Luca Crescenzi Il New Historicism, ribattezzato in

Luca Crescenzi
Il New Historicism, ribattezzato in italiano neostoricismo o nuovo
storicismo, prende forma durante la prima metà degli anni Ottanta per
iniziativa di un gruppo di studiosi dell’Università di Berkeley, come
reazione alla critica testuale propugnata dai rappresentanti del New
Criticism e del decostruzionismo. Rispetto a queste tendenze dominanti
della critica letteraria americana e, in parte, europea, il neostoricismo
riaffermava il valore costitutivo, per l’arte e la letteratura, di quelle
superfici dure dell’esistenza – la politica, l’economia, la religione, le
dinamiche di ceto e di classe – a cui la pratica interpretativa corrente
aveva smesso di attribuire un ruolo significativo e di cui non riusciva più
a render conto.
L’apparizione del neostoricismo sulla scena della critica letteraria
americana fu tutt’altro che dimessa o in sordina, soprattutto per merito
del suo rappresentante più attivo e più noto, Stephen J. Greenblatt, che
già all’inizio degli anni Ottanta sviluppò in una serie di conferenze e in un
libro largamente programmatico (Renaissance Self-Fashioning: From More
to Shakespeare , 1980) un nuovo approccio alla letteratura del
Rinascimento inglese, giungendo a risultati quanto meno inattesi, se non
sensazionali, nell’ambito dell’esegesi marlowiana e shakespeariana. Tre
anni dopo, la creazione della rivista Representations da parte di un
gruppo di studiosi nordamericani conferì definitivamente al neostoricismo
la fisionomia di una scuola o, per lo meno, di una tendenza ben definita
nell’ambito delle moderne discipline ermeneutiche, tanto che già l’anno
successivo Remo Ceserani, in un articolo apparso su Belfagor, poté
presentare al pubblico italiano il neostoricismo come espressione di una
neonata scuola di Berkeley. Nel 1988, poi, la pubblicazione del libro a
tutt’oggi più celebre di Greenblatt, Shakespearean Negotiations, segnò la
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definitiva affermazione del neostoricismo, anche fuori degli Stati Uniti.
Non a caso è del 1989 il primo tentativo di bilancio e di antologizzazione
del neostoricismo per opera di H. Aram Veeser (mentre solo sei anni più
tardi lo stesso tentativo approdò in Italia con un volume curato da
Fortunati e Franci, Il Neostoricismo, nel 1996). Nel 1990, poi, la Modern
Language Association dedicò un’intera sezione del suo grande convegno
annuale al neostoricismo, riconoscendone definitivamente il ruolo
trainante nell’ambito degli studi culturali contemporanei.
Il successo mondiale del neostoricismo angloamericano – al di là
dei risultati parziali ottenuti in ambito esegetico dai suoi maggiori
esponenti (Stephen J. Greenblatt, Catherine Gallagher, Louis Montrose,
H. Aram Veeser, Alan Liu) – dipende probabilmente dall’intelligente
combinazione di tradizioni di pensiero diverse, rifuse attraverso il filtro
della filosofia di Michel Foucault e dell’antropologia interpretativa di
Clifford Geertz. La genealogia della prassi interpretativa neostoricista è
infatti – per ammissione dei suoi stessi esponenti – assai complessa e
vanta un gran numero di padri nobili, spesso richiamati in contesti, e con
finalità, molto diversi. Si va infatti dal Nietzsche della critica genealogica
alla morale al Benjamin del Passagen-Werk (1927) e delle Begriff der
Geschichte (1940), dagli storici delle Annales a Norbert Elias, da
Althusser a Thompson; ma attraverso Geertz il neostoricismo recupera
anche il senso della tradizione ermeneutico-fenomenologica tedesca
(inclusi Heidegger e Gadamer), mentre attraverso il tardo Foucault delle
lezioni di Berkeley riattinge alla tradizione filologica come strumento
essenziale dell’esegesi testuale.
Da ciò dipende la duttilità concettuale e pragmatica del
neostoricismo e la sua adattabilità a contesti e programmi assai diversi
tra loro. Non a caso, in tempi recenti, Greenblatt e Gallagher (Practicing
New Historicism, 2000) hanno potuto rivendicare con orgoglio l’impulso
dato dal neostoricismo all’ampliamento degli studi culturali negli ultimi
venti anni: dall’allargamento concettuale dell’orizzonte definito col
termine cultura alla contaminazione e combinazione di discipline critiche
diverse, dalla relativizzazione dei canoni culturali e letterari tradizionali
alla ridefinizione del ruolo della donna nella cultura moderna,
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dall’adozione
diffusa
di
un
approccio
interculturale
alla
problematizzazione dei parametri valutativi delle opere d’arte.
