Letteratura Latina (753

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LETTERATURA LATINA
DALLE ORIGINI A LUCREZIO (753 -50 A.C.)
© GSCATULLO
(
Letteratura Latina
Intro
Origini
La nostra conoscenza della letteratura latina è prevalentemente scritta, ad eccezione delle orazioni e pochi
altri testi, non abbiamo documenti della letteratura orale. La scrittura era nota ai Romani sin dal VII secolo
a.C., in origine usata solo per fini pratici, ne abbiamo, dal VI secolo a.C., testimonianze epigrafiche. Il primo
testo scritto di cui abbiamo notizia è l’orazione in Senato di Appio Claudio Cieco del 280 a.C., tuttavia non è
pervenuta sino a noi. Soltanto dopo la seconda metà del III secolo a.C. avremo opere letterarie vere e proprie,
soprattutto per esigenze didattiche: è il caso della traduzione dell’Odissea di Livio Andronìco.
Supporti di scrittura
Il materiale scrittorio più usato dai latini erano le tabellae ceratae, tavole di legno incerate ed incise con uno
stilo. Si anno attestazioni anche di tabellae in legno imbiancate su cui si scriveva con l’inchiostro. Entrambe
erano talvolta rilegate in codex e codex lignei. Dalla metà del I secolo a.C. fu invece in uso il rotolo papiraceo,
scritto ad inchiostro su più colonne. Quando in epoca ellenistica il governo egizio vietò l’esportazione del
papiro fu la volta della pergamena, da Pergamo che la produceva, in pelli di animali essiccate. Per via del
costo del materiale, talvolta veniva raschiato via il testo ed il supporto riutilizzato: è il palinsesto. Dal IV secolo
la pubblicazione delle opere avveniva in codex, una sorta di libri con fogli di papiro o pergamena.
Pubblicazione
Originariamente aurale, nei recitatio, dal I secolo a.C. con le botteghe librarie le opere venivano copiate e
distribuite per la lettura (non esistevano diritti d’autore). La conservazione delle opere era in origine in
biblioteche private di illustri letterari e, dal 39 a.C. con Asinio Pollione nel tempio della libertà, pubbliche sino
ad un totale di ventotto nel IV secolo d.C. Negli ultimi anni dell’impero e nel Medioevo è ai Monasteri il
compito di preservare (e copiare) le opere. Si tenga conto che un’alfabetizzazione adeguata per un pubblico
di lettori ampio si avrà solo nei primi secoli d.C.
Tradizione
Dal III secolo a.C. la copiatura dei testi letterari latini permise la diffusione in piccolissima parte delle opere
tramite tradizione diretta. Molti scritti sono di nostra conoscenza solo nelle citazioni di altri autori, tradizione
indiretta. La deperibilità dei supporti scrittori fece sì che solamente le opere copiate – generalmente testi ad
uso scolastico - sopravvissero. Le altre si persero in favore di riassunti e testi antologici. Il cambiamento dei
materiali, dal papiro alla pergamena, e dei tipi di scrittura, dal maiuscolo al minuscolo carolino, affidarono la
longevità delle opere agli amanuensi cristiani che selezionarono spesso quelli inerenti la dottrina. Con gli
umanisti si ritornò a studiare sui testi classici riportandoli alla luce dalle biblioteche dei monasteri.
Filologia
A causa degli errori di copiatura, le corruttele, stesse copie di un testo risultavano spesso discordanti fra loro.
Dalla Biblioteca di Alessandria nacquero dunque figure che si occupassero di stabilire la fedeltà di un’opera
al suo originale: la filologia. Trovati i manoscritti, il filologo li confronta e li esamina (recensio) e quindi li
rapporta in uno schema (stemma codicum) al cui vertice vi è il testo originale (archetipo), dunque risolve le
incongruenze scegliendo la versione più plausibile e correggendo gli errori (emendatio), ottenendo
un’edizione critica dell’opera.
Storia
Dalle origini al 133 a.C.
