20090427_italia_stato_nella_diversita

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Anno accademico
2008/2009
Luca Bilardo
Marta Cariolato
Antonio Occhipinti
ITALIA: STATO NELLA DIVERSITA’
Forma di Stato e nazione italiana nella storia e nelle recenti riforme federali
Fabio Antoci, Francesco Venco, Marta Cariolato
1. Italia e bene comune
Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di province, ma bord ello!
Quell'anima gentil fu così presta,
sol per lo dolce suon de la sua terra,
di fare al cittadin suo quivi festa;
e ora in te non stanno sanza guerra
li vivi tuoi, e l'un l'altro si rode
di quei ch'un muro e una fossa serra.
Cerca, misera, intorno da le prode
le tue marine, e poi ti guarda in seno,
s'alcuna parte in te di pace gode.
La Divina Commedia è sicuramente l’Opera letteraria italiana più famosa e studiata al mondo,
partendo proprio da quello che scriveva Dante nel canto VI del Purgatorio inquadriamo l’argomento
a cui vogliamo fare riferimento in questo documento.
Per comprendere meglio i versi citati è bene contestualizzarli: il Sommo Poeta si trova, insieme al
suo maestro Virgilio, nell’antipurgatorio, luogo dove le anime dei negligenti, coloro i quali hanno
trascurato i loro doveri spirituali, attendono di poter iniziare la loro espiazione. In questo luogo così
emblematico, i due incontrano Sordello da Goito, poeta mantovano del XIII secolo, il quale, appena
Virgilio accenna alla sua origine mantovana, esce dalla sua compassata indifferenza per abbracciare
il concittadino. Un gesto, quello dell’abbraccio, frutto della consapevolezza della comune
provenienza, che coglie di sorpresa anche Dante stesso il quale, in un impeto di sconcerto, inizia
un’amara apostrofe all’Italia.
Si tenga conto che, al tempo di Dante, l’Italia è separata politicamente e logorata dalle guerre
interne, ma nonostante ciò “Quell'anima gentil fu così presta,- sol per lo dolce suon de la sua
terra,- di fare al cittadin suo quivi festa”. C’è una chiara consapevolezza dell’appartenenza ad una
terra che, oltre a essere il luogo che ha dato i natali a tutti i protagonisti dell’episodio, è il riflesso di
una comunità unita che vuole uscire dal suo individualismo per ritrovarsi e rincontrarsi in ciò che la
rende unica.
1
Uscendo dalla metafora ed entrando più a fondo nel tema, osserviamo subito che Stato e Nazione
non sono sinonimi. Anche se il linguaggio comune tende a confondere i due termini e a ridurli ad un
unico significato, le due parole sono profondamente diverse. La prima si riferisce a quell’entità
finalizzata all’organizzazione di una comunità che vive stanziata in un determinato territorio su cui
esercita il monopolio del potere pubblico, la seconda è la comunità stessa a cui lo Stato deve
necessariamente fare riferimento. La Nazione quindi prescinde dallo Stato in quanto categoria a
priori rispetto l’organizzazione della stessa, considera non solo un aggregato di persone che
condividono lingua e costumi, ma una realtà che va oltre ciò che si ha in comune e su cui si basa un
pensiero e un agire comune.
Manzoni, se si dovesse esprimere riguardo il concetto di Nazione la definirebbe come “una d’arme,
di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor.”
Possiamo quindi dire che la coscienza identitaria di un popolo nasce dalla consapevolezza di una
unità di anime, lingua e costumi, consapevolezza di radici comuni, di storia vissuta “insieme”, ma
soprattutto deriva dal senso di appartenenza ad una comunità che si distingue per un cammino, un
progetto, un obiettivo comune. Manzoni con il suo riferimento al “cor”, il cuore, luogo dell’agire,
sede della volontà, intende anche questo, un popolo mosso da ideali comuni dove ogni singola
persona è mossa ad agire per il progresso e nell’ottica del Bene Comune.
Prima di proseguire nella riflessione è bene precisare però cosa si intende per Bene Comune.
