IL PATTO EUROPEO DI STABILITÀ E CRESCITA NON E’ PIÙ UN TABÙ Sommario: 1. Premessa – 2. Una prospettiva di cambiamento radicale fondata sulle posizioni di Almunia – 3. Il benchmark U.S.A. – 4. Cosa può fare l’Europa? 1. PREMESSA L’Italia ha contribuito poco all’elaborazione iniziale del patto di stabilità e di crescita, avvenuta nella parte centrale degli anni ‘90. A quel tempo non aveva i numeri, né in termini di finanza pubblica né in termini di ruoli sullo scenario europeo. Negli ultimi anni però la situazione è cambiata. I numeri della finanza pubblica sono molto migliorati, o comunque l’Italia riesce a stare entro i limiti del patto, al contrario di alcuni grandi paesi (Francia, Germania), che un tempo pretendevano di impartirci lezioni. Quanto ai ruoli, il Presidente della Commissione Europea è stato per cinque anni Romano Prodi, che per primo, con la ormai famosa affermazione: “Il patto europeo è stupido”, agitò il dibattito in materia. Inoltre, per tre anni, tra i Ministri Ecofin si è distinto Giulio Tremonti, che, in uno dei momenti più critici dell’Unione (la questione della non irrogazione di sanzioni a Francia e Germania che avevano “sforato”), ha sostenuto “l’applicazione intelligente di un patto stupido”. Ora i frutti si stanno cominciando a cogliere. L’Italia è stata tra i protagonisti dei recenti accordi europei del marzo 2005, che, conferendo maggiore flessibilità alle regole del patto, possono senz’altro essere inquadrati nella fattispecie “possibilità di applicazione intelligente di un patto stupido”. Ma un esito altrettanto importante di tali accordi è che finalmente il patto non è più un tabù. Si possono cominciare a fare riflessioni più approfondite, nel senso che, se veramente ci sono degli aspetti “stupidi”, ovvero delle debolezze di tipo strutturale, si è aperta la via per discuterne senza incorrere negli anatemi di quanti pensano che ogni critica apra la via alla distruzione del patto, e per conseguenza all’instabilità finanziaria. 2. UNA PROSPETTIVA ALMUNIA DI CAMBIAMENTO RADICALE FONDATA SULLE POSIZIONI DI Per evitare ogni possibile fraintendimento tra critica e volontà di affossamento del patto, l’analisi che segue sarà condotta sulla base di un recente articolo di Joaquin Almunia, attuale Commissario Europeo per l’Economia, pubblicato sul Financial Times del 15 novembre 2004. La prima proposizione dell’articolo è che nei periodi di crescita elevata il bilancio pubblico va migliorato, per creare maggiori spazi di manovra nei tempi cattivi. L’affermazione costituisce senz’altro un’apertura alla possibilità di sforare il 3 per cento di indebitamento annuo quando l’economia non cresce, purché ci si impegni a far meglio del 3 per cento quando la situazione economica è buona. In sostanza, il 3 per cento potrebbe divenire una media tra più periodi, anziché un vincolo applicabile ad ogni periodo. Questa posizione è stata già in sostanza recepita nei recenti accordi europei del marzo 2005. La seconda proposizione è che occorre tener conto delle differenze tra paesi per quanto riguarda la struttura economica, il saggio di sviluppo potenziale, la composizione demografica. Si tratta di un passaggio fondamentale, la cui discussione è al centro di questo intervento. Al limite, si potrebbe pensare ad una allusione al 3 per cento da intendersi come media tra i paesi dell’Unione, anziché come massimale da applicare ad ogni paese. La terza proposizione è che bisogna dare importanza non solo al vincolo sull’indebitamento, ma anche a quello sullo stock di debito, espresso in termini di rapporto debito/Pil (oggi il vincolo è costituito da un massimale del 60 per cento), nel senso specifico di renderlo “more workable”: cioè più 1 praticabile, più funzionale all’economia. Di nuovo, l’impostazione è molto interessante: il richiamo di base non è alla rigidità e alla uniformità di tetti massimi. La quarta proposizione è che le procedure di infrazione relative al deficit eccessivo, pur restando in vita i criteri fondamentali, non devono considerare “affronti al patto” le richieste di eccezioni basate su motivazioni cicliche e di sostenibilità. Si può dedurre che ha senso una flessibilità incardinata entro principi e regole effettivamente valide nel medio periodo per l’insieme dei paesi, come prospettabile in base ai punti precedenti. La quinta proposizione è che il patto europeo va “lisbonizzato”, nel senso che vanno incoraggiate le misure tese a promuovere la crescita, la dotazione di capitale umano, la partecipazione al lavoro delle donne, e di entrambi i sessi a tutte le età. Si tratta delle cosiddette “riforme strutturali dell’offerta” (minore fiscalità, emersione dal nero, cambiamenti del sistema pensionistico e del mercato del lavoro, cambiamenti della composizione della spesa pubblica), rispetto all’effettuazione delle quali si possono ipotizzare contropartite sul fronte delle regole di stabilità. 