Scegliere se stessi. Le origini del cambiamento

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GIUGNO 15, 2007 BY IL BARATTOLO DELLE IDEE LEAVE A COMMENT
Scegliere se stessi. Le origini del
cambiamento
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Se fai ciò che hai sempre fatto otterrai ciò che hai sempre ottenuto
A. Robbin
Affinché ci sia un’azione che possa essere definita “umana” deve anche esserci
una scelta. Lo spazio della riflessione pratica sul bene e il male, si apre solo
quando è possibile una scelta, quando cioè con il nostro giudizio possiamo
anticipare almeno due ipotesi di comportamento e sceglierne una. La vera
sostanza della morale è dunque la scelta che è il lato oggettivo dell’azione e la
libertà che è invece il lato soggettivo. Ogni decisione va infatti compiuta in modo
autonomo, ovvero, in forza di un’autodeterminazione interna. E’ evidente infatti
che nessuna azione può essere considera morale o immorale se sono stato
costretto a compierla.
Come già visto in un’altro post, possiamo scegliere di agire perseguendo la
felicità o la realizzazione di ciò che è giusto, della legge morale che è i noi.
Quest’ultima prospettiva può inizialmente non avere appeal su di noi. L’idea di
dover direzionare l’azione non sulla ricerca della felicità, ma sulla libertà, intesa
come adesione alla legge della ragione, può sembrarci “fredda” e a tratti
“noiosa”. L’obiezione principale che possiamo muovere dunque a questa
visione è che noi non siamo affatto pura legge morale, ma individui in carne ed
ossa. Non ci sarà dunque di alcun giovamento agire in funzione di un’astratta
adesione alla norma, ma piuttosto sarà utile agire in funzione di aspirazioni e
interessi privati, i quali comportano per noi la realizzazione della felicità o
almeno il tentativo di raggiungerla. Scegliere di agire moralmente significa
allora scegliere noi stessi. Conoscersi è dunque la premessa per realizzare sé
stessi, l’imperativo morale non è più quindi il “tu devi”, di kantiana memoria, ma
l’antico adagio socratico “conosci te stesso“, che nella sua forma pratica si
legge: “Divieni ciò che sei“.
Ma cosa significa essere noi stessi? E cos’eravamo prima di diventare ciò che
siamo? Come si esce dunque da questo gioco di parole? Il poeta e cantautore
Francesco De Andrè in Verranno a chiederci del nostro amore scrive:
o resterai più semplicemente
dove un attimo vale un altro
senza chiederti come mai,
continuerai a farti scegliere
o finalmente sceglierai
In parole semplici, se non si sceglie per sé, a scegliere per noi saranno gli altri.
La non-scelta, l’azione inconsapevole, istintuale, di pancia e così via è in realtà
una scelta per interposta persona. Sceglieranno per noi allora le consuetudini,
i genitori, i codici morali in voga, i nostri politici, i mass media, i produttori di
desideri al consumo e così via. Si andrà a scuola perché così si deve,
all’università perché tutti lo fanno, ci si sposerà perché questa è la strada per
essere felici, faremo figli perché ci si è sposati apposta, si lavorerà per il
successo, perché è una cosa buona o magari per lo stipendio, perché è cosa
necessaria o peggio ancora per sopravvivenza: resteremo più semplicemente
dove un’attimo vale un’altro senza chiederci come mai. Per utilizzare una bella
immagine tratta da un film di Paolo Virzì a fine giornata ci ritroveremo come
un Ovo sodo nella pancia che fa su e giù senza né scendere, né salire:
Te l’ho detto, c’ho un coso qui, un magone. Come se avessi
mangiato un uovo sodo col guscio e tutto, non va né in giù, né in
su. Tutte le mattine, prima di portare Giovanna al nido, e poi andare
a lavorare in ospedale, Susy mi accompagna al lavoro in macchina.
E tutte le mattine, che piova o ci sia il sole, lei mi dice la stessa
identica cosa: “sei sempre più bello”. E io vado a lavorare contento.
Chi lo sa, forse sono rincorbellito del tutto, o forse sono felice…a
parte quella specie di ovo sodo dentro, che non va né in su né in
giù, ma che ormai mi fa compagnia come un vecchio amico…
Saremo divenuti ciò che era “normale” o “naturale”, ciò che magari era più
semplice, perché nello spazio delle attese altrui, ma non saremo mai stati più
lontani dall’essere felici, perché insoddisfatti, mancanti di qualcosa, non
presenti a noi stessi.