Il Concilio Vaticano II nella Costituzione Pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, la
Gaudium et Spes, definisce il Bene Comune come l'insieme di quelle condizioni della vita sociale
che permettono tanto ai gruppi quanto ai singoli membri di raggiungere la propria perfezione più
pienamente e più speditamente. Si capisce come questo non sia una condizione del singolo
individuo ma bensì della collettività, del gruppo di persone a cui si fa riferimento, non negando a
quest’ultime, singolarmente, la responsabilità di concorrere in maniera fattiva alla nascita di questa
condizione che resta per sua natura globale. Proprio per questo il Bene Comune si distingue
notevolmente dalla somma degli interessi collettivi dei singoli, non è infatti cercando il “bene” di
ognuno che si concorre al “Bene” della collettività. Una Nazione, e quindi una comunità, che si
possa dire tale è pronta a mettere da parte le attenzioni per il “proprio orticello” per gli interessi
dell’insieme. Dice Giovanni Paolo II nella sua Sollicitudo Rei Socialis, scritta in occasione del
ventesimo anniversario della Populorum Progressio, che: L'esercizio della solidarietà all'interno di
ogni società è valido, quando i suoi componenti si riconoscono tra di loro come persone. Coloro
che contano di più, disponendo di una porzione più grande di beni e di servizi comuni, si sentano
responsabili dei più deboli e siano disposti a condividere quanto possiedono. I più deboli, da parte
loro, nella stessa linea di solidarietà, non adottino un atteggiamento puramente passivo o
distruttivo del tessuto sociale, ma, pur rivendicando i loro legittimi diritti, facciano quanto loro
spetta per il bene di tutti. I gruppi intermedi, a loro volta, non insistano egoisticamente nel loro
particolare interesse, ma rispettino gli interessi degli altri.
Venendo adesso alla situazione italiana, si può dire che l’Italia sicuramente è uno Stato “giovane”,
la sua storia comune concretamente inizia solo dopo l’unificazione, nel 1861, è quindi un dato di
fatto che fino a quel momento la penisola è sempre stata divisa ed ogni singola porzione di terra ha
vissuto esperienze ed eventi diametralmente opposti (basti pensare all’esperienza dei Comuni nel
nord Italia mentre a sud dominava ancora il latifondo). La necessità di conservare e preservare la
natura e le peculiarità di ogni singola realtà deve quindi essere la base per creare quello che è stato
chiamato un nuovo paradigma culturale, basta entrare nell’ottica che l’altro, con il suo bagaglio di
esperienze, possa solo essere una ricchezza per ognuno di noi. Non bisogna negare l’altro ma con
esso progredire in un percorso comune che non annulli nessuno dei sue ma tenta di fare sintesi, in
una dinamica che potremmo comparare alla spirale triadica Hegelina. Pertanto ogni gruppo deve
2
tener conto dei bisogni e delle legittime aspirazioni degli altri gruppi, anzi del bene comune
dell'intera famiglia umana.1
2 . Italia: Stato regionale o Stato federale? Profili giuridici
Con l’entrata in vigore della Costituzione italiana nel 1948 può dirsi delineata una forma di Stato
regionale ma l’impianto viene attuato solo nel 1970 a causa delle opposizioni politiche.
Le diversità storiche, culturali e in alcuni casi linguistiche che caratterizzano da sempre la nostra
penisola hanno alimentato, fin dalla nascita della neo Repubblica, forti tendenze separatistiche in
Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia e hanno indotto
l’Assemblea costituente a riconoscere ordinamenti autonomistici a queste Regioni e maggiori poteri
in materia legislativa, amministrativa e fiscale.
Successivamente, la nascita di istanze federali anche in altre Regioni ha portato alla ribalta la
discussione della trasformazione della Repubblica italiana in uno Stato federale inteso come una
rivendicazione di nuove e più ampie attribuzioni a favore di tutti gli enti locali.
La tendenza attuale sembra essere quella di un sempre maggiore riconoscimento di autonomia alle
Regioni senza mettere formalmente in discussione la forma di Stato.
2.1 La scelta regionalistica(1) dell’Assemblea costituente
Secondo l’art 114 Cost la” La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città
metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”.
Questa disposizione è il risultato di una delle modifiche apportate alla Costituzione dalla legge cost.
