E’
corretto pensare, come molti pensano, che il degrado di cui tutti siamo testimoni sia da
attribuire alla incapacità generalizzata di chi è genitore o educatore oggi? Da quale circostanza o da
quale lavoro proviene il grado di moralità di una società civile? Si tratta di un dato naturale?
Sembrerebbe che in certi periodi nascano più delinquenti che in altri! In genere si finisce per
attribuire meriti e colpe a chi ha il compito civile e istituzionale della educazione. E’ giusto pensare
che sia diventata inefficace, debole, improduttiva la qualità dell’azione educativa delle famiglie o
delle scuole?
Un chiarimento sul tema della morale pubblica e sul tenore etico della società civile è necesario per
pensare correttamente alle soluzioni possibili di quella che sembra un’emergenza della nostra
attualità. Forse le visioni che costruiamo nella nostra mente su questi argomenti ha un rapporto con
le soluzioni che ci mettiamo a cercare personalmente o che incoraggiamo il potere pubblico a
intraprendere. Bisogna riferirsi alla cronaca e, ancor di più, alla realtà di cui la cronaca è solo uno
dei racconti possibili, con un pensiero critico e autonomo, con l’obiettivo di difendersi da discorsi
sensazionalistici e catastrofistici.
Tendiamo ad appoggiare le decisioni che affrontano l’immoralità come problema di ordine
pubblico, e tendiamo a desiderare un controllo autoritario, di polizia, sui comportamenti privati.
Penso che si debba guardare alla questione morale da una prospettiva ampia, prendendosi il tempo
di riflettere mettendo a frutto la propia esperienza piuttosto che i pregiudizi indotti dalla
informazione pubblica, sforzandosi semmai di non affrettare conclusioni con giudizi senza appello.
E’ inutile tornare a fare il lamento per i tempi tristi in cui ci tocca vivere, esprimere tutto il nostro
disprezzo per la modernità, tornare alla nostálgica ammirazione del passato che, nel ventre della
nostra memoria, sarà sempre un’età felice. Per questa via il tragico secolo in cui siamo nati, il
Novecento, malgrado le ignominie di cui abbiamo pure fatto esperienza, finirebbe per sembrarci il
tempo di una umanità migliore, di una gioventù più mite, di una moralità pubblica più elevata, di
istituzioni pedagogicamente più capaci.
Non vi nascondo che mi indigna ascoltare un giudizio comune, trito e ritrito, generalmente
pronunciato da ultra ottantenni o da ultra novantenni, niente affatto dubbiosi o cauti nei discorsi con
cui loro spiegano il degrado: caricano tutto sulle spalle dei giovani, anzi dei giovanissimi, spiegano
tutto come originato dentro le mura domestiche, e dentro le mura domestiche, tutto correlano alla
inettitudine delle donne, anzi, di più, al loro assenteismo, colpevoli, come madri e come mogli, di
non vivere più nel focolare desiderando solo averne cura, colpevoli quindi di essere diventate delle
fuoriuscite estraniate rispetto ai loro compiti istituzionali, anzi di più, ai loro compiti naturali,
attratte invece da desideri e aspirazioni di competizione, indisponibili alla pacifica convivenza dei
sessi basata sulla gerarchia. Questo in sintesi il succo dell’instancabile lamento con cui i grandi
vecchi, e non solo loro, si riferiscono alla crisi dei valori, alla immoralità diffusa, tutta intesa come
insubordinazione, tradimento della tradizione, eccesso di libertà. Questo discorso semplifica
l’interpretazione dei fatti, che nella realtà sono più complessi, e mistifica una verità più profonda
che è il rovescio di questo discorso.
