Karl Jaspers. LA QUESTIONE DELLA COLPA. Sulla

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Karl Jaspers. LA QUESTIONE DELLA COLPA.
Sulla responsabilità politica della Germania.
Rafaello Cortina Editore, Milano 1996.
Titolo originale: "Die Schuldfrage".
Copyright 1965 R. Piper & Co., München.
Traduzione di Andrea Pinotti.
Karl Jaspers, nato a Oldenburg nel 1883, è stato uno dei grandi protagonisti della
filosofia moderna. Dopo aver concluso gli studi di legge e medicina, fu docente
di psicologia e poi di filosofia all'università di Heidelberg. Esonerato dall'ins
egnamento nel 1937 per il suo matrimonio con Gertrud Mayer, di origine ebraica,
l'anno successivo dovette sospendere ogni pubblicazione. Nel 1945 riebbe la catt
edra, ma nel 1948 si trasferì all'università di Basilea, città in cui morì nel 1969.
INDICE.
Prefazione (Umberto Galimberti).
Note.
Premessa.
Introduzione alla serie di lezioni sulla situazione spirituale della Germania.
La questione della colpa.
A. Schema delle distinzioni.
1.
2.
3.
4.
5.
Quattro concetti di colpa.
Le conseguenze della colpa.
La forza. Il diritto. La grazia.
Chi giudica, e chi o che cosa viene giudicato?
La difesa.
B. Le questioni tedesche.
Primo. La differenziazione della colpa tedesca.
1. I delitti.
2. La colpa politica.
3. La colpa morale.
4. La colpa metafisica.
5. Ricapitolazione.
- a) Le conseguenze della colpa.
- b) La colpa collettiva.
Secondo. Le possibilità della discolpa.
1. Il terrorismo.
2. La colpa e il contesto storico.
3. La colpa degli altri.
4. Colpa di tutti?
Terzo. La nostra purificazione.
1. I tentativi di evitare la purificazione.
2. La via della purificazione.
Postfazione del 1962 al mio scritto «La questione della colpa».
Note.
***
Prefazione.
LA COLPA METAFISICA
di Umberto Galimberti.
"Che noi siamo ancora vivi,
questa è la nostra colpa".
K. JASPERS.
Nel 1937, a seguito dell'ingiunzione del governo nazista che obbligava i profess
ori con moglie ebrea a divorziare o abbandonare l'università, Karl Jaspers, che ne
l 1910 aveva sposato Gertrud Mayer, a cui era legato da vivissimi sentimenti e a
cui aveva dedicato tutte le sue opere, abbandonò l'università e la Germania per rip
arare a Basilea, in Svizzera, dove gli era stato offerto un incarico di insegnam
ento. Tornò in Germania otto anni dopo e, all'università di Heidelberg, a cui il Com
ando americano aveva concesso nell'autunno del 1945 di riprendere l'attività, tenn
e nel semestre estivo del 1946 una serie di lezioni che avevano come oggetto «la q
uestione della colpa», e il loro centro in quella sentenza che non concede margini
di innocenza perché suona così: «che noi siamo ancora vivi, questa è la nostra colpa».
1. "Le figure della colpa". Ma di che colpa parla Jaspers? Quattro, a suo parere
, sono i modi di concepire la colpa. "Colpa giuridica" che si riferisce a quelle
azioni che trasgrediscono la legge e che possono essere provate oggettivamente.
La competenza è del tribunale e l'imputazione riguarda i singoli individui. "Colp
a politica" che si riferisce alle azioni degli uomini di Stato e coinvolge quant
i appartengono a quello Stato perché, scrive Jaspers, «ciascuno porta una parte di r
esponsabilità riguardo al modo come viene governato». La democrazia, infatti, ci ren
de responsabili e quindi negli errori, colpevoli.
"Colpa morale". E' questa una colpa individuale rilevabile al tribunale della pr
opria coscienza «a cui non si può chiedere un trattamento amichevole». Qui la giustifi
cazione, che può avere una sua plausibilità nel mondo giuridico dove può trovare accog
lienza il principio secondo cui: «gli ordini sono ordini», per Jaspers non ha valore
sul piano morale perché, di fronte alla propria coscienza, «i delitti rimangono del
itti anche se vengono ordinati».
"Colpa metafisica". Questa colpa investe qualsiasi uomo che tollera ingiustizie
e malvagità che possono essere inflitte a un proprio simile e non fa nulla per imp
edirlo. Questa colpa ha per oggetto l'infrazione del "principio della solidarietà"
tra gli uomini, offesa la quale viene messa a rischio quella base di appartenen
za al genere umano che poggia sul riconoscimento di se stessi nell'altro.
A questo livello, scrive Jaspers, il modo di sentirsi colpevole non può essere com
preso da un punto di vista giuridico, politico, morale, ma il fatto che uno sia
ancora in vita, dopo che sono accadute cose sul genere delle atrocità naziste, cos
tituisce per lui una colpa incancellabile, perché, pur di salvare la propria «vita», h
a rinunciato alla «vita degna» che, nel caso dell'uomo, vuole che si viva insieme o
non si viva affatto.
2. "La colpa metafisica come oggettivazione dell'uomo". Qui Jaspers fa riferimen
to a quella "matrice sentimentale" che unisce gli uomini prima dei loro accordi
razionali e delle loro intese politiche, giuridiche e persino morali. Occorre pe
rò assumere la parola «sentimento» in senso forte e cogliere in essa quella che Jasper
s definisce «solidarietà incondizionata che ciascuno conosce per averla almeno una v
olta vissuta nell'ambito di una particolare unione nella vita», per cui il dolore
dell'altro è il mio dolore, il suo patire la mia passione.
Questa matrice sentimentale che consente agli uomini di riconoscersi come appart
enenti allo stesso genere, è la medesima matrice pre-giuridica e pre-politica che
aveva fatto dire a Kant «l'uomo va trattato sempre come un fine e mai come un mezz
o» (1). Nessuna norma giuridica, infatti, così come nessun accordo politico, nessuna
legge morale sono in grado di trovare un minimo di fondazione e un residuo di p
lausibilità se l'uomo tratta il proprio simile non come "uomo", ma come "cosa", no
n in riferimento alla sua "soggettività", ma in modo "oggettivo" come si trattano
le cose. In questo caso, infatti, la natura umana viene negata nel suo tratto sp
ecifico e allora non c'è diritto, non c'è politica, non c'è moralità che possa costituir
si.
Ma il nazismo ha significato proprio questo: "la riduzione dell'uomo a cosa", pe
r cui è possibile dire che l'elemento «tragico» del nazismo non risiede tanto nella su
a ferocia e nella sua crudeltà, che la storia su scale diverse ha sempre registrat
o, ma nell'"oggettivazione dell'uomo", nella sua riduzione allo statuto della co
sa. Questa è la colpa metafisica. Una colpa da cui non è possibile riscattarsi, perc
hé ciò che il nazismo ha inaugurato, l'oggettivazione dell'uomo, è la forma che l'uman
ità ha via via assunto sotto il regime della tecnica che proprio nell'organizzazio
ne nazista ha trovato il suo primo abbozzo.
3. "Il nazismo come prova generale dell'apparato tecnico". In una delle settanta
interviste che Gitta Sereny fece a Franz Stangl, direttore generale del campo d
i sterminio di Treblinka, si legge:
"«Quanta gente arrivava con un convoglio?», chiesi a Stangl.
«Di solito circa cinquemila. Qualche volta di più».
«Ha mai parlato con qualcuna delle persone che arrivavano?».
«Parlato? No... generalmente lavoravo nel mio ufficio fino alle undici - c'era mol
to lavoro d'ufficio. Poi facevo un altro giro partendo dal Totenlager. A quell'o
ra, lì erano già un bel pezzo avanti con il lavoro (voleva dire che a quell'ora le c
inque o seimila persone arrivate quella mattina erano già morte: il «lavoro» era la si
stemazione dei corpi, che richiedeva quasi tutto il giorno e che spesso prosegui
va anche durante la notte). [...] Oh, la mattina a quell'ora tutto era per lo più
finito, nel campo inferiore. Normalmente un convoglio teneva impegnati per due o
tre ore. A mezzogiorno pranzavo... Poi un altro giro e altro lavoro in ufficio».
[...]
«Ma lei non poteva cambiare tutto questo?», chiesi io. «Nella sua posizione, non potev
a far cessare quella nudità, quelle frustate, quegli orrendi orrori dei recinti da
bestiame?».
«No, no, no... Il lavoro di uccidere con il gas e bruciare cinque e in alcuni camp
i fino a ventimila persone in ventiquattro ore esige il massimo di efficienza. N
essun gesto inutile, nessun attrito, niente complicazioni, niente accumulo. Arri
vavano e, tempo due ore, erano già morti. Questo era il sistema. L'aveva escogitat
o Wirth. Funzionava. E dal momento che funzionava era irreversibile»" (2).
E' questo un esempio di pensiero manageriale dove Treblinka non è dissimile da un
complesso industriale su vasta scala e dove il personaggio chiamato Stangl non è d
issimile da un qualsiasi direttore generale che opera in base a quel solo criter
io: l'"efficienza", che l'apparato tecnico assume come unico e assoluto valore,
mettendo in ombra lo scopo delle azioni, la loro direzione, il loro senso, per a
ttestarsi sul principio della pura funzionalità priva di riferimento.
Celandosi dietro la maschera dell'efficienza, il potere ottiene l'ubbidienza dei
subordinati inducendo in loro da un lato un "pensiero a breve scadenza", per cu
i non si guarda più intorno e in avanti e a lungo termine sui valori di fondo dell
a vita con conseguente atrofizzazione dei sentimenti, e dall'altra quella "diffu
sa insensatezza" per cui i «fini» raggiunti diventano «mezzi» per fini ulteriori, dove,
come dice Jaspers, il semplice «fare» trova la sua giustificazione indipendentemente
da ciò che si fa (3).
4. "Dal totalitarismo politico al totalitarismo tecnico". Focalizzando il proble
ma della colpa sulla sua valenza «metafisica», che si registra ogni volta che l'uomo
non è più trattato come un «fine», ma come un «mezzo» per il conseguimento di altri fini,
aspers lascia intendere che lo schema inaugurato dal nazismo può ripresentarsi, e
di fatto si ripresenta, ogni volta che la struttura di un apparato esige la ridu
zione dell'uomo allo statuto della «cosa». E' il caso, ad esempio, della sperimentaz
ione nucleare a cui Jaspers ha dedicato un libro importante: "La bomba atomica e
il destino dell'uomo", dove lo scenario del "totalitarismo tecnico" appare come
il succedaneo del "totalitarismo politico".
Che senso ha, infatti, parlare di «sperimentazione» là dove il laboratorio è diventato c
oestensivo al mondo, coinvolgendo nella «sperimentazione» aria, acqua, terra, flora,
fauna e l'intera umanità con conseguenze irreversibili sulla realtà geografica e qu
indi storica? E soprattutto che senso ha migliorare i dispositivi di distruzione
quando quelli attuali sono già sufficienti alla distruzione totale? L'imperativo
della tecnica che chiede la maggiorazione e il miglioramento di ogni prodotto ha
ancora senso a proposito della bomba atomica dove il minimo dei suoi effetti sa
rebbe più grande di qualsiasi scopo politico e militare? Quando l'effetto è la distr
uzione totale, esiste ancora la possibilità di un comparativo, di una maggioranza,
di un miglioramento? Si può esse «più morti» dei morti?
Con la sperimentazione atomica, l'apparato tecnico ripropone il problema della «co
lpa metafisica» perché anche le potenziali vittime, per quanto innocenti, diventano
colpevoli se non aprono gli occhi a coloro che non vedono ancora. La «colpa metafi
sica» infatti non sta nel passato, ma nel presente e nel futuro, e se nella sua ed
izione politica il totalitarismo, almeno in Europa, sembra abbia scarse possibil
ità di ripresentarsi, nella sua edizione tecnica si è già ripresentato in quella forma
che consente a Günther Anders di definire noi tutti, uomini d'oggi, «figli di Eichm
ann», non di Hitler, simbolo dell'espressione «politica» del totalitarismo, ma proprio
di Eichmann, il burocrate, che, come "funzionario di un apparato", più o meno com
e oggi noi tutti siamo nel regime della tecnica, compiva dal ridotto della sua s
crivania azioni dagli effetti che oltrepassano l'immaginazione di cui può essere c
apace un uomo.
In "Noi figli di Eichmann" (4), Günther Anders coglie l'essenza del «mostruoso» nella
"discrepanza" ("Gefälle") che, "allora" come "ora", esiste tra l'azione che uno co
mpie all'interno di un apparato e l'impossibilità per lui di percepire le consegue
nze ultime delle sue azioni. Allora furono sterminati in modo industriale sei mi
lioni di ebrei e zingari da parte di persone che accettarono questo lavoro come
qualsiasi altro lavoro adducendo a giustificazione la pura e semplice ubbidienza
agli ordini e la fedeltà all'organizzazione. Per questo nei processi contro «i crim
ini verso l'umanità» gli accusati si sentivano «offesi», «sgomenti» e qualche volta, come E
chmann, «sdegnati», non perché si trattava di esseri privi di coscienza morale, aberra
nti psicopatici, o persone ormai disumanizzate, come più volte si è sentito ripetere
, ma perché applicavano il principio da loro inaugurato e oggi diventato "mentalità
aziendale", secondo cui essi avevano "soltanto collaborato".
Se prima di indignarci di fronte a una simile difesa riflettessimo sul fatto che
gli autori di quei crimini, o per lo meno molti di loro senza i quali l'ente di
gestione criminale non avrebbe potuto funzionare, non si sono comportati nelle
situazioni in cui commisero i loro crimini molto diversamente da come erano abit
uati a comportarsi nell'esercizio del loro lavoro, e come ciascuno di noi è invita
to a comportarsi quando inizia il suo lavoro in un apparato, allora comprenderem
mo perché siamo tutti «figli di Eichmann».
5. "La colpa metafisica nell'età della tecnica". La divisione del lavoro che vigev
a nell'apparato di sterminio di Treblinka e che oggi vige in ogni struttura azie
ndale fa sì che all'interno di un apparato produttivo tecnicizzato, l'operatore, s
ia esso un lavoratore, un impiegato, un funzionario, un dirigente, non ha più nien
te a che fare con il prodotto finale, anzi gli è tecnicamente impedito, per la par
cellizzazione dei processi lavorativi, di intendere realmente l'esito ultimo a c
ui porterà la sua azione. In questo modo l'operatore non solo diventa irresponsabi
le, ma addirittura gli è precluso anche il diritto alla cattiva coscienza, perché la
sua competenza è limitata alla buona esecuzione di un compito circoscritto indipe
ndentemente dal fatto che, concatenandosi con gli altri compiti circoscritti pre
visti dall'apparato, la sua azione approdi a una produzione di armi o a una forn
itura alimentare.
Limitando l'"agire" a quello che nella cultura tecnologica si chiama "button pus
hing" (premere il bottone), la tecnica sottrae all'etica il principio della resp
onsabilità personale, che era poi il terreno su cui tutte le etiche tradizionali e
rano cresciute. E questo perché chi preme il bottone lo preme all'interno di un ap
parato dove le azioni sono a tal punto integrate e reciprocamente condizionate c
he è difficile stabilire se chi compie un gesto è "attivo" o viene a sua volta "azio
nato". In questo modo il singolo operatore è responsabile solo della "modalità" del
suo lavoro, non della sua "finalità", e con questa riduzione della sua competenza
etica si sopprimono in lui le condizioni dell'agire, per cui anche l'addetto al
campo di sterminio con difficoltà potrà dire di aver «agito», ma, per quanto orrendo ciò p
ossa sembrare, potrà dire di sé che ha soltanto «lavorato». E questo vale ancora oggi si
a per chi lavora nelle grandi fabbriche d'armi, sia nei centri studio per la spe
rimentazione delle armi nucleari, sia nelle modeste fabbriche di mine antiuomo c
he per anni e anni continueranno a esplodere.
La mostruosità che l'apparato nazista ha inaugurato, e che poi è diventato il paradi
gma di ogni produzione aziendale, è la "discrepanza" tra la nostra "capacità di prod
uzione" che è illimitata e la nostra "capacità di immaginazione" che è limitata per na
tura, e comunque tale da non consentirci più di comprendere e al limite di conside
rare «nostri» gli effetti che l'inarrestabile progresso tecnico è in grado di provocar
e.
Quel che si è detto per l'immaginazione vale anche per la "percezione". Quanto più s
i complica l'apparato in cui siamo incorporati, quanto più si ingigantiscono i suo
i effetti, tanto meno vediamo, e più ridotta si fa la nostra possibilità di comprend
ere i procedimenti di cui noi siamo parti e condizioni. Questo scarto tra produz
ione tecnica da un lato e immaginazione e percezione umana dall'altro rende il n
ostro "sentimento inadeguato rispetto alle nostre azioni" che, al servizio della
tecnica, producono qualcosa di così smisurato da rendere il nostro sentimento inc
apace di reagire. Il troppo grande ci lascia freddi perché il nostro meccanismo di
reazione si arresta appena supera una certa grandezza e allora, da analfabeti e
motivi, assistiamo oggi a milioni di trucidati nelle guerre locali sparse per il
mondo, a milioni di inermi che ogni anno muoiono di stenti e malattie, come un
giorno ai sei milioni di ebrei e zingari sterminati nei lager: «e poiché vige questa
legge infernale - scrive Günther Anders - ora il 'mostruoso' ha via libera» (5).
Il richiamo jaspersiano al tratto "metafisico" e non "storico" della colpa è essen
ziale per ricordare che se ci siamo liberati del nazismo come evento storico, an
cora non ci siamo liberati da ciò "che ha reso possibile" il nazismo, e precisamen
te quell'indifferenza di fronte al mostruoso che nasce dalla discrepanza tra ciò c
he possiamo produrre con la tecnica e ciò di cui possiamo sentirci responsabili og
ni volta che «irresponsabilmente» lavoriamo in un apparato che ci esonera dal farci
carico degli scopi finali per cui l'apparato è stato costruito.
6. "La colpa metafisica come nichilismo passivo". In un contesto come quello app
ena descritto può generarsi quel «nichilismo passivo» che Nietzsche descrive «come decli
no e regresso della potenza dello spirito, come segno di debolezza: l'energia de
llo spirito può essere stanca, "esaurita", in modo che i fini "sinora" perseguiti
non trovano più credito» (6). Tra il discredito dei fini e il potenziale distruttivo
della tecnica esiste quel nesso di reciproco sostegno che genera il nichilismo
passivo come rassegnazione. Se infatti l'uomo ha il sospetto di vivere senza sco
po, allora il potenziale nientificante della tecnica ne è una conferma. E se dal p
unto di vista di questo potenziale l'uomo non vale nulla, per chi non si acconte
nta della vita ma, come dice Jaspers in queste sue lezioni sulla colpa, ne prete
nde anche una «degna», il potenziale distruttivo della tecnica non può peggiorare la s
ituazione.
Questo ragionamento, che vive della reversibilità della causa e dell'effetto, dell
a premessa e della conseguenza, è il maggior responsabile di quel «nichilismo passiv
o» da cui la gran massa tende inutilmente a difendersi andando alla ricerca, come
scrive Nietzsche, di «tutto ciò che ristora, guarisce, tranquillizza, stordisce» (7).
Si conferma così che né la cultura né la gran massa sono all'altezza dell'evento tecni
co e, pur ruotando intorno all'asse del nulla, la loro percezione, la loro immag
inazione, la loro sensibilità sono, forse per la prima volta nella storia, inadegu
ate a quanto sta accadendo, perché la rapidità e la potenza dello sviluppo tecnico o
ttundono la possibilità previsionale.
Nata sotto il segno dell'anticipazione - di cui Prometeo: «colui che vede in antic
ipo ("pro-métis")» è il simbolo -, la tecnica ha finito con il sottrarre all'uomo ogni
possibilità anticipatrice e, privandolo della previsionalità, l'ha reso «cieco» e «distra
tto» nel mondo da essa generato.
7. "Non si è ancora fatto sera". La tecnica che il Terzo Reich ha avviato su vasta
scala non ha ancora raggiunto i confini del mondo, non è ancora "tecno-totalitari
a". Questo, naturalmente non ci deve consolare e soprattutto non ci deve far con
siderare il regno ("Reich") che ci sta dietro come qualcosa di unico e di errati
co, come qualcosa di atipico per la nostra epoca o per il nostro mondo occidenta
le, perché l'operare tecnico generalizzato a dimensione globale e senza lacuna, co
n conseguente irresponsabilità individuale, ha preso le mosse da lì. Non riconoscerl
o significa, come scrive Günther Anders, non rendersi conto che «l'orrore del regno
che viene supererà di gran lunga quello di ieri che, al confronto, apparirà soltanto
come un teatro sperimentale di provincia, una prova generale del totalitarismo
agghindato da stupida ideologia» (8).
Ma per questo è necessario portare il sentimento umano all'altezza dell'evento tec
nico, è necessario quello che lo psicopatologo Jaspers chiama «autoriflessione» come p
resa di coscienza del significato dell'accadere (9), che, ben lungi dall'essere
sufficiente, evita almeno all'uomo che la tecnica, come a suo tempo il nazismo,
accada a sua insaputa e, da condizione dell'esistenza umana, si traduca in causa
della sua estinzione. Con ciò non pensiamo ancora alla soppressione «fisica» dell'uom
o, ma con Jaspers, alla soppressione della sua cultura, della sua morale, della
sua storia.
Occorre infatti evitare che l'età della tecnica segni quel punto assolutamente nuo
vo nella storia, e forse irreversibile, dove la domanda non è più «che cosa facciamo n
oi della tecnica», ma «che cosa la tecnica può fare di noi». Rispetto a questa eventuali
tà, non rimuovere il tratto «metafisico» della colpa significa mantenere qualche chanc
e per il proseguimento della storia, dove l'uomo sia ancora riconoscibile nei tr
atti in cui finora l'abbiamo conosciuto.
NOTE ALLA PREFAZIONE.
(1). I. KANT, "Grundlegung zur Metaphysik der Sitten" (1785), trad. it. "Fondazi
one della metafisica dei costumi", Rusconi, Milano 1994, p. 155.
(2). G. SERENY, "Into that Darkness" (1983), trad. it. "In quelle tenebre", Adel
phi, Milano 1975, p.p. 169-170, 198-199.
(3). Sul senso del «fare» si veda K. JASPERS, "Die Atombombe und die Zukunft des Men
schen" (1958), trad. it. "La bomba atomica e il destino dell'uomo", Il Saggiator
e, Milano 1960, p.p. 541-560.
(4). G. ANDERS, "Wir Eichmannsöhne" (1964), trad. it. "Noi figli di Eichmann", La
Giuntina, Firenze 1995.
(5). Ibid., p. 34.
(6). F. NIETZSCHE, "Nachgelassene Fragmente 1887-1888", trad. it. "Frammenti pos
tumi 1887-1888", Adelphi, Milano 1971, parag. 9 (35), p. 13.
(7). Ibid.
(8). G. ANDERS, "Noi figli di Eichmann", cit., p. 66.
(9). «Chiamiamo semplice "accadere" ciò che avviene senza coscienza del significato
e "autoriflessione" l'esperienza dell'accadere in cui se ne sperimenta il signif
icato», K. JASPERS, "Allgemeine Psychopathologie" (1913-1959), trad. it. "Psicopat
ologia generale", Il Pensiero Scientifico, Roma 1964.
***
PREMESSA.
Di una serie di lezioni sulla situazione spirituale della Germania, che ebbe luo
go nel semestre invernale 1945-1946, viene qui pubblicato il contenuto di quelle
che trattavano la questione della colpa.
Con queste discussioni vorrei, come tedesco fra tedeschi, promuovere chiarezza e
unanimità; e, come uomo fra uomini, prender parte al nostro sforzo per raggiunger
e la verità.
Heidelberg, aprile 1946
INTRODUZIONE ALLA SERIE DI LEZIONI
SULLA SITUAZIONE SPIRITUALE DELLA GERMANIA.
Noi in Germania dobbiamo orientarci spiritualmente gli uni con gli altri. Noi no
n abbiamo ancora un terreno comune d'intesa. Noi cerchiamo di incontrarci.
Quello che in questa conferenza io vi dico si è venuto maturando attraverso le con
versazioni che noi tutti abbiamo occasione di tenere con gli altri, ciascuno nel
la sua propria cerchia.
Ciascuno deve assimilare a suo modo i pensieri che io gli espongo qui. Non bisog
na accettarli senz'altro come validi, ma bisogna ben ponderarli. D'altra parte,
non ci si deve neppure limitare a contraddirli, ma si deve cercare di tenerli pr
esenti nella propria mente e di verificarli.
Noi vogliamo imparare a discutere gli uni con gli altri. Questo vuol dire che no
n vogliamo soltanto ripetere le nostre opinioni, ma stare a sentire che cosa ne
possa pensare un altro. Non vogliamo soltanto difendere delle posizioni, ma vogl
iamo rifletterci su nel loro contesto generale, tenerci pronti ad accogliere nuo
ve convinzioni. Noi desideriamo porci, come per prova, anche dal punto di vista
degli altri. Anzi noi vogliamo addirittura cercare chi ci contraddice. Cogliere
quanto c'è di comune tra la nostra tesi e quella di chi ci contraddice, importa più
che fissare affrettatamente punti di vista esclusivi con i quali si conclude com
e inutile la conversazione.
E' così facile difendere appassionatamente dei giudizi decisi; difficile è invece ri
flettere serenamente. E' facile interrompere la comunicazione con asserzioni arr
oganti; difficile è invece penetrare al fondo della verità instancabilmente, al di là
di ogni asserzione. E' facile farsi un'opinione qualsiasi e irrigidirsi in essa,
per risparmiarsi la fatica di rifletterci ancora; difficile è invece avanzare pas
so passo, e non rifiutarsi mai di investigare ancora.
Dobbiamo ristabilire la disponibilità alla riflessione. A questo scopo non dobbiam
o inebriarci con sentimenti di superbia, di disperazione, di ribellione, di osti
nazione, di vendetta o di disprezzo. E' invece necessario che questi sentimenti
vengano accantonati, perché si possa guardare alla realtà.
Ma, a proposito di questo discutere insieme, vale anche il contrario: è facile pen
sare senza mai compromettersi e impegnarsi; ma è difficile prendere la decisione v
era, quando il nostro pensiero è aperto a tutte le possibilità e se ne rende conto c
hiaramente. E' facile evitare ogni responsabilità a furia di bei discorsi; è diffici
le mantenere la propria decisione ma senza testardaggine. E' facile arrendersi a
lla minima resistenza, secondo la situazione; è difficile, una volta presa una dec
isione incondizionata, tenere il cammino prescelto nonostante la volubilità e l'el
asticità del pensiero.
Quando noi riusciamo veramente a parlarci l'uno con l'altro ci muoviamo appunto
nel dominio delle origini. A tal fine deve rimanere in noi sempre qualche cosa c
he ci faccia avere fiducia negli altri e ci faccia meritare la fiducia degli alt
ri. Allora soltanto si rende possibile, nel dialogo, quella quiete nella quale s
i ascolta e si sente in comune quello che è vero.
Per tutto questo vogliamo evitare di irritarci gli uni contro gli altri. Cerchia
mo invece di trovare insieme la via. La passione testimonia a sfavore della veri
tà di chi parla. Non vogliamo percuoterci pateticamente il petto in segno di innoc
enza, per poter offendere gli altri. Né vogliamo, tutti soddisfatti di noi, metter
e in risalto ciò che non ha altro scopo che di ferire gli altri. Ma non debbono su
ssistere limitazioni, che derivino da una riguardosa riservatezza. Né bisogna tace
re per mitezza d'animo o illudere per consolare. Non c'è alcuna domanda che non de
bba esser posta, alcuna cara vecchia ovvietà, alcun sentimento, alcuna menzogna vi
tale che dobbiamo salvaguardare. Ma a maggior ragione poi non ci si deve permett
ere di colpirci sfrontatamente sul viso con giudizi provocatori, privi di fondam
ento e formulati alla leggera. Noi apparteniamo gli uni agli altri; dobbiamo sen
tire la nostra situazione comune, quando discutiamo insieme.
In un parlare di tal genere nessuno è giudice dell'altro. Ciascuno di noi è nello st
esso tempo accusato e giudice. Per tutti questi anni non abbiamo sentito altro c
he diffamare altri uomini. Ma noi non vogliamo continuare a fare lo stesso.
Ma ciò riesce sempre solo in parte. Tutti siamo portati a giustificarci e ad attac
care con accuse le forze che sentiamo come nemiche. Per questo oggi dobbiamo Met
terci alla prova come non mai. Bisogna considerare che, nel corso degli eventi,
chi sopravvive sembra aver sempre ragione. Il successo sembra dare ragione. Chi è
in auge crede di essere dalla parte della verità e della causa giusta. Da ciò deriva
la profonda ingiustizia di non avere occhi per i deboli, per coloro che fallisc
ono, e che vengono calpestati dal destino.
Avviene così in ogni tempo. Basta ricordare lo schiamazzo prussiano-tedesco dopo i
l 1866 e il 1870, che suscitò l'orrore di Nietzsche. Ancora più sfrenato fu lo schia
mazzo dei nazionalsocialisti dal 1933 in poi.
Perciò dobbiamo domandarci se anche noi stessi non degeneriamo di nuovo in un altr
o schiamazzo, diventiamo presuntuosi, e deduciamo una nostra legittimità per il se
mplice fatto che abbiamo sofferto e siamo sopravvissuti.