In un’Italia mosaico di popoli autoctoni, i Latini fondano Roma sulle rive del Tevere nel 753 a.C. Governata da
una monarchia, nel 509 a.C. dopo una dinastia etrusca gli aristocratici rovesciano il trono in favore di una
Repubblica. Il consiglio degli anziani che prima affiancava il re, il Senato, diviene detentore del potere
legislativo e nuove magistrature sostituiscono il monarca. Dopo proteste ed una secessione la Plebe ottiene
leggi scritte (450 a.C.) e diritti politici (accesso al consolato nel 367 a.C.). Sino al 272 a.C. Roma intraprende
campagne militari per il controllo della penisola, e con le guerre puniche, nel 146 a.C. è padrona del
Mediterraneo (Spagna, Sicilia, Africa, Grecia) e nel 126 a.C. dell’Asia occidentale, con il regno di Pergamo. Da
una politica di alleanze, per un controllo di un regno così vasto, passa ad una imperialista. Emerge la classe
sociale degli equites, ed intorno alla metà del II secolo a.C. si incrinano i rapporti con i contadini.
Cultura
Appartenente al ceppo occidentale dell’indoeuropeo, il latino subì l’influenza delle lingue autoctone e degli
stati confinanti, ma restò sempre lingua ufficiale. L’alfabeto è derivante da quello greco di Cuma, arrivato a
Roma tramite gli etruschi, usato nelle colonie della Magna Grecia. Sin dal VII secolo a.C. ritrovamenti
archeologici ci suggeriscono legami con la civiltà greca, già presumibile dalla somiglianza di alcune divinità.
Sia dalla lingua greca che da quella etrusca provengono “interferenze linguistiche” con termini importati in
latino. Dal III secolo a.C. con l’espansione meridionale inizia un’ellenizzazione culturale, dovuta anche da
flussi migratori greci a Roma, che diffondevano il greco nella popolazione in una sorta di bilinguismo. Il primo
scrittore latino fu un liberto tarantino, Livio Andronìco, che fece inscenare nel 240 a.C. un’opera teatrale
greca in latino. La cultura romana dunque, nasceva all’insegna di quella greca di cui si appropria
riconoscendone la superiorità. Alcuni romani, gli antielleni, vedevano nella cultura greca una minaccia al mos
maiorum, è il caso di Catone il Censore. Lo stesso rifiutò, in un famoso episodio del 155 a.C. con protagonista
il greco Carneade, la filosofia greca, considerandola deviante. Di contro i filoelleni accolsero con entusiasmo
la cultura greca, nel II secolo a.C. Scipione l’Emiliano creò un circolo culturale omonimo, con scrittori e autori
latini ispirati dalla cultura ellenica, il tutto però ci è reso noto solo da dialoghi di Cicerone, che pare abbia
ricostruito ed enfatizzato il dato. Assente una letteratura filosofica, controllato dallo stato il teatro ed
importati tutti i generi dalla cultura ellenica, fatta eccezione per la satira, la letteratura latina si andava
formando su modello greco e gli scrittori aumentarono il loro rango sociale.
Letteratura delle Origini
Oralità
Le prime forme indigena di letteratura erano sicuramente orali, visto il ruolo pragmatico che giocava la
scrittura agli inizi della storia romana. Tra questi sono noti, per trascrizioni postume, i carmina, canti religiosi
che invocavano l’intercessione divina nei bisogni pratici. La loro struttura è difficile da stabilire non avendo
una struttura metrica delineata. Altra forma preletteraria, però in prosa, di cui abbiamo tracce nel II secolo
a.C. ma di cui è facile presupporre un utilizzo precedente, sono le Laudationes funebres, ovvero pubblici elogi
ai defunti delle famiglie patrizie. In ambito profano e privato ritroviamo invece i carmina convivalia utilizzati
nei conviti, a celebrazione dei propri antenati: sono i precursori dell’epica. Similmente i carmina triunphalia
celebravano il trionfo dei soldati vittoriosi.