3. IL BENCHMARK U.S.A. Nell’insieme si tratta di grandi innovazioni, specie se si aprono spiragli per interpretazioni “estreme” alle affermazioni di Almunia, interpretazioni che possono andare ben al di là dei contenuti degli accordi del marzo 2005. Per approfondire, partiamo dal “benchmark”: la situazione degli Stati Uniti, l’unica grande area economica avanzata con moneta unica, articolata in governi statali e in un’entità sovrastatale, sia pure molto più potente di quella europea (il governo federale di Washington). Vengono discussi in particolare quattro punti. La situazione strutturale dell’offerta. E’ indubbio che gli USA presentano in materia assetti più “avanzati” rispetto alla media europea. Ma sarebbe sbagliato dare troppa enfasi a questo aspetto. Anzi è da dubitare che l’introduzione in Europa degli assetti americani, specie se spinta oltre certi limiti, dia risultati positivi in termini di scossa all’economia. Sono infatti enormi le differenze tra USA ed Europa rispetto all’omogeneità linguistica, al radicamento territoriale degli abitanti, all’atteggiamento dominate riguardo agli standard di sicurezza sociale. Gli investimenti delle imprese americane. Nel dibattito corrente si tende ad assumere che la maggior flessibilità dell’economia americana, unita allo sviluppo tecnologico e alla dinamica positiva della popolazione, porti ad un traino della produzione dovuto anche all’elevatezza degli investimenti privati delle imprese. I dati smentiscono tuttavia tale posizione. Gli investimenti delle imprese in quota del Pil negli USA sono stati, anche negli anni recenti, stabilmente più bassi della media europea, e molto più bassi di quelli del Giappone. Il bilancio dell’entità soprastatale americana. L’entità sovrastatale americana (Washington), a differenza di quella europea, dispone di un bilancio molto grande rispetto a quello dei singoli stati. In questo contesto, anche se i singoli stati sono sottoposti a una disciplina fiscale rigida, la flessibilità del bilancio laddove si governa la moneta (cioè a livello di entità soprastatale) permette, a differenza dell’Europa, un pieno management dell’economia. Tale potenzialità è stata dagli USA pienamente utilizzata, con oscillazioni assai marcate del saldo complessivo del bilancio delle pubbliche amministrazioni, specie negli ultimi venti anni (cioè da quando l’economia americana è tornata a girare). I consumi privati americani. L’economia USA, a differenza di quella europea, è trainata dai consumi privati. In particolare, il rapporto tra consumi privati dei residenti e prodotto lordo del settore privato risulta stabilmente molto più alto negli Usa rispetto a quello di tutti i paesi europei, con uno scarto medio che oscilla attorno ai quindici punti. Si può concludere che la crescita USA trae origine dalla flessibilità della politica di bilancio e dalla vivacità dei consumi americani. Non solo. Tale crescita, data la scarsezza del risparmio interno, si è tradotta in un enorme deficit della bilancia commerciale, che funge da traino a quel poco di sviluppo che c’è in Europa, e al molto sviluppo dell’Asia: specie, in questi ultimi anni, dell’area non giapponese. 2 4. COSA PUÒ FARE L ’EUROPA? Come riuscire a importare in Europa non solo una giusta misura di riforme strutturali, ma anche l’aumento della propensione al consumo e la flessibilità del bilancio pubblico, che sembrano, come detto, le due caratteristiche fondamentali dei successi dell’economia americana? L’obiettivo non è facile da conseguire. I consumi, infatti, in Europa, sono strutturalmente compressi dall’invecchiamento della popolazione, e dalla tendenza ad elevate patrimonializzazioni da parte delle famiglie, motivata soprattutto dalla ricerca di una sicurezza addizionale a quella offerta dal welfare, pure mediamente generoso. Mentre, riguardo alla manovrabilità del bilancio, l’equivalenza con gli