Parliamoci chiaro. Il fatto che noi siamo sopravvissuti e viviamo, non lo dobbia
mo a noi stessi; se oggi, con tutta la terribile distruzione in cui ci troviamo,
possiamo godere di condizioni diverse, con tutt'altre prospettive, è qualcosa che
non abbiamo raggiunto da soli e con le nostre forze. Non attribuiamoci una legi
ttimità che non ci spetta.
Così come ogni governo tedesco oggi è governo autoritario insediato dagli alleati, a
nche ogni singolo tedesco, ognuno di noi, deve la libertà che ha di agire nella su
a sfera, alla volontà o al permesso degli alleati. Questa è una situazione crudele.
La nostra sincerità ci costringe a non dimenticarla mai. Essa ci salva dalla super
bia e ci insegna la modestia.
Anche oggi, come in ogni tempo, ci sono degli uomini accesi e indignati, i quali
credono di aver tutti i diritti e si arrogano il merito di ciò che è avvenuto per o
pera di altri.
Nessuno si può sottrarre del tutto a questa situazione. Noi stessi siamo indignati
. Possa la nostra indignazione purificarci. Noi combattiamo per la purezza dell'
anima.
Per questo non ci vuole solo il lavoro dell'intelletto, ma un lavoro che, pur su
scitato dall'intelletto, provenga dal cuore. Voi, che ascoltate queste lezioni,
proverete dei sentimenti all'unisono con me o in contrasto con me. Io stesso, in
fondo al mio pensiero, non sarò privo di una certa emozione. Anche se, data la fo
rma unilaterale della conferenza, non possiamo di fatto parlare tra di noi, non
posso evitare che qualcuno tra voi possa sentirsi colpito quasi personalmente. E
cco perché vi prego fin d'ora di volermi perdonare se offendo. Non è nelle mie inten
zioni. Però sono deciso a ponderare i pensieri più radicali con la massima accortezz
a possibile.
Se noi apprendiamo a discutere, non promuoveremo soltanto un legame tra noi. Cre
eremo la condizione essenziale per poter discutere con gli altri popoli.
Nella piena lealtà e franchezza consiste non solo la nostra dignità - che è possibile
anche nell'impotenza -, ma anche la nostra unica chance. Ora per ciascun tedesco
si tratta di decidere se egli intenda andare per questa via, anche a rischio di
provare delusioni, a rischio di subire ulteriori perdite e facili maltrattament
i da parte dei potenti. La risposta è la seguente: questa è l'unica via che può salvag
uardare la nostra anima da un'esistenza come quella dei paria. Ciò che può risultare
da essa dobbiamo ancora vederlo. Si tratta di un rischio politico-spirituale su
ll'orlo dell'abisso. Anche se è possibile un successo, sarà solo a lunga scadenza. A
ncora per lungo tempo non si avrà fiducia in noi.
Un atteggiamento che tace orgogliosamente è, per breve tempo, una maschera che può e
ssere giustificata, dietro la quale si ha modo di prender fiato e di riflettere.
Però questo atteggiamento si trasforma in un'illusione nei riguardi di noi stessi
e in una furbizia nei riguardi degli altri, appena esso permette di chiuderci s
degnosamente in noi stessi, di impedire che ci rendiamo conto dei fatti, e di so
ttrarci alla commozione provocata dalla realtà. Qui l'orgoglio, che crede falsamen
te di essere virile, mentre in realtà non fa che eludere le difficoltà, prende il si
lenzio come ultima azione militare che rimanga nell'impotenza.
Il discutere insieme oggi è cosa difficile in Germania, ma è il compito più grande, da
to che noi, per quello che abbiamo vissuto, sentito, desiderato, fatto, siamo st
raordinariamente differenti gli uni dagli altri. Sotto l'apparenza di una comuni
tà tutta esteriore e imposta con la forza, si nascondeva qualche cosa che è ricca di
possibilità e che adesso si può sviluppare.
Dobbiamo imparare a vedere e condividere le difficoltà proprie di situazioni e att
eggiamenti che si differenziano del tutto dai nostri.
Nei tratti fondamentali, quel che c'è oggi di comune a tutti noi tedeschi è forse pi
uttosto qualche cosa di negativo: il fatto cioè che apparteniamo a una maggioranza
etnica totalmente sconfitta, abbandonata al favore o allo sfavore dei vincitori
; la mancanza di un terreno comune che ci unisca tutti; la nostra dispersione: c
iascuno è in sostanza abbandonato a se stesso, mentre nello stesso tempo ciascuno
come individuo si trova privo di ogni aiuto. Quel che abbiamo in comune è appunto
questa mancanza di comunità.
Durante il silenzio impostoci dall'azione livellatrice della propaganda ufficial
e negli ultimi dodici anni, tutti noi abbiamo assunto degli atteggiamenti interi
ori molto differenti. Non abbiamo in Germania una disposizione comune delle nost
re anime, delle nostre maniere di valutare le cose e dei nostri desideri. Tutto
quello che negli anni passati abbiamo creduto e ritenuto vero e accolto come il
senso della nostra vita, si differenziava così tanto da una persona all'altra che,
anche ora, le modalità di trasformazione devono essere necessariamente diverse a
seconda degli individui. Tutti ci trasformiamo. Ma non tutti percorriamo la stes
sa strada per arrivare a quel nuovo terreno della verità comune che noi tutti cerc
hiamo affinché ci possa riunire di nuovo. In una catastrofe come la nostra ognuno
può lasciarsi rifondere in vista della rinascita, senza temere di perderci in dign
ità.
Se oggi vengono a galla queste differenze si deve al fatto che per dodici anni n
on è stata possibile alcuna discussione pubblica, e che, anche nella vita privata,
tutto ciò che sapeva di opposizione si limitava alle conversazioni più intime e, pe
r certi rispetti, bisognava essere riservati persino di fronte agli amici. Solam
ente il modo di pensare e di parlare nazionalsocialista poteva essere pubblico e
generale, e quindi anche suggestivo. Per la gioventù che cresceva in quell'ambien
te, era cosa quasi ovvia.
Noi oggi possiamo parlare di nuovo liberamente; ma ci ritroviamo come se venissi
mo da mondi diversi. Eppure parliamo tutti la lingua tedesca, e siamo tutti nati
in questa terra e abbiamo qui la nostra patria.
Noi vogliamo trovare la via che ci ricongiunga gli uni agli altri. Vogliamo disc
utere e persuaderci gli uni con gli altri.
Le nostre maniere di intendere gli avvenimenti erano così differenti da non poters
i conciliare fra di loro: alcuni vissero la totale rovina già nel 1933, quando la
nazione perdette la sua dignità; altri dopo il giugno 1934; altri ancora nel 1938,
con i pogrom antisemiti; molti dopo il 1942, quando la disfatta apparve probabi
le; oppure dopo il 1943, quando era ormai certa; alcuni solo nel 1945, allorché es
sa avvenne effettivamente. Per i primi l'anno 1945 significò liberazione, apertura
di nuove possibilità. Per gli altri furono i giorni più duri, perché significarono la
fine del presunto "Reich" nazionale. Alcuni hanno visto in maniera radicale l'o
rigine del male, e ne hanno tratto le conseguenze. Già dal 1933 essi aspettarono c
on ansia l'attacco e l'avanzata delle potenze occidentali. Dal momento che le po
rte del penitenziario tedesco erano state sprangate, la liberazione non poteva a
vvenire che dal di fuori. Il futuro dell'anima tedesca era connesso a questa lib
erazione. Se si voleva che l'annientamento dell'essenza tedesca non avesse modo
di compiersi sino alla fine, bisognava che questa liberazione avesse luogo al più
presto per iniziativa di stati fratelli, animati dallo spirito della cultura occ
identale, nell'interesse comune dell'Europa. Ma questa liberazione non ebbe luog
o. Si giunse per questa via fino al 1945, fino alla più orrenda distruzione di tut
te le nostre realtà fisiche e morali.
Ma questa maniera di intendere le cose non è affatto comune a tutti noi. Senza ten
er conto di quelli che hanno visto o ancora vedono nel nazionalsocialismo l'età de
ll'oro, ci sono stati dei nemici del nazionalsocialismo, i quali erano però convin
ti che una Germania di Hitler vittoriosa non avrebbe avuto come conseguenza la d
istruzione dell'essenza tedesca. Anzi, essi credevano che a una tale vittoria fo
sse legato un grande avvenire per la Germania. Essi infatti immaginavano che una
Germania vittoriosa avrebbe finito col liberarsi dal partito o subito o dopo la
morte di Hitler. Essi non credevano a quell'antico detto, secondo il quale uno
stato non può reggersi se non con le stesse forze con cui è stato fondato. Essi non
pensavano che il terrore, per sua stessa natura, sarebbe diventato infrangibile
proprio dopo la vittoria, né che la Germania, dopo aver vinto e dopo la smobilitaz
ione dell'esercito, sarebbe stata trasformata dalle S.S. in un popolo di schiavi
e tenuta in scacco, perché esercitasse un dominio universale, fatto di desolazion
e, di distruzione e coercizione, dominio nel quale sarebbe stato soffocato tutto
ciò che era tedesco.
Oggi le modalità particolari della sofferenza appaiono straordinariamente differen
ti. Ciascuno ha le proprie preoccupazioni, vive in grandi ristrettezze e soffre
fisicamente. Ma c'è una grande differenza se uno possiede ancora la casa e le supp
ellettili o se vive dopo aver tutto perduto in seguito a bombardamenti; se uno h
a sofferto e subìto le sue perdite nel combattimento al fronte o invece a casa o n
el campo di concentramento; se uno è stato perseguitato dalla Gestapo, o ha potuto
, anche se angosciato, trarre profitto dal regime. Quasi tutti abbiamo perduto i
ntimi amici e parenti. Ma il modo in cui li abbiamo perduti, col combattimento a
l fronte, con le bombe, col campo di concentramento o con gli eccidi in massa da
parte del regime, ha come conseguenza degli stati d'animo assai divergenti tra
loro. Le sofferenze sono differenti nella loro natura. La maggior parte ha vera
comprensione solo per le proprie. Ciascuno tende a considerare come sacrifici gr
andi perdite e sofferenze, ma, se si domanda per che cosa sono stati fatti quest
i sacrifici, le interpretazioni sono così abissalmente divergenti da separare inna
nzitutto gli uomini gli uni dagli altri.
Enormi sono le differenze derivanti dalla perdita di una fede. Solo una fede rel
igiosa o filosofica, fondata sulla trascendenza, può restar ferma attraverso tante
catastrofi. Ciò che aveva un valore nel mondo è andato in sfacelo. Il nazionalsocia
lista fervente può cercare di aggrapparsi a fragili sogni soltanto in forza di pen
sieri che sono ancora più assurdi di quelli che prevalevano all'epoca del suo pred
ominio. Il nazionalista oscilla perplesso tra l'infamia del nazionalsocialismo,
a lui ormai palese, e la realtà della Germania di oggi.
Tutte queste differenze portano continuamente alla rottura tra noi tedeschi, tan
to più in quanto manca alla nostra esistenza il comune fondamento etico-politico.
Noi abbiamo soltanto l'ombra di quel terreno politico realmente comune, poggiand
o sul quale potremmo restare solidali anche nei contrasti più accesi. A noi mancan
o in misura rilevante il discutere gli uni con gli altri e il dare ascolto gli u
ni agli altri.
Tutto ciò viene aggravato dal fatto che tanta gente si rifiuta di riflettere veram
ente. Vuole soltanto slogan e ubbidienza. Non domanda né risponde, ma si limita a
ripetere dei modi di dire imparati a memoria. E' in grado solamente di asserire
e ubbidire, ma non di verificare ed esaminare a fondo le cose, e quindi neanche
di essere persuasa. Come è possibile parlare con gente che non ha alcuna voglia di
accompagnarci dove le cose vengano criticate e ben ponderate, e dove gli uomini
ricercano la propria autonomia con l'indagine approfondita e la persuasione!
La Germania può ritrovare se stessa soltanto se noi tedeschi riusciamo a trovare i
l modo di rimetterci veramente in comunicazione gli uni con gli altri. Se impare
remo veramente a discutere gli uni con gli altri, questo potrà verificarsi solamen
te se saremo consapevoli delle nostre grandi differenze.
Un'unità imposta non può approdare a nulla; essa si dilegua come una parvenza alla p
rima catastrofe. La concordia raggiunta discutendo insieme e comprendendoci gli
uni con gli altri, porta a quella comunità che resiste.
Se noi veniamo presentando delle caratteristiche tipiche, ciò non significa che vo
i dobbiate sentirvi classificati. Chi applica a se stesso le mie parole, lo fa s
econdo la propria responsabilità.
LA QUESTIONE DELLA COLPA.
Quasi il mondo intero eleva la sua accusa contro la Germania e contro i tedeschi
. Della nostra colpa si parla con indignazione, con orrore, con odio, con dispre
zzo. Si vuole la punizione e la vendetta. E non sono soltanto i vincitori, ma an
che alcuni degli stessi fuoriusciti tedeschi e persino cittadini di stati neutra
li che partecipano a tutto questo. In Germania ci sono persone che riconoscono l
a colpa e vi includono se stessi; molti poi che si ritengono senza colpa, ma inc
olpano gli altri.
E' naturale che si tenda a scansare la questione. Noi viviamo nella miseria. Una
gran parte della nostra popolazione deve sopportare delle privazioni così gravi e
assillanti che sembra essere diventata insensibile per discussioni di tal gener
e. Essa si interessa solo di quanto può lenire le sofferenze, portando lavoro, pan
e, asilo e calore. L'orizzonte è divenuto angusto. La gente non vuol saperne di co
lpe, del passato. Non si interessa della storia mondiale. Tutti hanno un solo de
siderio: di finirla con le sofferenze, di uscire finalmente dall'estrema miseria
, di vivere e di non riflettere. C'è come una disposizione degli animi, per cui la
gente, dopo sofferenze così terribili, vorrebbe quasi essere ricompensata o in og
ni caso confortata, e non ancora afflitta con colpe.
Ma ciò nonostante anche chi si vede ridotto agli estremi sente in alcuni momenti l
o stimolo a raggiungere una pacata verità. Il fatto che a tutte le nostre sofferen
ze si venga ad aggiungere oggi anche l'accusa, non è cosa che ci possa lasciare in
differenti e possa essere spiegata solamente con lo sdegno degli altri. Noi vogl
iamo capire se quest'accusa sia giusta o ingiusta e in che senso. Infatti, appun
to nella disgrazia ciò che è indispensabile diventa tanto più sensibile; e cioè purifica
rci nell'anima e pensare e operare il giusto, per poter afferrare la vita dall'o
rigine davanti al Nulla.
Sta di fatto che noi tedeschi siamo obbligati, senza alcuna eccezione, a veder c
hiaro sulla questione della nostra colpa e a trarne le conseguenze. Ci obbliga a
ciò la nostra dignità di uomini. Già quello che il mondo pensa di noi non può esserci i
ndifferente; sappiamo infatti di appartenere all'umanità; siamo in primo luogo uom
ini, e poi tedeschi. Ma ancora più importante per noi è che la nostra vita, pur nell
a miseria e nella sottomissione, può avere la sua dignità soltanto se noi saremo pie
namente sinceri di fronte a noi stessi. La questione della colpa, più che essere u
na questione posta dagli altri a noi, è una questione che noi poniamo a noi stessi
. Il modo in cui rispondiamo a essa nella nostra più intima interiorità fonda la nos
tra coscienza presente dell'essere e di noi stessi. Essa è una questione vitale pe
r l'anima tedesca. Soltanto passando per essa può aver luogo quella conversione ch
e ci porterà a un rinnovamento di noi derivante dall'origine della nostra essenza.
Le imputazioni da parte dei vincitori possono avere sì le più grandi conseguenze pe
r la nostra esistenza. Hanno infatti un carattere politico. Ma non possono aiuta
rci in ciò che è decisivo: la conversione interiore. Qui abbiamo a che fare soltanto
con noi stessi. La filosofia e la teologia sono chiamate a rischiarare la profo
ndità della questione della colpa.
I ragionamenti sulla questione della colpa soffrono spesso per la confusione dei
concetti e dei punti di vista. Per cogliere il vero sono necessarie alcune dist
inzioni. Io mi propongo di delineare queste distinzioni in un primo tempo in man
iera schematica, per poi chiarire, con il loro aiuto, la nostra attuale situazio
ne tedesca. Naturalmente queste distinzioni non valgono in senso assoluto. Alla
fine, l'origine di quello che noi chiamiamo colpa apparirà in un unico concetto ri
assuntivo. Ma ciò può risultare chiaro soltanto mediante ciò che riusciremo a mettere
in evidenza volta per volta in base appunto alle distinzioni.
I nostri sentimenti oscuri non meritano senz'altro fiducia. L'immediatezza è in fo
ndo l'unica realtà di fatto; essa è come la presenza della nostra anima. Ma i sentim
enti non si presentano senz'altro come semplici dati di fatto vitali. Essi sono
piuttosto dovuti alla mediazione del nostro agire interiore, del nostro pensiero
, del nostro sapere. Vengono approfonditi e chiariti nella misura in cui noi pen
siamo. Del sentimento puro e semplice non c'è dunque da fidarsi. Appellarsi ai sen
timenti è cosa ingenua, tipica di chi vuole sfuggire all'oggettività di quello che p
uò essere appreso e pensato. Solo dopo aver pensato e riflettuto da tutti i lati s
u una cosa, sempre accompagnati, guidati, disturbati dai sentimenti, approdiamo
a quel sentimento vero grazie al quale possiamo volta per volta vivere con tranq
uilla sicurezza.
A. SCHEMA DELLE DISTINZIONI.
1. QUATTRO CONCETTI DI COLPA.
Bisogna distinguere:
1) "Colpa criminale": i delitti consistono in azioni, che si possono provare ogg
ettivamente e che trasgrediscono leggi inequivocabili. L'"istanza è il tribunale",
il quale stabilisce precisamente, con una procedura formale, gli stati di fatto
, e vi applica le leggi.
2) "Colpa politica": essa consiste nelle azioni degli uomini di stato e nell'ess
ere cittadini di uno stato, per cui si è costretti a subire le conseguenze delle a
zioni di questo stato, alla cui autorità si è sottoposti e al cui ordinamento si dev
e la propria esistenza (responsabilità politica). Ciascuno porta una parte di resp
onsabilità riguardo al modo come viene governato. L'"istanza" è la forza e la "volon
tà del vincitore" nella politica interna come nella politica estera. Quel che deci
de è il successo. L'abilità politica del vincitore, che si rende conto anche delle c
onseguenze più remote, può poi indurlo a moderare l'uso dell'arbitrio e della forza
e a fargli riconoscere e adottare delle norme speciali, che vanno sotto il nome
di diritto naturale o di diritto dei popoli.
3) "Colpa morale": uno ha la responsabilità morale per quelle azioni che compie co
me individuo. E questo vale per tutte le sue azioni, anche per le azioni di ordi
ne politico e militare che egli compie. In nessun caso vale la scusa che «gli ordi
ni sono ordini». Piuttosto è da ritenere che, come i delitti rimangono sempre delitt
i, anche quando vengono ordinati (sebbene possano valere circostanze attenuanti
secondo la misura del pericolo, della coercizione e del terrore), così ogni azione
resta sottoposta anche al giudizio morale. L'"istanza" è qui la "propria coscienz
a" e la comunicazione con gli amici e le persone più care, con coloro che ci amano
e si interessano della nostra anima.
4) "Colpa metafisica": c'è tra gli uomini come tali una "solidarietà" la quale fa sì c
he ciascuno sia in un certo senso corresponsabile per tutte le ingiustizie e i t
orti che si verificano nel mondo, specialmente per quei delitti che hanno luogo
in sua presenza o con la sua consapevolezza. Quando uno non fa tutto il possibil
e per impedirli, diventa anche lui colpevole. Chi non ha messo a repentaglio la
propria vita per impedire il massacro degli altri, ma è rimasto lì senza fare nulla,
si sente anche lui colpevole, in un senso che non può essere adeguatamente compre
so da un punto di vista giuridico, politico o morale. Il fatto che uno è ancora in
vita, quando sono accadute delle cose di tal genere, costituisce per lui una co
lpa incancellabile. Nella nostra qualità di uomini, a meno che la fortuna non ci r
isparmi situazioni di tal genere, giungiamo a un limite estremo, in cui siamo co
stretti a scegliere: o rischiare la nostra vita incondizionatamente e senza alcu
no scopo, perché senza alcuna prospettiva di successo, o preferire di rimanere in
vita solo perché è impossibile riuscire. Ciò che costituisce l'essenza della nostra na
tura è quell'impulso incondizionato esistente tra uomini, per cui, dove vengono in
flitte delle atrocità a uno o a un altro, o dove si tratta di dividere delle condi
zioni materiali di vita, si vuole o che si viva insieme o che non si viva affatt
o. Ma il fatto che questo impulso non agisca nella solidarietà di tutti gli uomini
, e neppure in quella dei cittadini, e nemmeno in quella di piccoli gruppi di uo
mini, il fatto che esso rimanga circoscritto solo a quei legami umani più intimi c
ostituisce la colpa di tutti noi. L'"istanza" è solamente Dio.
Questa distinzione in quattro concetti di colpa serve anche a chiarire il senso
delle accuse. Così, per esempio, colpa politica significa, sì, che tutti i cittadini
di uno stato sono responsabili per le conseguenze derivanti dalle azioni di que
sto stato, ma non significa affatto che ogni singolo cittadino debba ritenersi c
riminalmente o moralmente colpevole per tutti i delitti commessi in nome del suo
stato. Per quanto riguarda i delitti può decidere il giudice, per quanto riguarda
la responsabilità politica il vincitore; della colpa morale invece si può parlare i
n maniera sincera solo nella forma di un dibattimento, fondato sull'amore e sost
enuto da uomini che siano solidali tra di loro. Nei riguardi della colpa metafis
ica poi non è possibile discutere tra persone. La verità qui può infatti solo rivelars
i tutto a un tratto in una situazione concreta o dalle opere della poesia e dell
a filosofia. Di essa sono più profondamente coscienti quegli uomini che giunsero u
na volta all'incondizionatezza, ma che proprio per questo sperimentarono il fall
imento del progetto di estenderla a tutti gli uomini. Non resta che la vergogna
di qualche cosa che è sempre lì presente e non può essere messa a nudo in maniera conc
reta, e di cui si può, in ogni caso, discutere soltanto in termini generici.
Le distinzioni tra i vari concetti di colpa debbono metterci in guardia contro l
a superficialità con cui si discute della colpa, mettendo tutto sul medesimo piano
per poi giudicarne all'ingrosso, alla maniera di un cattivo giudice. Tutte le d
istinzioni in ultima analisi ci debbono ricondurre a quell'unica origine, della
quale è impossibile parlare semplicemente come della nostra colpa.
Tutte queste distinzioni non fanno che indurre in errore, se si dimentica quanto
grande è l'interdipendenza anche in quello che viene distinto. Ogni concetto di c
olpa implica delle realtà che hanno le loro conseguenze anche nell'ambito degli al
tri concetti di colpa.
Se noi uomini potessimo liberarci da quella colpa metafisica, di cui abbiamo par
lato, saremmo angeli, e tutti e tre gli altri concetti di colpa finirebbero col
non avere più un oggetto a cui riferirsi.
Le mancanze di ordine morale sono le cause di quelle determinate condizioni entr
o le quali poi si sviluppano la colpa politica e il delitto. Fare con negligenza
tante piccole azioni, adattarsi comodamente alle circostanze, giustificare grat
uitamente i torti, favorire senza rendersene conto ciò che è ingiusto, prendere part
e a costituire quell'ambiente pubblico che fa nascere confusione e quindi rende
possibile il male: tutto ciò ha delle conseguenze, che concorrono a rendere possib
ile la colpa politica e a determinare circostanze e avvenimenti.
Nell'ambito della responsabilità morale rientra anche il fatto che non si tiene su
fficientemente conto del significato della forza nella vita della società umana. L
a dissimulazione di questo fondamentale dato di fatto rappresenta altrettanto un
a colpa quanto la falsa assolutizzazione della forza, come se fosse essa sola il
fattore determinante degli avvenimenti. E' fatale per ogni uomo trovarsi impigl
iato in mezzo a rapporti di forza per i quali egli vive. Questa è l'inevitabile co
lpa di tutti, la colpa del genere umano. L'unica maniera di porvi rimedio è quella
di parteggiare per quella forza che realizza il diritto, i diritti dell'uomo. T
ralasciare di cooperare alla strutturazione dei rapporti di forza, alla lotta pe
r il potere nel senso di mettersi al servizio del diritto, è una colpa politica fo
ndamentale, che rappresenta nello stesso tempo una colpa morale. La colpa politi
ca diventa colpa morale, appena il senso della forza - la realizzazione del diri
tto, l'etica e la purezza del proprio popolo - viene distrutto dalla forza. Infa
tti, là dove la forza non limita se stessa, nasce la violenza e il terrore, e sopr
aggiunge in ultimo la fine, l'annientamento dell'esistenza e dell'anima.
Dalla condotta morale della maggior parte degli individui, dall'atteggiamento di
ampi gruppi di popolazione, dipende e si determina giorno per giorno uno specif
ico comportamento politico e con ciò anche la situazione politica generale. Ma il
singolo vive, dal canto suo, in un ordine politico già prestabilito, che si è venuto
formando storicamente, in dipendenza dall'etica e dalla politica degli antenati
, e che divenne possibile per la situazione generale del mondo. Ecco dunque che,
in uno schema, si presentano queste due contrarie possibilità.
L'etica del politico è principio di una esistenza dello stato, in cui tutti prendo
no parte con la loro coscienza, il loro sapere, il loro modo di pensare e il lor
o modo di volere. E' la vita della libertà politica concepita come un processo con
tinuo fatto di decadimenti e di miglioramenti. Essa è resa possibile dal fatto che
tutti hanno il compito e la chance di essere corresponsabili.
Oppure i cittadini sono nella maggior parte estranei alla vita politica. La pote
nza dello stato non viene qui sentita come cosa che li riguarda. Essi non si con
siderano corresponsabili, ma fanno solo da inerti spettatori della vita politica
, e lavorano e operano obbedendo ciecamente. Essi conservano la loro buona cosci
enza nell'ubbidienza, senza partecipare a ciò che i detentori del potere decidono
e fanno. Subiscono la realtà politica come qualche cosa di estraneo a loro. Cercan
o di cavarsela con astuzia e di trarne i propri vantaggi personali, oppure vivon
o in un cieco entusiasmo fatto di sacrifici.
Si tratta della differenza tra libertà politica e dittatura politica. Ma il più dell
e volte non è più in potere delle persone singole stabilire quale delle due condizio
ni debba prevalere. Alla persona singola capita di nascere o nell'una o nell'alt
ra, per sua fortuna o per sua disgrazia; non le resta che accettare quella realtà
che le viene tramandata. Nessuna persona singola e nessun gruppo sono in grado d
i cambiare in un colpo questo presupposto in virtù del quale noi tutti in realtà viv
iamo.
2. LE CONSEGUENZE DELLA COLPA.
La colpa ha conseguenze esteriori, che si riferiscono all'esistenza, e conseguen
ze interiori, che riguardano invece l'autocoscienza. Le prime sono indipendenti
dal fatto che il colpito se ne renda conto o meno. Le seconde sono rilevanti sol
o se uno nella colpa riesce a rendersene conto sino in fondo.
a) Il delitto va incontro alla "punizione". La condizione è che il giudice riconos
ca il colpevole nella sua libera determinazione della volontà, ma non che il punit
o riconosca di essere punito giustamente.
b) Per quel che riguarda la colpa politica esiste una "responsabilità" e come sua
conseguenza una riparazione e una perdita ulteriore, oppure una limitazione dell
a potenza politica e dei diritti politici. Nel caso in cui la colpa politica è leg
ata ad avvenimenti che vengono decisi con la guerra, allora la conseguenza per i
vinti può significare annientamento, deportazione, sterminio. Oppure il vincitore
può, se vuole, trasferire le conseguenze in una forma fondata sul diritto e quind
i sulla misura.
c) Dalla colpa morale nasce il ravvedimento e con esso l'"espiazione" e la "rige
nerazione". E' un processo interiore che ha poi anche conseguenze reali nel mond
o.
d) La colpa metafisica ha per conseguenza una "trasformazione dell'autocoscienza
umana innanzi a Dio". L'orgoglio viene spezzato. Questa autotrasformazione attr
averso l'agire interiore può condurre a una nuova origine di vita attiva, ma legat
a sempre a una incancellabile coscienza di colpa, nell'umiltà che rende sottomessi
a Dio e sospinge tutto il nostro operare in un'atmosfera nella quale diventa im
possibile la presunzione.
3. LA FORZA. IL DIRITTO. LA GRAZIA.
Il fatto che gli uomini, quando non possono intendersi tra loro, decidono le lor
o questioni con la "forza", e il fatto che ogni ordinamento statale serve sì a ten
ere a freno questa forza, ma in modo che essa resti monopolio dello stato - all'
interno per far valere il diritto e all'esterno come guerra -, sono cose che in
tempi pacifici venivano quasi del tutto dimenticate.
Là dove con la guerra subentra una situazione in cui domina la forza, viene a cess
are il diritto. Noi europei abbiamo tentato di conservare un minimo di diritto e
di legge attraverso le norme del diritto internazionale, che sono valide anche
in guerra e furono infine ratificate nelle convenzioni dell'Aia e di Ginevra. Se
mbra però che ciò sia stato invano.
Quando viene adoperata la forza, viene suscitata altra forza. Al vincitore spett
a decidere che cosa deve avvenire del vinto. Qui vale il "vae victis". Il vinto
può soltanto scegliere o di morire o di fare e patire quel che vuole il vincitore.