Forme preletterarie teatrali
Durante giochi e feste legate al culto, ritroviamo accesi scambi di battute, i Fescennini, fra contadini
mascherati, che si possono identificare nel futuro teatro. Nel 364 a.C., con l’intento di placare gli dei e la
carestia a loro attribuita, per la prima volta a Roma furono rappresentati i ludi scaenici, canti e balli per i
quali, sconosciuti ai loro attori, dovettero chiamare figuranti etruschi. A queste rappresentazioni etrusche i
latini aggiunsero battute di spirito e gli diedero musicalità: nasce la satura. Di matrice campana è invece la
fabula Atellana, dove gli attori improvvisavano su un canovaccio prestabilito e personaggi stereotipati.
Le prime iscrizioni
La prima traccia di una scrittura letteraria, in un contesto pubblico-sacrale e non più utilitario, è del VI secolo
a.C. su un ceppo di pietra ritrovato sotto il lapis niger. Del IV secolo a.C. invece la più antica iscrizione privata,
sulla cista Ficoroni. Similmente agli orali laudatio funebris, abbiamo delle epigrafi sepolcrali, detti elogia,
simili ai moderni epitaffi.
Antenati indigeni della storiografia, che si formerà solo dopo il contatto con la cultura ellenica, sono gli
Annales Maximi, elenco crono-storico di fatti avvenuti a Roma e dei consoli in carica, redatti sino al II secolo
a.C. dal Pontifex Maximus, capo dei sacerdoti. L’attendibilità tuttavia non è alta essendo la carica riservata ai
patrizi sino al III secolo a.C. Da questo documento dobbiamo però la conoscenza della storia latina antica e
l’impostazione storiografica annalistica.
Originariamente il diritto, corrispondente al rispetto dei mores maiorum, era trasmesso oralmente tra la
classe patrizia che deteneva il potere giudiziario. La transizione ad una fase scritta fu una grande conquista
per i ceti più bassi che avevano quindi la certezza delle leggi, che passavano ad una condizione non più sacrale
la cui conoscenza ed interpretazione era elitaria, ma ad una universale ed umana: nasceva lo ius. La stesura
scritta delle leggi si ebbe nel 450 a.C. ad opera, tradizionalmente, di dieci magistrati su XII tavole di pietra. La
forma era concisa e facilitava l’apprendimento mnemonico.
I Primi Autori
Comandante durante le guerre sannitiche, censore nel 312 a.C., console nel 307 e nel 296 a.C., Appio Claudio
Cieco fu un illustre oratore e politico latino. Celebre per la sua orazione in Senato, poi trascritta, del 280 a.C.
considerato il primo documento letterario latino. A lui sono attribuite anche una raccolta di massime, il
Carmen de sententiis ed il primo codice di procedura civile, ius Flavianum, pubblicato dal suo segretario Gneo
Flavio nel 304 a.C.
Schiavo greco a Roma come precettore dopo il 272 a.C., Livio Andronico (280-200 a.C. ca), poi liberto, noto
per la traduzione romanizzata dell’Odissea omerica: utilizzò infatti elementi propri della cultura latina, come
ad esempio il saturnio in luogo dell’esametro, la Camena anziché la musa, ecc. Fu anche autore teatrale, e la
messa in scena di una delle sue opere nel 240 a.C. segna la ‘nascita’ della letteratura latina. Nel 207 a.C. gli
fu incaricata la composizione di un carmen in onore di Giunone.
Gneo Nevio, probabilmente un plebeo romano campano, partecipò alla prima Guerra Punica ed operò in
campo letterario dal 235 a.C. parallelamente ad Andronico. Creò il genere della tragedia praetexta basata su
temi nazionalistici romani. Nel 206 a.C. finì in carcere per della satira sul consolato di Metello. Compose il
poema epico Bellum Poenicum narrante le vicende della prima guerra punica, in saturni, poi ripreso come
fonte da Virgilio nell’Eneide, che vide la commistione tra mito e storia.