18 ottobre 2001, n.3. In prospettiva storica essa perpetua e rinnova -seppur rivedendola- la scelta
fatta dall’Assemblea costituente di introdurre nel nostro ordinamento le Regioni. Sino ad allora il
sistema del governo locale si articolava in Italia solo su due livelli, quello comunale e quello
provinciale.
Con il nuovo ordinamento, l’Assemblea costituente ha voluto dare nuovo vigore all’intero sistema,
restituendo, dopo la parentesi del centralismo statale fascista, carattere elettivo alle assemblee dei
Comuni e delle Province, ed individuando nelle Regioni un nuovo livello di governo locale in grado
di sovvenire alle esigenze che Comuni e Province non erano in grado di soddisfare.
D’altra parte, il rafforzamento delle autonomie territoriali era concepito in funzione del
contenimento delle storiche tendenze accentratrici dello Stato italiano, cui veniva in parte
addebitato allo stesso avvento del regime fascista.
L’avversione per le tradizioni accentratrici era largamente condivisa fra le forze politiche presenti
in Assemblea costituente. Essa era rafforzata dalla convinzione che dovesse considerarsi superata
ed inattuale la preoccupazione di garantire, attraverso l’accentramento dei poteri politici ed
amministrativi, l’unità dello Stato italiano.
In effetti, quella preoccupazione era stata vivissima nelle forze politiche che nella seconda metà
dell’Ottocento avevano guidato la costruzione del regno d’Italia progressivamente debellando i
piccoli stati che nella penisola si opponevano – con l’aiuto dell’impero asburgico- all’iniziativa
nazionale unificatrice del Piemonte. Si temeva che un’articolazione di base regionale del governo
locale avrebbe favorito i tentativi revanscisti delle monarchie rimaste sconfitte, giacché le
dimensioni degli enti regionali avrebbero senza dubbio ricalcato quelle dei piccoli regni ormai
scomparsi. Il timore che le regioni potessero perpetuare divisioni e separatismi bloccò sul nascere il
progetto del ministro Minghetti che, subito dopo la proclamazione del Regno d’Italia, propose di
costituire un livello regionale di allocazione di attribuzioni amministrative.
Gli svolgimenti politici dei primi anni del secolo non determinarono positive inversioni di tendenza,
anche se di Regioni si continuava a parlare con rinnovata energia soprattutto fra i repubblicani e gli
aderenti al nuovo Partito popolare.
1
Gaudium et Spes, Costituzione Pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, n°26
3
Il regionalismo della Democrazia Cristiana si richiamava al principio della sussidiarietà che, con
sintesi efficace, fu espresso da Papa Pio XI: ” E’ ingiusto(gravissimum) rimettere ad una maggiore e
più alta società quello che dalla minore, inferiore comunità si può fare. Perché la ragione naturale di
qualsiasi intervento nella società è quella di dare aiuto (subsidium donde sussidiarietà) alle membra del
corpo sociale non già di distruggerle e assorbirle”.
Anche Luigi Sturzo era un fautore del regionalismo: “Il regionalismo è un grido di vita contro la
paralisi ed il grido degli italiani delle campagne e delle città contro il parassitismo della capitale o
delle capitali che dominano, attraverso lo Stato e la burocrazia, tutta la vita del nostro Paese. “
(1)Regionalismo: opzione politica per un decentramento di funzioni dello Stato su base regionale, che, a
differenza del federalismo, non implica tuttavia sovranità territoriale, costante prerogativa dello Stato
nazionale. Lo scopo dell'autonomia regionale è di consentire l'adeguamento di norme e regolamenti alle
condizioni specifiche di un'area e favorirne lo sviluppo.
Origine delle Regioni a statuto speciale
Al termine del conflitto mondiale profonde divisioni correvano il Paese in campo economico e
sociale, alla tradizionale contrapposizione tra Nord e Sud ed alle differenze di classe si
aggiungevano vivaci conflitti politici. Vi erano tendenze separatistiche in Sicilia, in Valle d’Aosta e
in Trentino Alto Adige che poi si estesero anche in Sardegna . Questi primi esperimenti autonomisti
presto si estesero alla Sardegna e tutte queste regioni, assieme al Friuli - Venezia Giulia, allora
frenato nelle rivendicazioni autonomistiche dalla ancora aperta “questione di Trieste”, ebbero poi a
ricevere forme particolari di autonomia, connotate dall’attribuzione di poteri più estesi di quelli
riconosciuti alle altre regioni, ed andarono così a costituire la categoria differenziata delle Regioni
ad autonomia speciale.
