Il futuro del federalismo negli Stati Uniti

Il futuro del federalismo
negli Stati Uniti
di John Samples
Direttore del Center
for Representative
Government del Cato
Institute di Washington
e Professore Associato,
Johns Hopkins
University di Baltimora,
Maryland, USA
Sin dall’inizio, gli americani hanno sempre manifestato un forte desiderio per la libertà individuale nel contesto di un’uguaglianza stabilita dalla legge. L’idea di libertà è stata associata a quella di un Governo sottoposto a determinati limiti, un
Governo al servizio degli individui piuttosto che delle ambizioni dei politici. L’interrogativo per noi americani, dalla fondazione del nostro Stato, è stato come limitare
effettivamente l’azione del Governo ai poteri che gli competono. Il federalismo ha
risposto in parte a tale questione.
Il federalismo è un concetto normativo che promuove una diffusione dell’autorità
politica a diversi livelli di Governo. In pratica, il federalismo conduce all’idea di una
federazione che è l’insieme di una gestione politica fatta di unità locali accanto a
un Governo generale; ognuna di queste entità detiene i poteri che le sono stati delegati dal popolo in base a una Costituzione, ognuna è autorizzata a trattare direttamente con i cittadini nell’esercizio di una porzione significativa dei suoi poteri
legislativi, amministrativi e tributari, e infine ognuna è eletta direttamente dai suoi
cittadini. Gli Stati Uniti sono, per definizione, una federazione. Questo articolo intende analizzare il passato, il presente e il futuro del federalismo negli Stati Uniti.
Il fondamento della libertà
Gli “Articoli di Confederazione” (Articles of Confederation) furono alla base del
primo Governo nazionale per le tredici ex-colonie inglesi. I fondatori della Confederazione ritenevano che la libertà richiedesse un Governo di tipo repubblicano. Sulla
scia del pensatore politico Montesquieu, essi sostenevano che le repubbliche potessero estendersi unicamente nell’ambito di un territorio circoscritto. Ciò implicava
che gli Stati, e non il Governo nazionale, avrebbero costituito il fondamento della
libertà nella nuova nazione.
Il Governo nazionale sarebbe stato istituto dagli Stati e avrebbe agito solo riguardo
a essi, e non ai cittadini. In quanto prodotto degli Stati, la confederazione sarebbe
stata controllata e limitata in parte dall’equivalenza del voto dei suoi Stati membri.
In questo modo, la dimensione della nuova nazione americana sarebbe stata in armonia con le richieste di libertà e con il Governo repubblicano. Dall’altra parte, i
sostenitori della confederazione temevano che la Costituzione del 1787 avrebbe
creato quello che loro definivano un Governo consolidato, un Governo nazionale
che potesse assorbire interamente i poteri e l’indipendenza degli Stati.
47
Il futuro del federalismo
negli Stati Uniti
48
Per il pensatore politico più importante degli Stati Uniti, James Madison, non vi era
necessariamente una relazione tra le repubbliche e la libertà. Inizia il suo saggio
Federalist n. 10 [decimo e più noto dei Federalist Papers, ndt.] evidenziando che «il
Governo popolare» è incline a dividersi in fazioni locali. Quelle tra loro che acquistano posizioni maggioritarie sono particolarmente pericolose per «il bene comune
e i diritti degli altri cittadini». Infatti, continua, in diversi hanno notato «che i governi dei nostri Stati sono troppo instabili; che il bene comune è ignorato nei conflitti tra le parti rivali tra loro; e che le misure sono troppo spesso adottate non in
base alle regole della giustizia e i diritti del gruppo minoritario, ma sono determinate dalla forza superiore di una maggioranza interessata e autoritaria». Secondo
Madison, una confederazione di repubbliche non sarebbe sufficiente, perché le democrazie maggioritarie che governano su un territorio circoscritto metterebbero a
repentaglio i diritti dell’individuo. La dimensione stessa della nuova nazione poteva
offrire alcune protezioni di fronte alla minaccia derivante dagli Stati. Questi ultimi
a loro volta avrebbero potuto porre dei limiti al Governo nazionale.
La forma di Governo federale proposta da Madison sembra essere una repubblica
mista, che comprende sia i poteri nazionali che quelli statali, una via di mezzo tra
la confederazione e l’unione. Madison sottolinea che ogni Stato che agisce in qualità di ente sovrano dovrebbe approvare la nuova Costituzione. Il Governo nazionale
avrebbe una rappresentanza per gli Stati sia al Senato che nell’elezione del Presidente mediante l’istituzione di un collegio elettorale.
