CICERONE E CATILINA
L’8 novembre del 63 a.C. il console Marco Tullio Cicerone fa convocare il Senato nel tempio di
Giove Statore1 e, rivolgendosi a uno dei senatori presenti alla seduta, lo accusa di essere il capo di una
congiura che vuole realizzare un colpo di Stato; lo accusa di essere un brutale assassino, che vuole
attentare alla sua stessa vita; lo accusa di avere sedotto una sacerdotessa del tempio di Vesta; lo accusa
di avere ucciso il proprio figlio per far piacere alla seconda moglie, di essere un corruttore dei giovani,
un pervertito, un folle, uno scellerato; e lo invita (mentre gli altri senatori, tacendo, mostrano di
approvare il suo discorso) ad allontanarsi da Roma ed a raggiungere i suoi uomini che a Fiesole, in
Toscana, si stanno preparando ad assalire e devastare la città.
Il senatore che si sente rivolgere queste accuse è Lucio Sergio Catilina. Già da qualche settimana
si sospetta che abbia in mente un piano sovversivo. Alcune lettere anonime, che Cicerone ha mostrato
ai colleghi in Senato, parlano di una cospirazione contro lo Stato. Il Senato, pochi giorni prima dell’8
novembre, ha votato un provvedimento (il Senatus Consultum Ultimum) che dà ai consoli poteri
straordinari perché reprimano, con ogni mezzo, la cospirazione. Ma Cicerone in realtà, fino a questo
momento, non ha mai mostrato alcuna prova del coinvolgimento di Catilina. Se dunque quest’ultimo,
l’8 novembre del 63, si è recato tranquillamente alla seduta del Senato, è perché non si aspetta un
attacco così improvviso.
Tuttavia Cicerone ha un asso nella manica. L’amante di uno dei congiurati, una certa Fulvia, si è
messa infatti a fare la spia: si fa raccontare per filo e per segno dal suo amante tutto quello che i
congiurati stanno preparando, e poi lo va a riferire in segreto a Cicerone. Catilina, perciò, sembra
essere inchiodato dalle accuse. In realtà non è facile stabilire quali carte effettivamente Cicerone abbia
in mano e in che misura, invece, il suo sia un bluff. L’intenzione di Cicerone, comunque, sembra
evidente: sorprendere l’avversario per indurlo a compiere un passo falso, a cadere nella sua trappola.
E dopo la seduta del Senato Catilina lascia Roma per raggiungere i suoi uomini, che sono
accampati in Toscana. Tre giorni dopo la prima orazione, Cicerone davanti al Senato ne pronuncia una
seconda. Catilina, dice Cicerone, ormai non può essere considerato un cittadino romano, un senatore:
Catilina ormai è un nemico. Non dovrà quindi godere delle garanzie che si riservano a un cittadino
romano imputato di un delitto. Non avrà diritto a un processo, non potrà appellarsi al popolo. Catilina
deve essere ucciso subito, e insieme a lui tutti gli altri congiurati.
A dicembre, Cicerone pronuncia altre due orazioni: non più in Senato, stavolta, ma nel Foro,
davanti al popolo. Con la prima, dà notizia a tutti i Romani della congiura. Con la seconda, sostiene la
necessità di punire i congiurati con la pena di morte.
La storia di Catilina, ricostruita attraverso le orazioni di Cicerone, ci appare come una specie di
western ante litteram. Da una parte c’è Cicerone, l’uomo virtuoso e disposto a tutto pur di salvare la
patria; dall’altra c’è Catilina, lo scellerato, il violento, il nemico del popolo romano. Ad avvalorare
questa visione c’è anche il fatto che tutti coloro che hanno scritto di Catilina ne hanno sempre parlato
come di un mostro, di uno scellerato, di un pazzo. Oltre che sulle orazioni di Cicerone, le nostre
conoscenze si basano sul racconto dello storico Sallustio, che circa vent’anni dopo i fatti dedica
un’opera alla congiura di Catilina. E anche Sallustio (che, peraltro, aveva idee politiche diverse da
quelle di Cicerone) descrive Catilina a tinte fosche.