Oggi infatti cinque regioni sono dotate di uno statuto speciale approvato dal Parlamento nazionale
con legge costituzionale, come previsto dall'art. 116 della Costituzione.
Questo statuto garantisce un' ampia autonomia, soprattutto finanziaria consentendo di trattenere
un’alta percentuale dei tributi riscossi nel territorio regionale. Tali regioni dispongono inoltre di
notevoli poteri legislativi e amministrativi, come nei settori scuola, sanità, infrastrutture e di
conseguenza debbono provvedere al relativo finanziamento con le proprie risorse, mentre nelle
regioni ordinarie le spese sono a carico dello stato centrale.
L’attuazione della riforma regionale nel 1970 dopo anni di ritardi e inadempienze
La sola entrata in vigore della Costituzione non consentiva di dare immediatamente vita alle
regioni: per completare l’opera era necessario adottare una serie di leggi per l’organizzazione delle
elezioni dei Consigli regionali e per l’individuazione delle funzioni, degli uffici e del personale da
trasferire alle Regioni. L’adozione di queste leggi fu frenata dalla preoccupazione del governo di
offrire occasioni di esercizio di poteri di governo alle forze di opposizione nelle c.d. Regioni rosse.
Così le forze di centro finirono di fatto per favorire la conservazione della gestione accentrata del
potere contro le loro stesse dichiarate intenzioni.
Fu così che l'autonomia delle regioni, accolta nella Costituzione repubblicana (1948), venne
applicata soltanto nel 1970 .
2.2 La “riforma Bassanini”
In seguito all’entrata in vigore della Costituzione furono emanate una serie di provvedimenti in
funzione di una revisione dei poteri centrali a vantaggio delle autonomie regionali. In questo
processo di adeguamento delle strutture statali alla riforma regionale ha avuto notevole rilievo la
legge n.59 del 1997 di delega al Governo per il trasferimento di funzioni e compiti alle regioni ed
enti locali, per la riforma della P.A. e per la semplificazione amministrativa, cui si aggiunsero altre
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di sua parziale modifica. Con queste leggi e con i decreti che ne seguirono (note con il nome di
“leggi Bassanini ”), si voleva realizzare un’ampia riforma riconducibile ad un disegno di
“federalismo amministrativo a Costituzione invariata”.
Il risultato perseguito era in sostanza quello di ribaltare lo schema di riparto attuale delle
attribuzioni amministrative attraverso ingenti trasferimenti e deleghe di funzioni dallo Stato alle
Regioni, in modo che, salvo per le materie di necessaria appartenenza centrale ( quali difesa,affari
esteri,moneta, cittadinanza, ecc.), l’attività amministrativa dei poteri locali costituisse la regola e
agli organi dello Stato fosse consentito intervenire solo in ipotesi determinate ad enumerate.
A tal fine bisognava allargare le attribuzioni delle Regioni ben al di là delle materie ad esse
assegnate in Costituzione.
2.3 Istanze federali in Italia
Si voleva rimediare con legge ordinaria alla insoddisfazione dell’opinione pubbli In tale prospettiva
la richiesta dell’avvio di un processo di federalizzazione dell’Italia è venuta a coincidere con la
rivendicazione di nuove e più ampie attribuzioni per le preesistenti Regioni, rivendicazione che
poteva essere accolta anche senza mettere formalmente in discussione la forma di Stato della
Repubblica.(1)
Oggi infatti cinque regioni sono dotate di uno statuto speciale approvato dal Parlamento nazionale
con legge costituzionale, come previsto dall'art. 116 della Costituzione. ca per i molti limiti che
ostacolavano l’attività delle regioni e alla domanda di federalizzazione dello Stato che da quella
insoddisfazione traeva origine. Dalla sentita necessità di superare i frequenti ritardi è scaturita la
discussione che ha impegnato il mondo politico sulle prospettive della trasformazione della
repubblica italiana in uno Stato federale*.
Si è ripetutamente rigettata la praticabilità di questa trasformazione, negando che esistano in Italia i
presupposti per l’avvento di una federazione di una pluralità di Stati al posto dello Stato regionale.