Usa richiederebbe il conferimento di forti funzioni di spesa alla UE, cosa che non risponde né alla realtà di fatto né a quella auspicabile per il futuro. Una possibile risposta può essere articolata attraverso alcuni passaggi fondamentali. Stimolare la domanda. Sul fronte dei consumi, va innanzitutto combattuta “la cultura economica alla Mosé”, che tende in questo periodo a guadagnare posizioni anziché a perderle. Specificamente, si tratta di quel connubio tra esaltazione anticonsumistica del risparmio come motore dello sviluppo, di radice ottocentesca, e di concezione dell’impresa come macchina della produzione che gira su stessa indipendentemente dalla domanda. Questa seconda concezione è di derivazione sovietica, ma alligna anche tra le rappresentanze europee dell’industria, manifestandosi in particolare quando esse chiedono insistentemente sostegni alla produzione sul lato dei costi, anziché stimoli alla domanda per una produzione i cui costi vanno ottimizzati con la gestione privata, e non con gli aiuti pubblici. La recente svolta del governo italiano, con lo spostamento della maggior quota degli sgravi fiscali dall’Irap all’Ire, rappresenta, sotto questo punto di vista, esattamente quello che occorre. Poi c’è la risposta alla domanda di patrimonializzazione delle famiglie europee, rispetto alla quale non va eluso il nodo di fondo. Se la domanda di patrimonio eccede l’offerta privata del medesimo (azioni, obbligazioni, immobili da affittare, ecc.), il risultato è una caduta dei saggi di rendimento, con spostamento del risparmio all’estero, nei paesi dove i suoi rendimenti sono maggiori. Per conseguenza, non costituisce affatto un’eresia visualizzare il debito pubblico come una risposta al problema della mancanza di sufficiente offerta privata di “sicurezza di mercato”. Va al riguardo contrastata la tradizionale visione del debito pubblico come mero onere per le generazioni future. Infatti le generazioni future ereditano il debito, ma anche i relativi titoli di credito, con annessi interessi, che è poi quanto cercava chi originariamente li aveva comprati. Certamente questo non deve significare libertà senza freni al debito pubblico europeo. Vi sono dei limiti, in particolare rispetto al Pil, che vanno fissati, altrimenti si diffonde la sfiducia. Ma questi limiti vanno individuati tenendo conto del problema di base, che è quello sopra analizzato, e non in astratto, come è avvenuto nella “matematica di Maastricht”. Criticare la “matematica di Maastricht”. Secondo la “matematica di Maastricht” il debito è meramente una conseguenza di assunzioni di tipo teorico-speculativo. Si è prima assunto, a priori, un tasso di sviluppo del Pil mediamente pari al 5 per cento (grosso modo per metà dovuto ai prezzi, per metà dovuto alla crescita reale). E’ stato poi posto il vincolo esoterico all’indebitamento pubblico al 3 per cento. Si può dimostrare matematicamente che la combinazione dei due numeri magici, 5 per cento per l’economia privata e 3 per cento per l’economia pubblica, dà nel lungo periodo un debito pari al 60 per cento del Pil. Per verificarlo empiricamente, basta constatare che, se il debito al momento del patto era del 60 per cento, tale percentuale resta invariata se il 5 per cento di crescita e il 3 per cento di indebitamento vengono rispettati. Mentre, se al momento iniziale la percentuale era inferiore o superiore al 60 per cento, nelle stesse ipotesi su Pil e indebitamento essa rispettivamente tende a crescere oppure a decrescere. In conclusione, il debito resta sullo sfondo. Tutta l’attenzione, in maniera nevrotica, è stata a lungo concentrata su pochi decimali attorno al 3 per cento. Un decimale sotto c’era la salvezza. Un decimale sopra c’era la perdizione. Va notato peraltro che variazioni di pochi decimali dell’indebitamento corrente si riflettono sulle variazioni percentuali del rapporto tra stock di debito e Pil in maniera addirittura millesimale. E’ il trionfo del tecnicismo, degli statistici, degli econometrici, e lo svilimento totale del “governo grosso” dell’economia: quello che si sviluppa per idee di fondo, per direttrici, investendo gli aspetti basilari dei problemi e trascurando le questioni marginali. 