Ha però quasi sempre, da tempi immemorabili, preferito vivere.
Il "diritto" rappresenta l'alto pensiero degli uomini che vogliono basare la lor
o esistenza su un'origine che, sebbene abbia bisogno della forza per essere gara
ntita, non viene però da essa determinata. Quando gli uomini si rendono conto dell
a loro comune natura di uomini e riconoscono gli uomini come uomini, allora pren
dono in considerazione i diritti dell'uomo e si basano su un diritto di natura,
al quale ciascuno, vincitore e vinto, può fare appello.
Non appena emerge il pensiero del diritto, si può trattare per trovare il vero dir
itto attraverso la discussione e il procedimento metodico.
Ma nel caso di una vittoria totale, quello che sarebbe il diritto tra vincitori
e vinti e per i vinti stessi costituisce fino a oggi sempre soltanto un campo mo
lto limitato in seno agli avvenimenti, che vengono determinati in forza di atti
di volontà politica. Questi atti costituiscono la base di un diritto positivo e di
fatto, e non vengono più nemmeno essi stessi giustificati in base al diritto.
Di diritto si può parlare soltanto nei riguardi di quella colpa intesa come delitt
o e come responsabilità politica, ma non nei riguardi della colpa morale e metafis
ica.
Ma il riconoscimento del diritto può aver luogo anche da parte di chi è responsabile
o è punito. Chi commette il delitto, nel fatto che viene punito può vedere garantit
o il suo onore e la sua riabilitazione. Chi è politicamente responsabile può riconos
cere che gli viene assegnato dal destino tutto quello che egli d'ora in poi deve
accettare come condizione della sua esistenza.
La "grazia" è l'atto col quale si modera l'effetto di un diritto puro e si limita
la forza distruttiva. L'umanità sente una verità superiore a quella che si trova nel
la conseguenza rettilinea del diritto e della forza.
a) Nonostante il diritto la misericordia opera per aprire la via a una giustizia
libera dalla legge. Infatti ogni ordinamento umano è pieno di difetti e di ingius
tizie nei suoi effetti.
b) Nonostante la possibilità della forza, il vincitore esercita la grazia sia per
i suoi scopi, dato che i vinti gli possono servire, sia per magnanimità, dato che,
lasciando in vita i vinti, si accresce in lui il sentimento della sua potenza e
della sua moderazione, o anche perché egli riconosce nella sua coscienza le esige
nze di un diritto naturale valido per tutti gli uomini, e che non toglie tutti i
diritti né al vinto né al delinquente.
4. CHI GIUDICA, E CHI O CHE COSA VIENE GIUDICATO?
Sotto la tempesta delle accuse ci si domanda: chi accusa e chi viene accusato? U
n'accusa è sensata solo se essa è stata definita nel suo punto di vista e riguardo a
l suo oggetto, e se essa si circoscrive chiaramente soltanto quando si sa bene c
hi è l'accusatore e chi è l'accusato.
a) Analizziamo il senso dell'accusa seguendo lo schema delle quattro forme della
colpa. L'incolpato sente provenire i "rimproveri" o "dall'esterno", dal mondo,
o "dall'interno", dalla propria anima.
Quelle accuse che vengono dall'esterno hanno un senso soltanto se si riferiscono
a dei delitti o a una colpa politica. Esse vengono formulate con l'intenzione d
i provocare una punizione e di rendere responsabile. Esse valgono da un punto di
vista giuridico e politico, non da un punto di vista morale e metafisico.
I rimproveri che vengono dall'interno sono sentiti dal colpevole in riferimento
al suo fallimento morale e alla sua fragilità metafisica. Naturalmente, quando qui
risiede anche l'origine di azioni o di astensioni di ordine politico e di ordin
e criminale, i rimproveri dell'anima si riferiscono anche a queste.
Dal punto di vista morale, si può dare soltanto la colpa a se stessi e non agli al
tri. Oppure si può dare la colpa agli altri solamente quando si vive con loro nell
a solidarietà di una battaglia affettuosa. Nessuno può fare da giudice morale a un a
ltro, a meno che non lo faccia in forza di un legame intimo, come se si trattass
e di se stesso. Solo quando un altro è per me come se fossi io stesso, esiste quel
la intimità capace di rendere comune, nella libera comunicazione, ciò che in fondo c
iascuno attua in solitudine.
Affermare la colpa di un altro non può riguardare il suo modo di pensare, ma solo
determinate azioni e modi di comportarsi. Nel caso della valutazione individuale
si cerca di tener conto del modo di pensare e dei motivi; anche questo non si p
uò raggiungere secondo verità se non nella misura in cui questo modo di pensare e qu
esti motivi possono venire determinati per mezzo di segni oggettivi, cioè azioni e
modi di comportarsi.
b) Bisogna poi vedere in che senso si può giudicare una "collettività" e in che sens
o invece solo una "persona singola". Dare la responsabilità delle conseguenze deri
vanti dalle azioni di uno stato a tutti i cittadini che vi appartengono è un crite
rio senza dubbio ragionevole. Qui viene colpita la collettività. Questa responsabi
lità però è una responsabilità ben determinata e circoscritta. In essa non rientra l'imp
utazione di colpa morale e metafisica delle singole persone. Essa investe anche
quei cittadini che si sono opposti al regime o a tutte le azioni in questione. A
nalogamente ci sono delle responsabilità che derivano dall'aver fatto parte di org
anizzazioni, partiti e gruppi.
Per i delitti può essere punita solamente la persona singola, sia nel caso in cui
si tratta di una sola sia nel caso in cui ci sono dei complici, ai quali si chie
de ragione a ciascuno per conto proprio, secondo la misura nella quale ha partec
ipato al reato e, in grado minimo, già per il semplice fatto di aver preso parte a
queste associazioni. Ci sono intere associazioni di rapinatori o cospiratori ch
e possono considerarsi criminali nel loro insieme. In tal caso la semplice appar
tenenza può rendere passibili di pena.
"E' però un controsenso imputare tutto un popolo di un'azione criminosa". Criminal
e è sempre solamente la singola persona.
"E' anche un controsenso accusare un popolo nel suo insieme dal punto di vista m
orale". Non c'è alcuna caratteristica di un popolo tale che possa averla ciascun i
ndividuo che vi appartiene. Ci sono sì degli elementi in comune, come la lingua, i
costumi e le abitudini, l'origine. Ma ciò nonostante anche in essi sono possibili
, d'altro canto, delle differenze così forti, per cui uomini che parlano la stessa
lingua possono restare talmente estranei l'uno all'altro come se non appartenes
sero affatto al medesimo popolo.
Dal punto di vista morale, si può giudicare sempre soltanto la persona singola, ma
i una collettività di persone. La disposizione mentale a considerare gli uomini co
llettivamente, a caratterizzarli e giudicarli in blocco, è oltremodo diffusa. Cara
tteristiche di tal genere - ad esempio dei tedeschi, dei russi, degli inglesi non riguardano mai concetti di genere sotto i quali possano venire sussunti i si
ngoli uomini, ma indicano solamente il tipo, a cui essi più o meno possano corrisp
ondere. Questa confusione tra una concezione basata sui generi e una basata sull
e tipologie è il segno del pensare in base a delle collettività: "i" tedeschi, gli i
nglesi, "i" norvegesi, "gli" ebrei - e così via: "i" frisi, "i" bavaresi - oppure:
"gli" uomini, "le" donne, "i" giovani, "i" vecchi. Il fatto che grazie alla con
cezione tipologica si viene pure a cogliere qualche cosa di vero, non deve farci
credere di aver compreso in tutto e per tutto ogni singolo individuo, quando lo
consideriamo designato da quelle caratteristiche generali. Questa è una forma men
tale che, attraverso secoli, si trascina come un mezzo per determinare l'odio re
ciproco fra i popoli e i gruppi umani. Questa forma mentale, che dai più viene con
siderata purtroppo come ovvia e naturale, i nazionalsocialisti l'hanno applicata
nella maniera peggiore e attraverso la loro propaganda l'hanno fatta entrare ne
lle teste quasi a martellate. Era come se non ci fossero più uomini, ma soltanto a
ppunto quelle collettività.
Non c'è mai un popolo che sia un tutto unico. Tutte le delimitazioni che noi operi
amo per poterlo determinare, vengono sorpassate nel campo dei fatti. La lingua,
la nazionalità, la cultura, i destini comuni, tutte queste sono cose che non colli
mano, ma si intersecano. Un popolo e uno stato non coincidono, e nemmeno lingua
e destini comuni e cultura.
Non si può fare di un popolo un solo individuo. Un popolo non può perire eroicamente
, né diventare criminale, né agire moralmente o immoralmente. Sono cose che possono
essere compiute solamente da persone singole che ne fanno parte. Un popolo nel s
uo insieme non può essere né colpevole né innocente, e ciò né in senso criminale né in sens
politico (nel campo politico rispondono solo i cittadini di uno stato) né in sens
o morale.
La valutazione categoriale dal punto di vista del popolo è sempre un'ingiustizia;
essa presuppone una falsa ipostatizzazione e porta come conseguenza la degradazi
one dell'essere umano come persona singola.
Ma l'opinione mondiale che dà a un popolo la colpa collettiva è un fatto simile a qu
ello per cui attraverso i millenni si è pensato e si è detto che gli ebrei sono colp
evoli della crocifissione di Gesù. Chi sono qui gli ebrei? Un gruppo circoscritto
di uomini pieni di fanatismo politico e religioso, che allora, fra gli ebrei, av
eva una certa potenza e che, in cooperazione con la guarnigione romana, portò all'
esecuzione capitale di Gesù.
La superiorità di un'opinione come questa che, anche in uomini ragionevoli, va tra
sformandosi in ovvietà, è tanto più sorprendente in quanto il suo errore è così semplice e
chiaro. Ci si trova come di fronte a una parete dove sembra che ragioni e fatti
non vengano più ascoltati, oppure, se vengono pure ascoltati è come se venissero su
bito dimenticati senza poter acquistare validità alcuna.
"Una colpa collettiva di un popolo", o di un gruppo di persone che vive entro il
consorzio dei popoli, pur ammettendo la responsabilità politica, "non può esserci"
né come colpa delittuosa né come colpa morale né come colpa metafisica.
c) Per le accuse e i rimproveri ci deve essere un diritto. "Chi ha il diritto di
fare da giudice?" A ogni giudicante può esser posta la questione: quale potere eg
li abbia, a qual fine e per quale motivo egli giudichi, in quale posizione si tr
ovi di fronte a chi viene giudicato.
Nessuno ha l'obbligo di riconoscere nel mondo un tribunale costituito a giudicar
e in fatto di colpa morale e metafisica. Quello che è possibile fra uomini che ver
amente si amano e sono strettamente legati tra loro, non è permesso nella distanza
della fredda analisi obiettiva. Quello che vale al cospetto di Dio non può, appun
to per questo, valere anche al cospetto degli uomini. Dio infatti non ha alcuna
istanza che lo rappresenti sulla terra, né nelle sedi delle chiese, né nei ministeri
degli esteri degli stati, né nell'opinione pubblica mondiale, quale viene comunic
ata dalla stampa.
Quando si giudica in base ai risultati della guerra, allora il vincitore ha il p
rivilegio di giudicare sulla responsabilità politica: egli ha messo a repentaglio
la propria vita, e la vittoria è toccata a lui. Ma ci si domanda: «Può di regola un ne
utrale pronunciare giudizi di fronte al pubblico una volta che non ha preso part
e al combattimento e non ha impegnato la sua esistenza e la sua coscienza nella
questione fondamentale?» (da una lettera).
Quando tra persone legate dalla stessa sorte si parla, oggi, tra tedeschi, di co
lpa morale e di colpa metafisica con riferimento alla persona singola, il diritt
o a dare dei giudizi si può intravedere nell'atteggiamento e nella disposizione d'
animo di chi giudica: si tratta di stabilire se parla o meno di una colpa che eg
li stesso condivide; se egli dunque parla dall'interno o dall'esterno; se parla
come uno che vuole venire in chiaro con se stesso o come uno che accusa, cioè come
uno che si sente legato intimamente agli altri nell'orientamento che deve rende
re possibile il rischiaramento di se stessi, o come uno che, estraneo, non fa ch
e dare addosso agli altri; se parla da amico o da nemico. Nel primo caso egli ha
sempre un diritto indubitabile a pronunciare i suoi giudizi; nel secondo caso h
a un diritto discutibile e in ogni modo limitato, secondo la misura e il grado d
el suo amore.
Se si parla però di responsabilità politica e di colpa criminale, allora ciascuno de
i cittadini ha il diritto di prendere in esame i fatti e di discutere la loro va
lutazione secondo il criterio di determinazioni concettuali chiare. La responsab
ilità politica assume varie gradazioni secondo la parte presa al regime ormai rinn
egato per principio, e viene determinata dalle decisioni del vincitore. Tutti qu
elli che sono voluti restare in vita al momento della catastrofe, per il fatto s
tesso che oggi vivono, sono logicamente sottoposti a queste decisioni.
5. LA DIFESA.
Quando viene mossa un'accusa sarà ben concesso all'accusato di farsi sentire. Ladd
ove si fa appello al diritto c'è la difesa. Se si applica la forza, ci sarà una reaz
ione da parte dell'aggredito, sempre che lo possa fare.
Se uno che è stato vinto in tutto e per tutto non può reagire alla forza, non gli ri
mane - sempre che voglia restare in vita - che di sopportare le conseguenze, ass
oggettarvisi e riconoscerle.
Se però il vincitore adduce delle ragioni, pronuncia dei giudizi, allora non ci può
essere da parte del vinto alcun tentativo di reagire con la forza. Ma in tale st
ato di impotenza sarà solo lo spirito a rispondere, sempre che gliene venga lascia
ta la possibilità. Una difesa è possibile solo se viene concessa la parola. Il vinci
tore mette un freno alla sua forza appena cerca di giustificare la sua condotta
nel campo del diritto. Ecco le possibilità di questa difesa.
1. La difesa si può "basare su distinzioni". Operando delle distinzioni si determi
nano meglio le cose e ci si scarica, in parte, dell'accusa. Col distinguere si i
mpedisce che venga fatto di ogni erba un fascio e si circoscrive il rimprovero.
La confusione conduce alla mancanza di chiarezza, e la mancanza di chiarezza ha,
dal canto suo, delle conseguenze effettive, che, siano esse vantaggiose o danno
se, rimangono sempre in ogni caso conseguenze non giuste. Difendersi facendo del
le distinzioni significa promuovere la giustizia.
2. La difesa può aver luogo adducendo dei "dati di fatto", mettendoli in rilievo e
in raffronto fra di loro.
3. La difesa può fare appello al "diritto naturale", al "diritto dell'uomo" e al "
diritto delle genti". Per questa specie di difesa valgono delle restrizioni. E c
ioè:
a) Uno stato che ha, fin dal primo momento, violato per principio il diritto nat
urale e il diritto dell'uomo nel proprio territorio, e che poi, in guerra, ha ca
lpestato sul territorio degli altri il diritto dell'uomo e il diritto delle gent
i, non può pretendere che gli venga riconosciuto a suo vantaggio quello che egli s
tesso non ha riconosciuto.
b) Nella realtà dei fatti ha diritti soltanto chi ha nello stesso tempo la forza d
i combattere per questi diritti. Ma quando si è ridotti all'impotenza assoluta, no
n rimane che invocare spiritualmente il diritto ideale.
e) Quando viene riconosciuto il diritto naturale e il diritto dell'uomo, ciò avvie
ne soltanto per un atto libero di volontà da parte di chi ha la forza, da parte de
i vincitori. E' un atto derivante dalle convinzioni e dagli ideali del vincitore
, una grazia nei confronti del vinto nella forma di un diritto che viene concess
o.
4. La difesa può mostrare quando l'accusa non viene mossa in modo sincero, ma vien
e "usata" come "arma" al servizio di scopi eventualmente politici o economici confondendo i concetti di colpa, inducendo false opinioni - per guadagnare conse
nso o crearsi la coscienza pulita delle azioni proprie. Queste azioni vengono mo
tivate come diritto, mentre dovrebbero restare nello spirito del "vae victis" co
me chiari atti da vincitore. Ma il male, anche se si opera, sotto forma di ritor
sione, non cessa di essere il male.
Quando i rimproveri di carattere morale e metafisico servono da strumento per sc
opi politici vanno senz'altro rigettati.
5. La difesa può consistere nella "ricusazione del giudice" o perché si è in grado di
dimostrare che si tratta di un giudice prevenuto, o perché l'oggetto del giudizio
non è tale da potersi sottoporre a un giudice umano.
La punizione, la responsabilità - la riparazione - sono cose che debbono essere ri
conosciute. Ma non deve essere riconosciuta la pretesa che ci si penta e ci si r
igeneri. Queste sono cose che possono venire solo dal di dentro. Contro tali pre
tese non rimane altra resistenza che il silenzio. L'importante è che non ci si las
ci ingannare sulla effettiva necessità di questa conversione interiore, allorché ci
viene falsamente richiesta dal di fuori, come una prestazione.
La coscienza della colpa e il riconoscimento di un'istanza nel mondo che faccia
da giudice, sono due cose affatto diverse. Il vincitore non è ancora, per se stess
o, un giudice. O trasforma egli stesso l'atteggiamento tenuto in battaglia e acq
uista cosi, nel fatto, dei diritti in sostituzione della semplice forza - sempre
, ben inteso, per quel che riguarda la colpa criminale e la responsabilità politic
a - oppure si arroga una falsa autorizzazione a compiere azioni che implicano, d
al canto loro, una nuova colpa.
6. La difesa si serve di "controaccuse". Si può richiamare l'attenzione sulle azio
ni degli altri, che hanno contribuito a determinare il disastro; si può richiamare
l'attenzione su azioni simili commesse dagli altri, le quali, nei riguardi del
vinto, sono e valgono come delitti; si può richiamare l'attenzione su alleanze mon
diali che implicano una colpa comune.
B. LE QUESTIONI TEDESCHE.
La questione della colpa è diventata una questione di grande importanza, dato che
il vincitore e il mondo intero hanno sollevato la loro accusa contro noi tedesch
i. Allorquando, nell'estate del 1945, in tutte le nostre città e i nostri villaggi
furono attaccati i manifesti con le figure e i notiziari da Belsen e con la fra
se decisiva: «Questa è la vostra colpa!», tutte le coscienze furono prese da grande in
quietudine. Molti, che effettivamente non ne avevano saputo nulla, furono presi
da orrore, e qualcosa nei loro animi si ribellò: chi mi accusa qui? Non c'era alcu
na firma, alcuna indicazione di pubblica autorità, il manifesto veniva dal vuoto.
E' della natura umana in generale che l'imputato, accusato, a torto o a ragione,
tenti di difendersi.
La questione della colpa in conflitti politici è cosa antica. Essa ebbe una parte
importante, per esempio, nelle controversie tra Napoleone e l'Inghilterra, tra l
a Prussia e l'Austria. Forse furono i romani i primi a fare politica, appellando
si a un proprio diritto morale e condannando moralmente i nemici. Di fronte a es
si stanno, da un lato i greci, imparziali e oggettivi, dall'altro gli antichi eb
rei, che accusano se stessi davanti a Dio.
Se sono state fatte ai vinti da parte delle potenze vincitrici delle imputazioni
di colpa che servivano come strumento di politica e che quindi per i loro motiv
i diventavano poco pulite, questo costituisce una colpa che attraversa tutta la
storia. Dopo la Prima guerra mondiale la colpa della guerra costituì un problema c
he fu deciso, col trattato di Versailles, ai danni della Germania. Più tardi però gl
i storici di tutti i paesi non furono concordi nell'attribuire a un solo paese l
a colpa della guerra. Allora si era «scivolati» da tutti i lati nella guerra, come d
isse Lloyd George.
Oggi la cosa è assolutamente diversa da allora. La questione della colpa ha una ri
sonanza affatto differente. La questione della colpa della guerra questa volta è b
en chiara. La guerra è stata scatenata dalla Germania di Hitler. La Germania porta
la colpa della guerra, a causa del suo regime, che ha cominciato la guerra nel
momento da esso scelto, mentre tutti gli altri non la volevano.
La frase del manifesto: «Questa è la vostra colpa!» significa oggi però assai più che non
semplicemente colpa della guerra. Quel manifesto è già dimenticato. Ma quello che no
i allora abbiamo provato è rimasto. E' rimasta, in primo luogo, la realtà di un'opin
ione diffusa in tutto il mondo, che ci condanna come intero popolo, e, in second
o luogo, il nostro perturbamento.
L'opinione mondiale per noi è importante. Si tratta di uomini che pensano così di no
i, e questa è una cosa che non ci può essere indifferente. Inoltre la colpa diventa
uno strumento della politica. Dato che noi siamo stimati colpevoli, abbiamo meri
tato - così si ritiene - tutte le sciagure, che si sono abbattute e ancora si abba
tteranno su di noi. In questo c'è una specie di giustificazione per gli uomini pol
itici, i quali riducono la Germania a brandelli, ostacolano ogni possibilità di ri
costruzione, ci lasciano, senza la pace, in uno stato fra la vita e la morte. Si
tratta qui di una questione politica, che non spetta a noi decidere, e per deci
dere la quale noi non potremmo apportare nulla di sostanziale, nemmeno col nostr
o comportamento più irreprensibile. Si tratta di vedere se è una cosa politicamente
assennata, conveniente e scevra di pericoli, se è una cosa giusta ridurre tutto un
popolo a un popolo di paria, abbassarlo al di sotto del livello degli altri pop
oli, continuare a degradarlo, dopo che da se stesso ha sacrificato la sua dignità.
Qui non parliamo di questo problema. Né prendiamo a considerare la questione poli
tica se e in che senso sia necessario e conveniente confessare la propria colpa.
Può darsi che questo rimanga assegnato al verdetto del popolo tedesco. Ci sarebbe
ro per noi le più disastrose conseguenze. Noi ancora speriamo che le deliberazioni
degli uomini di stato e le opinioni dei popoli abbiano a essere rivedute prima
o poi. Ma in ogni caso non tocca a noi di accusare, ma solamente di accettare. L
'impotenza assoluta nella quale ci ha trascinato il nazionalsocialismo e dalla q
uale, nella situazione mondiale di oggi così strettamente legata alla tecnica, non
c'è via di uscita, ci costringe a questo.
Per noi è però ancora più importante la maniera in cui esaminiamo, giudichiamo e purif
ichiamo noi stessi. Quelle accuse che ci vengono dal di fuori non ci riguardano
più. Le accuse che ci vengono dal di dentro, invece, che da dodici anni, almeno, i
n alcuni momenti, si fanno sentire nelle anime tedesche, più o meno distintamente,
rappresentano l'origine della nostra autocoscienza, qual è oggi ancora possibile
nella maniera in cui noi, vecchi o giovani, riusciremo a trasformarci sotto il l
oro peso col nostro sforzo interiore. Noi dobbiamo far luce sulla questione dell
a colpa tedesca. E' una cosa che riguarda noi, e che si verifica indipendentemen
te dai rimproveri che ci vengono dal di fuori, anche se noi vogliamo servircene
come di uno specchio.
Quella frase: «Questa è la vostra colpa!» può significare:
Voi siete responsabili per le azioni del regime che avete tollerato. - Qui si tr
atta della nostra colpa politica.
Voi siete colpevoli di avere oltre a ciò sostenuto questo regime e di avervi colla
borato. - Qui sta la nostra colpa morale.
Voi siete colpevoli di aver assistito inerti ai delitti che furono commessi. - Q
ui già traspare una colpa metafisica.
lo ritengo vere tutte e tre queste affermazioni, sebbene soltanto la prima, rigu
ardante la responsabilità politica, possa essere senz'altro pronunciata e risulti
giusta in tutto e per tutto. Mentre la seconda e la terza, riguardanti la colpa
morale e quella metafisica, cessano di essere vere non appena vengono espresse i
n forma giuridica come fredde deposizioni.
Oltre a ciò la frase «Questa è la vostra colpa!» può significare:
Voi avete preso parte a quei delitti, quindi siete anche voi dei criminali. - Ciò è
evidentemente falso per la stragrande maggioranza dei tedeschi.
Infine essa può significare:
Voi siete un popolo inferiore, indegno, criminale, siete la feccia dell'umanità, q
ualcosa di diverso da tutti gli altri popoli. - Questo non è altro che quella part
icolare maniera di pensare e di valutare per categorie collettive, la quale, fac
endo entrare ogni singola persona in uno schema generale, risulta essa stessa ra
dicalmente falsa e addirittura inutile.
Dopo questi brevi accenni preliminari guardiamo la questione più da vicino.
PRIMO. LA DIFFERENZIAZIONE DELLA COLPA TEDESCA.
1. I DELITTI.
A differenza della Prima guerra mondiale, quando, cessate le ostilità, non ci fu b
isogno da parte tedesca di riconoscere dei delitti specifici che fossero stati c
ommessi soltanto da una sola parte (l'indagine storica condotta con metodi scien
tifici ha permesso anche ai nemici della Germania di vedere le cose dallo stesso
punto di vista), oggi invece i delitti commessi dal governo nazista in Germania
prima della guerra, e dappertutto durante la guerra, sono evidenti.
A differenza della Prima guerra mondiale, in merito alla quale storici di tutti
i paesi non hanno potuto in seguito attribuirne la colpa a uno solo dei belliger
anti, questa guerra è stata iniziata dalla Germania di Hitler.
Infine, a differenza della Prima guerra mondiale, questa guerra è diventata verame
nte una guerra mondiale. Essa ha trovato il mondo in una situazione diversa e in
diverse condizioni di cultura. In confronto alle guerre precedenti il significa
to di questa guerra ha raggiunto ben altre dimensioni.
Ed ecco che oggi abbiamo qualcosa di assolutamente nuovo nella storia del mondo.
I vincitori costituiscono un tribunale. Il "processo di Norimberga" riguarda de
i delitti.
Questo ci permette, in primo luogo, di operare una chiara delimitazione in due d
iverse direzioni.
1. Dinanzi al tribunale non sta il popolo tedesco, ma stanno singoli tedeschi ac
cusati di delitti - in sostanza però tutti i gerarchi del regime nazista. Questa d
elimitazione è stata compiuta fin dall'inizio dal rappresentante americano dell'ac
cusa. Jackson ha detto nel suo discorso che stabilisce i criteri fondamentali de
l processo: «Noi desideriamo precisare che non intendiamo incolpare tutto il popol
o tedesco».
2. Le persone sospettate non vengono accusate poi in linea generale, ma per deli
tti determinati. Questi sono espressamente definiti nello statuto della corte mi
litare internazionale di giustizia:
"1) Delitti contro la pace: disegno, preparazione, avviamento o esecuzione di un
a guerra di aggressione o di una guerra che violi i trattati internazionali...
2) Delitti di guerra: violazioni delle leggi di guerra, per esempio: omicidi, ma
ltrattamenti, deportazioni al lavoro forzato di uomini appartenenti alla popolaz
ione civile del territorio occupato - uccisioni, o maltrattamenti di prigionieri
di guerra -, saccheggiamenti di beni pubblici o privati, distruzioni arbitrarie
di città o villaggi o ogni altra devastazione, che non può essere giustificata in b
ase a necessità militari.
3) Delitti contro l'umanità: assassini, stermini, asservimenti, deportazioni perpe
trati a danno di una qualsiasi popolazione civile, persecuzioni commesse per mot
ivi politici, razziali o religiosi perpetrate nel compiere un delitto per cui è co
mpetente la corte di giustizia.
Inoltre viene definita la sfera delle responsabilità. I capi, le organizzazioni, i
promotori e i soci che hanno preso parte all'elaborazione e all'esecuzione di u
n piano comune o a un'intesa per commettere uno dei delitti sunnominati, sono re
sponsabili per tutte quelle azioni, che sono state commesse da una persona quals
iasi in esecuzione di un tale piano.
L'accusa è diretta dunque non solamente contro persone singole, ma anche contro or
ganizzazioni che, come tali, dovrebbero essere giudicate delittuose: il gabinett
o del Reich - il corpo dei dirigenti politici della N.S.D.A.P. -delle S.S. - del
le S.D. - della Gestapo - delle S.A. - lo stato maggiore dell'esercito - il coma
ndo supremo delle forze armate tedesco".
In questo processo noi tedeschi siamo uditori. Sebbene gli accusati siano degli
uomini che ci hanno portato alla rovina, non siamo stati noi a provocare il proc
esso né siamo noi a condurlo. Jackson dice: «In verità i tedeschi, non meno che il mon
do di fuori, hanno da saldare i conti con gli accusati».
Più di un tedesco si sente mortificato per questo processo. Questo sentimento è comp
rensibile. Esso deve riportarsi allo stesso motivo con cui si spiega, d'altro ca
nto, il fatto che del regime di Hitler e dei suoi misfatti viene incolpata l'int
era popolazione tedesca. Ogni cittadino di uno stato è corresponsabile e interessa
to in ciò che il proprio stato fa e subisce. Uno stato criminale carica il peso de
lle conseguenze su tutto il popolo. Ecco perché ogni cittadino si sente colpito da
l trattamento inflitto ai propri capi di stato, anche se sono criminali. Con lor
o viene condannato anche il popolo. Perciò il popolo sente in se stesso quell'avvi
limento e quella mancanza di dignità che si trovano a dover subire i capi di stato
. Da ciò deriva l'avversione istintiva e, in un primo tempo, ancora avventata nei
riguardi del processo.
In realtà bisogna che noi riconosciamo, anche con dolore, di essere politicamente
responsabili. Noi dobbiamo provare quella mancanza di dignità in quanto lo esige l
a nostra responsabilità politica. Con ciò proviamo la nostra completa impotenza poli
tica e la nostra esclusione come fattore politico.