I generi del teatro latino
Il teatro latino assumeva diversi nomi in base all’ambientazione dell’opera e al genere (tragedia/commedia):
dall’aggettivo e participio passato praetexta (< praetexto tesso, orlo) con cui ci si riferiva alla toga ornata da
una striscia di porpora lungo il bordo indossata dai magistrati romani, il termine praetexta indica la tragedia
di ambientazione romana. Il termine cothurnata che designa la tragedia di ambientazione greca, da un tipo
di calzature elleniche, i cothurni. Dal nome della nota veste romana, la togata indica la commedia di
ambientazione romana. Dal pallium, stoffa utilizzata come mantello dai Greci, si indica con il termine palliata
una commedia di ambientazione greca.
Plauto
Primo autore della letteratura latina le cui opere ci sono pervenute intere, fu commediografo latino e le sue
opere vengono inscenate tutt’oggi e hanno ispirato gran parte del teatro comico occidentale.
Abbiamo di lui pochi dati biografici: nacque a Sàrsina intorno al 250 a.C., Tito Maccio Plauto, nome che non
trova conferme nei documenti, fu operante come commediografo dalla seconda guerra punica, morì nel 184
a.C. Sino al lavoro filologico di Marco Terenzio Varrone, circolavano a nome di Plauto centotrenta presunte
attribuzioni, ridotte a ventuno commedie su cui si è concordi della paternità plautina.
Le sue opere, palliate, sono di ambientazione greca: egli ha infatti riadattato quelle che erano gli esponenti
della commedia nuova greca, tra cui Meandro, tuttavia l’assenza di testi originali pone difficoltà
nell’individuare gli elementi imitati e quelli inventati ex novo da Plauto. La trama è generalmente simile a
tutte le commedie: un giovane si innamora di una fanciulla, l’amore è ostacolato da un senex o da un lenone,
la risoluzione è raggiunta con l’astuzia del servus che vince sull’anziano ribaltando le concezioni sociali
dell’epoca. Caratteristica propria della commedia plautina è infine la rottura della quarta barriera, che rompe
la finzione scenica con il metateatro, parlando con il pubblico e coinvolgendolo nella scena.
Le Principali Maschere
Residuo probabilmente della fabula atellana, la commedia plautina presenta maschere-tipi ricorrenti ognuno
con una propria caratterizzazione: l’adulescens, il giovane, che può essere perfetto (ardito e deciso),
lussurioso (scapestrato e sfrontato) e rustico (rozzo e libidinoso); il senex, padre nobile, nonno bonario o
nonno avaro; la meretrix, che è la cortigiana ovvero l’etera-prostituta; la matrona, madre dell’adulescens e
moglie del senex, è dispotica e spesso provvista di dote matrona dotata, ne esiste una versione più gentile,
ule; il parassitus, adulatore che è mantenuto da un altro personaggio e ne dissipa i beni; il lenone che è
l’avido gestore del lupanario, si noti l’esistenza anche di una sua controparte femminile, la lena; infine il
servus che è spesso callidus (scaltro).
Ennio
Quinto Ennio originario della Magna Grecia, nacque a Rudiae nel 239 a.C., combatté durante la seconda
guerra punica tra le truppe ausiliarie in Sardegna, e da qui fu condotto a Roma da Catone nel 204 a.C. Qui si
avvicinò ai fautori dell’ellenizzazione, e fu molto amico di Scipione l’Africano, che celebrò nel poema epicostorico Annales e nel poemetto Scipio. Ebbe come protettore Marco Fulvio Nobiliore, con il quale partecipò
alla campagna militare contro gli Etòli, che condusse alla presa di Ambracia nel 189 a.C. che celebrò in
un’opera omonima, probabilmente una pretesta. Nel 184 a.C. ottenne la cittadinanza romana, morì nel 169
a.C. Venne considerato in età augustea padre (Pater Ennius secondo Orazio e Properzio) della letteratura
latina, usò per primo infatti l’esametro ed ispirò le opere di Virgilio e Lucrezio.
Terenzio
Terenzio è l’unico commediografo assieme con Plauto di cui abbiamo opere intere, riprende anche lui da
modelli greci, ma con maggior fedeltà.
