“Orafionem habuit luculentam” L`intervento di Cicerone al Senato

Cicerone
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Storia e letteratura
“Orationem habuit
luculentam”
L’intervento di Cicerone al Senato attraverso gli occhi di
Sallustio.
Gaio Sallustio Crispo (86 – 34 a. C.) è stato uno storico e politico romano. Homo novus proveniente
da una famiglia plebea, compì in breve le tappe principali del cursus honorum ricoprendo le
cariche di questore (54 a. C), tribuno della plebe (52 a. C.) e, dal 51 a. C., quella di senatore. Di
ritorno a Roma nel 44 a. C., dopo aver rivestito la carica di proconsole di Numidia, fu accusato di
concussione e, espulso dal senato, si ritirò a vita privata. In quegli anni egli si dedicò
completamente all’attività di scrittore. La sua opera principale, la monografia dal titolo De
coniuratione Catilinae, ricostruisce il tentativo di colpo di stato da parte di Catilina e la sua
repressione da parte delle forza repubblicane, risalenti al 63-62 a. C. Insieme alle Orationes in
Catilinam di Cicerone, dunque, l’opera di Sallustio costituisce una preziosa fonte storico letteraria
a cui attingere per ricostruire gli eventi di quegli anni.
Dopo aver presentato la figura di Catilina e aver ricostruito i preparativi del complotto, nel
trentunesimo capitolo troviamo un interessante riferimento agli attacchi che Cicerone rivolse a
Catilina nelle aule del Senato e alla reazione di quest’ultimo di fronte alla veemenza dell’Arpinate.
Leggi con attenzione il brano e la traduzione riportata in basso, osservando come uno storico
contemporaneo racconta il clima in cui venne presentata l’orazione di cui hai appena letto
l’esordio.
Quibus rebus permota civitas atque inmutata urbis facies erat. Ex summa laetitia atque
lascivia, quae diuturna quies pepererat, repente omnis tristitia invasit: festinare,
trepidare, neque loco neque homini cuiquam satis credere, neque bellum gerere neque
pacem habere, suo quisque metu pericula metiri. Ad hoc mulieres, quibus rei publicae
nagnitudine belli timor insolitus incesserat, adflictare sese, manus supplices ad caelum
tendere, miserari parvos liberos, rogitare omnia, omni rumore pavere, superbia atque
deliciis omissis sibi patriaeque diffidere. At Catilinae crudelis animus eadem illa
movebat, tametsi praesidia parabantur et ipse lege Plautia interrogatus erat ab L.
Paulo. Postremo dissimulandi causa aut sui expurgandi, sicut iurgio lacessitus foret, in
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senatum venit. Tum M. Tullius consul, sive praesentiam eius timens sive ira conmotus,
orationem habuit luculentam atque utilem rei publicae, quam postea scriptam edidit.
Sed ubi ille adsedit Catilina, ut erat paratus ad dissimulanda omnia, demisso voltu, voce
supplici postulare a patribus coepit, ne quid de se temere crederent: ea familia ortum,
ita se ab adulescentia vitam instituisse, ut omnia bona in spe haberet; ne existumarent
sibi, patricio homini, cuius ipsius atque maiorum pluruma beneficia in plebem
Romanam essent, perdita re publica opus esse, cum eam servaret M. Tullius, inquilinus
civis urbis Romae. Ad hoc maledicta alia cum adderet, obstrepere omnes, hostem atque
parricidam vocare. Tum ille furibundus: "Quoniam quidem circumventus", inquit, "ab
inimicis praeceps agor, incendium meum ruina restinguam."
I cittadini erano stati turbati da queste notizie e l'aspetto della città era cambiato. Da
una somma gioia e spensieratezza, che aveva procurato un lungo periodo di quiete,
ben presto la malinconia invase tutti: si agiva in fretta, si trepidava, non ci si fidava
abbastanza né delle circostanze né di nessun uomo, non si faceva la guerra, né si aveva
la pace, ognuno misurava i pericoli secondo il proprio timore. Inoltre le donne, per le
quali era diventato insolito il timore della guerra per la grandezza dello Stato, si
affliggevano, tendevano le mani supplichevoli al cielo, si commiseravano per i figli
piccoli, chiedevano con insistenza, temevano tutto, messi da parte la superbia e i
piaceri non avevano fiducia in se stesse o nella patria. Ma Catilina di animo crudele
portava avanti quei piani sebbene le difese fossero state preparate ed egli fosse stato
messo sotto accusa da Lucio Paolo in base alla legge Plonzia. Infine, per dissimulare e
per discolparsi, come se fosse stato provocato da un attacco, giunse in Senato. Allora il
console Marco Tullio, sia poiché temeva la sua presenza, sia perché mosso dall'ira,
tenne un discorso eloquente e vantaggioso per lo Stato, che in seguito rese per iscritto.
Ma quando egli si sedette preparato com'era a fingere tutto, con il volto avvilito, con la
voce supplichevole cominciò a chiedere ai senatori che non credessero qualcosa di lui
sconsideratamente; egli disse che nato da quella famiglia aveva condotto una vita, fin
dall'adolescenza in modo tale da sperare ogni bene; e disse loro di non pensare che lui,
un patrizio i cui benefici e quelli dei suoi antenati verso la plebe romana erano
moltissimi, avesse bisogno di distruggere lo Stato, mentre Marco Tullio inquilino nato
fuori dalla città di Roma lo conservasse. Aggiungendo a queste anche altre ingiurie,
tutti gridavano e lo chiamavano nemico e parricida. Allora quello disse furioso: «Poiché
circondato da nemici sono spinto alla rovina, spegnerò il mio incendio con la rovina».
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