Ma ora tutto dipende dal modo in cui noi consideriamo la nostra istintiva sensaz
ione di essere stati colpiti, come ce la spieghiamo, l'assumiamo e la trasformia
mo.
Esiste la possibilità di opporci a quell'avvilimento incondizionatamente. Allora s
i cercano dei motivi in base ai quali si possa contestare il processo nel suo in
sieme, nel suo diritto, nella sua veridicità, nei suoi scopi.
1. Si fa ricorso a considerazioni di carattere generale: di guerre ce ne sono st
ate sempre nella storia, e ce ne saranno ancora in avvenire. La guerra non è la co
lpa di un popolo. E' la natura stessa dell'uomo, la sua universale disposizione
alla colpa, a condurre alla guerra. Considerarsi liberi da ogni colpa è un atto di
superficialità da parte della propria coscienza. E un'autogiustificazione che, co
n il modo di comportarsi presentemente, promuove nuove guerre.
Contro questa maniera di ragionare c'è da dire: questa volta è fuori di discussione
il fatto che sia stata la Germania a preparare, secondo un piano prestabilito, l
a guerra e a cominciarla senza essere provocata dagli altri. Le cose sono andate
in modo assolutamente diverso rispetto al 1914. - Alla Germania non si attribui
sce la colpa della guerra in generale, ma la colpa di questa guerra. E questa gu
erra stessa è qualche cosa di nuovo, qualche cosa di diverso determinatasi in una
situazione storica mondiale che, così com'è, si è verificata per la prima volta.
Questo rimprovero contro il processo di Norimberga può essere espresso anche diver
samente: il fatto che, sempre di nuovo, quel che deve essere deciso per «invocazio
ne del cielo» spinga a concludere tramite la forza, è qualche cosa di indisgiungibil
e dalla natura umana. Il soldato ha sentimenti di cavalleria e può sentirsi offeso
anche da vinto, se non viene trattato in modo cavalleresco.
Per contro, va detto: la Germania ha compiuto numerose azioni, che (al di fuori
di ogni senso di cavalleria e contro il diritto delle genti) hanno portato allo
sterminio di intere popolazioni e ad altre crudeltà. La maniera di agire di Hitler
era diretta, fin da principio, contro ogni possibilità di conciliazione. Non c'er
a che o la vittoria o la rovina. Adesso ci si trova di fronte alle conseguenze d
ella rovina. E' impossibile appellarsi oggi ai principi cavallereschi, quando anche se moltissimi soldati individualmente e intere unità dell'esercito sono senz
a colpa e si sono, per loro conto, comportati sempre cavallerescamente - l'eserc
ito tedesco, come organizzazione, si è incaricato di eseguire gli ordini criminali
di Hitler. Quando ogni principio cavalleresco e ogni senso di magnanimità sono st
ati rinnegati, non si può più tardi pretendere che essi vengano fatti valere a propr
io vantaggio. Questa guerra non è nata dal fatto che non c'era altra via d'uscita
tra le parti contendenti a parità di condizioni scese in campo cavallerescamente.
Questa guerra è stata, nella maniera in cui si è venuta a determinare e nella manier
a in cui è stata condotta, una malvagità criminale, e una totale e inconsiderata vol
ontà di distruzione.
Anche nella guerra c'è la possibilità di porre dei freni. La Germania di Hitler è stat
a la prima a rigettare per principio le parole di Kant: «In guerra non devono acca
dere quelle azioni che rendono semplicemente impossibile ogni futura riconciliaz
ione». Ecco perché ci siamo trovati di fronte a manifestazioni inaudite della violen
za, la quale, se per quanto riguarda la sua natura è rimasta la stessa fin dai tem
pi più antichi, per quanto riguarda le proporzioni delle possibilità distruttive vie
ne oggi determinata dalla tecnica. L'aver cominciato la guerra nella situazione
mondiale presente, è questa la cosa mostruosa.
2. Si dice: il processo di Norimberga è una vergogna nazionale per tutti i tedesch
i. Se almeno il tribunale fosse costituito da tedeschi, allora sarebbero i tedes
chi a giudicare i tedeschi.
Qui è da obiettare: la vergogna nazionale non è costituita dal processo di Norimberg
a, ma da ciò che ha portato a esso, dal fatto di questo regime e delle sue azioni.
La coscienza di questa vergogna nazionale è cosa che non può essere evitata dai ted
eschi. E' però falso attribuirla al processo invece che alla causa prima del proce
sso stesso.
Inoltre: la nomina, da parte dei vincitori, di un tribunale tedesco o di tedesch
i fra i giurati non cambierebbe nulla. I tedeschi, infatti, non si troverebbero
a far parte del tribunale per essersi liberati da sé, ma solo per una grazia conce
ssa dal vincitore. La vergogna nazionale rimarrebbe la stessa. Il processo è il ri
sultato del fatto che non siamo stati noi a liberarci dal delittuoso regime, ma
ne siamo stati liberati dagli alleati.
3. Un'altra obiezione al processo è questa: come è possibile parlare di delitti nell
a sfera della sovranità politica? Se si ammette ciò, il vincitore può sempre dichiarar
e criminale il vinto. Ma allora scompare il significato e il segreto dell'autori
tà che proviene da Dio. Uomini ai quali un popolo ha ubbidito - e fra essi, messi
di nuovo in rilievo, prima il Kaiser Guglielmo Secondo, ora il "Führer" - sono da
ritenere come sacri e inviolabili.
A ciò è da rispondere: qui si tratta di una maniera abituale di pensare, derivante d
alla tradizione della vita politica in Europa, tradizione che in Germania si è man
tenuta più a lungo. Ma oggi l'aureola di santità è scomparsa dalle teste dei capi di s
tato. Essi sono uomini e sono responsabili di quel che fanno. Da quando i popoli
europei hanno fatto il processo ai loro monarchi e li hanno decapitati, tocca a
i popoli tenere sotto controllo la loro maniera di governare. Ogni atto di stato
è nello stesso tempo un atto personale. Gli uomini ne sono individualmente respon
sabili e vengono quindi chiamati a renderne conto.
4. Dal punto di vista giuridico si solleva l'obiezione che segue: si può parlare d
i delitti soltanto in base a delle leggi. Il delitto è la violazione di queste leg
gi. Il reato deve potersi definire in maniera precisa, e deve potersi provare in
maniera precisa ed esatta nelle circostanze di fatto. In particolare: "nulla po
ena sine lege" - vale a dire che si può pronunciare un giudizio soltanto in base a
una legge che esisteva prima del compimento del fatto. A Norimberga, invece, si
giudica con retroattività in base a delle leggi che vengono stabilite ora dai vin
citori.
A ciò è da rispondere a questo modo: se si tiene conto dell'umanità, dei diritti dell'
uomo e del diritto naturale, e se ci si riporta alle idee di libertà e democrazia
nel mondo occidentale, si può dire che ci sono delle leggi secondo le quali possan
o essere definiti dei delitti.
Oltre a ciò ci sono dei trattati che, quando vengono firmati liberamente da entram
be le parti, stabiliscono appunto questa specie di diritto superiore, al quale c
i si può appellare nel caso in cui si verifichi una violazione del trattato.
Ma a chi compete qui di giudicare? In condizioni di pace proprie di un ordinamen
to statale, ci sono i tribunali. Dopo una guerra, ci può essere solo un tribunale
del vincitore.
5. Da qui ancora un'altra obiezione: la forza del vincitore non è un diritto. Il s
uccesso non può decidere del diritto e della verità. Non è possibile creare un tribuna
le capace di accertare obiettivamente e condannare la colpa della guerra e i del
itti di guerra. Un tribunale di tal genere non può essere che di parte. Anche un t
ribunale formato di uomini appartenenti a paesi neutrali sarebbe un tribunale di
parte. I paesi neutrali sono infatti impotenti, e si trovano di fatto al seguit
o dei vincitori. Potrebbe giudicare liberamente soltanto un tribunale che fosse
sostenuto da una potenza tale da essere in grado di imporre anche con la forza i
l risultato del giudizio a entrambe le parti contendenti.
L'obiezione con la quale si vuole mettere in rilievo la falsa parvenza di un tal
e diritto si appiglia anche ad altri argomenti. Dopo ogni guerra la colpa viene
sempre addossata allo sconfitto. Questo viene costretto a riconoscere la sua col
pa. Lo sfruttamento economico che tien dietro alla guerra viene presentato come
riparazione. Il saccheggio viene camuffato come atto di giustizia. Se non ci può e
ssere un diritto da far valere liberamente, allora sarebbe da preferire la forza
nuda e cruda. Sarebbe cosa più leale e più facile a sopportarsi. Non c'è che la poten
za del vincitore. L'imputazione di delitto è in sé una cosa che può valere in ogni tem
po per l'una e l'altra delle parti contendenti - l'imputazione può sostenerla solt
anto il vincitore -, egli lo fa senza alcun ritegno, esclusivamente secondo la m
isura dei propri interessi. Tutto il resto serve solo a mascherare ciò che in effe
tti non è che la forza e l'arbitrio di chi ha il potere di farlo.
Che il tribunale sia tutta una finzione si vede infine dal fatto che le azioni d
ichiarate delittuose vengono portate innanzi al tribunale soltanto quando sono s
tate commesse da uno stato sconfitto. Le stesse azioni, commesse da stati sovran
i o vincitori, vengono passate sotto silenzio, non vengono discusse, tanto meno
poi vengono punite.
A questo è da rispondere: la potenza e la forza costituiscono effettivamente una r
ealtà decisiva nel mondo degli uomini. Ma non la sola. Prendere in senso assoluto
questa realtà significa annullare ogni legame sicuro tra gli uomini. Fino a quando
essa predomina, non è possibile nessun trattato, così come Hitler ha infatti dichia
rato: «I trattati valgono solo fino a quando essi rispondono ai propri interessi». E
d egli ha anche agito di conseguenza. Ma contro un tale atteggiamento reagisce l
a volontà che, pur riconoscendo la realtà della potenza e dell'efficacia di quella m
aniera nichilistica di pensare, la ritiene un qualcosa che non deve essere, e ch
e deve quindi essere trasformato con tutte le forze.
Infatti nelle faccende umane realtà non significa ancora verità. A questa realtà bisog
na piuttosto contrapporne un'altra. E dipende dalla volontà dell'uomo se questa se
conda realtà è presente o non è presente. Ognuno deve sapere, nella sua libertà, qual è il
posto che occupa e che cosa vuole.
Partendo da questo orizzonte, bisogna dire: il processo di Norimberga, dato che
rappresenta un tentativo nuovo di promuovere un ordinamento mondiale, non perde
il suo significato se non è ancora in grado di farsi forte di un ordine giuridico
mondiale, bensì se oggi rimane ancora necessariamente vincolato al gioco della pol
itica internazionale. Questo processo non ha luogo così come un processo giudiziar
io che si svolga nell'ambito di un chiuso ordine statale.
Per questo Jackson ha detto apertamente che «se si permettesse alla difesa di fare
delle digressioni dall'imputazione assai circoscritta nell'atto di accusa, il p
rocesso verrebbe tirato per le lunghe, e la corte si vedrebbe impigliata in cont
roversie politiche irrisolvibili».
Ciò significa anche che la difesa non deve occuparsi, per esempio, del problema co
ncernente la colpa della guerra, questione questa che si spingerebbe assai adden
tro nei suoi presupposti storici, ma deve limitarsi a esaminare il problema di c
hi ha cominciato la guerra. Inoltre, il diritto della difesa non dovrebbe consis
tere nel tirare in ballo e giudicare altri casi di delitti simili. Necessità polit
iche pongono un limite alle discussioni. Da ciò non consegue però il fatto che, in f
orza di questo limite, diventi tutto una menzogna. Al contrario, le difficoltà e l
e obiezioni sono espresse apertamente anche se brevemente.
La situazione fondamentale per cui è il successo della lotta, e non la legge sola,
a costituire il punto di partenza predominante, non può essere negata. Nel grande
avviene come nel piccolo; e infatti, per esempio, quando sotto le armi si comme
ttono delle mancanze, si suole dire ironicamente che non si viene puniti in virtù
della legge, ma perché ci si è lasciati sorprendere. Ma questa situazione fondamenta
le non significa che l'uomo non sia in grado, dopo il successo, di superare il m
omento della forza e far valere il diritto, grazie alla sua libertà. E anche se ciò
non avviene in maniera completa, anche se il diritto prevale solo fino a un cert
o punto, non si può negare di aver fatto con ciò un gran passo in avanti sulla via d
ell'ordinamento mondiale. Temperare la forza significa creare la possibilità di ri
flettere ed esaminare meglio le cose, significa portare maggiore chiarezza e qui
ndi rendere più decisamente consapevole dell'importanza che la forza come tale con
tinua pur sempre ad avere.
Questo processo ha per noi tedeschi il vantaggio di fare delle differenze tra i
delitti ben determinati dei capi, e di non condannare quindi il popolo nella sua
collettività.
Ma il processo ha un'importanza ancora maggiore. Esso si propone, per la prima v
olta e per tutto l'avvenire, di dichiarare che la guerra è un delitto e di trarne
le conseguenze. Quanto si è iniziato col patto Kellogg deve ora avere per la prima
volta la sua attuazione. Non si può mettere in dubbio la grandezza dell'impresa né
la buona fede di molti uomini che vi concorrono. L'impresa può sembrare addirittur
a fantastica. Ma se ci rendiamo ben conto di che cosa qui veramente si tratta, a
llora ci assale anche un fremito d'attesa al pensiero di ciò che accade. La differ
enza consiste ora in questo, che noi possiamo o presumere con atteggiamento nich
ilistico che il processo non possa essere che apparente, o desiderare ardentemen
te che esso possa riuscire.
Tutto dipende dalla maniera in cui il processo verrà eseguito, come verrà condotto d
al punto di vista dei contenuti, quali saranno i risultati, le motivazioni, come
si concluderà complessivamente il procedimento nel ricordo. Tutto dipende dal fat
to se il mondo può riconoscere come giusto e come vero quello che viene messo qui
in atto, se anche i vinti non possono astenersi dal dare la loro approvazione, s
e la storia potrà più tardi scorgervi i segni della verità e della giustizia.
Ma ciò non si decide soltanto a Norimberga. Il punto essenziale è che il processo di
Norimberga costituisca veramente un anello nella catena delle azioni politiche
di alto significato - in tal caso non importerebbe se a queste dovessero spesso
intrecciarsi anche degli errori, delle insensatezze, delle crudeltà e degli odi -,
e che le potenze, che oggi hanno costituito una norma di giustizia enunciata pe
r l'umanità, non vengano un giorno a trovarsi esse stesse in difetto rispetto a qu
esta norma. Le potenze che hanno stabilito di fare il processo di Norimberga han
no con ciò dato prova di voler governare il mondo di comune accordo, assoggettando
si all'ordine mondiale. Esse hanno dato prova di volersi veramente assumere, com
e risultato della loro vittoria, la responsabilità dell'umanità, e non solamente dei
loro stati. Questa loro testimonianza non può risultare falsa.
Se si suscita e si diffonde nel mondo la fiducia che a Norimberga si compie un a
tto di diritto e che al diritto è stato posto un fondamento, vuol dire allora che
il processo politico è diventato un processo giuridico, vuol dire che il diritto è s
tato fondato creativamente e costituito per un mondo nuovo che è ancora da edifica
re. Altrimenti la delusione e il riconoscimento della menzogna e della finzione
in questo processo determinerebbero nel mondo una situazione ancora peggiore, ch
e promuoverebbe nuove guerre; Norimberga, invece di diventare una benedizione, d
iventerebbe piuttosto un fattore di sventure; il mondo finirebbe col ritenere ch
e il processo è stato solo apparente e coreografico. Ciò non deve accadere.
A tutte le obiezioni possibili contro il processo si deve quindi rispondere a qu
esto modo: a Norimberga si tratta di una cosa veramente nuova. Non si può negare c
he in tutte le obiezioni ci sia qualcosa che possa rappresentare un eventuale pe
ricolo. Certamente falsi, in primo luogo, sono però quei ragionamenti che vogliono
assolutamente porre delle alternative sicure e traggono lo spunto da possibili
difetti, errori e confusioni che riguardano punti particolari, per generalizzare
e riprovare tutto in blocco. Invece, l'importante è che si sia sulla via giusta e
che le potenze persistano pazientemente nell'assumersi le loro responsabilità. Le
contraddizioni che si verificano in punti particolari devono essere superate me
diante atti che tendano a stabilire un nuovo ordine mondiale, pur in tanti disor
ientamenti. Falso, in secondo luogo, è quello stato d'animo di sdegnosa aggressivi
tà, che dice di no fin dall'inizio.
Ciò che ha luogo a Norimberga rappresenta, pur suscitando tante obiezioni, un annu
ncio ancora debole e vago di quell'ordinamento mondiale di cui oggi l'umanità deve
ormai necessariamente cominciare a rendersi conto. Questa è la vera situazione af
fatto nuova: l'ordinamento mondiale certo non è cosa che già stia senz'altro per avv
erarsi - sulla via della sua realizzazione ci sono piuttosto ancora terribili co
nflitti e imprevedibili pericoli di guerra -, però esso è apparso possibile alla men
te degli uomini e si leva lentamente all'orizzonte, come un'aurora che appena si
comincia a intravedere. Se questo nuovo ordinamento del mondo dovesse fallire,
allora si delineerebbe una terribile minaccia: l'autodistruzione dell'umanità.
Chi è ridotto all'estrema impotenza trova il suo sostegno soltanto nel mondo nel s
uo insieme. Di fronte al nulla si protende verso l'origine e ciò che tutto abbracc
ia. Per questo sono proprio i tedeschi quelli che meglio possono comprendere il
significato straordinario di questo primo annuncio.
La nostra salvezza nel mondo dipende da quell'ordinamento mondiale che a Norimbe
rga non è ancora costituito, ma che a Norimberga viene additato.
2. LA COLPA POLITICA.
Quando si tratta di delitti, la punizione colpisce chi li commette. L'essersi il
processo di Norimberga limitato a considerare solamente i criminali, ha deposto
a discarico del popolo tedesco. Ma questo non vuol dire che il popolo tedesco s
i sia liberato da ogni colpa. E' precisamente il contrario. La nostra colpa vera
e propria diventa ancor più evidente nella sua essenza.
Quando il regime nazionalsocialista, che si attribuiva il nome di tedesco e pret
endeva di essere la Germania - e sembrava che ne avesse proprio il diritto, poic
hé aveva nelle mani tutti i poteri dello stato, e fino al 1943 non aveva incontrat
o alcuna opposizione che implicasse per esso qualche pericolo -, commise i suoi
delitti, noi fummo cittadini tedeschi.
La distruzione di ogni forma di stato decorosa e sinceramente tedesca deve avere
la sua ragione anche nel comportamento tenuto dalla maggioranza della popolazio
ne tedesca. Un popolo è responsabile per la propria forma di governo.
Per quanto riguarda i delitti che sono stati commessi in nome del Reich tedesco,
ogni tedesco viene reso corresponsabile. Ne «rispondiamo» collettivamente. Rimane d
a vedere in che senso ciascuno di noi deve sentirsi corresponsabile. Senza dubbi
o si tratta qui di quella responsabilità politica per la quale ogni cittadino è corr
esponsabile delle azioni che vengono commesse dallo stato al quale appartiene. Q
uesto però non significa necessariamente che ciascuno è colpevole anche nel senso mo
rale di aver preso parte, o nei fatti o intellettualmente, a quei delitti. Dovre
mmo noi tedeschi essere ritenuti responsabili dei misfatti che sono stati consum
ati contro di noi da tedeschi o ai quali siamo sfuggiti quasi per miracolo? Sì - n
ella misura in cui abbiamo tollerato che sorgesse presso di noi un regime di tal
genere. No - nella misura in cui molti fra noi sono stati, nella loro più profond
a interiorità, contrari a tutte quelle malvagità, e non hanno bisogno di riconoscere
in sé alcuna correità morale in forza di nessuna azione che abbiano compiuto e di n
essuna motivazione che abbiano avuto. "Rendere uno responsabile di una colpa non
significa riconoscerlo come moralmente colpevole".
Una colpa collettiva esiste dunque necessariamente come responsabilità politica de
i cittadini, ma non per questo anche nel senso di una colpa morale, metafisica o
criminale. Accettare l'imputazione di una responsabilità politica, con tutte le s
ue terribili conseguenze, è certamente cosa dura per ogni singola persona. Essa si
gnifica per noi un'assoluta impotenza politica e una miseria che ci costringerà a
vivere per lungo tempo in una condizione di fame e di freddo (o per lo meno in p
rossimità di essa), e in sforzi vani. Ma questa responsabilità come tale non riguard
a l'anima.
In uno stato moderno ognuno fa della politica per lo meno quando vota o anche qu
ando tralascia di votare. Il significato stesso della responsabilità politica non
permette che qualcuno vi si possa sottrarre.
Coloro che han preso parte alla politica attiva sono soliti giustificarsi succes
sivamente, quando è andata male. Ma nella condotta politica siffatte maniere di di
fendersi non contano.
Si dice, per esempio, di aver avuto delle buone intenzioni e di aver voluto il b
ene. Che Hindenburg non abbia inteso rovinare la Germania e non l'abbia voluta c
onsegnare nelle mani di Hitler, questo non gli giova a niente; egli lo ha fatto;
e solo questo conta in politica.
Oppure si racconta di aver visto la disgrazia, di averlo detto, e di aver messo
in guardia contro di essa. Ma ciò non vale in politica, se non si è passati all'azio
ne e se l'azione non ha avuto successo.
Si potrebbe pensare: ci potrebbero essere degli uomini completamente apolitici c
he conducono una vita al di fuori di ogni rapporto politico, come i monaci, gli
eremiti, gli studiosi, gli scienziati, gli artisti. Se essi fossero veramente ap
olitici non parteciperebbero alla colpa.
Ma la responsabilità politica investe anche loro, perché anche la loro vita è resa pos
sibile dall'ordinamento dello stato. Negli stati moderni non c'è nessuno che si po
ssa trovare al di fuori della politica.
Si vorrebbe certo poter permettere l'estraneità, ma lo si può fare solo tenendo pres
ente questa restrizione. Noi vorremmo riconoscere e approvare l'esistenza apolit
ica. Ma, appena smettessero di partecipare alla vita politica, gli apolitici non
avrebbero più il diritto di pronunciare dei giudizi sui fatti politici concreti d
el momento. Con tali giudizi verrebbero infatti a fare anche loro della politica
, pur senza correre dei rischi. Un ambito apolitico richiede che ci si autoesclu
da da ogni specie di attività politica. Ma ciò non implica che ogni responsabilità pol
itica venga a cessare per ogni verso.
3. LA COLPA MORALE.
Ogni tedesco fa un esame di se stesso: qual è la mia colpa? Quando la questione de
lla colpa si considera nei riguardi di una persona singola, e sempre che quest'u
ltima esamini attentamente se stessa, è detta questione di colpa nel senso morale.
In questo sussistono tra noi tedeschi le più grandi discrepanze.
Naturalmente è la persona singola quella che solamente può decidere di se stessa nel
giudizio di valutazione morale. Però, nella misura in cui ci troviamo a vivere in
comunicazione reciproca, allora possiamo parlarci fra di noi e aiutarci insieme
a vederci chiaro dal punto di vista morale. Ma, a differenza della condanna dal
punto di vista criminale e politico, la condanna morale dell'altro rimane come
in sospeso.
Il limite dove vien meno anche la possibilità di un giudizio morale si raggiunge q
uando ci accorgiamo che l'altro non sembra fare nemmeno un passo per autoesamina
rsi moralmente, quando nel modo di ragionare non percepiamo altro che della sofi
stica, e quando l'altro non sembra neanche ascoltare. Hitler e i suoi complici,
che rappresentavano una piccola minoranza di diecimila persone, si trovano al di
fuori della colpa morale in quanto non l'avvertono affatto. Essi sembrano incap
aci di pentimento e di conversione. Sono quelli che sono. Di fronte a uomini sif
fatti non rimane che la forza. Infatti essi stessi non vivono che mediante la fo
rza.
Ma la colpa morale sussiste per tutti coloro che danno spazio alla coscienza e a
l pentimento. Sono colpevoli nel senso morale coloro che sono capaci di espiazio
ne, coloro che pur sapendolo, o pur in condizioni di poterlo sapere, intrapreser
o una via che essi, nel loro autoesame, vedevano condurre all'errore colposo, si
a che nascondessero a se stessi comodamente quel che accadeva, sia che si lascia
ssero stordire e sedurre, o che si vendessero per vantaggi personali, o che obbe
dissero per paura.
Cerchiamo di rappresentarci alcune di queste possibilità:
a) "La vita mascherata" - per chi voleva sopravvivere portò necessariamente a una
colpa morale. Bugiarde assicurazioni di lealtà di fronte ad autorità che ricorrevano
alla minaccia, come la "Gestapo", gesti come il saluto hitleriano, la partecipa
zione a riunioni, e molte altre cose che producevano la parvenza di una reale pa
rtecipazione - chi di noi in Germania non avrebbe, in una circostanza o in un'al
tra, una colpa di tal genere? Solamente uno smemorato potrebbe illudersi su ques
to, ma perché lo vuole. Il camuffamento era allora un tratto fondamentale della no
stra esistenza, e pesava sulla nostra coscienza.
b) Ancora più ci sconcerta, nel momento in cui ce ne rendiamo conto, la colpa che
deriva da una "falsa coscienza". Più di un giovane ora si ridesta con questa orrib
ile consapevolezza: la mia coscienza mi ha tratto in inganno - in che cosa potrò a
ncora fare assegnamento? Credevo di sacrificarmi per le mete più alte, credevo di
desiderare il meglio. Tutti coloro che si ridestano così, metteranno a prova se st
essi, e si accorgeranno che la loro colpa nasceva dalla mancanza di chiarezza, d
al non voler vedere, dall'essersi isolati consapevolmente e chiusi nella propria
vita all'interno di una sfera «decorosa».
Qui, per prima cosa, bisogna distinguere fra l'"onore militare" e il senso polit
ico. La consapevolezza dell'onore militare rimane al di fuori di ogni discussion
e relativa alla colpa. Chi, rimanendo sempre fedele nel cameratismo, sempre impe
rturbato nei pericoli, ha dato buona prova di sé col suo coraggio, col suo realism
o, può ora custodire nella sua autocoscienza qualche cosa di inviolabile. Questo e
lemento puramente militare e al tempo stesso umano è una caratteristica comune a t
utti i popoli. Qui nella prova di sé, non solo non è implicata alcuna colpa, ma vi s
i esprime anche, quando uno non si viene a macchiare col compiere azioni malvage
eseguendo ordini evidentemente malvagi, un fondamento del senso della vita.
Però la condotta del soldato per dare prova di sé non si deve identificare con la ca
usa per la quale si è combattuto. La prova di sé fornita dal soldato non esclude ogn
i colpa per ogni altro verso.
L'avere identificato, senza alcuna riserva, uno stato di fatto con la nazione te
desca e con l'esercito tedesco è una colpa di falsa coscienza. Chi, come soldato,
fu irreprensibile poté soccombere alla falsificazione della propria coscienza. Per
questo si poteva compiere e tollerare, in nome del sentimento di nazionalità, que
l che era evidentemente malvagio. Per questo la buona coscienza si è potuta trovar
e unita con la cattiva condotta.
Ma il dovere verso la patria è più profondo di una ubbidienza cieca di fronte a un r
egime al potere. La patria non è più la patria se la sua anima è stata distrutta. La p
otenza di uno stato non è un fine per se stesso, ma può diventare anche perniciosa q
uando un tale stato annulla l'essenza tedesca. Perciò il dovere verso la patria no
n doveva affatto portare senz'altro alla ubbidienza di fronte a Hitler e al luog
o comune che anche come stato hitleriano la Germania doveva vincere la guerra a
ogni costo. Appunto in questo consiste la falsa coscienza. Non si tratta di una
colpa pura e semplice, ma, nello stesso tempo, del tragico perturbamento che si è
venuto a determinare specialmente in una gran parte della gioventù ignara. Il dove
re verso la patria importa che tutto l'uomo venga messo a rischio per le più alte
esigenze che ci vengono dai nostri antenati migliori e non dagli idoli di una fa
lsa tradizione.
Con questo si spiega un fatto che veramente ci sorprendeva: come mai, nonostante
tutte le sue malvagità, venne compiuta un'autoidentificazione con l'esercito e co
n lo stato. Infatti l'incondizionatezza di una cieca concezione della nazionalità
- concepibile come l'ultimo terreno marcio in un mondo che sempre più viene perden
do ogni fede - comportava, nonostante la buona coscienza, anche una colpa dal pu
nto di vista morale.
Una colpa di tale genere veniva resa possibile anche in forza di una frase bibli
ca fraintesa: sii sottomesso all'autorità che esercita la sua forza su di te; ma e
ssa venne del tutto travisata, e venne ridotta all'idea del comando, inteso come
sacro in base alla nostra tradizione militare. «Si tratta di un ordine» - questo su
onava e ancora suona per molti in tono così patetico -, come se esprimesse il più al
to dei doveri. Ma questa parola serviva anche a scaricare la coscienza, dato che
con un'alzata di spalle si faceva passare come inevitabile tutto quanto c'era d
i stupido e di malvagio. Una condotta di tal genere, pienamente colpevole dal pu
nto di vista morale, si trasformò in una tendenza a ubbidire ciecamente, tendenza
del tutto impulsiva, per cui ciascuno si sentiva in pace con la propria coscienz
a, mentre di fatto aveva abolito ogni coscienza.