La vastità della genealogia induce peraltro, già di per sé, a
riflettere su un punto particolarmente caro agli esponenti del
neostoricismo: vale a dire il tratto eminentemente non teorico del
movimento il quale intende se stesso, piuttosto, come una prassi diffusa,
aperta a spunti metodologici e critici eterogenei, finalizzata alla
definizione delle rappresentazioni culturali che si cristallizzano nei diversi
luoghi e momenti storici fatti oggetto di analisi. Tutto ciò conferisce al
neostoricismo l’aspetto di una corrente neoempirica nell’ambito delle
moderne metodologie di indagine. Tuttavia, come è stato spesso notato,
è possibile individuare alcune significative costanti nelle sue realizzazioni.
In
termini
generalissimi,
l’obiettivo
del
neostoricismo è
l’individuazione ed esplicazione delle diverse forme di energia sociale
circolanti nei testi di una determinata epoca o di un determinato luogo
storico, in quanto realtà decisive per la costruzione di qualsiasi discorso
culturale, artistico, critico o filosofico. Per energia sociale si intende, in
questo caso, la massa effettivamente circolante delle concezioni
tradizionali, ereditate o, comunque, condivise da un tempo e un luogo, e
costantemente presente in ogni momento dell’articolazione del discorso
culturale generato da quel tempo e da quel luogo stessi. Si intende cioè
l’insieme dei pre-giudizi che orientano più o meno inconsapevolmente il
lavoro dell’autore di un testo (laddove il termine testo va accolto
nell’accezione ampia condivisa dalla teoresi poststrutturalista) e
costituiscono lo sfondo immanente a ogni espressione culturale. Per il
neostoricismo l’energia manifesta i suoi effetti nella capacità che talune
“tracce verbali, uditive o visive hanno di produrre, dirigere e organizzare
esperienze fisiche e mentali in una collettività” (Greenblatt 1988). Essa
costituisce, dunque, l’indice della forza coesiva pertinente alle
rappresentazioni simboliche significative di una collettività, ma è anche il
motore necessario a quell’attività di scambio in virtù della quale tali
rappresentazioni simboliche assumono valore orientativo all’interno della
società che le ha prodotte.
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Questi pre-giudizi costituiscono, per la critica neostoricista, quella
contingenza inevitabile e ineludibile che si diffonde attraverso una
circolazione diffusa e capillare di valori simbolici e metaforici i quali – per
usare un termine noto attraverso gli scritti di Greenblatt – divengono
oggetto di scambi e negoziazioni che attraversano tutti gli strati e gli
ambiti della società. Per fare un solo esempio, i valori simbolici che
afferiscono agli emblemi del potere regale, restano i medesimi sia che
appaiano stilizzati in calce a un documento ufficiale, sia che vengano
portati in scena all’interno di una rappresentazione teatrale, sia che
vengano evocati in una disputa legale. Ogni rappresentazione deve,
altresì, la sua forza di attrazione e di coesione sociale alla capacità che le
è propria di fuoriuscire dal suo contesto originario e di diffondersi entro
sfere e ambiti sociali diversi senza perdere certe caratteristiche
essenziali. Un buon esempio è fornito dalle rappresentazioni e dai simboli
del potere (la corona, lo scettro, un’alta decorazione) i quali, anche
quando compaiono in contesti completamente diversi da quello politico
originario, restano indissolubilmente legati, nell’immaginario collettivo, a
un’espressione di forza, autorità e dominio. I passaggi di un elemento
simbolico significante da un contesto sociale a un altro sono marcati da
una serie di vere e proprie trattative e transazioni, che possono essere
materiali o puramente astratte. Esemplare del primo caso è l’acquisizione
di costumi e strumenti di scena da parte di un impresario teatrale (in
questo caso i simboli del potere sopra citati, che designeranno, ad
esempio, la presenza in scena di un re, saranno acquistati in cambio di
denaro), del secondo il trapasso da un ambito a un altro di parole gergali,
tecnicismi, neologismi etc. Transazioni e negoziazioni costituiscono
tracce essenziali, nella prassi critica neostoricista, per risalire al successo
o all’efficacia sociale di una rappresentazione o di un simbolo.
L’oggetto dell’indagine neostoricista è quindi l’opera d’arte, ma, in
genere, qualsiasi reperto testuale – in quanto trasfigurazione estetica
dell’energia sociale che in essa confluisce – trovandovi espressione
simbolica. Ciò implica che la prassi analitica neostoricista coinvolga un
gran numero di testi provenienti da ambiti creativi diversissimi,
concepisca lo studio dell’arte e della letteratura come parte di una più
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generale indagine delle forme d’espressione di una data cultura e,
soprattutto, aspiri non tanto alla comprensione della realtà e della storia
nel testo, quanto all’attingimento della vita dietro il testo, a cogliere –
come ha scritto ancora Greenblatt – il tocco del reale oltre e al di là
dell’opera d’arte (Greenblatt, Gallagher 2000). Ciò significa – come il
neostoricismo ha appreso dall’antropologia di Clifford Geertz – ancorare
l’indagine delle forme di espressione di una cultura alle superfici dure
dell’esistenza, alla concreta immanenza della politica, della religione,
dell’economia nella realtà da cui ogni testo si genera.