La prima biografia che lo interessa è del II secolo a.C., scritta da Svetonio, Vita Tarenti, nella sezione De poetis
del De viris illustribus. Nato in Africa, a Cartagine, intorno al 184 a.C., venne a Roma come schiavo del
senatore Terenzio Lucano che lo fece istruire come uomo libero e poi lo affrancò. Assunse così il nome di
Publio Terenzio Afro.
Svolse gran parte del suo lavoro all’interno del Circolo Scipionico, ambiente aristocratico filoellenico che ebbe
tra i suoi esponenti Lucio Emilio Paolo, Scipione Emiliano e Gaio Lelio; per la sua appartenenza al circolo fu
accusato dai suoi delatori di aver fatto da prestanome, ovvero di aver pubblicato a suo nome commedie
scritte dagli altri componenti del circolo che non potevano per ragioni di prestigio riconoscersi come autori
di commedie.
Scrisse sei commedie che furono rappresentate tra il 166 ed il 160 a.C., dopo la messa in scena dell’ultima
partì per un viaggio in Grecia ed Asia Minore senza più ritornare. Svetonio, oltre a riportare come data della
morte il 159 a.C., ipotizza alcune cause come una malattia, un naufragio o sofferenza per la perdita di
commedie greche tradotte.
Le sue commedie hanno come modelli: Meandro, per il Phormio e l’Hecyra, e ad Apollodoro di Caristo, emulo
anch’egli del primo. L’assenza delle commedie originali greche rende impossibile una comparazione, tuttavia
sono presenti elementi che si discostano come la contaminazione e la soppressione del prologo espositivo,
sostituito con una sezione critica introduttiva, anche per rispondere alle diverse accuse dei suoi avversari, tra
cui il plagio dei predecessori. Sul piano stilistico adotta un linguaggio caratterizzato dal purismo lessicale,
escludendo neologismi e forestierismi.
Lucilio
Gaio Lucilio nacque a Suessa Arunca da una ricca famiglia equestre nel 148 a.C. e morì nel 102 a.C. Sostenne
con la sua opera Scipione Emiliano e Gaio Lelio, ma non si impegnò mai direttamente nell’attività politica.
Rappresenta una nuova figura: non un letterato di professione, ma un ricco signore che aveva in interesse
più la letteratura che la politica. Si dedicò principalmente ad un’unica forma poetica: scrisse infatti trenta libri
di Saturae, di cui ci sono pervenuti cica 1370 versi in frammenti per lo più assai breve. L’ordine di stesura non
corrisponde a quello della raccolta: i libri I-XXI sono infatti scritti dopo e tutti in esametri, i libri XXII-XXX scritti
prima in più metri.
La satura assume con Lucilio caratteri più precisi: l’uso dell’esametro, l’attacco personale ed il carattere
soggettivo. Unico genere letterario senza un corrispettivo greco è considerata “esclusiva” dei latini, non è
chiara l’etimologia: ora collegata ai Satiri, ora alle primizie offerte agli dèi satura lanx, ancora ad un piatto
omonimo a base d’uva passa, o infine ad una proposta di legge eterogenea lex satura. Due sono quindi le
direzioni in cui le spiegazioni vanno a chiarire il concetto: una lega la satura al carattere burlesco del
componimento, tre invece all’eterogeneità delle tematiche. Precursori del genere sono la preletteraria satura
teatrale, le Saturae di Ennio, distinte per varietà di metri e contenuti. Due sono quindi le fasi d’evoluzioni
della satura: una prima con Ennio mista e variegata, ed una seconda con Lucilio ed i suoi successori più
aggressiva.