Madison evidenziava un altro elemento federale nella Costituzione americana: il
potere del Congresso si estenderebbe solo ad «alcuni ambiti chiaramente delimitati», e lascerebbe «ai diversi Stati una sovranità residua e inviolabile su tutti gli
altri ambiti». Nella prassi, tuttavia, il Governo nazionale agirebbe direttamente nei
confronti dei singoli cittadini e non solo sui governi dei singoli Stati; in tal senso, il
nuovo Governo era nazionale e non federale. In breve, «la Costituzione proposta
non è quindi in senso stretto né nazionale né federale, ma una fusione di entrambe”.
Tuttavia, la familiarità di oggi non dovrebbe portarci a sottovalutare la novità rappresentata allora dall’idea di diffusione dell’autorità. La maggior parte dei teorici
prima del 1789 riteneva che l’idea della sovranità determinasse un Governo unitario. Nel federalismo, come in molte altre questioni, i padri della Costituzione degli
Stati Uniti compresero le virtù della complessità e dell’ “autorità diffusa”, virtù che
sarebbero state al servizio della causa della libertà.
Il Dual Federalism
Per un secolo e mezzo dopo l’approvazione della Costituzione statunitense, gli Stati
costituirono l’unità principale di Governo nella nazione. Il concetto del “federalismo
duale” (Dual Federalism) governava la relazione tra gli Stati e il Governo nazionale.
“Federalismo duale” significava che agli Stati e al Governo nazionale spettavano
sfere di autorità proprie e separate. Ciò seguiva la visione dei fondatori secondo cui
gli Stati detenevano dei poteri specifici non delegati al Governo nazionale.
Nel 1913, tuttavia, la causa del federalismo subì una battuta d’arresto. Fino a
quell’anno, la Costituzione prevedeva l’elezione dei senatori statunitensi da parte
delle assemblee legislative degli Stati. I senatori erano quindi scelti dai rappresentanti degli interessi degli Stati. Ciò significava che il Senato rappresentava fortemente gli interessi degli Stati. Nel 1913, gli americani approvarono il
diciassettesimo emendamento alla Costituzione, che prevedeva l’elezione diretta
dei senatori. In un attimo, gli Stati persero la loro rappresentanza all’interno del
Governo nazionale.
Gli Stati divennero
autentici “laboratori
di democrazia” che
idearono e
sperimentarono
importanti
innovazioni della
politica, tra cui la
riforma del welfare.
Negli anni Trenta, il Governo guidato da Franklin D. Roosevelt − noto come “New
Deal” − pose termine al “federalismo duale”. Al suo posto, gli ideatori del New Deal
promossero le “relazioni intergovernative”, incentrate sulla collaborazione tra il Governo nazionale e quelli dei singoli Stati nel fornire una serie indifferenziata di servizi governativi comuni. La nuova dottrina rifiutava i limiti costituzionali imposti al
Governo nazionale sulla base di una sfiducia verso il potere centralizzato. Dopo il
1941, il Governo nazionale iniziò ad avere poteri assoluti, vincolati solo da diritti
specifici menzionati esplicitamente nella Costituzione e da diritti politici non specificati. In particolare, la Commerce clause nella Costituzione forniva la giustificazione costituzionale per un controllo normativo ampio e profondo sugli Stati da
parte del Governo nazionale.
A partire dalla Grande depressione e durante la Seconda guerra mondiale, fino alla
Great Society e al suo periodo successivo, il Governo nazionale tese a soffocare gli
Stati in un incessante tentativo di accentramento del potere. Tale accentramento
dipendeva da diversi fattori tra cui la fiducia comune nella benevolenza e nelle
competenze del Governo nazionale e una crescente preoccupazione per la segregazione razziale legalizzata da diversi Stati.
Il potere di Washington
Il Governo nazionale, inoltre, cercava il controllo sugli Stati per promuovere le politiche nazionali. L’amministrazione di Lyndon Johnson negli anni Sessanta diede ai
governi degli Stati un appoggio finanziario significativo a condizione che i funzionari statali perseguissero le politiche concepite a Washington. Di conseguenza, gli
Stati persero potere d’azione sulla definizione delle politiche.
All’inizio degli anni Novanta, il processo di accentramento del potere a Washington
subì un rallentamento. Gli Stati divennero autentici “laboratori di democrazia” che
idearono e sperimentarono importanti innovazioni della politica, tra cui la riforma
del welfare. Inoltre, gli Stati iniziarono a liberarsi della loro immagine di isolamento
49
Il futuro del federalismo
negli Stati Uniti
50
razziale dal momento in cui una nuova generazione di politici, di cui molti afroamericani, cominciarono ad assumere delle cariche nel sud. Inoltre, la Corte Suprema impose alcuni limiti al raggio di azione del Governo nazionale in ambito
normativo. Più in generale, una maggioranza della Corte sembrava propensa a rispettare il federalismo e quindi a imporre dei limiti all’accentramento del potere.