Eppure la storia non assomiglia mai ai film western. Ancora oggi, a più di duemila anni di
distanza, gli studiosi si interrogano su questo episodio e cercano di capire cosa ci fosse dietro la
congiura. Perché nessun fatto storico, né antico né contemporaneo, si può spiegare semplicisticamente
con la follia o la scelleratezza di un singolo uomo. Per avere un quadro credibile di questa situazione,
bisogna perciò provare a rispondere a una serie di domande:
1
Il tempio di Giove Statore si trova sulla Velia, uno dei due colli di cui è costituito il Palatino.
a) Chi era Catilina?
b) La congiura era il progetto di un gruppo di folli isolati o aveva consenso tra il popolo?
c) Quali interessi difendeva Catilina?
d) Fu solo Catilina ad agire illegalmente, in quegli ultimi mesi del 63 a.C.?
e) E infine — domanda non meno importante — chi era Cicerone e quali interessi difendeva?
Proviamo a dare una risposta a queste domande. Il quadro che ne verrà fuori sarà molto meno
semplice, ma anche molto più credibile, di quello che emerge dai discorsi di Cicerone.
a) Chi era Catilina?
Catilina era un nobile: faceva parte dell’aristocrazia senatoria e pertanto partecipava alle sedute
del Senato. Ma era un nobile impoverito; sembra anzi che fosse pieno di debiti. Era sicuramente un
uomo spregiudicato: aveva un progetto ambizioso e, per realizzarlo, aveva messo insieme truppe
disposte a combattere all’ultimo sangue. Egli stesso combatté, e morì in battaglia, contro l’esercito
romano. Ma questo significa che Catilina fosse semplicemente un criminale dedito a pratiche
mostruose, un assassino che voleva solo distruggere e devastare, come dice Cicerone? È difficile
crederlo. Sallustio ci informa che Catilina aveva un largo seguito in città: «la plebe, vogliosa di
mutamenti, era tutta per Catilina». È una notizia molto importante. Si può credere che tutta la “plebe”
romana potesse appoggiare un personaggio capace solo di stuprare sacerdotesse, uccidere figli,
coinvolgere gli adolescenti in inconfessabili pratiche erotiche?
Sembra molto più credibile l’ipotesi che Cicerone, forte dell’effetto sorpresa e della certezza che
il Senato stava tutto dalla sua parte, abbia calcato parecchio la mano nel delineare il ritratto del suo
nemico. Se leggiamo altre orazioni di Cicerone, ci accorgiamo che tutti i suoi avversari (Verre, Clodio,
Pisone, Antonio...) vengono sempre dipinti come mostri e accusati delle colpe più orribili. E allora?
Roma era piena di personaggi abietti (guarda caso, tutti ostili a Cicerone)? Oppure Cicerone esagerava
di proposito? Cicerone era un abile avvocato, oltre che un politico di primo piano. Non è probabile che
trattasse gli avversari con distacco e rispetto. È molto più probabile che si valesse contro di loro di una
tipica tecnica retorica, l’iperbole, volta a metterli il più possibile in cattiva luce.
Non disponendo di fonti affidabili (Cicerone è evidentemente di parte, ma anche Sallustio aveva
buoni motivi per prendere il più possibile le distanze da Catilina) noi dobbiamo affidarci alla logica ed
all’esperienza. E l’esperienza ci dice che quello di dipingere il nemico come un mostro disumano è un
metodo usato da sempre, e in fondo sopravvissuto anche ai nostri tempi. Dei cristiani, i pagani
dicevano che nei loro riti religiosi immergessero i ragazzi nella farina, li uccidessero a bastonate e li
mangiassero2. Accuse evidentemente infondate, ma che all’epoca venivano ritenute verosimili. La
demonizzazone del diverso è uno schema che si è ripetuto spesso, non solo nell’antichità, quando un
gruppo dominante ha avuto interesse a combattere coloro che mettevano in discussione l’ordine
costituito.
b) La congiura era il progetto di un gruppo di pazzi isolati o aveva consenso tra il popolo?
Torniamo a ciò che ci dice Sallustio: «la plebe, vogliosa di mutamenti, era tutta per Catilina».
Dunque Catilina aveva un vasto consenso a Roma. Ma quali erano le ragioni di questo consenso? Qui
il discorso si fa lungo e difficile. Per poter dare una risposta, bisogna prima capire che cosa fosse e
come vivesse quella che Sallustio chiama “plebe”. E per capire come vivesse questa “plebe”, occorre
farsi un’idea dei cambiamenti storici avvenuti a Roma negli ultimi due secoli, da quando cioè, con le
2
Lo scrittore cristiano Minucio Felice (III secolo d.C.) mette a confronto, nel dialogo Octavius, il punto di vista di un
cristiano (Ottavio) e quello di un pagano (Cecilio). Quest’ultimo, che lascia capire di parlare per sentito dire, afferma ad
esempio: «Il racconto che si fa circa l’iniziazione dei nuovi adepti è così terribile quanto noto. Un giovane viene
impiastricciato di farina per ingannare chi di nulla sospetta ed è posto dinanzi a colui che deve essere iniziato ai misteri.