Caratteristiche delle satire di Lucilio sono la varietà degli argomenti trattati, ed una certa attenzione per il
realismo (ⓔ oggetti di vita comune, sport, occasioni sociali, banchetti e cronaca). Trattata anche la tematica
erotica probabilmente ripresa dalla commedia. Non mancano spunti di considerazioni morali
dall’osservazione della realtà. Da un suo frammento in cui definisce la virtus (1342-1354 Krenkel) si evince un
possibile contatto con lo stoicismo di Panezio che fa coincidere la validità morale (honestum) con quella
pratica (utile), inoltre la mancanza di aspetto religioso nella virtus fa risaltare il carattere razionale e filosofico
del pensiero di Lucilio. Altri elementi caratteristici di Lucilio sono una forte aggressività che consegue al
carattere moralistico; il carattere soggettivo di alcuni componimenti quando, raccontando in prima persona
i fatti, fa parlare un personaggio (“il satirico”) in cui traspone tratti del proprio carattere; infine l’importanza
che viene data allo spirito, per far divertire il lettore, tanto che lui stesso definirà le sue composizioni un
ludus.
La lingua dei componimenti era il sermo cotidianus, con presenza del bilinguismo latin-greco. Ciò porterà
Lucilio a definire le sue opere sermones, accezione ripresa anche da Orazio. Il pubblico a cui era destinata
l’opera era medio, né troppo colto, né troppo ignorante.
Un’intera satira è dedicata alla poetica, egli prende le distanze dai generi elevati della tragedia e dell’epos,
deride i poeti tragici latini accusandoli di distorcere il verum. Considera inoltre la sua condizione, in quanto
intellettuale, superiore a quella degli altri equites.
Storia
Dal 133 a.C. al 44 a.C.
Negli ultimi decenni del II secolo d.C. le strutture socio-politiche della res publica entrano in crisi. Le classi meno abbienti,
piccoli e medi proprietari terrieri, infatti erano uscite immiserite dal secolo precedente (questione agraria) e la classe
dirigente romana si divise in due fazioni: gli optimates, conservatori, ed i populares promotori di riforme a vantaggio dei
meno abbienti. Quest’ultimi comprendevano anche gli equites e i socii. Tentativo di risoluzione fu promosso dai fratelli
Tiberio e Gaio Sempronio Gracco, tribuni della plebe rispettivamente nel 133 e nel 123-122 a.C., entrambi uccisi dagli
Optimates e la loro riforma inattuata. La crisi compromesse il sistema di reclutamento militare basato sul censo, Gaio
Mario, homo novus dei populares, lo riformò rendendolo volontario, in occasione della guerra giugurtina (111-105 a.C.).
Nel 90 a.C. i Socii si ribellarono a Roma, nello stesso anno una legge che gli concedeva la cittadinanza fece cessare il
conflitto rendendoli difatti vincitori. Nel I secolo a.C. i populares, guidati da Mario, furono sostituiti al potere dagli
optimates di Silla, che con una riforma politica ridusse l’influenza degli equites e della plebe. Morì nel 79 a.C. Nello stesso
periodo si susseguirono diverse rivolte: la prima con Sertorio, generale di Mario, nel 80 a.C. e la seconda con Spartaco
degli schiavi, nel 73 a.C. Nel 70 a.C. fu eletto console Pompeo che condusse campagne militari ad Oriente e contro i
pirati, strinse un accordo politico (triumvirato) con i populares Crasso e Cesare nel 60 a.C. Console nel 59 a.C., Cesare,
pre-console in Gallia la conquistò fra il 58 ed il 50 a.C. Pompeo intanto prese il potere in alleanza con gli optimates del
Senato, Cesare nolente a sottomettersi alla volontà di quest’ultimo marcia contro Roma nel 49 a.C. e sconfitto a Farsalo
Pompeo, viene nominato dittatore. Carica rinnovatagli nel 46 a.C. e nel 44 a.C. quando gli divenne carica a vita, e allo
stesso modo mantenne la carica di imperator: nella sua persona erano dunque racchiusi tutti i poteri civili e militari.
L’oligarchia senatoria, non rassegnata alla sua inesorabile estinzione lo uccise in una congiura il 15 marzo del 44 a.C. Ma
la res publica era oramai al tramonto.