Parallelamente alla crescita della sfera di influenza degli Stati, la sfiducia pubblica
nel Governo federale toccò il fondo nel 1994. Un federalismo rivitalizzato e una
frammentazione del potere politico sembravano possibili all’inizio del XXI secolo.
I tragici attacchi dell’11 settembre 2001 hanno reso negli Stati Uniti la sicurezza
della patria e lo stato di guerra – che dipendono dal Governo nazionale – la preoccupazione principale della politica americana. Inoltre, sembrava che l’opinione pubblica incoraggiasse Washington ad assumere un ruolo più ampio nelle politiche di
ridistribuzione, come l’assistenza sanitaria e la spesa per il welfare. Il decentramento del potere passò in secondo ordine nella politica nazionale perfino sotto
l’amministrazione di un Presidente conservatore come George W. Bush,
Governo nazionale e federalismo
Il federalismo inteso come mezzo per limitare il Governo nazionale ha due debolezze intrinseche. In primo luogo, i funzionari degli Stati hanno dimostrato di essere inconcludenti quando si tratta di affermare gli interessi dei loro Stati rispetto
al Governo e all’amministrazione nazionali. In secondo luogo, gli interessi economici, che di solito servono come freno al potere nazionale, raramente sono favorevoli a un sistema politico più decentrato. Le imprese spesso preferiscono una
regolamentazione nazionale o delle imposte uniche più che consentire agli Stati di
adottare politiche proprie.
Ciò nonostante, l’opinione pubblica negli Stati Uniti esercita una forte influenza
sulla politica, e gli americani hanno diffidato a lungo del Governo nazionale. Tale
sfiducia è continuata – o persino aumentata nei primi mesi dell’amministrazione
Obama. Al contrario, gli americani hanno valutato più favorevolmente l’operato dei
governi degli Stati rispetto a quello del Governo centrale. I sondaggi hanno dimostrato che i cittadini sono stati molto più soddisfatti dei governi locali nelle loro
città e nei paesi. Questa posizione dell’opinione pubblica potrebbe limitare l’accentramento del potere intrapreso da Obama.
Bisogna poi prendere in considerazione un altro fattore. Gli americani nel tempo
sono arrivati a differenziarsi molto tra loro per quanto riguarda le visioni politiche.
La politica nazionale è profondamente divisa, ed è chiaro che un’intesa generale
sugli obiettivi o sui fondamenti della nazione non esiste più. Se le persone che vivono negli Stati Uniti hanno poco in comune, come possono essere accumunati
dalla volontà di essere retti da un solo Governo?
Il federalismo offre alle persone che hanno poco in comune una prospettiva di convivenza pacifica, stando anche a quanto gli esperti di demografia sostengono, cioè
che gli americani tendono a spostarsi sempre di più verso località popolate da persone che condividono la loro visione della politica e altri aspetti. La politica po-
trebbe riconciliare tali differenze e preferenze di vita a partire da un riconoscimento di un federalismo più decentralizzato per gli Stati Uniti.
La versione americana del federalismo rappresenta una sorta di equilibrio di considerazioni, non ultima tra queste il timore nei confronti di un potere accentrato e
un Governo consolidato. Di recente, la storia ha sperimentato una forte tendenza
verso l’accentramento del potere a Washington. Tuttavia, gli Stati Uniti rimangono
sempre meno una nazione di un solo popolo, e sempre più un Paese comprendente
diversi popoli con visioni della vita profondamente differenti. Un federalismo rinnovato potrebbe essere necessario e utile per potere adattare la politica americana a
questa realtà in continuo cambiamento.
51
Indicazioni bibliografiche
Timothy J. Conlan, From New Federalism to Devolution: Twenty-five Years of Intergovernmental Reform, Brookings Institution
Press, Washington, DC 1998.
Edward S. Corwin, “The Passing of Dual Federalism”, Virginia Law Review, vol. 36, 1950, p. 1.
Martha Derthick, Keeping the Compound Republic: Essays on American Federalism, Brookings Institution Press, Washington,
DC 2001.
Daniel J. Elazar, Exploring Federalism, University of Alabama Press, Tuscaloosa, AL 1987.
William A. Niskanen, On the Constitution of a Compound Republic. Cato’s Letter #14, The Cato Institute, Washington, DC
2001.
Paul E. Peterson, The Price of Federalism, Brookings Institution Press, Washington, DC 1995.
David B. Walker, The Rebirth of Federalism: Slouching toward Washington, Second Edition, Chatham House Publishers, Chatham 2000.
Keith Whittington, “Dismantling the Modern State? The Changing Structural Foundations of Federalism”, Hastings Constitutional Law Quarterly 25:4, Summer 1998, pp. 483-527.