo iconoclasta. In The Canonization of Confucius and the Confucianist Revolution (del 2004), osserva che
il sistema di rappresentazione simbolica incarnato dal confucianesimo continua a esercitare una forte influenza sulla mentalità cinese e, nonostante sia passato ormai un secolo dalla fi209
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ne dell’impero, stimola ancora la popolazione a conformarsi a
un «dovere di abnegazione in favore della totalità».
L’opera di Billeter intende mostrare l’inconsistenza del mito di una Cina concepita come «fondamentalmente altro». E
sottolinea che comprendere la reale natura della sua filosofia in
quanto ideologia imperiale è una necessità politica, volta «non
a ridimensionare il ruolo che essa ha svolto nella storia, bensì a
chiarire l’approccio con cui vogliamo avvicinarci a essa». Tale
necessità diventa ancor più impellente perché, anche se «in
passato gli europei e i cinesi hanno vissuto in disparte, ormai
questa antica separazione non ha più senso. Oggi ci troviamo a
fronteggiare le stesse sfide storiche e faremmo bene ad agire insieme e a cercare di capirci a vicenda». Il mito dell’altro ostacola la reciproca comprensione fra cinesi e occidentali. Questo
è un altro affronto all’indirizzo di Jullien, il quale ha sempre dichiarato che il suo obiettivo era appunto quello di incoraggiare la reciproca comprensione delle due civiltà. Billeter lo dice
senza mezzi termini: «Coloro che approvano una riflessione
critica del passato stanno dalla parte della libertà politica e della democrazia, i comparatisti invece si adattano allo stato delle
cose».
L’ultimo capitolo di Contre François Jullien («Occorre scegliere») invita i lettori a prendere posizione. In qualità di recensore, credo di non potermi sottrarre a tale dovere. Ma sono
proprio queste le uniche scelte possibili? A mio avviso, tanto la
depoliticizzazione della filosofia tradizionale cinese operata da
Jullien quanto l’insistente politicizzazione di Billeter nel solco
degli schemi «universali» del moderno liberalismo (un prodotto recente della cultura europea, non del pensiero greco) sono
quanto mai problematici. La questione, infatti, non è se la civiltà cinese abbia caratteristiche specifiche o universali. È chiaro che, a un certo livello, sono vere entrambe le cose. Ma non
è molto utile per i cinesi discutere se la loro cultura sia stata (o
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sia ancora) così unica da riuscire a curare la malattia mortale
dell’Occidente. Quella era la convinzione diffusa nell’Europa
di Voltaire, ed essa sopravvive nell’opera di Jullien. Nondimeno, negli ultimi secoli, la fantomatica alterità che Jullien raffigura in modi seducenti ha danneggiato la Cina, e niente lascia
pensare che oggi rappresenti una migliore proiezione. La filosofia cinese ha bisogno di uscire dal guscio in cui la condanna
l’alterità rispetto all’Occidente, e in cui la trattengono le pretese di superiorità di Jullien e dei comparatisti.
A dire il vero, Jullien sa perfettamente in quali punti la filosofia s’interseca con la politica. Se è vero che i modi in cui nei
suoi libri viene affrontata la tipicità dell’«efficienza» cinese
possono disorientare (almeno il pubblico cinese), è altrettanto
vero che nelle interviste alla stampa egli si dimostra in genere
più spregiudicato. In un’intervista del 2005 apparsa su «Le
Monde», per esempio, spiega che nella primavera dell’89 soltanto gli studenti e una minoranza del Partito comunista erano
favorevoli alla democrazia. La grande maggioranza era invece
per il mantenimento dell’ordine (che il Partito comunista cinese era attrezzato ad assicurare meglio di chiunque altro), in
quanto condizione essenziale per lavorare ed arricchirsi. Il governo cinese ha saputo gestire la situazione esplosiva che ha fatto seguito alla fine della Rivoluzione Culturale e alla demaoizzazione. Ricorrendo a metodi autoritari, Deng Xiaoping è riuscito a sottrarsi alle polemiche sulle riforme economiche che
aveva varato e a incentivare invece una «rivoluzione silenziosa»
che si è rivelata uno straordinario successo. Secondo Jullien, la
ragione del trionfo di Deng Xiaoping va rintracciata nel fatto
che alla base del suo pensiero strategico vi era la concezione cinese dell’efficienza. Sia pure non esplicitamente, anch’egli riconosce dunque che nella Cina di oggi la filosofia è politica.
In realtà, lo è probabilmente più che mai. Negli anni Ottanta e Novanta abbiamo assistito alla nascita di un vigoroso mo211
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vimento per un «revival del confucianesimo», sostenuto in particolare dagli studiosi cinesi che insegnavano negli Stati Uniti.
Costoro ritenevano che lo spettacolare successo del capitalismo
nei Paesi dell’Estremo Oriente si reggesse su un’etica del lavoro di derivazione confuciana, paragonabile a quella puritana
analizzata da Max Weber. Principale leader di tale movimento
è Du Weiming, docente a Harvard. «Prima di tutto, in Estremo
Oriente esiste una cooperazione fra una potente economia e lo
Stato», osserva Du Weiming. «In secondo luogo, c’è una coordinazione tra democrazia, senso dell’élite ed educazione morale; e, da ultimo, vi è un solido spirito di gruppo, che non contrasta con la possibilità di un individuo di perseguire il proprio
interesse particolare.» In più occasioni, inoltre, Du Weiming ha
ricordato che la maggior parte delle aziende di quei Paesi sono
a conduzione familiare ed è questo a garantirne la maggiore
«efficienza» rispetto ai concorrenti occidentali (Jullien ne andrebbe orgoglioso).