Più di uno, nella nausea che provava di fronte al nazismo negli anni successivi al
1933, si è dato alla carriera di ufficiale dell'esercito, poiché sembrava che quell
o fosse l'unico ambiente ancora decoroso, immune da ogni influenza del partito,
anzi con uno stato d'animo contrario al partito, e sembrava che si reggesse da sé
per forza propria, senza di esso. Anche questo era un errore di coscienza, come
si ebbe a constatare quando l'ufficiale tedesco - a eccezione dei generali ligi
all'antica tradizione, i quali si meritano un posto a parte - si lasciò andare, in
tutti i posti di comando, a rinunciare a ogni dignità morale, nonostante le numer
ose nobili, amabili figure, le quali inutilmente avevano cercato di salvarsi, se
guendo una coscienza ingannevole, col far parte dell'esercito.
Appunto quando uno si è fatto guidare in principio da una coscienza onesta e da un
a buona volontà, la delusione e l'autodisillusione devono essere tanto più forti. Es
se conducono a esaminare anche la più perfetta buona fede, domandando: in che modo
io sono responsabile per la mia illusione, per ogni illusione in cui vengo a ca
dere?
Destarsi e rendersi conto di questa illusione è cosa di cui non si può fare a meno.
Per questa via da giovani idealisti vengono fuori dei tedeschi che sono uomini s
inceri, moralmente affidabili, di chiare vedute politiche, i quali, con rassegna
zione, accettano il destino che ora ci sovrasta.
c) La parziale approvazione del nazismo, le "mezze misure", l'occasionale "adatt
amento interiore" e l'accomodamento sono colpe morali senza quel tratto di tragi
cità che si riscontra nelle forme di colpa delle quali ci siamo occupati in preced
enza.
Presso di noi era diventata cosa abituale una certa maniera di ragionare. Si dic
eva che c'era pur sempre qualche cosa di buono nel nazismo. E molti erano ben di
sposti a fare questo riconoscimento che ritenevano giusto. Solamente un radicale
"aut aut" poteva essere vero. Se riconosco il principio malvagio, allora tutto è
cattivo, e anche le conseguenze apparentemente buone non sono quello che sembran
o essere. Dato che questo senso errato di obiettività portava a riconoscere quel c
he si pretendeva che ci fosse di buono nel nazismo, avvenne che anche coloro i q
uali fino ad allora erano stati amici stretti divennero estranei gli uni agli al
tri, e con loro non si poteva più discorrere apertamente. Quelle medesime persone,
le quali poco prima deploravano che non c'era stato nessun martire che si fosse
levato a protestare e a sacrificarsi per l'antica libertà contro l'ingiustizia, p
otevano lodare come un gran merito del regime l'aver abolito la disoccupazione (
mediante l'armamento e un'economia finanziaria fraudolenta). Allo stesso modo po
tevano salutare l'annessione dell'Austria nel 1938 come il raggiungimento dell'a
ntico ideale dell'unificazione dell'impero; nel 1940 potevano mettere in dubbio
la neutralità dell'Olanda e giustificare l'aggressione di Hitler. Quello che più con
ta è che tutti si rallegravano delle vittorie.
d) Parecchi si abbandonavano comodamente all'"autoillusione": assicuravano che a
vrebbero senz'altro cambiato questo regime sciagurato, che il partito sarebbe sp
arito, al più tardi, con la morte del "Führer". Per il momento bisognava dare una ma
no a indirizzare dall'interno la cosa al bene. Ecco alcune maniere tipiche di di
scorrere.
Tra gli ufficiali: «Noi ci libereremo del nazismo, dopo la guerra, appunto in base
alla nostra vittoria. Ora quel che più importa è di mantenerci uniti e compatti, di
condurre la Germania alla vittoria. Quando la casa brucia, prima si spegne l'in
cendio e non si va a indagare chi l'abbia provocato». - La risposta è questa: dopo l
a vittoria verrete congedati, e tornerete alle vostre case; ma le S.S. continuer
anno a tenere le armi e il regime terroristico del nazismo si accentuerà fino a di
ventare uno stato di schiavi. A nessuno sarà più concesso di poter vivere a modo suo
. Verranno erette delle piramidi, e strade e città saranno costruite e trasformate
secondo il capriccio e l'umore del "Führer". Una macchina mostruosa di armamenti
sarà sviluppata per la conquista definitiva del mondo.
Fra professori: «Noi nel partito rappresentiamo la fronda. Noi osiamo discutere se
nza alcuna riserva. Raggiungeremo risultati spirituali. A lungo andare finiremo
col riportare tutto all'antica tradizione dello spirito tedesco». - La risposta è qu
esta: voi vi illudete. A voi viene lasciata quella libertà che si suole lasciare a
i matti, a condizione che non veniate mai meno all'ubbidienza cieca. Voi tacete
e vi rassegnate. La lotta che voi credete di condurre è una vana parvenza gradita
al regime. Voi non fate altro che contribuire a seppellire per sempre lo spirito
tedesco.
Molti intellettuali nel 1933 cooperarono col regime, ambirono a conquistare post
i preminenti e apertamente presero posizione a favore della nuova potenza anche
da un punto di vista ideologico; poi più tardi vennero costretti a ritirarsi in di
sparte e di questo si risentirono, ma per lo più continuarono a mantenere un atteg
giamento positivo fino a che, dopo il 1942, si fece evidente il risultato sfavor
evole della guerra, che li fece passare all'opposizione più netta. Questi sentono
di aver sofferto sotto il nazismo e di essere pertanto chiamati per quel che dev
e ora subentrare. Essi si considerano come antinazisti. Ci fu, durante tutti que
gli anni, un'ideologia di questi nazisti intellettuali. A sentir loro, essi, nel
le cose dello spirito, manifestavano la verità senza alcun preconcetto - continuav
ano la tradizione dello spirito tedesco - mettevano in guardia contro devastazio
ni -, in ogni cosa erano lì a promuovere nuove iniziative.
Tra questi se ne trovano forse parecchi che sono colpevoli per la costanza della
loro maniera di pensare, che, sebbene non corrispondesse interamente alle dottr
ine del partito, manteneva nei fatti l'atteggiamento interiore del nazismo sotto
la falsa apparenza del cambiamento e dell'opposizione, senza giungere a vederci
chiaro in tutto questo. Con questa maniera di pensare essi sono forse originari
amente affini a tutto quello che nel nazismo c'è stato di inumano, di dittatoriale
, e che ha nichilisticamente rinnegato ogni forma di esistenza. Chi, come uomo m
aturo nell'anno 1933, mostrava un'intima persuasione, che non era solo radicata
in un errore politico, ma veniva accentuata fino a diventare un senso profondo d
i vita mediante il nazismo, non si può purificare se non mediante una radicale tra
sformazione, che forse deve arrivare più in fondo che tutte le altre. Chi si è compo
rtato così nel 1933, senza questa radicale trasformazione resterebbe interiormente
fragile ed esposto a ulteriori fanatismi. Chi prese parte al razzismo, chi ebbe
l'illusione di una struttura in realtà fondata sulla menzogna, chi accettò i delitt
i che già fin da allora si commettevano, non solo è responsabile, ma deve rinnovarsi
dal punto di vista morale. Se egli lo può e in che modo lo fa, è cosa che riguarda
lui solo e che a malapena si può valutare dall'esterno.
e) C'è differenza tra quelli che si sono comportati "attivamente" e quelli che si
sono comportati "passivamente". Quelli che hanno agito ed eseguito dal punto di
vista politico, quelli che hanno dato le direttive e quelli che hanno fatto prop
aganda sono tutti colpevoli. Anche se non commisero dei delitti veri e propri, e
ssi, con la loro attività, hanno una colpa determinabile in senso positivo.
Però in mezzo a noi ognuno ha colpa nella misura in cui è rimasto inattivo. La colpa
della passività è di altro genere. La condizione di impotenza discolpa. Morire per
raggiungere un certo effetto è cosa che non si può pretendere dal punto di vista mor
ale. Già per Platone era cosa ovvia che in tempi nefasti di grande disperazione un
o si nascondesse e cercasse di sopravvivere. Ma la passività deve riconoscere la s
ua colpa morale per tutte le volte in cui ha mancato nel trascurare di fare tutt
o quel che si poteva fare per aiutare coloro che venivano minacciati, per attenu
are l'ingiustizia, per opporsi. Anche per chi doveva rassegnarsi nella sua impot
enza, rimaneva sempre lo spazio per qualche efficace attività, prendendo ogni caut
ela e correndo qualche rischio. Nel fatto che per paura si è trascurato di farlo,
ciascuno riconoscerà la propria colpa morale: l'essere rimasti ciechi di fronte al
la sventura degli altri, questa specie di mancanza di immaginazione da parte del
cuore e il non sentirsi interiormente colpiti da quelle sofferenze che si aveva
no innanzi agli occhi.
f) La colpa morale di "aver simpatizzato" per quanto riguarda gli atteggiamenti
esteriori è comune a molti di noi, in una misura o nell'altra. Per affermare la pr
opria esistenza, per non perdere il proprio posto, per non annullare le proprie
"chances", si diventò membri del partito e si diedero con la propria condotta altr
e prove formali di appartenervi.
Nessuno potrà trovare per questo una giustificazione senza residui, specialmente d
i fronte a tanti tedeschi che non si sono piegati a un adattamento di questo gen
ere, subendone gli svantaggi.
E' necessario che ci facciamo presente nella mente qual era la situazione nel 19
36 o nel 1937. Il partito era lo stato. Quelle condizioni pareva che dovessero p
ersistere per un tempo imprevedibile. Solamente una guerra poteva abbattere il r
egime. Tutte le potenze venivano a patti con Hitler. Tutte volevano la pace. Il
tedesco che non voleva rimanere interamente da parte, o perdere il suo lavoro, o
rovinare i suoi affari, era costretto a adattarsi, specialmente se era giovane.
Ormai l'appartenenza al partito o a organizzazioni professionali non era più un a
tto politico, ma era piuttosto un atto di grazia da parte dello Stato che ammett
eva la persona interessata. Un «distintivo» era una necessità, nelle condizioni esteri
ori, senza una vera adesione interiore. Chi allora veniva invitato a iscriversi,
difficilmente poteva dire di no. Per la maniera di intendere questa partecipazi
one, quel che decide è in quali circostanze e per quali motivi ciascuno diventò memb
ro del partito. Ciascun anno e ciascuna situazione hanno le loro particolari giu
stificazioni attenuanti, le quali possono essere distinte solamente secondo i va
ri casi individuali.
4. LA COLPA METAFISICA.
La morale è sempre anche determinata da fini interiori. Dal punto di vista morale
posso essere obbligato a mettere a rischio la mia vita, quando si tratta di port
are a effetto uno di questi fini. Ma moralmente non sussiste alcuna pretesa di s
acrificare la propria vita, quando è certo che non se ne ottiene nulla. Dal punto
di vista morale noi sentiamo l'esigenza del rischio, non quella di scegliere una
rovina sicura. Nell'uno e nell'altro caso si richiede piuttosto il contrario: c
he non si faccia quello che nelle cose del mondo non conduce ad alcun risultato,
e che invece ci si preservi in vista di scopi che potranno essere raggiunti. Pe
rò c'è in noi una consapevolezza di colpa che ha altra fonte. La colpa metafisica co
nsiste nel venir meno a quell'assoluta solidarietà con l'uomo in quanto uomo. E' u
na pretesa incancellabile, anche quando le esigenze ragionevoli della morale son
o già cessate. Questa solidarietà viene lesa quando io mi trovo a essere presente là d
ove si commettono ingiustizie e delitti. Non basta che io metta a rischio con og
ni cautela la mia vita per impedirli. Una volta che quel male ha avuto luogo e i
o mi sono trovato presente e sopravvivo, dove un altro viene ucciso, in me parla
una voce che mi dice che la mia colpa è il fatto di essere ancora vivo.
Quando, nel novembre 1938, ardevano le sinagoghe e per la prima volta gli ebrei
venivano deportati, riguardo a questi delitti si trattò soprattutto di una colpa m
orale e politica. Queste due specie di colpa vennero a pesare su coloro che anco
ra avevano il potere. I generali non intervennero. In ogni città i capi dell'eserc
ito potevano intervenire, quando si consumavano i delitti. Infatti i militari so
no lì per la difesa di tutti quando i delitti si commettono in misura tale che la
polizia non li può impedire o fallisce nel suo compito. Quei generali non fecero n
iente. Essi in quel momento sacrificarono la tradizione dell'esercito tedesco ch
e, dal punto di vista morale, era stata un tempo gloriosa. Era una cosa che non
li riguardava. Essi si erano distaccati dall'anima del popolo tedesco, a favore
di una macchina militare assolutamente autonoma, consistente nell'ubbidire agli
ordini.
Fra la nostra popolazione molti erano indignati, molti furono presi da un terror
e in cui c'era già il presentimento della futura sventura. Ma furono in numero anc
he maggiore coloro che, senza scomporsi, continuarono nelle loro varie attività, n
ei loro svaghi e divertimenti, proprio come se niente fosse accaduto. Questa è col
pa morale.
Coloro invece che, nella loro condizione di disperata impotenza, non poterono im
pedire quella situazione, fecero un passo avanti nella loro conversione attraver
so la consapevolezza della colpa metafisica.
5. RICAPITOLAZIONE.
a) Le conseguenze della colpa.
Se le nostre considerazioni non sono state del tutto infondate, non ci può essere
alcun dubbio in ordine al fatto che tutti noi tedeschi siamo colpevoli, e che og
ni tedesco in un modo o in un altro ha la sua colpa:
1) Ogni tedesco, senza alcuna eccezione, ha la sua parte nella responsabilità poli
tica. Egli non può sottrarsi alle riparazioni che devono aver luogo nelle forme de
l diritto, deve necessariamente soffrire insieme con gli altri per le conseguenz
e di quello che decidono e fanno i vincitori, e anche dei contrasti che si posso
no verificare tra di loro. Noi non siamo in condizioni di poter esercitare un'in
fluenza come un fattore di forza.
Solamente col nostro sforzo costante a esporre in modo ragionevole i fatti, le v
arie possibilità e i pericoli, possiamo contribuire a fissare i presupposti per le
decisioni che dovranno essere prese nei nostri riguardi. Ai vincitori ci possia
mo rivolgere in forme adeguate, adducendo ragioni.
2) Non ogni tedesco, ma solamente una piccola minoranza di tedeschi deve essere
punita per i delitti commessi. Un'altra piccola minoranza deve espiare per attiv
ità naziste. Ciascuno può difendersi dinanzi ai tribunali dei vincitori o alle autor
ità tedesche che possano essere costituite dai vincitori e chiamate a giudicare.
3) E' fuori dubbio che in tutto questo ciascun tedesco, sebbene in condizioni di
fferenti, trova l'occasione per fare l'esame della propria coscienza dal punto d
i vista morale. Qui non c'è bisogno di riconoscere alcuna autorità costituita al di
fuori della propria coscienza.
4) E certo ogni tedesco che comprende, nelle esperienze metafisiche di tali scia
gure, trasforma la propria coscienza dell'essere e di se stesso. Come ciò accada è c
osa che nessuno può prescrivere o fissare in anticipo. E' cosa che riguarda ciascu
n individuo nella sua solitudine. Quel che ne può emergere deve costituire la base
essenziale di quello che dovrà essere nell'avvenire l'anima tedesca.
Queste distinzioni si prestano a essere utilizzate in modo sofistico per liberar
si in tutto e per tutto dal problema della colpa, in questo modo:
Per la responsabilità politica. - Va bene, ma essa limita solamente le mie risorse
materiali, mentre io stesso, nella mia interiorità, non ne sono colpito.
Per la colpa criminale. - Essa riguarda solamente pochi, ma non me; non mi conce
rne affatto.
Per la colpa morale. - Io sento dire che solo la propria coscienza è l'istanza pre
posta a questo riguardo, e che gli altri non possono farmi alcun rimprovero. La
mia coscienza mi riserverà senz'altro un trattamento amichevole. Non è poi tanto mal
e. Basta tirarvi su un frego, e si incomincia una nuova vita.
Per la colpa metafisica. - Ma, come già è stato detto, nessuno può attribuirla a un al
tro. E' una cosa di cui mi devo rendere conto trasformando me stesso. Si tratta
di qualche pensiero malinconico di un filosofo. Una cosa del genere non esiste.
E se anche esiste, io non ne so niente. Bisogna che lasci le cose come sono.
La nostra scomposizione dei concetti di colpa può diventare un trucco, con cui ci
si libera da ogni colpa. Le distinzioni stanno in primo piano e possono nasconde
re l'origine e l'unità della colpa.
b) La colpa collettiva.
Dopo aver distinto i vari momenti della colpa, finalmente torniamo alla question
e della colpa collettiva.
La distinzione è certamente giusta e sensata in tutto e per tutto; però apre la via
a quella seduzione che abbiamo descritto, come se in forza di siffatte distinzio
ni uno potesse sottrarsi a ogni accusa e liberarsi da ogni peso. Con questo è anda
to perduto tutto quello che, nonostante tutto, non può essere trascurato nei rigua
rdi della colpa collettiva. Il nostro modo grossolano di pensare e condannare in
base a concetti collettivi non impedisce il nostro sentimento di appartenenza r
eciproca.
In fin dei conti la vera collettività è costituita dalla coappartenenza di tutti gli
uomini di fronte a Dio. Ciascuno può, in un modo o in un altro, liberarsi dai vin
coli che lo legano allo stato, al popolo e ad altre organizzazioni, per aprirsi
un passaggio verso l'invisibile solidarietà di tutti gli uomini, come uomini di bu
ona volontà e come uomini che hanno la colpa comune della loro natura umana.
Ma, dal punto di vista storico, noi restiamo legati alle comunità più strette e più pr
ossime, senza le quali ci verrebbe a mancare il terreno sotto i piedi.
"La responsabilità politica e la colpa collettiva".
Per prima cosa rendiamoci conto ancora una volta dello stato dei fatti: i giudiz
i che gli uomini danno e i sentimenti che essi provano in tutto il mondo vengono
in larga misura regolati da rappresentazioni collettive. Il tedesco, chiunque e
gli sia, oggi nel mondo viene considerato come qualcuno con cui nessuno vorrebbe
avere a che fare. Gli ebrei tedeschi che si trovano all'estero, come tedeschi,
sono indesiderati e sostanzialmente ritenuti come tedeschi e non come ebrei. In
conseguenza di questa maniera collettivistica di pensare, la responsabilità politi
ca viene nello stesso tempo fondata, come punizione, sulla colpa morale. Questa
maniera di pensare per categorie collettive si è verificata spesso nel corso della
storia. La barbarie della guerra ha preso le popolazioni come un tutto, e le ha
votate al saccheggio, alle violenze e alla vendita in condizioni di schiavi. E
oltre a ciò a quei disgraziati toccò anche l'annientamento morale nel giudizio espre
sso dal vincitore. Il vinto non solo è obbligato a sottomettersi, ma anche a confe
ssare ed espiare la sua colpa. Chi è tedesco, cristiano o ebreo che possa essere, è
uno spirito malvagio.
Di fronte a questo stato di cose, di fronte a questa opinione così largamente diff
usa nel mondo anche se non universale, noi siamo sempre di nuovo esortati non so
lo a difenderci, servendoci della semplice distinzione tra la responsabilità polit
ica e la colpa morale, ma anche a esaminare quanto ci possa essere di vero nel p
ensare sulla base di idee collettive. Non si tratta di rinunciare a una tale dis
tinzione, ma di circoscriverla, affermando che la nostra condotta che determinò la
nostra responsabilità è fondata su circostanze politiche complessive, le quali, dat
o che esse contribuiscono a determinare la morale delle singole persone, hanno a
nche un carattere morale. Da queste circostanze le persone singole non si posson
o separare in tutto e per tutto, dato che esse, consapevolmente o meno, vivono i
n esse come membri che non si possono sottrarre a ogni influenza, anche quando s
iano state all'opposizione.
Così c'è anche qualche cosa come una colpa collettiva, dal punto di vista morale, ne
lla maniera di vivere di una popolazione, maniera di vivere alla quale io come s
ingolo prendo parte e dalla quale derivano le realtà politiche.
Infatti la situazione politica e la maniera generale di vivere degli uomini non
devono essere separate. Non si può fare una distinzione assoluta tra la politica e
la natura umana finché un uomo non va a perdersi come un eremita completamente ap
partato.
Lo svizzero, l'olandese si sono venuti a formare attraverso le situazioni politi
che nelle quali si sono venuti a trovare; e anche tutti noi che siamo in Germani
a siamo stati educati per secoli all'ubbidienza, al sentimento dinastico, all'in
differenza e all'irresponsabilità nei confronti della realtà politica - e di tutto q
uesto rimane sempre qualche cosa in noi, anche quando ci opponiamo a questi atte
ggiamenti.
Che l'intera popolazione nell'ordine dei fatti subisca le conseguenze delle azio
ni dello stato - "quidquid delirant reges plectuntur Achivi" -, è questo un sempli
ce fatto empirico. Che poi la popolazione si sappia responsabile è il primo segno
che si ridesta la sua libertà politica. Solamente nella misura in cui questa forma
di consapevolezza sussiste e viene riconosciuta, si può dire che la libertà ci sia
veramente e non si tratti di una pretesa tutta esteriore da parte di uomini non
liberi.
L'interiore mancanza di libertà politica da una parte ubbidisce, dall'altra parte
non si sente colpevole. Il riconoscersi responsabili è l'inizio di una rivoluzione
interiore, la quale vuole realizzare la libertà politica.
Il contrasto tra il modo di sentire libero e quello non libero si può vedere, per
esempio, nella concezione del capo dello stato. E' stato detto: i popoli hanno c
olpa per i capi che piacciono loro? Per esempio, la Francia ha colpa per Napoleo
ne? Si può pensare che la stragrande maggioranza dei francesi si trovò d'accordo con
Napoleone, volle la potenza e la gloria raggiunte da Napoleone. Napoleone fu po
ssibile solamente perché i francesi lo vollero. La sua grandezza consiste nella si
curezza con cui egli concepì quello che la massa del popolo si aspettava, che cosa
voleva udire, che figura voleva fare, quali vantaggi materiali voleva effettiva
mente conseguire. Non ebbe ragione il Lenz a dire che «si era costituito uno stato
che rispondeva al genio della Francia»? Sì, nel senso che rispondeva a una parte de
lla Francia e a una sua determinata situazione; ma non nel senso che rispondeva
al genio di un popolo "tout court". Chi può mai determinare il genio di un popolo
in tal modo? Da quel medesimo genio sono derivate anche realtà del tutto diverse.
Si potrebbe forse pensare: come un uomo è responsabile della scelta della donna am
ata, con la quale egli si è venuto a legare col matrimonio e con la quale conduce
la sua vita in un comune destino, così anche un popolo è responsabile per l'uomo a c
ui presta ubbidienza. Se ha sbagliato, la colpa è sua. Tutte le conseguenze debbon
o essere subite inesorabilmente. Ma appunto questo sarebbe assurdo. Quel che nel
matrimonio è possibile e doveroso, nei riguardi dello stato è già per principio una r
ovina: cioè il legarsi incondizionatamente a un uomo. L'impegno di essere fedelmen
te al seguito di un uomo è un rapporto non politico quale sussiste in cerchie rist
rette e nei rapporti primitivi. In uno stato libero, oggi ci devono essere il co
ntrollo e l'avvicendamento di tutti gli uomini.
Da ciò scaturisce una doppia colpa: in primo luogo quella di essersi messi senz'al
tro incondizionatamente nelle mani di un duce, e in secondo luogo quella che der
iva da quel determinato tipo di duce a cui ci si sottomette. L'atmosfera di sott
omissione si può dire che in certo modo costituisce già una colpa collettiva.
"La propria consapevolezza di una colpa collettiva".
Per quello che fanno i nostri familiari noi sentiamo una certa complicità. E' una
corresponsabilità che non può essere espressa in maniera oggettiva. Infatti noi non
ammetteremmo di dichiarare qualcuno responsabile solo in base al vincolo di pare
ntela. Ma quando uno della nostra famiglia commette qualche cattiva azione, per
il fatto che siamo dello stesso sangue, siamo portati a sentirci in un certo sen
so anche noi colpevoli. Per questo siamo anche disposti a rimediare a quella cat
tiva azione a seconda delle condizioni e della maniera in cui essa ha avuto luog
o e a seconda di chi ne è stato vittima, pur non essendo moralmente e giuridicamen
te responsabili per essa.
Così il tedesco - chi cioè parla la lingua tedesca - si sente colpito anche lui da t
utto ciò che deriva dall'anima tedesca. Non si tratta più della responsabilità dei cit
tadini di uno stato. E' una certa condizione che consiste nel sentirsi colpiti e
coinvolti propria di chi, come uomo, fa parte della vita morale e spirituale te
desca insieme con gli altri della medesima lingua, della medesima origine e del
medesimo destino, condizione in base alla quale non si può parlare di una vera e p
ropria colpa, ma di qualche cosa di analogo alla complicità.
Inoltre noi non ci sentiamo soltanto partecipi di ciò che viene fatto attualmente,
nel senso che ci sentiamo complici solo dell'operato dei nostri contemporanei,
ma ci sentiamo anche partecipi di tutto quello che fa parte della nostra tradizi
one. Noi dobbiamo accettare la colpa dei padri. Tutti noi siamo complici del fat
to che, tra le premesse spirituali su cui poggiava la vita tedesca, era data la
possibilità di un tale regime. Ciò non significa in alcun modo che noi dovremmo rico
noscere l'origine dei misfatti nazionalsocialisti «nel mondo delle idee tedesche», n
el «pensiero tedesco del passato». Ma significa che nella nostra tradizione di popol
o si nasconde qualche cosa che, possentemente e minacciosamente, determina il no
stro pervertimento morale.
Noi ci riconosciamo come singoli individui, ma anche come tedeschi. Ciascuno di
noi, se veramente ha una sua personalità autentica, è il popolo tedesco. Chi non ha
vissuto nella sua vita il momento in cui, disperando e opponendosi al proprio po
polo, ha detto a se stesso: io sono la Germania; o in cui, in accordo esultante
con esso, ha esclamato: anche io sono la Germania! Ciò che è tedesco non ha altra fo
rma che quella delle persone singole. Per questo l'appello alla fusione degli an
imi, alla rinascita, alla repulsione di ogni sorta dì pervertimento, è il compito de
l popolo nella forma del compito di ogni persona singola.
Poiché non posso fare a meno di avere, nel profondo dell'anima, dei sentimenti col
lettivi, per me come per ognuno, l'essere tedesco non costituisce qualche cosa d
i stabile, ma rappresenta un compito. Qui non si tratta di dare al popolo un val
ore assoluto, ma di cosa ben differente. Io sono in primo luogo un uomo: in part
icolare sono un frisone, un professore, un tedesco; sono vicino ad altre collett
ività sino alla fusione degli animi, sono legato più o meno con tutti quei gruppi di
persone con le quali ho avuto contatto. Grazie a questa vicinanza posso anche i
n alcuni momenti sentirmi quasi un ebreo, o un olandese, o un irlandese. Ma con
tutto ciò il fatto di essere tedesco, vale a dire essenzialmente il fatto che io v
ivo nella mia lingua materna, è qualche cosa che persiste in me fino al punto che
mi sento responsabile anch'io per quello che i tedeschi fanno e hanno fatto, e c
iò in una maniera che razionalmente non solo non può più essere compresa, ma può anzi es
sere confutata.
Io mi sento più vicino a quei tedeschi che sentono allo stesso modo e mi sento più l
ontano da coloro che nella loro anima sembrano negare un siffatto legame. E ques
ta prossimità significa innanzi tutto un compito comune, che ci innalza. E' il com
pito di non essere tedeschi così come ormai ci troviamo a essere, ma di diventare
tedeschi come non siamo ancora ma abbiamo il dovere di essere, e come ci sentiam
o incoraggiati a diventare dalla voce dei nostri grandi avi, e non già dalla stori
a dei nostri idoli nazionali.
Una volta che sentiamo la colpa collettiva, sentiamo anche il compito complessiv
o di rinnovare fin dall'origine la nostra natura di uomini; questo rinnovamento è
il compito di tutti gli uomini sulla terra, ma diventa più urgente e pressante - c
ome se fosse decisivo per tutto l'essere - là dove un popolo si trova, per propria
colpa, di fronte al nulla.
Sembra che io, come filosofo, abbia perduto completamente di vista il concetto.
In effetti qui la lingua stessa viene meno, e solo per via di negazioni è possibil
e ricordare che le nostre distinzioni, indipendentemente dal fatto che noi le ri
teniamo vere e non vogliamo revocarle, non devono costituire per noi qualcosa di
definitivo dove ci sia possibile riposare e rimanere tranquilli. Noi non dobbia
mo liquidare con esse la questione e non dobbiamo liberarci da quel peso sotto i
l quale procediamo nel cammino della nostra vita e grazie al quale deve maturars
i ciò che c'è di più prezioso, l'eterna essenza della nostra anima.
SECONDO. LE POSSIBILITA' DELLA DISCOLPA.
Noi stessi, e tutti coloro che ci vogliono bene, abbiamo approntato dei progetti
per attenuare la nostra colpa. Ci sono dei punti di vista che, mentre suggerisc
ono un giudizio più mite, concorrono nello stesso tempo a caratterizzare e inquadr
are con maggior precisione la colpa nel modo in cui essa viene intesa volta per
volta.
1. IL TERRORISMO.
La Germania sotto il regime nazista era un ergastolo. La colpa di precipitare in
questo ergastolo è una colpa politica. Ma una volta che le porte dell'ergastolo s
ono state sbarrate, non è più possibile infrangerle dal di dentro. La responsabilità e
la colpa degli internati, sia che essa continui a sussistere, sia che insorga o
ra, non può essere messa in chiaro se non tenendo conto di quello che in generale
era possibile fare.