Questa obiezione non appare fondata a chi muove dalla constatazione che oggi, come dimostra ad
esempio il Belgio, si è arrivati alla formazione di Stati federali non attraverso l’associazione di più
Stati previamente esistenti, ma tramite la distribuzione di attribuzioni già appartenenti allo Stato
unitario fra entità intermedie di minori dimensioni.
In tale prospettiva la richiesta dell’avvio di un processo di federalizzazione dell’Italia è venuta a
coincidere con la rivendicazione di nuove e più ampie attribuzioni per le preesistenti Regioni,
rivendicazione che poteva essere accolta anche senza mettere formalmente in discussione la forma
di Stato della Repubblica.(2)
2.4 La riforma costituzionale del Titolo V
Ed è avvenuto, infatti, che la legge cost. n.3 del 2001 sia divenuta legge dopo essere nata come
progetto di riforma istituzionale, perdendo progressivamente ogni riferimento alla forma di Stato
federale. La stessa ha modificato profondamente la distribuzione dei poteri fra centro e periferia,
incidendo non soltanto sull’art 117 della Costituzione relativo al riparto di competenze fra
competenze Stato e Regioni ma anche sull’art 114 relativo agli enti minori.
La riforma ha notevolmente ampliato l’ambito riservato alla legislazione regionale: l’ art 117
attribuisce alle Regioni competenze generali e residuali ed allo Stato soltanto competenze
enumerate e puntualmente individuate. E’ stata così capovolta la prospettiva: prima del
rinnovamento del 2001 le Regioni avevano potestà legislativa su determinate materie e nelle
materie non menzionate dall'art. 117 la competenza legislativa era di esclusiva pertinenza statale.
2.5 Speciali condizioni di autonomia e differenziazione delle Regioni
Il nuovo testo dell’art 116 della Costituzione consente anche alle attuali Regioni ordinarie, oltre alle
Regioni differenziate, di prendere l’iniziativa affinché con legge dello Stato siano loro attribuite
ulteriori forme e condizioni di autonomia con estensione dei poteri in materie oggi assegnate alla
competenza dello Stato.
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Con la legge 5 giugno 2003, n. 131 detta “legge La Loggia”, sono state adottate disposizioni per
l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge cost n.3/2001. La legge disciplina
l’intero processo di attuazione della riforma costituzionale e prevede l’adozione a cascata di decreti
legislativi delegati e testi unici esigendo interventi normativi ulteriori molto minuziosi
(1)Il termine Federalismo viene da foedus che in latino significa patto: una federazione è un accordo
liberamente e volontariamente sottoscritto da soggetti che aderiscono spontaneamente.
(2) Forma di Stato indica l’insieme dei principi e delle regole fondamentali che caratterizzano un
ordinamento statale e, quindi, che disciplinano i rapporti fra lo Stato, inteso come apparato titolare del potere
di usare legittimamente la coercizione, da un lato, e la comunità dei cittadini, dall’altro.
Successivamente, a seguito di iniziativa del Governo, il Parlamento ha preso in esame un disegno di
legge costituzionale con modifiche alla Parte II della Costituzione, e quindi anche al Titolo V di
questa: la c. d devolution. Fra le innovazioni previste: l’istituzione del Senato federale , la
ridefinizione delle materie di competenza regionale concorrente, la previsione della competenza
esclusiva regionale attivabile per iniziativa della singola Regione , l’inserimento in costituzione
della Conferenza Stato- Regioni e la riforma della composizione della Corte costituzionale con
l’inserimento di quattro giudici eletti dal Senato federale.
Il progetto è stato presentato dal Ministro Bossi ed ha ottenuto nel 2005 la doppia approvazione dei
due rami del Parlamento in prima lettura. Tuttavia, non essendo stata approvata in seconda lettura
dai due terzi dei componenti di ciascuna Camera , come richiesto per ogni riforma costituzionale, la
devoluzione è stata sottoposta a referendum popolare su richiesta di alcuno dei soggetti elencati
all'art. 138, secondo comma, della Carta Costituzionale ,ossia, almeno un quinto dei membri di una
Camera o cinquecentomila elettori o cinque consigli regionali.