Tratto in inganno dallo strato di pasta che lo copre, facendogli credere che i suoi colpi sono inoffensivi, il neofita uccide il
giovane con delle ferite invisibili e nascoste. Oh sacrilegio! essi leccano avidamente il sangue, a gara se ne disputano le
membra, con tale vittima cementano il patto, con tale complicità nel delitto si impegnano a un mutuo silenzio! Queste
cerimonie sono più terribili di qualsiasi sacrilegio».
guerre puniche e poi con le successive imprese militari, Roma aveva avviato una politica di
imperialismo e di conquista.
Sappiamo che, con le guerre puniche, Roma iniziò la conquista del Mediterraneo. La prima guerra punica fu
combattuta per impossessarsi della Sicilia, terra ricchissima di grano. Vinta questa guerra, i piccoli proprietari
terrieri romani che producevano grano furono rovinati: il grano siciliano, infatti, costava molto meno di quello
prodotto a Roma e dintorni. E del resto i contadini, per andare in guerra, avevano abbandonato per anni le loro
terre lasciandole incolte. Molti di questi contadini, allora, cedettero la loro proprietà a cittadini più ricchi (di solito
appartenenti all’aristocrazia senatoria), che (visto che produrre grano non conveniva più) si potevano permettere
anche di impiantare colture costose (la vite, l’olivo), di cui i piccoli proprietari non avrebbero mai potuto
sostenere le spese. In conclusione, i ricchi divennero molto più ricchi (acquistavano a poco prezzo tutte le terre dei
contadini impoveriti) e i poveri divennero molto più poveri.
I contadini privati delle loro terre avrebbero potuto, in teoria, rimanere a lavorare nei campi come
braccianti. Ma in pratica questo, di solito, non avveniva. Le guerre, infatti, portarono a Roma molti schiavi. E per i
ricchi proprietari era molto più conveniente far lavorare i campi dagli schiavi che dai cittadini romani.
Agli ex contadini, a questo punto, restava solo una possibilità: andare in città e mettersi al servizio di
qualche potente che desse loro di che vivere. I contadini si trasformavano così nei cosiddetti proletari. Intanto
Roma si espandeva, conquistava nuove terre. E l’aristocrazia senatoria riuscì a controllare anche queste terre,
aumentando ulteriormente la propria ricchezza. Si andava formando il latifondo.
Nel 133 a.C. un tribuno della plebe, Tiberio Gracco, cercò di fare approvare una legge che limitasse lo
strapotere dei latifondisti e, con una più equa distribuzione della terra, desse di che vivere anche ai più poveri.
Gracco aveva capito che i contadini, scacciati dalla propria terra e costretti a mettersi alle dipendenze di uomini
potenti, potevano costituire, a lungo andare, un pericolo per lo Stato. In passato, infatti, la forza dell’esercito
romano era proprio basata sui contadini, che andavano a combattere non solo per difendere la Patria, ma anche per
difendere (concretamente) la propria terra, la propria famiglia, i propri buoi... Adesso invece i proletari, una volta
privati della terra, erano alla mercé dei loro potenti protettori. Se uno di questi potenti avesse deciso di usare le
armi per acquisire un potere ancora maggiore, avrebbe potuto facilmente disporre di un esercito di disperati pronti
a combattere per lui. E in una Roma in cui ogni singolo comandante poteva armare un suo esercito privato –
Gracco lo capì benissimo – la repubblica non sarebbe durata molto a lungo.
Il tentativo di Gracco dava molto fastidio all’aristocrazia senatoria. E quest’ultima era disposta a tutto pur di
difendere i propri privilegi, i propri latifondi. In un primo tempo, i senatori usarono la corruzione: pagarono l’altro
tribuno della plebe, il quale bloccò il progetto di riforma agraria di Gracco. Poi, però, Gracco riuscì a fare
approvare la legge. Ma gli aristocratici non si arresero: nel corso delle successive elezioni, per bloccare la
candidatura di Gracco, organizzarono dei tumulti: Tiberio e trecento dei suoi partigiani furono uccisi e gettati nel
Tevere. Non fu difficile, a questo punto, all’aristocrazia senatoria rendere inefficace la legge agraria e mantenere
immutati la propria ricchezza e il proprio potere.