Chiamare gli internati dell'ergastolo a rispondere delle malefatte dei loro guar
diani è cosa evidentemente ingiusta.
Si diceva: che milioni e milioni di lavoratori e milioni di soldati avrebbero do
vuto opporre resistenza. Essi non lo hanno fatto, hanno lavorato per la guerra e
hanno combattuto; dunque sono colpevoli.
A ciò si può ribattere: i quindici milioni di lavoratori stranieri hanno anche loro
lavorato per la guerra come i lavoratori tedeschi. Non è stato dimostrato che da p
arte loro siano stati commessi atti di sabotaggio in maggior numero. I lavorator
i stranieri hanno dato segno di una loro maggiore attività soltanto nelle ultime s
ettimane, quando lo sfacelo era già in atto.
Non è possibile compiere delle azioni in grande stile senza organizzarsi sotto la
guida di capi. Pretendere dalla popolazione civile di uno stato di rivoltarsi an
che contro uno stato terroristico significa chiedere l'impossibile. Una rivolta
di tal genere può aver luogo solo sporadicamente senza alcun nesso di intesa e alc
una coesione, rimane in tutto e per tutto anonima, non è possibile conoscerne i ri
sultati: non è che un tacito sprofondamento nella morte. Ci sono solo poche eccezi
oni che diventarono note per speciali circostanze, e anche queste solo oralmente
e in una sfera limitata (come l'eroismo dei fratelli Scholl, studenti tedeschi,
e del professor Huber a Monaco).
E' strano che possano essere mosse delle accuse su questo punto. Franz Werfel, c
he subito dopo il collasso della Germania hitleriana scrisse un saggio saturo di
accuse spietate contro tutto il popolo tedesco disse che il solo Niemöller oppose
resistenza. E poi parla nello stesso saggio delle centinaia di migliaia di esse
ri umani assassinati nei campi di concentramento. Perché? Certo perché essi avevano
fatto resistenza, anche se per la maggior parte solo a parole. Sono martiri anon
imi che, scomparendo senza alcun risultato, stanno a dimostrare ancora una volta
che era una cosa impossibile. Fino al 1939 i campi di concentramento erano solo
una faccenda interna dei tedeschi, e anche in seguito furono riempiti, per una
buona parte, di tedeschi. Gli arresti operati nel 1944 per motivi politici super
arono ogni mese il numero di quattromila. Il fatto che ci sono stati campi di co
ncentramento sino alla fine sta a dimostrare che c'è stata un'opposizione nel terr
itorio stesso della Germania.
Qualche volta abbiamo l'impressione di trovare nelle accuse che ci vengono rivol
te il tono di un certo fariseismo. Sono tutti quelli che riuscirono a scampare,
non senza pericoli, ma che alla fine - paragonati a chi ha sofferto ed è perito ne
l campo di concentramento o a chi è vissuto in Germania in continuo timore - ebber
o modo di vivere, senza l'incubo del terrore, all'estero, anche se con le soffer
enze proprie del fuoriuscito, e ora ritengono che la loro emigrazione costituisc
a un merito. Di fronte a un tono di tal genere ci consideriamo nel diritto di ri
gettare l'accusa senza rancore.
Ci sono effettivamente voci di uomini giusti, i quali si rendono conto appunto d
ell'apparato terroristico e dei suoi effetti. Così Dwight MacDonald nella rivista
"Politics" del marzo 1945: «Il culmine del terrore e della colpa imposta con la fo
rza si raggiunge con l'alternativa: o uccidere o essere uccisi». Molti dei comanda
nti che erano chiamati a fucilare e ad assassinare si rifiutarono di prendere pa
rte a quelle atrocità e furono essi stessi fucilati.
Così Hannah Arendt: «Il terrore determinò il fenomeno sorprendente che il popolo tedes
co divenne partecipe dei crimini dei capi. Da subordinati diventarono complici.
Senza dubbio ciò non è avvenuto in grandi proporzioni. Ma quel che fa meraviglia è che
si tratta talvolta di uomini dei quali mai si sarebbe potuto pensare che fosser
o capaci di tali cose. Sono padri di famiglia, cittadini diligenti, usi a compie
re in ogni professione il loro dovere, che, con lo stesso senso del dovere, hann
o ucciso e hanno commesso, in base a ordini ricevuti, le altre scelleratezze nei
campi di concentramento» (1).
2. LA COLPA E IL CONTESTO STORICO.
Noi facciamo una differenza tra causa e colpa. Esporre il perché una cosa sia acca
duta in tale maniera e come mai essa dovesse necessariamente accadere così, vale i
nvolontariamente come scusa. La causa è cieca e necessaria, la colpa ci vede ed è li
bera.
La stessa maniera di procedere viene di solito adottata nei riguardi degli avven
imenti politici. Il contesto storico delle cause sembra togliere al popolo il pe
so della responsabilità. Per questo si spiega la soddisfazione che si prova quando
, nella disgrazia, si vede che l'accaduto era inevitabile per le cause che hanno
agito.
Molti uomini sono portati ad accettare e mettere in rilievo le proprie responsab
ilità, quando si tratta di azioni presenti, che si vorrebbero attribuire al libero
arbitrio e proclamare indipendenti da limiti, condizioni ed esigenze che vengon
o imposti. Essi, d'altra parte, quando le cose vanno male, sono portati a negare
ogni responsabilità, attribuendo la colpa di tutto a delle presunte necessità inevi
tabili. Si è parlato soltanto, senza sperimentarla, di cosa sia la responsabilità.
Conformemente a ciò si sentiva dire in tutti questi anni: se la Germania vince la
guerra, allora l'ha vinta il partito, e il partito ne ha il merito; se la German
ia perde la guerra, allora la perde il popolo tedesco, e il popolo tedesco ne ha
la colpa.
Ora però, quando si tratta dei nessi causali della storia, non si può dire fino a qu
al punto valga la netta separazione fra causa e responsabilità, dato che qui l'azi
one umana diventa essa stessa un fattore. Nella misura in cui delle deliberazion
i concorrono a determinare quello che accade, tutto ciò che chiamiamo causa è nello
stesso tempo o una colpa o un merito.
Ma per l'uomo, quello che esorbita dalla volontà e dalla deliberazione, resta semp
re nello stesso tempo un compito. Il modo in cui influisce il dato naturale dipe
nde sempre nello stesso tempo anche da come l'uomo lo intende, come vi reagisce
e cosa ne ricava. Per questo, la conoscenza storica non può cogliere nel corso deg
li avvenimenti una necessità pura e semplice. Questa conoscenza, come non può fare m
ai delle previsioni sicure (cosa che è possibile, per esempio, nell'astronomia), c
osì non può nemmeno nelle sue considerazioni retrospettive riconoscere in seguito se
tutto il contesto dei fatti e le singole azioni siano stati inevitabili. In ent
rambi i casi, la conoscenza storica vede il campo delle possibilità, che, quando s
i riferisce al passato, risulta solo più ricco e concreto.
L'esame storico-sociologico e il quadro storico che viene elaborato sono d'altro
nde essi stessi un coefficiente di ciò che accade, e come tali sono questione di r
esponsabilità.
Fra le condizioni date che, come tali, risiedono fuori della libertà e quindi fuor
i della colpa e della responsabilità, bisogna considerare innanzi tutto le condizi
oni geografiche e la situazione storica mondiale.
1) Le condizioni geografiche.
La Germania ha confini aperti su tutti i lati. Se vuole mantenersi come stato de
ve essere in ogni momento militarmente forte. Quando ha attraversato tempi di de
bolezza, è diventata preda degli stati dell'Ovest, dell'Est, del Nord e infine anc
he del Sud (turchi). In forza della sua posizione geografica la Germania non ha
mai conosciuto la tranquillità di una vita non soggetta a minacce, come è avvenuto p
er l'Inghilterra e ancor più per l'America. L'Inghilterra, per il suo grandioso sv
iluppo della politica interna, si è potuta permettere decenni di debolezza militar
e e di impotenza politica nel campo internazionale.
Non per questo si è trovata soggetta a una conquista straniera. L'ultima invasione
è stata nel 1066. Un paese invece come la Germania, che non è tenuto insieme da net
ti confini, è stato sempre costretto a costituire degli stati militari, se voleva
continuare a sussistere come nazione. Questo è stato fatto per molto tempo dall'Au
stria e poi dalla Prussia.
La particolarità dello stato che volta per volta si è venuto a costituire in Germani
a e il suo carattere militare si vennero a imprimere anche sul resto della Germa
nia, come qualche cosa che fu sempre anche sentito come estraneo. In Germania si
dissimulò il fatto che o c'era, in fin dei conti, il predominio di un solo stato
su tutti gli altri, il quale stato ancorché tedesco restava sempre estraneo, o, pe
r l'impotenza derivante dalla mancanza d'unione, si era destinati a cadere in ba
lla dello straniero.
Per questo non c'è mai stato in Germania un centro che si sia fatto valere a lungo
, ma solamente centri provvisori. Il fatto che il centro di gravità della Germania
si è venuto sempre a spostare ebbe per conseguenza che ciascuno di essi poteva es
sere sentito e riconosciuto come proprio solo da una parte della Germania.
Allo stesso modo non c'è stato mai in effetti un centro spirituale, nel quale si i
ncontrassero tutti i tedeschi. Anche la nostra letteratura classica e la nostra
filosofia non erano affatto un bene del popolo tedesco, ma soltanto di una picco
la classe colta, che riuscì però a far sentire la propria influenza al di là dei confi
ni di tutti gli stati fin dove veniva parlato il tedesco. E anche in questo camp
o non tutti si sono trovati concordi nel riconoscere quel che c'era di grande.
Si potrebbe dire che la posizione geografica non solo ha dato luogo necessariame
nte al militarismo con tutte le sue conseguenze, come il generale spirito di sot
tomissione, il servilismo, la scarsa coscienza di libertà e lo scarso spirito demo
cratico, ma altresì ha ridotto ogni forma statale a un fenomeno necessariamente pr
ovvisorio. Soltanto quando sono prevalse delle circostanze favorevoli e ci sono
stati al potere degli uomini particolarmente illuminati e superiori, è stato possi
bile a uno stato mantenersi per un certo tempo. Un unico capo irresponsabile è sta
to capace di portare per sempre all'annientamento politico lo stato e la Germani
a.
Per quanto possa essere giusto il tratto fondamentale di tutte queste consideraz
ioni, per noi è altrettanto essenziale non ravvisare qui una specie di necessità ass
oluta. La forma particolare di militarismo che si determina, e l'emergere di cap
i assennati o meno, è cosa che non dipende per niente dalla posizione geografica.
Con una posizione geografica analoga i romani, grazie alla loro energia politica
, alla loro solidarietà e alla loro accortezza, hanno raggiungo tutt'altri risulta
ti. Essi infatti unificarono l'Italia e fondarono in ultimo un impero mondiale,
giungendo però anche loro a distruggere la libertà. Lo studio della storia di Roma r
epubblicana è del più alto interesse (perché dimostra come lo sviluppo militare e l'im
perialismo possano portare un popolo democratico alla perdita della libertà).
Si suole dire che, se anche le condizioni geografiche lasciano ancora un posto p
er la libertà, anche in tal caso è il carattere naturale del popolo quello che decid
e, e che sta al di fuori della colpa e della responsabilità. Ma questo ora è un mezz
o per effettuare false valutazioni, sia che queste abbiano la tendenza ad accent
uare le cose sia che l'abbiano ad attenuarle.
E' probabile che nel fondamento naturale della nostra struttura vitale ci possa
essere qualche cosa che faccia sentire qualche sua influenza fin nelle sfere più a
lte della spiritualità. Ma noi dobbiamo dire che di ciò non ne sappiamo niente. Ness
una scienza che si è occupata delle razze umane è riuscita a portare a un livello più
alto di vera conoscenza quello che noi, rispetto ai vari popoli, riusciamo a sta
bilire per intuizione, in base a una impressione immediata. Del resto questa ste
ssa intuizione può essere altrettanto evidente quanto illusoria; essa ci si impone
nel momento in cui nasce, ma ci può risultare, a lungo andare, poco sicura.
Il carattere di un popolo viene in effetti descritto sempre facendo appiglio ora
a questa ora a quella manifestazione storica. Ma le manifestazioni storiche son
o sempre già il risultato degli avvenimenti e di tutte quelle condizioni che vengo
no determinate dagli avvenimenti. Esse sono volta per volta un gruppo di manifes
tazioni, che si presenta solo come un tipo fra tanti altri. Se muta la situazion
e d'insieme, possono venire alla luce tutt'altre possibilità altrimenti nascoste d
el carattere di un popolo. Accanto ai talenti di un popolo può probabilmente esser
ci un carattere dato per natura, ma noi non lo conosciamo affatto.
Noi non dobbiamo scaricarci della nostra responsabilità rifacendoci a questo presu
nto carattere nazionale, ma, come uomini, dobbiamo avere la coscienza di essere
liberi e aperti a tutte le possibilità.
2) La situazione storica generale.
In che posto si trovi la Germania nel mondo, che cosa avvenga nel mondo, come gl
i altri si comportino nei confronti della Germania, sono tutte cose che per la G
ermania hanno un'importanza tanto maggiore quanto più essa, in forza della sua pos
izione geografica centrale e senza garanzia di confini, è esposta più degli altri pa
esi europei alle ripercussioni del resto del mondo. Quello che ebbe a dire Ranke
in ordine al primato della politica estera sulla politica interna valeva per la
Germania, ma non per la storia in generale.
Io non sto a descrivere i contesti politici dell'ultimo cinquantennio. Essi sono
certamente tutt'altro che indifferenti per quanto è potuto accadere in Germania.
Mi limito a gettare lo sguardo solo su un fenomeno mondiale di natura interiore
e spirituale. Forse si può dire: in Germania venne a esplodere quello che, sotto f
orma di crisi dello spirito, crisi della fede, si preparava in tutto il mondo oc
cidentale.
Ciò non attenua la colpa. Difatti l'esplosione è avvenuta in Germania, non altrove.
Ma ciò libera dall'isolamento assoluto, ed è istruttivo per gli altri. E' una cosa c
he riguarda tutti.
Non è possibile definire in maniera semplice questa situazione storica di crisi mo
ndiale. Il venir meno dell'efficacia della fede cristiana e biblica in generale;
la perdita di ogni fede e la tendenza a cercare un surrogato; la trasformazione
sociale qual è stata operata dalla tecnica e dalle forme del lavoro, trasformazio
ne che, per la natura stessa della cosa, conduce irresistibilmente verso ordinam
enti socialistici, dove chiunque faccia parte della massa della popolazione dovrà
acquisire i suoi diritti di uomo. Le condizioni di vita sono dappertutto più o men
o così da poter dire: bisogna che le cose cambino. In una tale situazione coloro c
he sono colpiti più degli altri sono tutti uomini consapevoli del proprio stato d'
insoddisfazione e tendono naturalmente alle soluzioni precipitose, violente, aff
rettate, illusorie. Nel corso di un processo che ha coinvolto il mondo intero, l
a Germania ha ballato questa sua corsa supplementare così vertiginosa da trascinar
la nell'abisso.
3. LA COLPA DEGLI ALTRI.
Chi non si è ancora reso conto della propria colpa per non aver scrutato a fondo s
e stesso, tenderà a muovere delle accuse contro gli accusatori.
Non di rado la tendenza a respingere la colpa è, in questo momento, un segno che n
oi tedeschi non ci siamo ancora intesi fra di noi. Ma nella catastrofe quel che
importa di più è che ciascuno venga in chiaro riguardo a se stesso. E la "base fonda
mentale della nostra nuova vita, che abbia origine nella nostra essenza, non può e
ssere raggiunta se non attraverso "un instancabile autoesame".
Ma ciò non significa che noi non dobbiamo anche vedere quelli che sono i fatti, qu
ando guardiamo agli altri stati ai quali la Germania deve in definitiva la sua l
iberazione dal giogo di Hitler, e alle cui decisioni è consegnata la nostra vita f
utura.
Noi dobbiamo e possiamo stabilire con chiarezza in che modo l'atteggiamento degl
i altri ha reso più difficile la nostra situazione, sia nei riguardi della nostra
vita interiore, sia nei riguardi della nostra vita esteriore. Infatti tutto quel
lo che gli altri hanno fatto e ancora faranno viene dal mondo nel quale dobbiamo
trovare la nostra via e dal quale dipendiamo in maniera assoluta. Dobbiamo evit
are le illusioni. Non dobbiamo cadere né in un cieco rifiuto né in una cieca aspetta
tiva.
Quando parliamo di una colpa degli altri, la parola può trarci in inganno. Quando
gli altri, con la loro condotta, hanno reso possibili gli avvenimenti che si son
o verificati, allora si tratta di una colpa politica. Discutere dunque di questa
colpa non deve farci dimenticare in nessun momento che essa si trova su di un p
iano differente da quello dei crimini di Hitler.
Due punti ci sembrano essenziali: le azioni politiche delle potenze vincitrici d
opo il 1918, e il loro atteggiamento di condiscendenza quando si è costituita la G
ermania di Hitler.
1. L'Inghilterra, la Francia, l'America furono le potenze vincitrici del 1918. I
l corso della storia del mondo era nelle loro mani e non in quelle dei vinti. Il
vincitore accetta quelle responsabilità che egli solamente ha, oppure se ne tira
fuori. E se lo fa, la sua colpa, dal punto di vista storico, è manifesta.
Non si può ammettere che il vincitore si ritiri semplicemente nel proprio ambito c
ircoscritto, e voglia essere lasciato in pace, limitandosi a osservare tranquill
amente quello che può accadere nel mondo. Se un avvenimento minaccia di avere dell
e conseguenze disastrose, egli possiede la forza per impedirlo. Per chi possiede
questa forza è una colpa politica il non servirsene. Se il vincitore si limita so
lo a fare delle accuse scritte, vuol dire che si è sottratto al suo impegno. Ora,
il non aver agito rappresenta un rimprovero contro le potenze vincitrici, che pe
rò naturalmente non ci libera da alcuna colpa.
Si può chiarire meglio ancora questo punto facendo riferimento al trattato di pace
di Versailles e alle sue conseguenze, al modo in cui si lasciò scivolare la Germa
nia in quella situazione da cui si produsse il nazionalsocialismo. Si può inoltre
richiamare l'attenzione sull'aggressione della Manciuria da parte dei giapponesi
, su questo primo atto di violenza che, per essere stato tollerato, una volta ri
uscito doveva fare scuola. Si può rammentare la campagna di Abissinia del 1935, qu
esto atto di forza da parte di Mussolini, che fu ugualmente tollerato. Si può inco
lpare la politica dell'Inghilterra, che, mediante alcune risoluzioni prese a Gin
evra nell'ambito della Società delle Nazioni, mise in scacco Mussolini, ma lasciò ch
e queste decisioni rimanessero carta scritta senza impegnarsi con energia e volo
ntà a distruggere veramente Mussolini in quella occasione. Né seppe essere, d'altro
canto, così radicale da guadagnarsi la sua alleanza in modo che insieme con lui, t
rasformando lentamente il suo regime, avrebbe potuto prendere posizione contro H
itler e assicurare la pace. Infatti Mussolini era allora pronto a rimanere solid
ale con le potenze occidentali contro la Germania, tanto che mobilitò le sue trupp
e nel 1934, e tenne un discorso, poi dimenticato, di minaccia contro Hitler, qua
ndo quest'ultimo voleva entrare con i suoi eserciti in Austria. Fu questa politi
ca dei mezzi termini che determinò poi l'alleanza Hitler-Mussolini.
Ma a tutto questo bisogna aggiungere: nessuno sa quali sarebbero state le conseg
uenze se fossero state prese delle decisioni diverse. E poi soprattutto bisogna
considerare che gli inglesi fanno una politica che ha anche una portata morale (
il che dalla mentalità nazista fu ritenuto perfino come una prova di debolezza del
l'Inghilterra). Gli inglesi quindi non possono prendere senz'altro una decisione
qualunque solo perché è politicamente efficace. Essi vogliono la pace. Essi voglion
o fare tutti i tentativi per mantenerla prima di decidersi ad azioni radicali. S
olo quando si accorgono che non c'è altra via d'uscita, essi sono pronti alla guer
ra.
2. Non esiste soltanto una solidarietà fra i cittadini, ma anche una solidarietà eur
opea e una solidarietà umana.
Allorquando furono sprangate le porte dell'ergastolo tedesco, a ragione o a tort
o noi abbiamo fondato le nostre speranze sulla solidarietà europea.
Allora non supponevamo ancora quali sarebbero state le ultime orribili conseguen
ze e i delitti. Ma vedevamo chiaramente che la libertà andava perduta in tutto e p
er tutto. Sapevamo che con la perdita della libertà avrebbe avuto mano libera l'ar
bitrio di coloro che si erano impadroniti del potere. Vedevamo tutto quello che
c'era d'ingiusto, vedevamo tutti quelli che venivano esclusi dalla vita politica
, anche se tutto ciò non era ancora nulla in confronto a quello che doveva accader
e negli anni successivi. Sapevamo dei campi di concentramento, ma non avevamo an
cora alcuna conoscenza delle atrocità che vi si commettevano.
Certo era la colpa di noi tutti in Germania, quella di essere venuti a cadere in
questa situazione politica, di aver perduto la nostra libertà e di essere stati c
ostretti a vivere sotto il dispotismo di uomini rozzi e senza cultura. Però poteva
mo ben dire a noi stessi, a nostro discarico, di essere stati vittima di una com
binazione di violazioni del diritto camuffate e di veri e propri atti di forza.
Così come, entro la sfera di uno stato, grazie appunto all'ordinamento statale, vi
ene fatta giustizia a chi viene colpito da qualche crimine, allo stesso modo noi
speravamo che entro un ordinamento europeo non sarebbero stati permessi simili
delitti di stato.
Non posso dimenticare una conversazione avuta a casa mia, nel maggio del 1933, c
on un amico che doveva più tardi emigrare e che oggi vive in America (2). Allora n
oi considerammo, con l'animo agitato, la possibilità di un pronto intervento da pa
rte delle potenze occidentali; egli disse: se ritardano ancora un anno Hitler ha
vinto e la Germania è perduta, forse è perduta anche l'Europa.
In un tale stato d'animo, colpiti alla radice stessa del nostro essere, per molt
i versi chiaroveggenti e ciechi per altri, vivemmo con sempre rinnovato terrore
gli avvenimenti che seguirono.
Ai primi dell'estate del 1933 il Vaticano concluse un concordato con Hitler. Pap
en condusse le trattative. Era il primo grande riconoscimento del regime hitleri
ano. Hitler guadagnò un enorme prestigio. Da principio sembrò impossibile. Ma era un
fatto. Noi rabbrividimmo.
Tutti gli stati riconobbero il regime di Hitler. Si sentivano voci d'ammirazione
.
Nel 1936 furono celebrate a Berlino le Olimpiadi. Tutto il mondo vi accorse in f
olla. Morsi da rancore, noi non potemmo guardare gli stranieri che si presentava
no in quell'occasione se non con dolore, al pensiero che ci piantavano in asso;
ma essi non lo sapevano, così come non lo sapevano molti tedeschi.
Nel 1936 Hitler occupò la Renania. La Francia lo tollerò.
Nel 1938 si poteva leggere sul "Times" una lettera aperta di Churchill a Hitler
in cui si potevano leggere frasi come questa: se l'Inghilterra dovesse venirsi a
trovare in una sciagura nazionale paragonabile a quella della Germania nel 1918
, allora pregherei Iddio di mandarci un uomo della vostra forza di volontà e della
vostra forza di spirito (io me ne ricordo personalmente, ma cito dal Röpke).
Nel 1935 l'Inghilterra stipulò con Hitler per il tramite di Ribbentrop il patto de
lle flotte. Ciò significava per noi che l'Inghilterra, pur di potersene stare in p
ace con Hitler, sacrificava il popolo tedesco. Per gli inglesi è indifferente quel
lo che avviene di noi. Essi non hanno ancora assunto la responsabilità dell'Europa
. Non solo assistono impassibili al sorgere del male qui da noi, ma vengono pers
ino a patti con esso. Lasciano che i tedeschi vengano sommersi in uno stato mili
tare terroristico. Veramente nei loro giornali sollevano dei rimproveri, ma in r
ealtà non muovono un dito. Noi in Germania siamo impotenti. Essi invece potrebbero
ancora, sì, oggi ancora forse senza eccessive perdite, ristabilire la libertà nel n
ostro paese. Non lo fanno. Ciò avrà delle conseguenze anche per loro, e costerà domani
sacrifici molto maggiori.
Nel 1939 la Russia concluse un patto con Hitler. Ciò dette, proprio all'ultimo mom
ento, la possibilità a Hitler di cominciare la guerra, e, quando la guerra fu comi
nciata, ecco che tutti gli stati neutrali, compresa l'America, si tirarono da pa
rte. Il mondo non si unì compatto per poter sventare con un unico sforzo comune qu
ell'opera del demonio.
Ecco in che modo la situazione generale degli anni dal 1933 al 1939 viene caratt
erizzata da Röpke nel suo libro sulla Germania, edito in Svizzera:
"L'attuale catastrofe mondiale è il prezzo enorme che il mondo intero deve pagare
per non aver voluto ascoltare tutti i segnali d'allarme che dal 1930 fino al 193
9 hanno richiamato l'attenzione, in toni sempre più stridenti, sull'inferno che st
ava per essere scatenato dalle forze sataniche del nazionalsocialismo, prima con
tro la Germania stessa e poi contro il resto del mondo. Gli orrori di questa gue
rra corrispondono esattamente a quegli altri che il
mondo permise che avessero luogo in Germania, mentre esso manteneva rapporti nor
mali coi nazisti e organizzava con loro delle feste e dei congressi internaziona
li.
Oggi nessuno dovrebbe aver più alcun dubbio sul fatto che i tedeschi sono stati in
fondo solo le prime vittime di quell'invasione barbarica che si riversò su di lor
o, che essi furono i primi a essere sopraffatti col terrore e con l'ipnosi di ma
ssa, e che tutto quanto più tardi ebbero a patire i paesi occupati è stato prima inf
litto ai tedeschi, compreso quel destino il più infame di essere cioè costretti, con
la forza e con l'inganno, a diventare strumento di ulteriore conquista e oppres
sione".
Se ci si rimprovera di non essere intervenuti - sotto il terrore - quando furono
commessi i delitti, e quando il regime si insediò al potere, si dice la verità. Ma
noi possiamo ben farci presente che gli altri, senza vivere sotto il terrore, la
sciarono parimenti che le cose accadessero senza intervenire, e anzi favorivano
senza volerlo ciò che, per il fatto che stava accadendo in un altro stato, non era
ritenuto cosa che li riguardasse.
Dobbiamo riconoscere che soltanto noi siamo colpevoli?
Bisogna rispondere di sì, sempre che si tratti di stabilire chi ha dato inizio all
a guerra - chi ha per primo, con metodi terroristici, organizzato e convogliato
tutte le energie verso il solo fine della guerra -, chi entro il proprio stato h
a tradito e sacrificato la propria essenza di popolo - chi, cosa ancora più grave,
ha commesso delle atrocità specifiche, superiori a ogni altra. Dwight MacDonald d
ice che molte atrocità di guerra hanno avuto luogo tanto dall'una che dall'altra p
arte; ma sostiene anche che alcune siano tipiche dei tedeschi, e cioè: un odio par
anoico senza senso politico, una crudeltà nei supplizi che, per essere stati esegu
iti con metodi razionali e con mezzi tecnici moderni, superano di gran lunga gli
strumenti di tortura medievali. Eppure non si trattava che di alcuni tedeschi,
di un piccolo gruppo (questi disponevano, poi, non si sa in che numero, di altri
ancora, di cui si potevano servire dietro comando). L'antisemitismo tedesco non
ha assunto mai la forza di un'attività popolare. Nei pogrom mancò il concorso della
popolazione, e non ebbero luogo delle azioni spontanee di crudeltà contro gli ebr
ei. La massa del popolo tacque e si tirò indietro quando, seppur debolmente, non d
ette addirittura segno della sua opposizione.
Dobbiamo riconoscere che soltanto noi siamo colpevoli?
No, quando si intendesse fare di noi tutti, nella nostra qualità di popolo con le
sue caratteristiche fisse e determinate, il popolo malvagio "tout court", il pop
olo di per se stesso colpevole. Ci sono dei fatti a cui possiamo ricorrere che c
ontraddicono questa opinione mondiale.
Tutti questi ragionamenti però possono anche essere pericolosi nei riguardi del no
stro atteggiamento interiore, a meno che noi non dimentichiamo ciò che qui deve es
sere ancora una volta ripetuto:
1. Qualunque colpa si possa dare agli altri e qualunque colpa gli altri possano
dare a se stessi, ciò non ha niente a che fare con la colpa dei delitti commessi d
alla Germania di Hitler. Per gli altri si trattò allora di una certa noncuranza do
vuta al loro atteggiamento ambiguo. Si trattò di un errore politico.
Il fatto che, come conseguenza della guerra, anche i nemici ebbero dei campi di
prigionia del tipo di quelli di concentramento, e il fatto che anche i nemici co
mpirono azioni di guerra che la Germania per prima aveva compiute, sono cose sec
ondarie. Qui non si parla degli avvenimenti che hanno avuto luogo dopo l'armisti
zio, né di ciò che la Germania ha patito, e che dopo la capitolazione continua a pat
ire.
2. Il discutere della colpa serve allo scopo di penetrare a fondo nel significat
o della nostra propria colpa anche quando noi parliamo di una colpa degli altri.