Evoluzione dei generi letterari
I cambiamenti storici si riflessero sulla poesia: non più l’epoca delle grandi conquiste ispiratrici dell’epica, ma inizia ad
emergere un genere nuovo, la poesia lirica, espressione della dimensione privata e soggettiva dell’autore. La tragedia,
che mancava di testi nuovi fu portata avanti con il virtuosismo degli autori e la spettacolarità delle scene, ma ciò non
bastò ad attirare le masse che preferivano le gare ippiche ed i combattimenti fra gladiatori. Finì così per diventare un
genere privato ed un esercizio puramente letterario. Non sorte migliore ebbe la commedia che dopo Terenzio aveva
esaurito i modelli greci ampiamente sfruttati, tentativo di ripresa fu la togata che tuttavia manteneva le stesse trame
della palliata. Nuova forma di teatro comico fu l’atellana letteraria che riprendeva il genere più antico ed omonimo,
mantenendone le maschere tradizionali ed il carattere buffonesco, sostituendo però ai canovacci per l’improvvisazione
dei copioni veri e propri. A soppiantare la commedia fu però il mimo, simile ad un moderno “varietà”, alternava canzoni,
balletti, scenette comiche ed altro, basate su copioni parziali che lasciavano spazio all’improvvisazione degli artisti.
Prendevano inoltre parte alla scena attrici (mai usate nel teatro precedente), che assecondando i gusti più volgari
giungevano spesso allo spogliarello finale.
Lucrezio
Vita
Poco sappiamo sulla biografia di Lucrezio, la testimonianza più importante appartiene a S. Gerolamo (IV sec. d.C.) che
lo descrive come nato nel 94 a.C. e, folle per un filtro d’amore, morto suicida a 43 anni, avrebbe scritto il De Rerum
Natura fra gli intervalli di pazzia, opera poi pubblicata e curata da Cicerone. Il grammatico Donato (IV secolo a.C.) nel
suo Vita di Virgilio lo fa nascere nel 98 a.C. per poi collocarne la data di morte nel 55 a.C., anno in cui lui pone l’assunzione
della toga virile di Virgilio. Tesi supportata anche da una lettera di Cicerone al fratello datata 54 a.C. in cui si fa menzione
dell’opera. Anche la notizia riguardante la pazzia del poeta è dubbia: si suppone che S. Gerolamo non abbia assunto
dalla sua fonte abituatale, il De poetis di Svetonio (II sec. d.C.) ma da leggende in ambito cristiano che screditavano il
poeta. Più probabile una forma di disturbo bipolare che alternava momenti di euforia a momenti di avvilimento. Dai
suoi contemporanei non si hanno notizie di alcun tipo, ad eccezione della succitata lettera ciceroniana, probabilmente
per la filosofia a cui aderiva che gli imponeva la vita appartata.
Poetica
Il De rerum natura è un poema epico-didascalico in esametri composto da sei libri. Il suo oggetto è la filosofia epicurea,
diffusa nel mondo romano già dal I secolo a.C., unica secondo l’autore a poter condurre l’uomo alla felicità. Il dedicatario
dell’opera è un certo Memmio, si presuppone sia un illustre personaggio, forse poeta egli stesso, appartenente agli
optimates che ha ricoperto diverse cariche politiche. Il titolo del poema è la traduzione latina del greco περὶ φύσεος
(“sulla natura”), titolo di molte opere filosofiche greche e della principale opera epicurea. Sebbene fortemente criticata
dallo stesso Epicuro, Lucrezio scelse la poesia per scrivere il libro, affermandone il valore strumentale per mediare i
contenuti salutari ma difficili della dottrina. Ebbe per modelli letterari il poema epico-didascalico greco Le opere e i giorni
di Esiodo, un περὶ φύσεος di Empedocle, Ennio ed ovviamente Epicuro.
Contenuto dell’opera
L’opera di apre nel suo proemio con una preghiera a Venere, progenitrice e prorettrice dei Romani, analogamente a
quanto avviene nei poemi epici per le muse, la sostituzione delle quali apre a diversi significati: la dea personifica la
natura, la fecondità ed il piacere. Dopo l’invocazione a Venere segue nel proemio un elogio ad Epicuro, vittorioso sulla
mostruosa religio, quindi il ricordo del mito di Ifigenìa immolata dalla flotta paterna per iniziare la Guerra di Troia.