Il referendum costituzionale, svoltosi il 25 e 26 giugno 2006, ha sancito la bocciatura della riforma.
2.6 Federalismo 2016, l’Italia che verrà
Dal 24 Marzo 2009 l’Italia può essere considerata un Paese federale dal punto di vista fiscale.
L’aula di Montecitorio, con 319 voti a favore (Lega, Pdl, Mpa e Idv), 35 contrari (Udc) e 195
astenuti (Pd) , ha dato via libera, in seconda lettura, al Ddl Calderoli che dovrà tornare al Senato per
il terzo e probabilmente l’ultimo passaggio parlamentare atteso per fine aprile.
Dopo l’approvazione è stata istituita la Commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo
fiscale, composta da 15 senatori e da 15 deputati e l’entrata a regime del regime è prevista per il
2016. Con l’approvazione del Ddl in esame si fa un altro passo in avanti verso l’attuazione
dell’articolo 119 della Costituzione nella parte in cui si prevede che una legge” detti i principi di
coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario” come previsto nel nuovo assetto
federale fissato dal Titolo V.
Nell’Italia federalista, i trasferimenti statali agli enti territoriali, che oggi sono attribuiti sulla base
della spesa storica, non esisteranno più . Le necessità degli enti saranno calcolate in base ai costi
standard dei livelli essenziali delle prestazioni ed ogni livello di governo sarà dotato di autonomia
finanziaria per assicurare lo svolgimento delle proprie funzioni.
Perché il federalismo funzioni dovranno essere definiti in modo ragionevole i costi standard per
evitare un duplice rischio: livelli troppo elevati farebbero impennare la spesa, mentre livelli
eccessivamente bassi lascerebbero scoperte le Regioni con molte spese.
Il federalismo poi affiderà un maggiore potere di controllo ai cittadini, che con il voto potranno
sanzionare o premiare direttamente gli amministratori locali. E premi per gli enti virtuosi e sanzioni
per quelli che non assicurano i livelli essenziali delle prestazioni potranno arrivare anche dal centro.
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Il federalismo potrebbe imprimere un’accelerazione nel contrasto all’evasione fiscale. E’ probabile,
infatti, che gli enti territoriali aumenteranno la vigilanza sui versamenti diretti alle loro casse.
Tuttavia la transizione al federalismo potrebbe costare cara alle casse dello Stato. Inoltre non è
detto che il decentramento di funzioni a Regioni ed enti locali implichi un risparmio nel lungo
periodo, soprattutto se la riforma dovesse portare non una semplificazione, ma una frammentazione
e diversificazione del sistema tributario.
Sugli esiti dell’ultima riforma sono state avanzate diverse e discordanti ipotesi: il federalismo
porterà minori sprechi o maggiori spese? Sarà attribuita più responsabilità per gli amministratori
locali o si assisterà ad una moltiplicazione dei centri di potere? E farà diventare il nostro sistema
finanziario una giungla o lo semplificherà?
Staremo a vedere se il passaggio verso il federalismo fiscale porterà minori sprechi oppure lascerà
irrisolti i problemi strutturali del nostro Paese.
3. 'Italia come Idea: profili storici
3.1 La “creazione” dell'idea Italia, Provincia Romana
Prima di giungere, se possibile, a delle conclusioni, è opportuno fare qualche passo indietro e
comprendere quale sia stato il percorso che ha portato a considerare territori ormai divenuti molto
diversi per storia e tradizioni come gli elementi di un unico Paese, o, se ci si passa il gioco di parole,
di un Paese unico nel suo genere.
Secondo Antioco di Siracusa, uno storico del sec. V a. C., il nome Italia deriverebbe da quello di
Italo, potente principe bramoso di conquiste, che avrebbe assoggettato e chiamato a suo nome
prima il territorio tra lo stretto di Messina e i golfi di Squillace, poi molte altre città; se questa
sembra certamente una leggenda come molte simili erano diffuse nell'antichità, non è altrettanto
chiaro fin dove lo storico consideri l'estensione del territorio. Anche Aristotele segue la linea di
Antioco, facendo derivare il nome dell'Italia dal medesimo re mitico, ma tutto questo ci suggerisce
soltanto che il nome fosse già in uso da tempo e di nascita incerta.