3. La frase: «Gli altri non sono migliori di noi» è senz'altro valida, ma viene falsam
ente applicata in questo momento. Bisogna riconoscere che ora, in questi dodici
anni passati, tutto considerato, gli altri sono stati effettivamente migliori di
noi. Quella che può essere una verità generale non deve più servire ad attutire la pr
esente verità particolare della nostra colpa.
4. COLPA DI TUTTI?
Quando, di fronte alle dissonanze che si rilevano nella condotta politica delle
potenze, si sente dire che si tratta ovunque di quelle necessità inevitabili propr
ie della politica, allora noi rispondiamo che è questa la colpa comune di tutti gl
i uomini.
Noi non facciamo presente le azioni degli altri perché intendiamo alleggerire la n
ostra colpa. Noi siamo piuttosto autorizzati a fare ciò, perché, nella nostra qualità
di uomini tra gli uomini, proviamo apprensione per l'umanità. Questa oggi non solo
si presenta come un tutto unico alle nostre coscienze, ma, in conseguenza dei r
isultati raggiunti dall'epoca della tecnica, influisce sul suo ordinamento o lo
ostacola.
Il fatto fondamentale che noi siamo tutti uomini ci autorizza ad avere questa ap
prensione per l'umanità nel suo insieme. Quale alleggerimento sarebbe per noi se i
vincitori non fossero uomini come noi, ma solo reggitori disinteressati del mon
do? Allora essi saprebbero prevedere con saggezza la felice ricostruzione del mo
ndo, facendo in modo che tutti i torti venissero efficacemente riparati. Allora
essi ci mostrerebbero, con l'azione e con l'esempio, l'ideale della vita democra
tica, e ce lo farebbero sentire quotidianamente come realtà persuasiva. Allora ess
i sarebbero d'accordo tra di loro, pronunciandosi ragionevolmente, apertamente e
senza secondi fini, e risolverebbero subito assennatamente tutti i problemi che
si presentassero. Allora non sarebbe possibile alcun inganno e alcuna ipocrisia
. Non ci sarebbe ragione di tacere nulla, e non avrebbe più luogo una differenza t
ra i discorsi pubblici e quelli privati. Allora verrebbe impartita al nostro pop
olo un'educazione eccellente, e il nostro pensiero si svilupperebbe nella manier
a più viva in tutti gli strati della popolazione, e noi potremmo appropriarci dell
a tradizione più ricca di contenuti. Allora noi verremmo trattati severamente, ma
anche giustamente e perfino benevolmente, sì, con amore, solo che si manifestasse
il più lieve spirito di conciliazione da parte di noi infelici che smarrimmo la gi
usta via.
Ma gli altri sono uomini come noi, e nelle loro mani risiede il futuro dell'uman
ità. Nella nostra qualità di uomini noi siamo legati, con la nostra intera esistenza
e le possibilità della nostra essenza, a quello che gli altri fanno e alle conseg
uenze della loro condotta. Così per noi è come se ci occupassimo di una cosa nostra,
quando cerchiamo di sapere che cosa essi vogliono, pensano e fanno.
Mossi da questa apprensione ci domandiamo: sono forse gli altri popoli più fortuna
ti solo perché la loro sorte politica si rivela più favorevole? Non fanno forse anch
e loro gli stessi errori che abbiamo fatto noi, ma con questa differenza, che fi
nora per loro non si sono avute queste fatali conseguenze che hanno trascinato n
oi nel precipizio?
Essi si rifiuterebbero di accettare dei consigli e degli ammonimenti proprio da
noi, gente misera e depravata. Essi forse non comprenderebbero come mai dei tede
schi abbiano delle apprensioni circa il corso della storia, che non dipende dai
tedeschi, ma soltanto da loro. Forse lo troverebbero presuntuoso. Ma il fatto è ch
e un terribile incubo ci sovrasta, quando ci figuriamo certe possibilità: se doves
se affermarsi anche in America una dittatura del tipo di quella di Hitler, allor
a sarebbe la fine, la fine per tempi incalcolabili e non ci sarebbe più alcuna spe
ranza. Noi in Germania potemmo essere liberati dall'esterno. Se la dittatura dov
esse prender piede anche lì diventerebbe impossibile una liberazione dall'interno.
Se la dittatura si impadronisce del mondo anglosassone come è accaduto da noi, no
n ci sarà più una forza esterna, non ci sarà alcuna liberazione. Quella libertà che nel
mondo occidentale gli uomini si sono conquistati attraverso una lotta durata dei
secoli e dei millenni, sarebbe finita. Farebbe di nuovo la sua comparsa il disp
otismo primitivo, arricchitosi però dei mezzi tecnici moderni. Naturalmente l'uomo
non può diventare schiavo in maniera definitiva. Ma questo sarebbe poi un confort
o a scadenza molto lunga. Ecco quel che dice Platone: nel corso dei tempi infini
ti diventerà o ridiventerà una volta realtà, quello che è una possibilità. Noi constatiamo
con terrore che gli altri si sentono moralmente superiori: chi si sente assolut
amente sicuro davanti al pericolo si trova già sulla via di caderne preda. La sort
e della Germania potrebbe essere un'esperienza per tutti. Possa questa esperienz
a essere compresa! Noi non siamo una razza peggiore delle altre. Gli uomini hann
o ovunque caratteristiche simili. Dappertutto ci sono delle minoranze violente e
criminali che, abili e vitali, si impossessano alla prima occasione del regime
e si comportano in maniera brutale.
Noi possiamo ben essere presi da preoccupazione di fronte al modo in cui i vinci
tori si dimostrano sicuri di sé. Infatti d'ora in poi sono loro ad avere le respon
sabilità ultime per il corso degli avvenimenti. Sta a loro vedere come prevenire l
e sventure o provocarne di nuove. Quello che potrebbe diventare una loro colpa,
rappresenterebbe la stessa sventura per noi come per loro. Ora che ci va di mezz
o la sorte di tutti gli uomini nel loro insieme, è necessario che essi rispondano
con maggiore impegno di ciò che fanno. Se la catena del male non viene spezzata, a
nche i vincitori si verranno a trovare in una situazione uguale alla nostra, e c
on loro però l'umanità intera. L'angustia del pensiero umano, specie quando si manif
esta sotto la forma di un'opinione mondiale destinata a travolgere ogni cosa com
e un'irrefrenabile ondata, rappresenta un pericolo immenso. Gli strumenti di cui
Dio si serve non sono Dio sulla terra. Ricambiare il male con il male, principa
lmente ai danni dei carcerati, non solo ai danni dei carcerieri, significherebbe
fare ancora del male e generare altre sventure.
Se noi ci mettiamo a indagare la nostra colpa risalendo fino alla sua fonte orig
inaria, veniamo a trovarci di fronte all'umanità che nella forma tedesca ha assunt
o un modo caratteristico e terribile di diventare colpevole, ma che è una possibil
ità dell'uomo in quanto uomo.
Spesso si sente dire, quando si parla della colpa tedesca, che è la colpa di tutti
- il male dappertutto latente nella natura umana ha contribuito anch'esso a det
erminare quel male che si è manifestato sul suolo tedesco.
Se noi tedeschi volessimo attenuare la nostra colpa appigliandoci alla colpa del
l'umanità, ciò sarebbe in effetti una falsa discolpa. Quando noi pensiamo a una colp
a generale dell'umanità non intendiamo attenuare, ma approfondire la nostra colpa.
Il problema del peccato originale non deve diventare una via per evitare di rend
ere conto della colpa tedesca. La consapevolezza del peccato originale non è ancor
a comprensione della colpa tedesca. Né deve la confessione religiosa del peccato o
riginale diventare l'abito di cui si rivesta la confessione di una falsa colpa c
ollettiva tedesca, in modo che l'una venga a sostituire l'altra in una confusion
e disonesta.
Noi non abbiamo alcun incentivo a incolpare gli altri. Ma da quella distanza pro
pria di chi ha delle apprensioni per esserci già caduto per primo e ora ritorna su
se stesso e si ravvede, noi pensiamo che gli altri non debbano percorrere tali
vie.
Ora ha avuto inizio un nuovo periodo della storia. Ormai la responsabilità di tutt
o ciò che accade tocca alle potenze vincitrici.
TERZO. LA NOSTRA PURIFICAZIONE.
Il fatto che un popolo illumini se stesso e si ravveda, muovendo dalla sua cosci
enza storica, è una cosa diversa dal fatto che la persona singola illumini se stes
sa. Eppure non si può giungere al primo senza passare per il secondo. Quel che com
piono i singoli nella comunicazione reciproca può, se è vero, diventare la coscienza
più ampia di molti, fino a valere come autocoscienza di un popolo.
Anche qui dobbiamo volgerci contro quella maniera di pensare per categorie colle
ttive. Ogni trasformazione reale avviene attraverso le persone singole, in molte
persone singole, indipendentemente l'una dall'altra o in un mobile scambio.
Noi tedeschi, per quanto ognuno lo faccia in maniera diversissima o addirittura
opposta a quella degli altri, riflettiamo tutti sulle nostre colpe e non colpe.
Lo facciamo tutti, nazisti e oppositori del nazismo. Dico «noi» intendendo quegli uo
mini con i quali io in un primo tempo mi riconosco solidale - per lingua, per or
igine, situazione e destino. Non voglio accusare nessuno quando dico «noi». Se altri
tedeschi si sentono senza colpa è una cosa che riguarda soltanto loro, fatta natu
ralmente eccezione per quei due punti che riguardano la punizione dei delitti ,
che concerne coloro che li hanno commessi, e la responsabilità politica per i misf
atti commessi dallo stato hitleriano, che riguarda tutti. Coloro che si sentono
senza colpa diventeranno oggetto d'attacco solo quando essi stessi, da parte lor
o, attaccheranno. Quando essi, continuando a ragionare alla stessa maniera dei n
azisti, vogliono contestarci la natura tedesca, e quando essi, invece di esamina
re le cose a fondo e di ascoltare le ragioni, vogliono piuttosto annientare gli
altri ciecamente con giudizi generici, allora non fanno che rompere la solidarie
tà e, rifiutandosi di scambiare i propri pensieri con gli altri, vogliono evitare
di sottoporre se stessi a un esame e di evolversi.
Non di rado possiamo riscontrare nella popolazione un modo di vedere naturale, n
on patetico, avveduto. Ecco alcuni esempi di espressioni semplici e schiette:
Uno scienziato ottantenne: «In questi dodici anni non ho mai titubato; eppure non
sono mai stato soddisfatto di me stesso; sempre daccapo ho rimuginato la maniera
come si potesse passare dalla resistenza passiva contro il nazismo all'azione v
era e propria. L'organizzazione di Hitler era troppo diabolica».
Un giovane antinazista: «In verità anche noi che siamo stati contrari al nazismo - d
opo che ci siamo piegati per anni interi, anche se digrignando i denti, al regim
e del terrore - abbiamo bisogno di una purificazione. Noi ci allontaniamo dalla
mentalità farisaica di coloro che credono di essere diventati uomini di prima clas
se per il solo fatto di non aver portato il distintivo del partito».
Un impiegato durante la denazificazione: «Se io mi sono lasciato spingere nel part
ito, se ho fatto sempre in modo che le cose mi andassero abbastanza bene, se mi
sono adattato nello stato nazista e ne ho ricavato dei vantaggi - anche se poi n
ell'anima mi sentivo ostile - e se ora per questo subisco degli svantaggi, non p
osso onestamente lamentarmi».
1. I TENTATIVI DI EVITARE LA PURIFICAZIONE.
a) Le scambievoli accuse di colpa.
Noi tedeschi siamo molto differenti gli uni dagli altri secondo il modo e la mis
ura in cui abbiamo preso parte al nazionalsocialismo o vi abbiamo opposto resist
enza. Ciascuno deve riflettere sulla propria condotta interiore ed esteriore, e
cercare, in questa crisi tedesca, la sua propria rinascita.
Anche il momento in cui ha avuto inizio questo rinnovamento interiore è molto diff
erente da una persona all'altra: il 1933, o il 1934 dopo gli assassini del 30 gi
ugno, o dal 1938 in poi, dopo che furono appiccati gli incendi alle sinagoghe, o
solo quando venne la guerra, o solo quando già si minacciava la sconfitta, o solo
al momento del collasso.
In tutto ciò noi tedeschi non possiamo riportarci a un unico denominatore comune.
Dobbiamo essere aperti gli uni verso gli altri, pur muovendo da punti di partenz
a essenzialmente diversi. L'unico denominatore comune è dato forse dal fatto che s
iamo tutti cittadini di un medesimo stato. Qui abbiamo tutti la responsabilità di
aver fatto arrivare le cose allo stato del 1933 senza morire. Questo è un fatto ch
e lega insieme anche coloro che emigrarono all'estero e coloro che emigrarono al
l'interno.
Si deve alle grandi differenze tra noi se, come sembra, quasi tutti rimproverano
tutti gli altri. Fino a quando la persona singola non cesserà di considerare escl
usivamente la situazione sua propria e quella di coloro che hanno una situazione
analoga, fino a quando non cesserà di giudicare la situazione degli altri soltant
o in relazione alla sua, questo stato di cose non potrà che protrarsi indefinitame
nte nel tempo. E' sorprendente come noi ci eccitiamo veramente soltanto quando c
i sentiamo colpiti personalmente e consideriamo ogni cosa dall'angolo visuale de
lla nostra situazione particolare. Se la perseveranza nello scambiare le nostre
idee con gli altri minaccia di abbandonarci e se veniamo a trovarci di fronte a
un atteggiamento di freddo e brusco rifiuto, anche noi allora possiamo perderci
d'animo.
Negli anni scorsi ci sono stati dei tedeschi, i quali esigevano che noialtri ted
eschi diventassimo dei martiri. Noi non dovevamo tollerare in silenzio tutto que
llo che accadeva. Anche se la nostra azione era destinata a fallire, sarebbe sta
ta tuttavia un appoggio morale per tutta la popolazione, un simbolo visibile del
le forze oppresse. Rimproveri di tal genere potei udire, a partire dal 1933, da
persone amiche, uomini e donne.
Tali esigenze scombussolavano veramente la coscienza, in quanto in esse si nasco
ndeva una profonda verità. Ma questa verità, nella maniera in cui veniva sostenuta,
finiva con l'essere travisata in modo offensivo. Infatti quello che l'uomo può pro
vare in se stesso al cospetto della trascendenza, veniva qui abbassato fino al p
iano moralistico e addirittura sensazionale. Si venivano a perdere il senso di p
rofondo rispetto e di raccoglimento.
Presentemente un brutto esempio di come ci si sottragga all'esame della propria
coscienza, ricorrendo ad accuse scambievoli di colpa, è dato da molte discussioni
fra i fuoriusciti e i tedeschi rimasti in patria, fra quei due gruppi cioè che si
potrebbero chiamare dell'emigrazione esterna e interna. Gli uni e gli altri hann
o le loro pene. Per chi ha emigrato all'estero: la lingua straniera, la nostalgi
a della patria - simbolico è quel che si racconta di quell'ebreo tedesco a New Yor
k nella cui camera era appeso un ritratto di Hitler - come mai? soltanto per il
fatto che con ciò si ricordava ogni giorno del terrore che lo aspettava in patria,
egli poteva vincere il desiderio ardente di ritornarvi. Per chi è rimasto in patr
ia l'isolamento, il sentirsi esiliato nel proprio paese, la continua minaccia di
essere solo nella sventura, l'essere evitato da tutti meno che da alcuni amici,
ad affliggere i quali si prova ulteriore dolore. Ma quando gli uni accusano gli
altri, ci si deve fare questa domanda: ci sentiamo bene di fronte allo stato d'
animo e al tono di chi fa queste accuse? Ci rallegriamo che tali uomini sentano
a questo modo? Sono d'esempio? C'è in loro qualche cosa come slancio, libertà, amore
che ci faccia coraggio? Se non è così, allora non è vero quello che dicono.
b) Autodegradazione e arroganza.
Noi siamo sensibili ai rimproveri e facilmente disposti a farne agli altri. Non
vogliamo che gli altri si interessino troppo delle nostre cose, ma ci infervoria
mo nell'esprimere dei giudizi morali sugli altri. Anche chi ha colpa non vuole l
asciarselo dire. Se permette che glielo si dica, non vuole lasciarselo dire da t
utti. Il mondo è pieno di riferimenti alla paternità di un misfatto anche nelle situ
azioni più insignificanti della vita di tutti i giorni.
Chi è suscettibile di fronte ai rimproveri può facilmente passare a un impulso di co
nfessare la propria colpa. Confessioni siffatte di colpa - false perché sono per s
e stesse impulsive e ricolme di godimento - hanno, nella maniera in cui si manif
estano, un loro tratto inconfondibile. Poiché l'una e l'altra delle due tendenze o
pposte vengono alimentate dalla medesima volontà di potenza, si può facilmente intra
vedere che chi confessa la propria colpa crede, mediante la confessione, di pote
rsi mettere in vista e acquistarsi un valore che lo distingua. Confessando la pr
opria colpa si vuole obbligare gli altri a fare lo stesso. In questa confessione
c'è come un'impronta di aggressività.
Quindi, in ogni trattazione delle questioni della colpa, la prima esigenza dal p
unto di vista filosofico è l'agire interiore nei confronti di se stessi, attravers
o il quale la sensibilità si estingue contemporaneamente all'impulso alla confessi
one della colpa.
Oggi, questo fenomeno che ho descritto psicologicamente si trova a essere strett
amente connesso con la serietà della questione tedesca. Il nostro rischio è di confe
ssare la nostra colpa abbandonandoci ai lamenti e di assumere un atteggiamento d
i arrogante chiusura in se stessi e di orgoglio.
Più d'uno si lascia fuorviare dagli interessi esistenziali del momento. In tal cas
o può sembrare vantaggioso riconoscere la propria colpa. Allo sdegno del mondo per
la Germania condannata moralmente corrisponde qui la disposizione a fare una pr
ofessione di colpa. Di fronte a chi è forte ci si avvicina con le adulazioni. Si è d
isposti a dire quello che il potente desidera sentir dire. A ciò si aggiunge poi q
uella fatale inclinazione, per cui ci si reputa, con la confessione della colpa,
superiori agli altri. Nel compromettere se stessi c'è un attacco agli altri che n
on lo fanno. Questi atti di accusa contro se stessi a buon mercato sono ignomini
osi. E' evidente la vigliaccheria di questa adulazione che si presume redditizia
.
Tutt'altra cosa è l'orgoglio arrogante. Proprio perché gli altri muovono delle accus
e morali, ci si ostina più che mai a non riconoscerle. Si vuole preservare la prop
ria autocoscienza in una presunta indipendenza interiore. Ma questa indipendenza
non può essere raggiunta senza che si venga prima in chiaro su quello che è il punt
o decisivo del problema.
Il punto decisivo risiede in quello che è un eterno fenomeno fondamentale, e che o
ggi si presenta di nuovo sotto altra forma: chi, trovandosi nelle condizioni di
uno che è stato definitivamente sconfitto, preferisce la vita alla morte, non può vi
vere nella sincerità - l'unica dignità che gli sia rimasta - se non si risolve per q
uesta vita con la chiara consapevolezza del nuovo significato che in essa è ripost
o.
La decisione ad accettare di vivere in uno stato di impotenza è un atto di una ser
ietà che si pone a fondamento di tutta una vita. Da esso deriva una metamorfosi ch
e modifica tutte le stime di valore. Se questo atto viene compiuto e se ne accet
tano le conseguenze sottoponendosi al dolore e al lavoro, allora si dischiudono
le più alte possibilità per l'anima umana. Nulla viene dato in regalo, niente viene
da sé. Solo se questa decisione è chiara come origine è possibile evitare i due perver
timenti dell'autodegradazione e dell'orgogliosa arroganza. La purificazione fa l
uce su questa decisione e sulle sue conseguenze.
Quando ora al fatto di essere stati vinti si aggiunge nello stesso tempo anche i
l fatto di aver commesso delle colpe, allora è necessario che si accetti non solo
lo stato di impotenza, ma anche la colpa. Da questi due incentivi deve derivare
la trasformazione a cui l'uomo si vorrebbe sottrarre.
L'orgogliosa arroganza trova modo di appoggiarsi a modi di vedere, ad atteggiame
nti di grandiosità, a discorsi edificanti ricchi di sentimento, per produrre quell
a illusione che le permette di mantenersi. Ecco qualche esempio:
La necessità di assumere quel che è accaduto viene interpretata in un senso differen
te da quello che si converrebbe. Una tendenza incontrollata «a immedesimarsi con l
a nostra storia» permette di approvare nascostamente il male, di trovare il bene n
el male e di tenerlo fermo nell'intimo, come una barriera orgogliosa contro i vi
ncitori. Come conseguenza di una tale deformazione è possibile sentire frasi come
queste: «Noi dobbiamo sapere che portiamo ancora in noi quella forza originaria di
volontà che produsse il nostro passato, e dobbiamo riconoscerla e accoglierla nel
la nostra esistenza... Siamo stati entrambe le cose, e continueremo anche a esse
rlo... E noi stessi non siamo che la nostra storia, sempre, e ne portiamo con no
i la forza». La «pietà» deve obbligare la giovane generazione tedesca a diventare di nuo
vo come è stata la precedente.
L'arroganza in veste di pietà scambia qui il fondamento storico, dove noi abbiamo
le nostre radici e al quale ci sentiamo affezionati col cuore, con la totalità dei
fatti reali che costituiscono il nostro passato comune, molti dei quali, presi
nel loro significato, noi non solo non amiamo, ma addirittura rigettiamo come es
senzialmente estranei a noi.
Quando poi si riconosce il male come male, è possibile sentir dire frasi come ques
te: «Noi dobbiamo diventare così coraggiosi e così grandi e così miti da poter dire: sì, a
nche tutto questo orrore fu la nostra realtà, e continuerà a esserlo. Ma noi abbiamo
anche la forza di trasmutarlo in noi stessi, in modo che diventi opera creatric
e. Noi sappiamo che sono in noi latenti delle terribili possibilità, che si sono a
ttuate nella forma di un misero pervertimento. Ma noi amiamo e rispettiamo tutto
il nostro passato storico con una pietà e un amore più grandi di ogni singola colpa
storica. Noi portiamo in noi questo vulcano col rischio di sapere che può farci s
altare in aria, ma con la certezza che, se noi riusciamo a tenerlo a freno, ci s
i può aprire l'ultimo campo della nostra libertà: quella libertà di portare ad attuazi
one reale, entro il pericoloso campo di forze di queste nostre possibilità, ciò che,
in comunanza con tutti gli altri, sarà l'opera del nostro spirito per l'umanità».
Questo è un appello seducente che ci viene dalla cattiva filosofia di un irraziona
lismo - ad affidarci senza una decisione chiara e netta a un livellamento esiste
nziale. E' troppo poco «tenere a freno» soltanto. Quel che importa è la «scelta». Se quest
a scelta non viene compiuta, è sempre possibile una nuova arroganza del male, che
conduce necessariamente al principio del "pecca fortiter". Si disconosce che, ne
l rapporto col male, è possibile soltanto una comunità apparente.
Un'altra forma di arroganza orgogliosa è quella di coloro che approvano il nazismo
in tutto e per tutto dal punto di vista della «filosofia della storia», in una conc
ezione estetica che, invece di considerare in maniera oggettiva la nostra sciagu
ra, la trasforma insieme a tutto il male evidente in qualche cosa di affascinant
e e di grandioso che, nella sua falsità, annebbia gli animi:
«Nella primavera del 1932 un filosofo tedesco ha profetizzato che nel giro di diec
i anni il mondo sarebbe stato retto soltanto da due centri politici: Mosca e Was
hington. La Germania tra questi due poli sarebbe stata un vuoto concetto politic
o-geografico destinato a esistere solo come forza spirituale.
La storia tedesca, che dalla disfatta del 1918 aveva tratto nuove prospettive di
consolidarsi e che si era vista aperta la strada per realizzare il sogno della
grande Germania, si ribellò contro la tendenza a semplificare il mondo in due poli
, tendenza che, oltre a essere stata profetizzata, si andava effettivamente attu
ando nei fatti. La storia tedesca contro questa tendenza del mondo si chiuse in
se stessa per uno sforzo gigantesco da compiersi isolatamente, con tenacia, allo
scopo di arrivare, nonostante tutto, alla sua propria meta nazionale.
Se quella profezia del filosofo tedesco, che prevedeva un termine di scadenza pa
ri a soli dieci anni per l'instaurazione della dominazione del mondo da parte de
gli americani e dei russi, ha avuto ragione, allora la rapidità vertiginosa, e la
furia e la violenza con cui ha avuto luogo la reazione tedesca diventa un avveni
mento comprensibile: si trattava della velocità di una ribellione che, storicament
e già superata, aveva in sé un suo significato ed esercitava un suo fascino. Noi tut
ti abbiamo avuto modo di vedere come negli ultimi mesi questa velocità si sia tras
formata alla fine in un vero e proprio delirio. - Un filosofo esprime alla legge
ra questo giudizio: la storia tedesca è alla sua fine; adesso comincia l'era Washi
ngton-Mosca. Ma una storia impostata su basi così grandi e appassionate come quell
a tedesca non può rispondere con un semplice 'così sia' a una tale conclusione accad
emica. La storia tedesca divampa tutta, si getta a capofitto nella sua fine, pro
fondamente eccitata nella difesa e nell'attacco, in un tumulto sfrenato fatto di
fede e di odio».
Così scriveva nell'estate 1945 un uomo, da me umanamente molto apprezzato, in pred
a a torbidi sentimenti.
Tutto ciò è effettivamente non purificazione, bensì un precipitare ancora di più nell'in
trico. Pensieri siffatti - sia quelli che inducono all'autodegradazione, sia que
lli che spingono all'arroganza - danno di solito per un istante come un senso di
liberazione. Si crede di vivere sopra un terreno ben solido, mentre si è andati a
finire proprio così in un vicolo cieco. Qui si accentua e si rafforza l'impurità de
i sentimenti a discapito delle possibilità autentiche di trasformazione.
A tutte le forme di arroganza appartiene un silenzio aggressivo. Ci si sottrae q
uando le ragioni addotte diventano inconfutabili. L'autocoscienza viene ricavata
dal silenzio, che diventa così l'ultima forza degli impotenti. Si ricorre al sile
nzio pur di mortificare i potenti. Si cela il silenzio, invece, per escogitare i
l modo come risorgere; in campo politico, con l'acquisire strumenti di potenza,
sebbene questi possano sembrare ridicoli quando sono nelle mani di coloro che no
n prendono parte alle gigantesche industrie del mondo che producono strumenti di
distruzione; in campo spirituale, col giustificare se stessi senza riconoscere
alcuna colpa: il destino mi è stato contrario, si trattava di una supremazia mater
iale assurda, la sconfitta era piena di onore, intimamente alimentò il senso della
fedeltà e dell'eroismo. Quando ci si mette su questa via e ci si comporta a quest
o modo aumenta solo quel veleno interiore, il quale ci trascina a pensieri illus
ori e a esaltazioni anticipate: «non ancora a forza di pugni e di calci»... «quel gior
no, quando noi...»
c) Tentativi di evitare la purificazione in virtù di considerazioni particolari, g
iuste in se stesse, ma inessenziali per il problema della colpa.
Più d'uno, riguardo alla propria condizione di miseria, pensa: aiutate, ma non par
late di espiazione. La nostra enorme miseria ci discolpa. Ecco quel che sentiamo
dire a questo riguardo:
«E' stato già dimenticato il terrore dei bombardamenti? Quel terrore sotto il quale
milioni e milioni di innocenti dovettero perdere la vita e la salute e ogni cosa
più cara al loro cuore non è stato un pagamento a saldo per tutto quello che è stato
commesso di criminoso in Germania? Il disagio dei profughi tedeschi, con le loro
grida di dolore che salgono fino al cielo, non dovrebbe bastare a far deporre l
e armi contro di noi»?
«Sono una donna del Sud Tirolo che è venuta in Germania trent'anni fa come giovane s
posa. Ho diviso le sventure dei tedeschi dal primo all'ultimo giorno; ho ricevut
o colpi su colpi; ho fatto sacrifici e sacrifici; ho bevuto fino all'ultima gocc
ia l'amaro calice - e adesso mi sento accusare insieme con gli altri per cose ch
e non ho affatto commesso.»
«La miseria che si è riversata su tutto il popolo è così gigantesca e assume delle propo
rzioni così impensabili che non bisogna spargere ancora del sale sulle ferite. Il
popolo, nei suoi elementi certamente innocenti, ha già sofferto più di quanto non lo
richieda forse una giusta espiazione.»
In effetti la sciagura è apocalittica. Tutti si lamentano, e a ragione: coloro che
sono scampati ai campi di concentramento e alle persecuzioni e che hanno vivo i
l ricordo delle orribili sofferenze patite, e coloro che hanno perduto i loro ca
ri nelle maniere più raccapriccianti; i milioni di profughi e sfollati che vivono
vagabondando quasi senza speranze; tutti i simpatizzanti del partito che ora, al
lontanati dai loro posti, vengono a trovarsi nella miseria; gli americani e gli
altri alleati che hanno sacrificato tanti anni della loro vita e che hanno avuto
milioni di morti; le popolazioni europee, che sono state martoriate sotto la do
minazione del terrore da parte dei tedeschi nazisti; gli emigranti tedeschi che
devono vivere in esilio nelle condizioni più difficili e fra gente che parla una l
ingua straniera; tutti, tutti.
Enumerando i vari raggruppamenti di persone che si lamentano, li ho messi gli un
i accanto agli altri allo scopo preciso di far notare subito ciò che non corrispon
de in tale enumerazione. La miseria è come tale, come distruzione di ogni esistenz
a, certamente ovunque della stessa specie: ma essa si presenta come essenzialmen
te diversa per il contesto in cui si trova. E' ingiusto voler dichiarare tutti i
nnocenti alla medesima maniera.