Una strage organizzata dai latifondisti, per difendere il latifondo: in definitiva, non siamo molto lontani dai
metodi usati nel nostro secolo, in Sicilia, dalla mafia. Pochi anni dopo, il fratello di Tiberio, Gaio Gracco, si batté
nuovamente perché la riforma per cui Tiberio era morto fosse messa in atto. Anche stavolta il senato agì con
spietatezza: seppe isolare Gaio e, approfittando di altri disordini scoppiati in città, riuscì a uccidere 250 suoi
partigiani. Anche Gaio Gracco trovò la morte. E altre tremila persone, nella repressione seguita a quella rivolta,
furono uccise senza processo.
Tuttavia, dal punto di vista storico, i Gracchi avevano visto bene: perduto il legame con la loro terra, i
proletari erano divenuti una pericolosa massa nelle mani di capi politici e militari. All’inizio del I secolo a.C.
Roma e l’Italia furono sconvolte da una violentissima guerra civile che vide contrapposti Gaio Mario
(rappresentante dell’orientamento “popolare”, che raggruppava la classe emergente dei cavalieri – i quali
basavano la loro ricchezza sul commercio e sul denaro – e strati più poveri della società) e Lucio Cornelio Silla
(rappresentante dell’ala più estremista dell’aristocrazia senatoria). Silla riuscì ad impadronirsi dell’Italia, riformò
la costituzione romana rendendola più favorevole agli aristocratici, fece uccidere i suoi avversari confiscando i
beni ai loro eredi (le cosiddette “liste di proscrizione”). Roma uscì a pezzi da questi conflitti: ci furono nuovi
ricchi, ma ci furono soprattutto nuovi poveri.
Erano poveri i proletari. Erano rimasti poveri tutti quelli che avevano sperato di fare fortuna seguendo Silla,
ma non c’erano riusciti. Erano poveri i proprietari terrieri cui Silla aveva tolto le terre per compensare i suoi
soldati; erano poveri i figli delle persone che Silla aveva eliminato con le liste di proscrizione. Roma era piena di
nullatenenti, diseredati, travolti dalla storia. E quando Catilina (che, a suo tempo, aveva combattuto a fianco di
Silla) cominciò a fare politica, non gli mancarono certo gli scontenti tra cui reclutare uomini disposti a combattere
al suo fianco.
c) Quali interessi difendeva Catilina?
Torniamo ancora una volta a ciò che ci dice Sallustio: «La plebe, vogliosa di mutamenti, era tutta
per Catilina». Questa frase non deve farci pensare che il consenso per Catilina si limitasse agli strati
più bassi della società. Il consenso, secondo lo storico, era molto più ampio. «C’erano poi i nostalgici
del regime di Silla — continua infatti Sallustio —, i giovani che avevano percepito salari da fame
come braccianti ed erano affluiti nell’Urbe, attratti dalle largizioni pubbliche e private [...] poi c’erano
i figli dei proscritti da Silla, i cui averi erano stati confiscati e che erano stati privati dei diritti civili
[...] e infine, tutti coloro che appartenevano a correnti diverse dal Senato». Insomma, c’era a Roma un
vasto schieramento di disperati. Costoro erano molto diversi tra loro, ma avevano una cosa in comune:
in mancanza di una soluzione politica dei loro problemi, erano tutti pronti a qualsiasi avventura.
E cosa aveva fatto lo Stato per migliorarne le condizioni? Assolutamente nulla. Anzi. Proprio nel
63 a.C. era stata proposta una legge che imponeva di assegnare una piccola porzione di terre ai
nullatenenti. Contro quella proposta pronunciò una appassionata orazione (riuscendo a farla bocciare)
il console appena eletto: e quel console era proprio Marco Tullio Cicerone.
d) Fu solo Catilina ad agire illegalmente, in quegli ultimi mesi del 63 a.C.?
Catilina attirava i poveri soprattutto con una promessa: se fosse salito al potere, avrebbe decretato
la cancellazione dei loro debiti. È probabile che Catilina avesse un preciso interesse personale ad agire
in questo modo: anche lui, a quanto ci dicono le fonti dell’epoca, era infatti pieno di debiti. Ma certo
Catilina non decise fin dall’inizio di usare la violenza. Più di una volta aveva cercato di attuare il suo
progetto politico candidandosi al consolato, ma era stato sconfitto. Nel 64 a.C. a batterlo era stato
Cicerone. Nel 63 a.C. aveva perso invece contro Lucio Murena. Murena doveva entrare in carica
all’inizio del 62 a.C. Ma sulla sua elezione gravavano pesanti sospetti di irregolarità: il tribuno della
plebe Marco Porcio Catone, uomo di grande ed indiscusso rigore morale, accusò infatti Murena di
brogli elettorali.