I Libro: Gli Atomi Il primo libro presenta la dottrina degli atomi, di cui tutta la materia è composta secondo la dottrina
epicurea. L’ultima parte del libro si occupa di dimostrare l’infinità dell’universo.
II Libro: Il Clinamen Nel proemio viene contrapposta l’atarassia del sapiente con la stoltezza ed infelicità della maggior
parte degli uomini. Viene quindi trattato il clinamen ovvero il movimento e le combinazioni degli atomi, ovvero della
deviazione degli stessi dalla loro traiettoria verticale nel vuoto. Nell’ultima parte sono trattate pluralità e caducità dei
mondi.
III Libro: L’Anima Dopo una solenne celebrazione di Epicuro, viene trattata l’anima nella sua natura mortale e composta
da atomi. Viene quindi trattata la paura della morte e la sua infondatezza.
IV Libro: Le Sensazioni Vengono trattate le sensazioni secondo la dottrina epicurea: sottilissimi atomi si staccano dagli
oggetti e colpiscono i sensi. Nel finale sono trattati l’amore ed il sesso.
V Libro: L’Universo Dopo un nuovo elogio ad Epicuro, trattazione dell’Universo e dei corpi celesti, frutto del caso.
Trattazione della storia dell’uomo.
VI Libro: I Fenomeni Naturali Si apre con l’elogio ad Atene ed Epicuro, segue la descrizione dei fenomeni meteorologici
e naturali che causano il timore degli dèi, rimosso dalla loro spiegazione scientifica. Chiude il libro una trattazione delle
epidemia, ed una particolareggiata descrizione della peste di Atene del 430 a.C. basato sulla descrizione di Tucidide (V
sec. a.C.).
Come si può notare i libri sono raggruppabili in dìadi (coppie) trattanti nell’ordine: la fisica, l’antropologia e la
cosmologia. Ogni libro ha poi un proemio, un argomento ed un finale. Manca un’esposizione sistematica della dottrina
che è presupposta.
Stile e Temi
Molti studiosi presuppongono che il poema lucreziano sia incompiuto: si suppone che il poeta non abbia dato revisione
al suo testo a causa della prematura morte, a sostegno di ciò nel libro V ad esempio è preannunciata una trattazione
delle sedi degli dèi poi assente. Altri presunti difetti come le iterazioni sono da attribuire ad un gusto meno raffinato di
Lucrezio o ad un fine di chiarezza e didattica premeditato. Allo stesso modo una presunta “rusticità” di Lucrezio
nell’utilizzo di vocaboli propri della quotidianità andrebbe ricondotta alla sua volontà divulgativa. Probabilmente per
conferire più autorevolezza poi, ha volutamente usato arcaismi e figure di suono. Innovativo il lessico scientifico e
filosofico usato da Lucrezio che per sopperire alle carenze del Latino in tal senso, evitò traslitterazioni dal greco ma si
servì di calchi semantici (parole latine con un significato che ne assumono un altro).
La dottrina di Lucrezio, che è quella epicurea è facile: l’uomo deve raggiungere l’atarassia, ovvero l’assenza di
turbamenti. Messaggio conformista l’incoraggiamento al disinteresse politico e la critica per la guerra. Soggetti di critica
anche le passioni amorose, il timore della morte (per cui Epicuro suggerirà il famoso quadrifarmaco) e la religione, intesa
come “superstizione”. La visione di Lucrezio, per alcuni considerata “pessimistica”, e dunque in contrasto con la dottrina
epicurea, è in realtà finalizzata alla polemica contro coloro che non seguono la dottrina.
Il finale, definito pessimistico, è spiegato in diversi modi: un’antitesi narrativa al proemio; un’avvertenza a chi non segue
la dottrina epicurea; un aggravamento della condizione di salute di Lucrezio rispecchiato nel poema; la non conclusione
del finale.
Realizzato il 24/10/13 da Paolo Franchi, rivisto il 08/09/15 per Sapere Aude! AMDG
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