3 Le obiezioni fondamentali alla matematica di Maastricht sono che non esiste una legge economica per cui un indebitamento del 3 per cento genera uno sviluppo del 5 per cento, né si può assumere lo sviluppo come un dato indipendente da una politica economica attiva. USA docet: lo sviluppo va governato attivamente. In Europa ciò vale ancora di più, perché, come visto, c’è una debolezza strutturale dell’elemento che in ultima istanza traina necessariamente l’economia, ovvero i consumi. Se si accetta la tesi che ciò dipende soprattutto dal fatto che la popolazione europea desidera uno stock di patrimonio superiore a quello offerto dall’economia privata, e quindi potrebbe essere necessario un livello del debito pubblico europeo mediamente superiore al 60 per cento del Pil, è proprio da questo che occorre partire. Dopotutto si tratta di una possibile applicazione di quanto afferma Almunia, quando parla di limiti del debito pubblico da tenere in più grande considerazione e da rendere più funzionali all’economia. Tra l’altro questo approccio presenta un duplice vantaggio: 1) i limiti del debito possono essere fissati all’interno di bande non strettissime (ad esempio in maniera tale che nel loro insieme risultino tra il 70 per cento e l’80 per cento del Pil europeo); 2) il mantenimento entro la banda consente ampi margini di flessibilità per l’indebitamento nel breve periodo, con definitivo superamento dell’ossessione per i decimali. Articolare il nuovo approccio sul debito. Fissato il principio di fondo (quello di ripartire dai limiti del debito, fissandoli in coerenza con i bisogni medi di sicurezza della popolazione europea), restano da discutere altri importanti aspetti. Si possono in particolare enucleare quelli che seguono: a) la differenziazione dei limiti di debito tra paesi. Si tratta di una questione molto delicata, ma coerente sulla carta con l’impostazione di Almunia, secondo il quale occorre tener conto delle differenze strutturali tra le economie. In particolare, una volta accettato che il livello di debito ottimale dipende dai bisogni di patrimonializzazione delle famiglie, aggiungendo che questi possono essere approssimati dalla propensione al risparmio del settore privato dell’economia, si potrebbe collegare lo scostamento verso l’alto di tale propensione rispetto alla media europea con uno scostamento di segno analogo dei limiti di debito assegnati al paese; b) lo spostamento verso l’alto dei limiti di debito. Se i limiti di debito si spostano più in alto, baricentrandosi attorno ad un livello superiore al 60 per cento (il limite oggi vigente per ciascun paese), si crea lo spazio per incrementi notevoli nel breve periodo del rapporto indebitamento/Pil. Tale rapporto, specie per taluni paesi, potrebbero superare di molto il 3 per cento (ad esempio, se a un paese, che oggi sia caratterizzato da un rapporto relativo allo stock di debito pari al 60 per cento, viene assegnato il 70 per cento, questo potrebbe spingere l’indebitamento per tre anni al 7-8 per cento del Pil, in modo da raggiungere in tempi rapidi i nuovi limiti di debito). La circostanza potrebbe risultare in uno shock benefico per la crescita, con l’utilizzo proficuo delle riserve valutarie in eccesso, oggi esistenti, in caso di sopravvenienza di un deficit commerciale europeo. E’ opportuno tuttavia fissare dei paletti al “percorso di scorrimento” tra vecchi e nuovi livelli di debito, ad esempio legando la “velocità di movimento” all’effettuazione di significative riforme strutturali; c) la situazione a regime. A regime, passata la fase transitoria, l’indebitamento annuo, se i limiti strutturali assegnati allo stock di debito sono diversi, potrà variare tra paese a paese, e potrà anche eccedere il 3 per cento. E’ opportuno tuttavia un mantenimento orientativo del 3 per cento, legando strettamente la possibilità di sforamento al caso di ciclo economico molto basso (ad esempio quando la crescita è negativa, o del tipo zero virgola). Di nuovo, si terrebbe conto in materia delle indicazioni di fondo di Almunia. Conclusioni. Chi scrive è convinto che, con una riforma strutturale di questo genere, l’Europa verrebbe potenziata, non svilita. D’altro canto le resistenze ad una svolta marcata potrebbero essere grandi. Bisogna però almeno convincersi che le questioni sul tappeto sono enormi, ed è in discussione nientemeno che la liberazione dell’Europa dal rimorchio degli USA e dal possibile declino economico. Giuseppe Vitaletti Presidente dell' Alta Commissione per la definizione dei meccanismi strutturali del Federalismo Fiscale 4