Ciascuno di noi, come è ovvio che sia, all’inizio si trova “immerso” in un mondo
familiare e sociale fatto di regole, convenzioni e abitudini che semplicemente
acquisisce e che costituiscono letteralmente il terreno dove poggia i propri piedi,
muove i primi passi. Questa dimensione è definita “mondo sociale della vita”
ed è preziosa in quanto costituisce la base di partenza solida per una corretta
costruzione del sé. Il momento iniziale della crescita è tuttavia quello in cui
subentra il conflitto, la ribellione, la fase dileguante del dubbio ed è un momento
tipico dell’adolescenza. La fase di emancipazione personale è dunque
preceduta da un momento critico, nel quale il rifiuto della autorità del “padre”,
comporta un misto di angoscia e senso di colpa, commisto a rabbia e
onnipotenza. Il sentimento della colpa è il lato soggettivo della norma, che
accompagna la condizione di allontanamento dalla stessa e che determina in
chi la viola un desiderio di riconciliazione, che avviene dal suo lato attraverso il
pentimento.
E’ sempre possibile sostenere che il senso di colpa sia la voce della coscienza
che abita in noi, il riflesso della verità interiore, come sosteneva S. Agostino,
oppure, possiamo immaginarlo come un derivato sociale e familiare, risultato di
forze esterne, che non sempre lavorano in funzione della nostra realizzazione
personale. In quest’ultima accezione può essere visto come una sorta di di filo
che tira colui o colei che vuole legarci a sé, indurci ad un’azione ovvero
dissuaderci dal compierla. La colpa diventa, in altre parole, strumento di
manipolazione, che facendo leva sull’interiorità del sentimento, muove le stesse
energie dell’interlocutore contro di lui e le azioni che pure desidererebbe
compiere. Colui che detiene l’autorità morale viene cioè riconosciuto dalla
comunità ristretta o allargata che sia come custode delle leggi morali (al plurale)
e possiede, proprio per il suo ruolo, la possibilità di giudicare moralmente le
azioni, condannandole o lodandole. Il depositario dei comandamenti, elargisce
così sensi di colpa, rimandando a punizioni future, che verranno compiute in un
metaforico al di là da venire. Frasi del tipo “un giorno capirai i tuoi errori” o
peggio “ti pentirai di quello che stai facendo”, sono tipiche di chi vorrebbe
dissuaderci dall’azione non con argomentazioni razionali, ma facendo leva su
timori irrazionali indefiniti. Quest’ultimo non rimanda a un concetto di giusto che
è stato costruito in interiore homine, ma a delle leggi intangibili, arcaiche,
naturali e inviolabili, di cui lui come detto si riconosce il custode.
Da questo punto di vista è interessante osservare come in tedesco “colpa” e
“debito” siano indicate dalla stessa parola “Schuld”. Anche in italiano, recitando
il padre nostro, se ci facciamo caso, diciamo “rimetti a noi i nostri debiti, come
noi li rimettiamo ai nostri debitori”, intendendo con debito, appunto, “colpa”. Il
senso di colpa è infatti un “negativo” nell’equilibrio generale del sistema e ha
come sua controparte un “positivo”, che è rappresentato come recita il Padre
Nostro dalla remissione dei peccati. Si tratta della dialettica di colpa, pentimento
e perdono. Dio rappresenta l’autorità capace di rimettere tutti i debiti, un’infinita
somma cui tutto può essere sottratto, ma che sempre somma resta. Nei fatti il
perdono viene concesso da colui che può elargire anche colpe, l’autorità
morale, che ha quindi da un lato la capacità di creare il problema (la colpa) e la
soluzione (il perdono). E’ proprio quest’ultima che ci lega a lui, in quanto lui
soltanto possiede la “moneta”, con cui possiamo ripagare i nostri debiti.
L’altro strumento che ha a disposizione, ma che consideriamo sullo stesso
piano è l’approvazione, che produce in noi gratificazione, l’inverso della colpa.
Questa è un dono, che, nell’essere concesso, lega e non libera, realizzando
anch’esso un debito. Le persone possono sviluppare una vera e propria
dipendenza dal senso di gratificazione indotto da altri e questo legame non è
meno forte che quello del senso di colpa, anzi più subdolo perché si esprime
come apparente rinforzo positivo del sé. Nell’atto in cui ci si allontana da ciò
che è scontato fare si potrebbero ricevere in “dono” entrambi il bastone della
colpa e la carota dell’elogio. Chi vuole costruire un Io autentico deve in
conclusione prima demolirsi e poi ricostruirsi, ed in questo passaggio che porre
attenzione ad entrambi questi “inciampi”. Scegliere-sé deve voler dire, allora,
assumere su di sé le responsabilità delle proprie scelte, centrando sulla propria
legge morale (al singolare) i propri criteri d’azione e rifiutando al contempo
qualunque autorità esterna. Ecco allora che l’affermazione kantiana iniziale che
la morale non debba essere mossa dalla ricerca della felicità, ma dal
sentimento del “puro dovere”, può essere rivalutata. Sarà questo infatti a
muovere le nostre e non sentimenti collaterali, quali come visto potrebbero
essere, senso di colpa e gratificazioni.
Voi che ne pensate? Vi siete mai trovati nella situazione di voler cambiare e
sperimentato difficoltà o sensi di colpa? Non esitate a commentare o
condividere il post se vi è piaciuto! �
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SCHULD, SE STESSI, SENSO DI COLPA
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