Un'altra ipotesi sull'origine del nome, anche questa presente fin dall'antichità ma ben più fondata, fa
derivare Italia da vitulus, che sarebbe stato il nome indigeno del vitello nell'idioma di una
popolazione locale, di cui era probabilmente l'animale totemico.
Quel che è certo è che nel corso del IV secolo a.C. i territori accomunati dal nome di Italia si
estesero da una parte fino a Posidonia, dall'altra a comprendere Taranto, per poi allargarsi intorno al
300 a.C. anche alla Campania.
Nei primi decenni del terzo secolo avanti Cristo tutta la penisola, dall'Arno e dall'Aesis allo stretto
di Messina, è unificata sotto la dominazione e amministrazione Romana, e il nome di Italia venne
quindi utilizzato per comprendere tutto questo territorio.
Se già dopo la conquista del territorio padano ci si riferisce col termine Italia a tutto il territorio fino
alle Alpi ( le prime testimonianze si trovano in Polibio), ufficialmente l'estensione del nome a tutta
la penisola avvenne nel 42 sotto Ottaviano, che abolisce e ingloba la provincia Cisalpina, mentre
per l'unione amministrativa della Sicilia, Corsica e Sardegna dobbiamo invece aspettare fino a
Diocleziano.
Come è ben noto nel 476 d.C. cade l'ultimo Imperatore d'Occidente, deposto dal capo delle
milizie barbariche Odoacre, che accettò dall'imperatore d'Oriente il titolo di patrizio e
l'autorizzazione a governare in suo nome la penisola. Già sotto il regno di Odoacre, di fatto un
sovrano indipendente, prende sostanza il termine regnum Italiae, che vedrà nei secoli successivi
fortuna alterna.
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Dal momento che la storia si ripete sempre, e non necessariamente dopo lunghi intervalli di tempo,
Odoacre viene pochi anni più tardi sconfitto da Teodorico, re degli Ostrogoti, inviato sempre da
Costantinopoli che vedeva con timore questo popolo, stanziato nelle regioni Danubiane.
Non è nostro interesse in questa sede fare un completo ripasso di storia del periodo successivo a
questi eventi, ma c'è in particolare una vicenda riguardante la successiva riconquista della penisola
voluta dall'imperatore Giustiniano (526-565) che vale la pena ricordare: dopo l'iniziale sconfitta
impartita dal famigerato Belisario, i Goti tentarono di riorganizzarsi sotto la guida del generale
Totila, il quale facendo appello alla parte più umile della popolazione portò ad arruolarsi molti
contadini; superando per la prima volta la divisione tra goti e romani, Totila sembrò essere il primo
re di un embrione di nazione, con ben più di un millennio di anticipo rispetto a come andranno nella
realtà i fatti.
3.2 La disgregazione di un'idea
Nel Medio Evo insieme alla frantumazione dell'unità politica possiamo rintracciare una certa
confusione nell'utilizzo del nome Italia stesso: in effetti potremmo quasi parlare, seppur
impropriamente, di molte “italie”, osservando in particolare i titoli dei governanti delle varie aree
regionali che si formeranno nei secoli successivi; ad esempio Ruggero II di Sicilia (XII secolo) s'era
intitolato “conte di Calabria, Sicilia e di tutta la regione Italica”, in riferimento senza dubbio a quelli
che erano stati gli ultimi territori bizantini nel paese.
Solamente nel corso del secolo XIII la suddivisione geografica dell'Italia si fa gradualmente più
precisa, e contemporaneamente si fa strada il concetto di unità geografica; sarà Dante il primo a
riconoscere con decisione la comune matrice linguistica, storica e culturale del paese.
Con la Rivoluzione Francese (1789) scrittori e giornali cominciano ad invocare la riunione in “una
nazione dei diversi popoli d'Italia”. Col 1802 la Repubblica Cisalpina assume l'augurale nome di
Italiana, e d'Italia sarà tre anni dopo il regno esteso a gran parte della penisola. Nonostante le
delusioni date dalle vicende napoleoniche e alla successiva restaurazione, ormai il concetto di Italia
unita, pur in tutte le sue diversità, risulta ben radicato nelle élite culturali del paese.