Gli attuali ultraottantenni sono stati ventenni in età fascista. Nella loro gioventù regalarono al
mondo, e alla storia del mondo, il fascismo. Lo subirono anche, ma si può dire che ne hanno avuto
la colpa politica. Proprio il nazifascismo e l’ideologia della guerra e della conquista da cui non si
sono difesi e a cui anzi hanno aderito definitivamente lasciandosi plagiare dalla propaganda senza
nemmeno tentare uno sforzo critico di cui pure potevano essere capaci, date le esperienze sociali e
politiche che avevano personalmente fatto prima, proprio quella ideologia ha avuto un’influenza
funesta sul seguito della loro vita. Si può imputare loro, stando alle distinzioni del filosofo Karl
Jaspers, una colpa politica, una colpa morale e una colpa metafisica del nazifascismo, essendo la
colpa criminale attribuibile solo a chi agì con iniziative personali a favore di un sistema politico e
sociale crudele e ingiusto, appoggiando la cultura dellasopraffazione. Quando la nuova generazione
dei loro ventenni figlioli ebbe l’età delle decisioni, e siamo negli anni sessanta, e rifiutò di accettare
l’autorità esercitata dal padre padrone, e ogni altra forma di autoritarismo, compreso quello delle
convenzioni imposte in ragione del rispetto della tradizione, ebbe molti ostacoli e conflitti con la
generazione dei padri. La propaganda nazifascista aveva inoculato il suo marchio ideologico
indelebile nelle loro menti. I giovani ventenni, figli della generazione fascistizzata, rivendicarono il
diritto al nuovo, al personale , all’individuale, contro il tradizionalismo. La generazione che
divenne, e fu, ed è fascista, ab ovo, non comprese le nuove urgenze morali e culturali, non accettò la
reciprocità del rapporto educativo con i giovani, si oppose, chiudendosi nei suoi dictat, rendendo
impossibile il confronto intergenerazionale che avrebbe permesso di valutare insieme le
sperimentazioni e il tentativo di dare alla vita individuale una dimensione etica basata sulla
sincerità, sulla libertà di espressione, sulla lotta contro le ingiustizie e gli abusi. Fu impossibile dare
continuità al trasferimento dei contenuti esperienziali da una generazione all’altra, fu negato un
certo storicismo evolutivo. Un conflitto così acceso coi propri padri lasciò senza memoria e senza
esempi pedagogici i nuovi padri e le nuove madri. Essi forse hanno declinato le conquiste di libertà
in licenza, hanno idealizzato il nuovo come migliore e si sono messi alla ricerca superegotica della
propria edonistica convenienza. A loro volta massificati dalla civiltà dei consumi, malgrado la loro
istruzione e malgrado la stessa cultura civile che avevano dimostrato di avere. I danni delle
insipienze generazionali si ereditano.
La generazione degli ex sessantottini è stata danneggiata dalla insipienza della generazione fascista
precedente, dai suoi ottusi padri e dalle sue militariste madri che in gioventù si erano lasciate
persuadere dall’idea di appartenere a una razza eletta e che avevano pensato con indifferenza alla
separazione razziale, allo sfruttamento coloniale, fatto in nome della propria supremazia. Ma a sua
volta la generazione degli ex sessantottini ha danneggiato la generazione seguente, con cui ha
sperimentato nuove forme di genitorialità, ma cedendo frequentemente al fascino dei sostituti
tecnologici, a una dispersiva e dispendiosa ricerca del nuovo, con un approccio rinunciatario sul
fronte delle regole e dei divieti. Quelli che, appartenenti a tutte le classi sociali, nel ventennio
furono antifascisti e pagarono anche col discredito sociale la loro intelligenza civile e politica
furono pochi, ma la maggioranza di quella generazione fu fascista, fu massificata senza resistenza;
per effetto alone attribuiamo a tutta quella generazione meriti storici che sarebbe giusto riconoscere
invece ai pochi della resistenza critica civile al totalitarismo.
Non è possibile, secondo me, parlarne bene di quella generazione: hanno educato alla violenza e
alla sottomissione, non hanno mai accettato di mettere in dubbio le loro idee e soprattutto hanno
disprezzato ciò che non rientrava negli schemi dell’autoritarismo gerarchico. Hanno visto con
sospetto ideologico le altre opinioni. Forse sono loro che poi hanno amato il berlusconismo, icona
perfetta della profonda millanteria del popolo italiano, furbesca, goliardica, esclusiva.
Quella generazione, che è diventata inattuale, tende a sparire dalla faccia del mondo, ma i danni che
ha prodotto la pedagogia dell’ubbidienza e dell’adeguamento acritico che hanno professato sono
tutti nei suoi figli e nei figli dei loro figli.
La politica è invenzione, è creatività, è scoperta, pensiero applicato alla storia dell’uomo sulla terra,
è progettualità di forme organizzative possibili, è ricerca dei mezzi e dei modi per ottenere soluzioni
giuste (di giustezza oltre che di giustizia) che valgano per ogni individuo. Oggi sento che bisogna
dimenticare i padri, abbandonare i modelli, inventare il nuovo. L’umanità senza l’invenzione del
nuovo crescerebbe lacerando gli abiti vecchi che gli starebbero addosso come camicie di forza. Ma
il nuovo non viene da sé, richiede intelligenza politica e il coraggio della scelta mai provata e
dell’azione rischiosa. Alla generazione dei nostri figli bisogna dirlo.
Ho condiviso queste riflessioni con altre donne, con Giovanna innanzitutto, prima di perderla per
sempre. E’ proprio lei che mi ha frenato a pubblicarlo prima, e poi invece ha insistito perché ci
lavorassi. Condivideva con me un discorso femminista che, oltre le vane ed esibizionistiche mode,
auguro rinasca.
Articolo di luglio 2015