In gran parte, il «revival» degli anni Novanta è stato smorzato dalla crisi finanziaria asiatica esplosa improvvisamente nel
1997 e diffusasi rapidamente in tutta l’area di influenza confuciana, da Singapore alla Corea del Sud fino al Giappone, palesando la fragilità delle economie di quei Paesi e, in taluni casi,
delle loro strutture politiche. Negli ultimi anni, tuttavia, un altro movimento ha infiammato la Cina continentale come il fuoco nella prateria: il guoxue re o «febbre per gli studi nazionali».
Di punto in bianco, i divulgatori di storia della filosofia sono
diventati star televisive, come era già avvenuto negli Stati Uniti degli anni Ottanta con i predicatori. Mentre nelle scuole si insegna agli alunni a imparare a memoria brani di Confucio, anche se non li capiscono o non li sanno interpretare. Nel 2006,
si è assistito a una serie di sforzi coordinati per risvegliare l’interesse popolare verso il confucianesimo. In maggio, molti giganti di Internet hanno sponsorizzato un’antologia dei «mae212
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stri della filosofia cinese»; in luglio, ha fatto discutere la pubblicità per una tradizionale «scuola elementare confuciana» di
Shanghai; in settembre, sono stati presentati alla stampa internazionale un ritratto e una statua «a grandezza naturale» di
Confucio, mentre moltissimi studiosi hanno firmato una petizione per chiedere che l’anniversario della nascita del grande
pensatore divenisse «festa ufficiale degli insegnanti». Molti sono coloro che incoraggiano gli studenti ad accendere prima di
un esame un bastoncino di incenso e a inchinarsi davanti alla
statua di Confucio anziché a quella di Buddha, dato che costui
non era uno studioso. Un suggerimento salutare e saggio. Ma i
tentativi di rilancio del confucianesimo sono molto più numerosi di quanto si possa rendere conto qui, e di sicuro saranno
ancora più numerosi nel prossimo futuro. Jullien non poteva
prevedere che la sua idealizzazione dell’antica filosofia cinese
avrebbe contribuito ad avvolgere questa «febbre» in un velo
innocentemente apolitico.
Verso il guoxue re il governo ha tenuto un atteggiamento
ambiguo. Benché i suoi fondatori fossero tutti iconoclasti, il
Partito comunista si è «aperto» dai primi anni Ottanta alla nuova corrente. La Cina ha compreso che gli effetti della globalizzazione e della competizione internazionale giocano a suo favore. Oggi, non a caso, il PCC è attento ai segnali di chiusura protezionistica sul piano economico e di isolazionismo politico che
provengono dagli Stati Uniti, dall’Europa e dalla Russia. E ciò
perché teme che la Cina sia costretta a dover «ripiegare su stessa». D’altra parte, il governo ritiene che il sentimento nazionalista di massa sia una forza unificante che irrobustisce la propria legittimazione. Il guoxue re si è sviluppato fra le masse e gli
intellettuali in modo più o meno spontaneo, alimentato dal ritrovato orgoglio nazionale, ma scarsamente incoraggiato dal
governo e dalle autorità, che anzi si sono mantenute per lo più
neutrali. La domenica mattina, a Chengdu – la città nel sudo213
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Henry Zhao
vest del Paese dove mi sono trasferito – la popolazione affolla
le sale da tè per ascoltare le conferenze sulla filosofia tradizionale cinese, ma dubito che sia sensibile agli ammonimenti ideologici. Ciò non toglie che i principi che sorreggono tale «febbre» siano senz’altro ideologici, e cioè mirino a riempire il vuoto di valori della Cina contemporanea. Stimolata dal boom economico del Paese, la «febbre» si svilupperà rapidamente. Perché i problemi sollevati da Billeter sono importanti. La speculazione filosofica sull’alterità, se portata agli estremi, rischia di
apparire pericolosamente attraente. Si può incoraggiare la diversità senza trasformare la differenza in qualcosa di irriconoscibile o di irraggiungibile. Quando si regge sul mito, l’alterità
non serve né a coloro che si collocano all’interno della sua sfera né a coloro che si collocano al di fuori. Speriamo piuttosto
che questo animato dibattito tra sinologi francofoni sia il preludio a una più ampia discussione che consideri l’altro semplicemente come altro.
(Recensione del libro di Jean-François Billeter,
Contre François Jullien, Parigi, Editions Allia 2006)
1. Trad. it. Elogio dell’insapore: a partire dal pensiero e dall’estetica
cinese, Cortina, Milano 1999 [N.d.T.].
2. Trad. it. Figure dell’immanenza. Una lettura filosofica del I Ching,
Laterza, Bari 2005 [N.d.T.].
3. Trad. it Strategie del senso in Cina e in Grecia, Meltemi, Roma,
2004 [N.d.T.].
4. Trad. it. Trattato dell’efficacia, Einaudi, Torino 1988 [N.d.T.].
5. Trad. it. Il saggio è senza idee, o l’altro della filosofia, Einaudi, Torino 2000 [N.d.T.].
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Contestare Confucio
6. Trad. it. Il nudo impossibile, Luca Sossella Editore, Roma 2004
[N.d.T.].
7. Trad. it. La grande immagine non ha forma. Pittura e filosofia Cina antica ed Europa contemporanea, Colla Editore, Vicenza 2004
[N.d.T.].
8. Il Movimento, sorto nel 1919, era connotato da un forte sentimento patriottico e dall’avversione verso le dominazioni straniere. Segnò il passaggio di molti giovani all’azione politica diretta e
realizzò, a Pechino e Shanghai, dimostrazioni e proteste che furono represse con violenza [N.d.T.].
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