Tutto questo spiega il legame che unisce il neostoricismo alla
filosofia di Foucault e, in particolare, alla sua ricognizione postnietzscheana dei rapporti di forza su cui si gioca la relazione tra individuo
e istituzione, tra singolo e storia. Poiché il neostoricismo disconosce
costantemente la possibilità che il discorso estetico o artistico, alla
stregua di qualsiasi altro discorso, possa essere definito in opposizione
alle rappresentazioni generalmente condivise e orientate dal potere di
una data epoca storica. Il suo motto più efficace e persuasivo è “non c’è
via d’uscita dalla contingenza” (Greenblatt 1988) – e questa persuasione
costituisce il fondamento di tutta la sua pratica esegetica.
È a questo punto, però, che si rende sensibile l’ascendenza
ermeneutica della pratica critica neostoricista; un’ascendenza spesso,
ma a torto, contestata. Poiché tale pratica critica chiama in causa al
contempo, non diversamente da quanto aveva fatto Geertz con la sua
antropologia, l’oggetto testuale nelle sue concrete determinazioni
storiche e il soggetto interpretante – o lettore – che da quelle
determinazioni storiche è lontano. Ciò definisce un programma
propriamente ermeneutico le cui conseguenze sono evidenti. Intanto il
termine negoziazione viene qui a spiegare il rapporto di discontinuità che
sussiste tra il testo fatto oggetto di indagine e il suo fruitore, i quali
sono condizionati da rappresentazioni sociali diverse, comunicanti per
risonanza. Tale risonanza può trascendere un determinato luogo storico
o geografico e proseguire indefinitamente nel tempo, come avviene,
eminentemente, nel caso di opere dell’arte. In questo caso la
rappresentazione simbolica, modificata nel suo significato, ma non nel
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suo riferimento, dai successivi passaggi di stato, manifesta la sua energia
in un contesto potenzialmente illimitato che è l’ambito della sua
risonanza. Essa è però, a sua volta, la spia della rilevanza, per il lettore
moderno, dell’opera d’arte prodotta in remote circostanze storiche: le
tracce del passato presenti nell’opera d’arte scoprono il loro significato
per il presente dell’interprete. E la meraviglia che coglie lo spettatore di
un’opera d’arte al cospetto di tali tracce è l’effetto di cui il critico è
chiamato a rendere conto. In questo senso, Greenblatt descrive il fine
della pratica interpretativa neostoricista come il tentativo analizzare le
circostanze storiche della produzione e della consunzione originarie dei
testi letterari in relazione alle nostre (Greenblatt 1991). Ciò implica però
l’accettazione pacifica di una continua ridefinizione dell’ottica
interpretativa, la quale, ovviamente, stabilisce cosa sia rilevante per il
proprio presente in base alla posizione storica che di volta in volta
occupa e, dunque, scopre significati sempre diversi nell’opera d’arte a
seconda della contingenza che di volta in volta la determina. Lo
stupore/meraviglia suscitato dall’arte diventa quindi la categoria estetica
fondamentale della critica neostoricista il cui fine, secondo le parole di
Greenblatt, è quello di “ridestare sempre di nuovo il meraviglioso nel
cuore della risonanza”, vale a dire restituire alle rappresentazioni lontane
nel tempo e nello spazio la loro efficacia originaria.
Ciò spiega perché il neostoricismo concentri la sua attenzione,
assai più di altre pratiche critiche tradizionali, sui contesti storici posti a
confronto attraverso le opere d’arte e, anzi, tenda letteralmente a
scavalcare il valore autonomo dei testi letterari, nel tentativo di
pervenire a una loro considerazione antropologica, attraverso l’indagine
dei modi in cui le diverse società e epoche storiche costituiscono i loro
valori, simboli e significati. Ma ciò spiega anche in che modo e in che
misura il neostoricismo possa rivendicare legittimamente una funzione
trainante e, persino, un ruolo pionieristico nell’ambito più generale degli
studi culturali, senza perdere tuttavia il suo carattere originario di prassi
interpretativa rivolta essenzialmente all’indagine di testi artistici e
letterari.
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(Cfr. anche American
memory, Antropologia interpretativa ,
Decostruzionismo, Immaginazione materiale, Memoria culturale, Media
studies, Semiotica)
Circolazione, Containment, Culture in action, Cultural poetics, Dialogicità,
Energia sociale, Episteme, Epoche, Fault lines, Negoziazione/transazione,
Resonance, Thick description, Wonder.
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