Nel complesso resta fermo che noi tedeschi, per quanto siamo venuti a cadere nel
la miseria più grande di quella di tutti gli altri popoli, portiamo anche la respo
nsabilità più grande per il corso degli avvenimenti fino al 1945.
Ecco dunque quello che vale per noi, per ciascuno di noi: noi non vogliamo senti
rci innocenti così facilmente, non vogliamo compatirci, considerandoci vittime di
una disgrazia fatale, non vogliamo aspettarci degli elogi per i dolori sofferti,
ma vogliano interrogarci, scrutarci a fondo implacabilmente: quando ho provato
falsi sentimenti, quando ho avuto falsi pensieri, quando ho commesso azioni sbag
liate? - noi vogliamo cercare la colpa in noi, spingendoci più oltre che sia possi
bile e non vogliamo cercarla nelle cose o negli altri, né sottrarci a questo compi
to con la scusa della miseria in cui versiamo. Questo segue dalla decisione di c
onversione.
d) Tendenza a evitare la purificazione per considerazioni generiche.
E' un alleggerimento illusorio se io, nella mia qualità di persona singola, mi tro
vo a non avere alcuna importanza, poiché tutto quello che accade mi capita addosso
senza che vi possa contribuire anch'io, e non posso quindi avere personalmente
alcuna colpa. Allora io stesso vivo, o subendo o partecipando, in una condizione
di impotenza. Non vivo più prendendo le mosse da me stesso. Ecco alcuni esempi:
1. L'interpretazione complessiva del punto di vista morale della storia lascia p
resupporre una giustizia globale: «ogni colpa si paga sulla terra».
In questo modo io mi sento abbandonato a una colpa totale nella quale il mio agi
re non ha più alcun ruolo. La mancanza metafisica di vie d'uscita è in tutto e per t
utto avvilente. Se sono invece dalla parte che prevale, allora io, oltre a ralle
grarmi del successo, ho anche la buona coscienza di essere migliore. La tendenza
a non prendersi sul serio come persona singola paralizza gli incentivi di ordin
e morale. Nel primo caso, l'orgoglio di una confessione della colpa senza alcuna
riserva, e nel secondo caso l'orgoglio della vittoria, diventano modi per sottr
arsi al compito vero e proprio dell'uomo, presente in ogni singola persona.
Ma l'esperienza si oppone a questa concezione totale della storia dal punto di v
ista morale. Il corso delle cose non è affatto univoco. Il sole risplende tanto su
i giusti quanto sugli ingiusti. La maniera in cui viene ripartita la felicità non
corrisponde al modo in cui gli uomini regolano la loro condotta morale.
Ma sarebbe ugualmente falso pronunciare un giudizio globale contrario e dire: no
n c'è alcuna giustizia.
Certo ci sono molte situazioni in cui, di fronte a determinate condizioni e azio
ni di uno stato, si impadronisce di noi un sentimento incancellabile: «questo non
potrà finir bene», «questo costerà caro». Ma appena questo sentimento confida nella giusti
zia, allora nasce l'errore. In queste cose non ci può essere alcuna certezza, ciò ch
e c'è di buono e di vero nel mondo non viene mai da solo. Nella maggior parte dei
casi manca la riparazione. La rovina e la vendetta colpiscono così gli innocenti c
ome i colpevoli. La volontà più pura, la più sincera franchezza, il più grande coraggio
possono rimanere senza alcun effetto se la situazione vi si oppone. Per molti ch
e sono rimasti passivi, la situazione si presenta favorevole senza che essi se l
o siano meritato e solo per quel che hanno fatto gli altri.
Il pensare che esiste solamente una colpa globale e una condizione di irretiment
o in un nesso colpa-espiazione, sebbene in tutto questo possa esserci anche una
certa verità metafisica, può far sì che uno sia portato su falsa strada e cerchi di so
ttrarsi a ciò che è in tutto e per tutto un fatto suo e solamente suo.
2. La concezione globale di chi ritiene che alla fine tutto a questo mondo sia d
estinato a perire, e che nulla possa essere intrapreso senza che in ultimo finis
ca col fallire, e che in tutte le cose si nasconda il germe della corruzione, è un
a concezione che fa scivolare su un terreno comune di fallimento il proprio insu
ccesso insieme a quello di ogni altro, l'infamia e la nobiltà. Così ogni fallimento
particolare viene privato del suo peso.
3. Alla propria sventura, che si considera come una conseguenza della colpa di t
utti, viene dato un peso metafisico grazie a un'interpretazione che ne fa qualch
e cosa di singolare: nella nostra epoca la Germania costituisce la vittima rappr
esentativa. Essa soffre in nome di tutti. In essa erompono la colpa di tutti e l
'espiazione per tutti.
Questa è una falsa esaltazione patetica che ci distoglie nuovamente dal sobrio com
pito di fare quello che realmente è nelle nostre forze, ci allontana cioè dal compit
o di migliorare quel che è comprensibile e di trasformarci interiormente. E' come
uno slittare nell'«estetico», dove viene a mancare ogni obbligo e dove non si agisce
più in base al nucleo dell'essere proprio del singolo. E' un mezzo per procurarsi
per altra via una falsa coscienza collettiva del proprio valore.
4. Ci sembra di liberarci dalla colpa quando, di fronte a tutte le orribili soff
erenze che si sono riversate su noi tedeschi, esclamiamo che già tutto è stato espia
to.
Qui bisogna fare una distinzione: una pena viene espiata, una responsabilità polit
ica viene circoscritta e conclusa col trattato di pace. Limitatamente a questi d
ue punti è giusto e ragionevole pensare che tutto è stato espiato. Ma la colpa moral
e e la colpa metafisica, che soltanto dal singolo nella sua comunità sono sentite
come proprie, non si prestano per la loro stessa natura a essere espiate. Esse n
on si estinguono mai. Chi le porta entra in un processo interiore che dura tutta
la vita.
Per noi tedeschi vale qui questa alternativa: o accettiamo quella colpa a cui il
resto del mondo non pensa, ma che ci viene rimproverata dalla nostra coscienza,
e facciamo di ciò un tratto fondamentale della nostra autocoscienza tedesca - e a
llora la nostra anima si incammina sulla via della conversione; oppure affondiam
o nella mediocrità di una vita meramente indifferente. In mezzo a noi non si deste
rà più alcuna aspirazione originaria; ma allora non si rivelerà più a noi quello che è ver
amente essere; allora non coglieremo più il significato trascendente della nostra
alta poesia e della nostra arte e della nostra musica e della nostra filosofia.
Se non si incammina sulla via della purificazione, partendo dalla profonda consa
pevolezza della propria colpa, il tedesco non potrà più realizzare alcuna grande ver
ità.
2. LA VIA DELLA PURIFICAZIONE.
La purificazione nell'ambito della condotta significa per prima cosa riparazione
.
Dal punto di vista politico vuol dire che con pieno consenso interiore venga ott
emperato alle richieste di riparazioni presentate in forma legale, affinché coi no
stri sacrifici i popoli aggrediti dalla Germania di Hitler vengano ricompensati
di una parte di quello che è stato distrutto.
Condizioni essenziali perché si possa ottemperare alle richieste di riparazioni so
no, oltre alla forma legale grazie alla quale è possibile ripartire gli oneri seco
ndo giustizia, che si possa vivere e che ci sia la possibilità e la capacità di lavo
rare. Non si può evitare che la volontà di riparare ai danni venga meno quando le az
ioni politiche dei vincitori distruggono tali condizioni. In tal caso infatti no
n ci sarebbe più la pace con l'intesa che si riconosca l'obbligo della riparazione
, ma la guerra protratta nel proposito di un'ulteriore distruzione.
Però le riparazioni comportano qualche cosa di più. Chi è interiormente preso dalla co
lpa a cui ha avuto parte desidera aiutare tutti coloro che hanno sofferto delle
ingiustizie per l'arbitrio del regime illegale.
Si tratta di due motivazioni diverse, che non vanno confuse: l'esigenza di aiuta
re là dove c'è la miseria, non importa per quale ragione, semplicemente per il fatto
che questa miseria è vicina a noi e invoca aiuto - e, in secondo luogo, l'esigenz
a di riconoscere dei diritti speciali a tutti coloro che per colpa del regime di
Hitler furono deportati, derubati, saccheggiati, martoriati, e ai fuoriusciti.
Entrambe le esigenze sono pienamente giustificate; ma c'è una differenza nella lor
o motivazione. Laddove non c'è il sentimento della colpa, ogni specie di miseria v
iene portata subito allo stesso livello. E' necessario fare una differente class
ificazione fra coloro che sono stati colpiti dalla miseria se voglio riparare un
male del quale sono anch'io colpevole.
La purificazione mediante le riparazioni è inevitabile. Ma purificazione significa
molto di più. Anche le riparazioni sono volute seriamente e soddisfano al loro si
gnificato etico soltanto come conseguenza della nostra trasformazione purificatr
ice.
Rendendoci conto della nostra colpa, nello stesso tempo ci rendiamo conto della
nostra nuova vita e delle sue possibilità. Da questo derivano la serietà e la fermez
za della nostra decisione.
Quando avviene ciò, la vita non può più ridursi semplicemente a un godimento sereno e
spensierato. La gioia dell'esistenza, laddove viene concessa, la possiamo coglie
re negli intervalli e nelle pause; ma essa non ci appaga l'esistenza. Viene piut
tosto accolta come un incantesimo benigno sullo sfondo della nostra malinconia.
La vita è in sostanza concessa ancora perché venga consumata al servizio di un dover
e da compiere.
Conseguenza di ciò è la modestia. Nella condotta interiore, al cospetto della trasce
ndenza, ci rendiamo conto della nostra finitezza e incompiutezza umane.
Allora, senza alcuna volontà di potenza, potremo, in una gara amichevole, dedicarc
i alla ricerca della verità per unirci, in suo nome, gli uni con gli altri.
Allora potremo tacere vincendo ogni tono aggressivo, e dalla schiettezza del sil
enzio deriverà la chiarezza di ciò che si può comunicare.
Allora tutto dipenderà soltanto ancora dalla verità e dalla nostra condotta. Saremo
disposti a sopportare senza inganno ciò che ci sarà imposto. Qualunque cosa possa ac
cadere, il compito dell'uomo, che non può essere espletato sulla terra, continuerà a
sussistere, finché vivremo.
La purificazione è la via dell'uomo come uomo. La purificazione attraverso lo svil
uppo del pensiero della colpa è solamente un momento della purificazione generale.
Questa non si verifica in primo luogo mediante azioni esteriori, né mediante un'o
pera di magia. E' piuttosto un processo interiore che non viene mai portato a te
rmine definitivamente, perché si trova sempre in continuo divenire. La purificazio
ne è cosa che riguarda la nostra libertà. Sempre di nuovo ciascuno di noi si troverà d
i fronte a un bivio, dove occorre scegliere o la via che purifica o quella che i
ntorbidisce.
La purificazione non è la medesima per tutti. Ciascuno procede nel proprio cammino
secondo la propria personalità: questo cammino non può essere anticipato e indicato
da nessun altro. Le considerazioni di ordine generale possono solamente risvegl
iare la nostra attenzione.
Se noi ora, alla fine, ci domandiamo in che cosa consiste la purificazione, non
possiamo fare delle ulteriori affermazioni concrete al di fuori di quanto è stato
già detto. Poiché qui non si tratta di qualche cosa che possa essere realizzata come
scopo della volontà intelligente, ma si tratta di cosa che può essere raggiunta sol
o attraverso una condotta interiore intesa come trasformazione, non si può che rip
etere quelle locuzioni indeterminate che intendono abbracciare quel che si vorre
bbe dire con maggiore precisione: rischiarare la propria anima e, elevandoci, di
ventare trasparenti - amare l'uomo.
Per quanto riguarda la colpa, una via possibile è quella di meditare a fondo sui p
ensieri che sono stati esposti. Questi non debbono essere ripensati astrattament
e soltanto con l'intelletto, ma compiuti intuitivamente; debbono essere richiama
ti alla mente, adottati o respinti con la propria essenza. Questa attuazione, co
n tutto quanto ne consegue, costituisce la purificazione che, come tale, non si
trova dunque alla fine di un processo, né è qualche cosa di nuovo che venga ad aggiu
ngersi a ciò che già c'è.
La purificazione è anche la condizione della nostra libertà politica. Infatti, solo
dopo che ci siamo resi conto della nostra colpa, diventiamo consapevoli della so
lidarietà e della corresponsabilità senza di cui non è possibile la libertà.
La libertà politica comincia là dove, nella maggioranza della popolazione, la person
a singola si sente responsabile per la politica della sua comunità - là dove la sua
attività non si riduce solo a desiderare e a rimbrottare -, là dove ciascuno pretend
erà da se stesso di guardare ai fatti della realtà e non di agire in base alla fede,
smerciata falsamente in politica, in un paradiso terrestre, che solo per la cat
tiva volontà e l'inettitudine degli altri non verrebbe realizzato -, là dove piuttos
to ciascuno sa che la politica cerca nel mondo concreto la via da percorrere vol
ta per volta, guidata dall'ideale della natura umana intesa nel senso della libe
rtà.
In breve: senza la purificazione dell'anima, non è possibile alcuna libertà politica
.
La maniera in cui ci comportiamo di fronte agli attacchi morali contro di noi ci
indica quanto siamo progrediti sulla via della nostra purificazione interiore i
n base alla coscienza della nostra colpa.
Senza questa coscienza della colpa la nostra reazione contro ogni specie di atta
cco rimane solamente un contrattacco. Se però ci ha colto una scossa interiore, al
lora l'attacco esterno ci tocca soltanto sulla superficie. Per quanto essa possa
offenderci e avvilirci, non penetra però fino all'intimo dell'anima.
Quando abbiamo acquisito la coscienza della colpa sopportiamo con calma le imput
azioni, false e ingiuste, dato che sono svaniti l'orgoglio e l'arroganza.
Per chi sente sinceramente la propria colpa, in maniera cioè che si trasformi la c
oscienza del suo essere, i rimproveri da parte degli altri non possono avere alt
ro effetto che quello di un gioco infantile che, innocuo com'è, non può più colpire. L
addove la reale consapevolezza della colpa diventa un pungolo incancellabile, l'
autocoscienza viene costretta ad assumere una nuova forma. Quando si sentono rim
proveri di tal genere, ci si preoccupa piuttosto per chi muove il rimprovero, pe
r come possa essere così poco turbato e consapevole.
Senza l'illuminazione e la trasformazione della nostra anima, la nostra suscetti
bilità non farebbe che accentuarsi in una inerme impotenza. Il veleno degli sconvo
lgimenti psicologici ci corromperebbe interiormente. Noi dobbiamo essere pronti
a far buon viso ai rimproveri e a esaminarli dopo averli ascoltati. Invece di ev
itare gli attacchi contro di noi, dobbiamo piuttosto cercarli, perché essi rappres
entano per noi un controllo del nostro pensiero. Il nostro atteggiamento interio
re si farà valere.
La purificazione ci rende liberi. L'andamento delle cose non è nelle mani di nessu
n uomo, anche se può giungere incalcolabilmente lontano nella conduzione della pro
pria esistenza. Dato che resta sempre l'incertezza e la possibilità di una nuova e
più grande sventura, dato che dalla trasformazione nella coscienza della nostra c
olpa non può derivare affatto come naturale conseguenza la ricompensa di una nuova
gioia di vivere, perciò, mediante la purificazione, possiamo diventare liberi e p
ronti per quel che deve venire.
L'anima pura può vivere sinceramente in quella tensione che le consente, anche di
fronte alla rovina completa, di agire instancabilmente nel mondo, per quel che è p
ossibile.
Quando pensiamo agli eventi del mondo, facciamo bene a ricordare il caso di Gere
mia. Quando egli, dopo la distruzione di Gerusalemme, dopo la perdita dello stat
o e della patria, dopo il suo trasferimento forzato insieme con gli ultimi ebrei
che emigrarono in Egitto, dovette ancora vedere come quelli del suo popolo si m
ettessero a sacrificare a Iside nella speranza che questa potesse aiutarli più di
Jahweh, allora il suo discepolo Baruch si disperò, e Geremia rispose: «Così parla Jahw
eh: Invero, quello che io ho costruito, lo abbatto al suolo, e quello che io ho
piantato, lo sradico, e tu chiedi per te alcunché di grandioso? Non lo chiedere!». C
he significa ciò? Significa che Dio c'è, questo basta. Se tutto svanisce, Dio c'è, que
sto è l'unico punto fermo.
Ma ciò che è vero di fronte alla morte, nella situazione estrema, si trasforma in un
traviamento malvagio quando l'uomo vi si precipita innanzi tempo in un momento
di stanchezza, di impazienza, di disperazione. Quell'atteggiamento è infatti vero
quando, nelle situazioni-limite della nostra esistenza, esso è sorretto da quella
accortezza imperturbabile, che ci induce ad aggrapparci in ogni tempo a quanto è a
ncora possibile finché dura la vita.
Umiltà e moderazione, questo è il nostro contributo.
POSTFAZIONE DEL 1962 AL MIO SCRITTO «LA QUESTIONE DELLA COLPA».
Lo scritto fu progettato nel 1945, venne esposto in una serie di lezioni tenute
nei mesi di gennaio e febbraio del 1946, e quindi pubblicato. Leggendolo, bisogn
a ricordarsi di quell'epoca in cui fu scritto. La gragnuola delle dichiarazioni
di colpevolezza si abbatteva quotidianamente su noi tedeschi. Ai soldati america
ni era proibito parlare con noi, eccettuate le questioni ufficiali. Solo allora
i crimini della Germania nazista furono evidenti a tutto il popolo. Anch'io non
avevo saputo nulla della conformità a un piano e delle dimensioni dei delitti. All
o stesso tempo la miseria della vita quotidiana si accrebbe straordinariamente,
per chi era rimasto a casa, per i prigionieri di guerra, che allora venivano tra
sportati ovunque, per i profughi. Dominavano lo sgomento e il silenzio, la rabbi
a nascosta, oppure per breve tempo anche la semplice apatia. Molti cercavano di
ottenere per sé vantaggi dai vincitori. Oltre allo strazio c'era la mancanza di ri
guardi. La solidarietà in famiglia e fra gli amici era quasi l'unico rifugio.
Lo scritto doveva servire all'autoriflessione, a trovare la via verso la dignità n
ell'assunzione della colpa, riconosciuta di volta in volta secondo le sue varie
specie. Esso indicava anche le colpe delle potenze vincitrici, non per scaricarc
i del nostro peso, ma per amore della sincerità, e anche per resistere sommessamen
te a una possibile autogiustificazione, che in politica provoca conseguenze nefa
ste per tutti. Il fatto che un simile scritto potesse venire pubblicato sotto il
regime di occupazione testimonia quale libertà esso lasciava fin dall'inizio allo
spirito. Un eminente americano mi disse allora che lo scritto era indirizzato t
anto agli alleati quanto ai tedeschi. Mi sono sforzato di ottenere un'atmosfera
pura, nella quale noi tedeschi potessimo ritrovare noi stessi nella nostra autoc
oscienza. Il testo voleva anche contribuire a rendere possibile un nuovo legame
con i vincitori, come un legame di uomini tra uomini.
Nonostante le informazioni all'epoca ancora scarse, i tratti fondamentali del re
gime nazista - con i suoi metodi raffinati, la sua totale falsità e i suoi impulsi
criminali - erano chiari a chiunque volesse conoscerli. Doveva avere inizio il
rinnovamento dei tedeschi. Io considero ancora oggi vere le discussioni contenut
e in questo scritto, con un'essenziale eccezione: nella concezione del processo
di Norimberga, che allora cominciava, mi sono sbagliato su un punto decisivo.
L'idea anglosassone era grandiosa. Ci sembrava, a quel punto, che dal futuro già b
rillasse qualcosa che avrebbe trasformato il mondo degli uomini: la creazione di
un diritto mondiale e di una situazione mondiale in cui, mediante la forza comu
ne delle maggiori potenze, sarebbero stati puniti i delitti chiaramente definiti
. Nessun politico e nessun militare e nessun funzionario si sarebbe potuto in fu
turo appellare alla ragion di stato o agli ordini. Tutte le azioni di uno stato
sono compiute da personalità umane, siano esse i capi o i collaboratori di diverso
rango. Precedentemente la responsabilità veniva scaricata sullo stato, come se es
so fosse un'essenza sacra, sovrumana. Adesso ognuno è per se stesso responsabile d
i quello che fa. Ci sono delitti dello stato che sono sempre al contempo delitti
di singoli uomini determinati. C'è la necessità e l'onore di comandare e ubbidire,
ma non si può prestare ubbidienza quando chi ubbidisce sa di commettere un delitto
. Il giuramento, nel contesto dello stato, ha carattere incondizionato solo se v
iene prestato sulla costituzione o sulla solidarietà nei confronti di una comunità c
he pronuncia e motiva i suoi scopi e i suoi principi apertamente, e non se viene
prestato come giuramento di fedeltà nei confronti di persone che ricoprono una ca
rica politica o militare. Mai cessa di sussistere la responsabilità personale. Pos
sono certamente sorgere conflitti violenti, ma in realtà la questione di per se st
essa è sempre semplice quando si tratta di delitti. Essa inizia là dove io vedo la p
ossibilità e già anche l'iniziale effettività del delitto, e ciononostante partecipo.
Dove si grida: «Germania, risvegliati, ebrei crepate», «rotoleranno delle teste», dove s
egue il telegramma di solidarietà di Hitler agli assassini di Potempa, deve parlar
e la coscienza, anche se nella partecipazione non è ancora stata commessa un'azion
e delittuosa. Ma chi poi ordina o esegue successivamente i delitti viene, questa
è l'idea, giudicato come persona dalla comunità mondiale degli stati. Sotto questa
minaccia la pace sarebbe assicurata. L'umanità si unirebbe in un'etica comprensibi
le a tutti. Non si ripeterebbe mai più quello che abbiamo sofferto: e cioè che degli
uomini che furono derubati dal loro stato della loro dignità, offesi nei loro dir
itti umani, espulsi o assassinati, non trovassero protezione nella comunità superi
ore degli stati. Non si ripeterebbe mai più che stati liberi rivaleggino tra di lo
ro per Hitler e tradiscano i tedeschi, che vengano in massa a Berlino a festeggi
are le Olimpiadi, che ricevano nei loro congressi scientifici e organizzazioni c
ulturali uomini autorizzati dallo stato nazista, con esclusione degli indesidera
ti. Non si ripeterebbe mai più quello che è successo in Germania: e cioè che i liberi
stati europei non respingessero solidarmente innanzi tutto con mezzi pacifici i
delitti che accadevano dal 1933 e, con violenza crescente, dal 1934, che essi li
tollerassero con la comoda «non intromissione negli affari interni». Non appena in
uno stato il cui popolo, per cultura, tradizione, concezione occidentale della v
ita, è affine agli altri popoli, questo popolo - anche se a causa di una sciagura
che esso stesso si è provocato - viene consegnato impotente al totalitarismo, non
lo si può piantare in asso nelle mani dei suoi dittatori terroristici, come non lo
si dovrebbe piantare in asso in occasione di una catastrofe naturale.
Ora deve cominciare una nuova epoca. E' stato costituito un tribunale di cui abb
iamo sperato l'ulteriore sviluppo. Il desiderio eterno dell'uomo ha intrapreso u
na via di adempimento. Tutto ciò era certamente molto ingenuo. Vi presi parte anch
'io, nonostante i miei anni e le mie intense riflessioni sulla politica. Mi sono
reso conto della mancanza di chiarezza di cui soffrivo allora, e rivedo riguard
o a questo punto il mio giudizio.
Del tribunale faceva parte la Russia bolscevica che, come stato caratterizzato d
al dominio totalitario, non era diversa dallo stato nazista per quel che riguard
a la forma del dominio. Partecipava dunque un giudice che di fatto non riconosce
va assolutamente quel diritto sul quale il tribunale doveva essere fondato. Il t
ribunale non doveva esaminare i delitti che erano noti come fatti locali, bensì so
lo le azioni delle persone accusate. Questa autolimitazione dell'accusa, che esc
luse un procedimento contro «ignoti», fece sorgere delle difficoltà. Il procedimento s
i limitò ai prigionieri di guerra. Anche le azioni delle potenze occidentali, che
nel corso della guerra avevano compiuto distruzioni senza che fosse militarmente
necessario, non vennero fatte oggetto d'indagine.
Sono cose sulle quali nel 1945 ho riflettuto, ma che non ho discusso. Nonostante
l'orrore ad esempio nei confronti delle assurde distruzioni di Dresda e di Würzbu
rg, dicevo a me stesso: le azioni commesse da entrambe le parti forse non posson
o essere misurate con lo stesso criterio. Quella popolazione che dispone tutte l
e sue forze al servizio di uno stato criminale non può più contare sulla delicatezza
. Laddove milioni di persone sottomesse vennero deportate come schiavi in German
ia, laddove i treni viaggiavano quotidianamente per portare gli ebrei nel luogo
della loro eliminazione tramite gas, laddove la guerra occidentale iniziò con la d
istruzione del centro di Rotterdam e - in occasione dell'annientamento di Covent
ry - con le parole del "Führer": «Cancellerò le loro città», laddove il mondo si vedeva mi
nacciato dal dominio criminale che si era impadronito della maggior parte dell'E
uropa, allora nei confronti di ciò che era assolutamente sfrenato non poteva aver
luogo forse alcuna moderazione presso le istanze inferiori. Non il principio del
dominio di stati liberi, ma istanze particolari, probabilmente non approvate af
fatto dai loro regimi, poterono ricorrere ad atti di distruzione pianificati e m
ilitarmente non necessari, per contrapporre al terrore esercitato contro di loro
dal governo tedesco il terrore esercitato nei confronti della popolazione tedes
ca. Sarebbe stato grandioso, e avrebbe trasformato il processo in un evento dell
a storia mondiale completamente diverso, se anche questi delitti fossero stati t
rascinati davanti al foro. Avrei dovuto scriverlo subito allora. Dapprima il pro
cesso si svolse in modo convincente, sotto la guida del pensiero giuridico anglo
sassone. I procedimenti con gli accusati nel primo processo sono inattaccabili (
dei successivi processi di Norimberga non parlo). Si volle verità e giustizia. I d
elitti erano giuridicamente definiti. Solo questi delitti, e non azioni riprovev
oli in generale dal punto di vista morale, dovevano essere condannati. Perciò si e
bbe l'assoluzione di Schacht, di von Papen, di Fritsch, nonostante venisse pronu
nciata da parte del tribunale la condanna morale delle loro azioni. E' caratteri
stico il fatto che il giudice russo esprimesse un giudizio speciale in cui disap
provava queste assoluzioni. Il suo scarso senso del diritto non riusciva a disti
nguere tra ciò che era giuridicamente definito e ciò che era morale. Questo giudice
giudicò solo come vincitore, mentre gli altri vollero e attuarono l'autolimitazion
e del potere del diritto dei vincitori.
Ma tuttavia: la speranza ci ha ingannato. La grande idea si è manifestata, come ne
i tempi precedenti solo come idea e non come realtà. Il processo non ha fondato un
a situazione mondiale caratterizzata da un diritto mondiale.
Che questo processo non abbia mantenuto quel che aveva promesso è un fatto che com
porta conseguenze negative. Quando io allora scrissi: «Norimberga, invece di diven
tare una benedizione, diventerebbe piuttosto un fattore di sventure; il mondo fi
nirebbe col ritenere che il processo è stato solo apparente e coreografico. Ciò non
deve accadere» - non posso oggi sottrarmi al giudizio secondo cui quello non fu un
processo coreografico, ma piuttosto un processo irreprensibile nella sua forma
giuridica, e tuttavia fu un processo apparente. Era in effetti un processo unico
, istituito dalle potenze vincitrici contro i vinti, presso i quali mancava il f
ondamento della comune condizione e volontà giuridica delle potenze vincitrici. Es
so ha quindi ottenuto il risultato contrario rispetto a quello che doveva ottene
re. Non venne fondato il diritto, ma venne incrementata la sfiducia nei suoi con
fronti. La delusione, rispetto alla grandezza della questione, è prostrante.
Non dobbiamo respingere questa esperienza, anche se manteniamo ferma la grande i
dea. Le potenze illegali sono incommensurabilmente ancora più forti. Oggi non si p
uò ancora riuscire immediatamente a fondare una tranquillità mondiale così come era in
tesa a Norimberga. Questa stessa tranquillità, garantita dal diritto in forza dell
a volontà delle grandi potenze che si sottomettono esse stesse a questo diritto, n
ecessita di una condizione. Essa non può semplicemente scaturire dai motivi della
sicurezza e della liberazione dall'angoscia. Essa deve costantemente ristabilirs
i a partire dall'impegno per la libertà nella ripetizione delle situazioni di risc
hio. La realizzazione ininterrotta di questa tranquillità presuppone una vita spir
ituale e morale che abbia un suo rango e una sua dignità. Questo sarebbe a un temp
o il suo fondamento e il suo significato.
NOTE AL TESTO.
(1). Hannah Arendt ha esposto tutto questo con commovente semplicità oggettiva, ne
l suo articolo «Colpa organizzata» che ha destato profonda impressione. ("Wandlung",
prima annata, n. 4, aprile 1946, trad. it. in "Ebraismo e modernità", Feltrinelli
, Milano 1993.)
(2). Era il filosofo Erich Frank (morto nel 1948), quando - in preda alla nostal
gia per l'Europa - era giunto ad Amsterdam.
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