Se Murena fosse stato condannato, al consolato sarebbe arrivato Catilina. L’aristocrazia senatoria
voleva quindi soffocare lo scandalo, per non lasciare il potere a un nemico così pericoloso. In tribunale
Murena fu difeso dal migliore avvocato di Roma. E quest’avvocato era proprio il console in carica:
Marco Tullio Cicerone.
Si trattava, è evidente, di un caso di quello che, con terminologia contemporanea, potremmo
chiamare “conflitto di interessi”: non solo perché il console in carica, il rappresentante dello Stato,
difendeva un presunto imbroglione; ma anche perché Cicerone, in linea di principio, era così ostile ai
brogli elettorali da avere, nelle sue vesti di console, fatto approvare una legge che aggravava la pena
per questo tipo di reato. Ma stavolta Cicerone preferì non andare tanto per il sottile in fatto di principi.
Per lui l’unica cosa davvero importante era evitare che Catilina arrivasse al consolato; e, in questo
modo, evitare che il potere e i privilegi dell’aristocrazia senatoria venissero messi in pericolo.
Fu in questa situazione che Catilina passò dalle vie legali a quelle illegali. La sua congiura, come
sappiamo, fu scoperta e repressa. Ma, anche in questo caso, il Senato, seguendo le indicazioni di
Cicerone, stravolse completamente le regole: a Roma, infatti, per una legge approvata circa
sessant’anni prima, nessuna condanna a morte poteva essere emessa se non con un regolare processo e
con l’appello al popolo, il quale aveva però facoltà di commutare la pena di morte nell’esilio. Ma a
Catilina e ai suoi seguaci non fu concesso né un regolare processo né, tantomeno, l’appello al popolo.
Cicerone, usando i poteri straordinari che gli erano stati conferiti, ottenne infatti che i congiurati
fossero mandati a morte senza processo. Il che era, veramente, il massimo dell’illegalità.
e) Chi era Cicerone e quali interessi difendeva?
Cicerone veniva da Arpino. Era quel che si diceva un homo novus, non aveva cioè sangue
patrizio. Per questo il nobile Catilina, che era invece di antica famiglia patrizia, diceva
sprezzantemente che Cicerone, a Roma, era soltanto un inquilino. Ma quest’inquilino che, quando si
trasferì nell’Urbe, era vicino al partito popolare, diventò presto, accostandosi ai senatori, il più
accanito paladino dei privilegi aristocratici, il difensore di quel latifondo che impoveriva gran parte
della popolazione. Perciò, come abbiamo visto, combatté contro la proposta di legge agraria che
avrebbe potuto alleviare le condizioni dei più poveri. E la lotta contro Catilina fu forse il momento più
importante della sua vita politica. Tanto importante che in qualche caso, parlando di se stesso,
Cicerone dimostra come la vanità gli abbia dato alla testa. Il console arriva pure a paragonarsi a
Romolo, anzi ad affermare di avere avuto più meriti lui di Romolo stesso! Romolo, infatti, aveva
“solo” fondato Roma: e Roma, a quel tempo, era poco più di un villaggio. Cicerone, invece, aveva
salvato Roma quando era ormai capitale di un grande impero.
Certo, Cicerone ha combattuto la sua battaglia contro Catilina usando soprattutto le armi della
parola. Certo, Catilina era sicuramente un uomo ambizioso e pronto alla violenza, e lo schieramento
che lo sosteneva era quanto di più eterogeneo si potesse immaginare. Ma la lotta tra Cicerone e
Catilina non è affatto una lotta da western tra il Bene e il Male, come Cicerone vorrebbe far credere.
Ce lo lascia capire, in fondo, lo stesso Cicerone all’inizio della prima orazione: cioè quando,
affermando che Catilina merita la morte, indica come modello da imitare, come salvatore della patria
da cui prendere esempio, il pontefice massimo Publio Scipione Nasica. E quale era il “merito” storico
di Publio Scipione Nasica? Quello di aver difeso gli interessi dei latifondisti con il primo di una lunga
serie di delitti: l’assassinio del tribuno della plebe Tiberio Gracco.