Come è ben noto la storia non è fatta solo da uomini spinti da grandi ideali, anzi ben più spesso i
grandi movimenti sono dovuti ad interessi che potremmo genericamente definire di tipo economico;
anche nel caso dell'unità nazionale, per quanto sia poco romantico ammetterlo, molto fu dovuto alle
classi medio borghesi come industriali, commercianti e moderni proprietari terrieri che ormai si
erano resi conto di come il progresso economico e sociale non potesse prescindere dalla costruzione
di un mercato nazionale, oltre la fatto che alcune delle amministrazioni che controllavano la
penisola erano totalmente incapaci di cogliere i segni dei tempi: nella Lombardia ad esempio
assistiamo intorno alla metà del '800 ad un grande sviluppo dei settori tessile e bancario, sviluppo
purtroppo frenato dalla chiusa politica doganale dell'Impero Austriaco; altre a ciò, la politica
dell'impero scaricava gran parte dei costi di gestione della pubblica amministrazione sul LombardoVeneto, a dimostrazione di come la Storia sia, oltre che ripetitiva, dotata di uno straordinario senso
dell'umorismo. Se possibile peggio andava negli stati del Mezzogiorno, dove la grande proprietà
latifondista poco o nulla faceva per avviare le necessarie riforme agricole.
3.3 Le idee del Risorgimento
Ma al di là dei comprensibilissimi interessi materiali, qual'era questa Idea di Italia?
In realtà sia le modalità per il raggiungimento dello scopo che la futura struttura vera e propria
dell'Italia unita non apparivano omogenee.
Tra i pensatori più radicali, il primato assoluto appartiene senza alcun dubbio a Giuseppe Mazzini
e alla sua Giovine Italia; i mazziniani credevano che la liberazione potesse avvenire solamente
attraverso la costituzione di uno Stato Repubblicano unitario il cui artefice poteva essere
unicamente un popolo spinto da un desiderio di emancipazione politica e riscatto sociale che
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potremmo definire quasi di matrice religiosa. L'ideale di Libertà ebbe sicuramente molta presa, in
particolare presso gli adepti di molte organizzazioni segrete morenti e presso operai e artigiani: solo
a Milano gli aderenti alla Giovine Italia erano più di 3000, anche se ben sappiamo che i moti
organizzati nel corso degli anni non ebbero un esito che potremmo definire esattamente positivo.
Di idee assai più moderate era il Torinese Vincenzo Gioberti, che fu educato dai padri dell'Oratorio
alla prospettiva del sacerdozio e fu ordinato nel 1825. Sicuramente influenzato dalle idee
dell'intellettuale Genovese, maturò però una prospettiva sostanzialmente diversa da quella di
Mazzini: Gioberti infatti, come scrive ne Il primato morale e civile degli Italiani, basava il suo
pensiero politico su un progetto riformistico e moderato che doveva far leva sugli antichi valori
cristiani che da sempre accomunavano gli abitanti della penisola, e che si poneva come obbiettivo la
formazione di una federazione nazionale dei vari stati sotto la presidenza del papa.
L'idea era potente ed effimera, e se è vero che influenzò molte coscienze in tutta Italia, fu
duramente attaccata da i gesuiti da una parte e i mazziniani dall'altra, così che Gioberti stesso
corresse il tiro affermando che ciò che era veramente importante era la formazione della Lega,
indipendentemente da chi dovesse esserne il presidente, e del resto il papa dell'epoca, Gregorio
XVI, non era esattamente un liberale.
Di idee molto simili era il conte Cesare Balbo, che sperava nella creazione di una federazione
guidata dai Savoia, cui si poteva e doveva giungere senza scontri armati, anche se non è chiaro
come il Lombardo-Veneto, già facente parte di una realtà politica più grande, avrebbe potuto entrare
a far parte dell'Italia unita.
La storia come sappiamo bene non darà un successo diretto né ai tentativi di Mazzini, né alle
intenzioni di Gioberti e Balbo: se infatti le idee moderate di questi ultimi erano destinate a rimanere
pura utopia, per quanto riguarda Mazzini possiamo ricordare le seguenti parole, scritte nel 1846, di
uno dei principali protagonisti, almeno a livello politico, di quella che sarà l'unità d'Italia, Camillo
Benso conte di Cavour:
«In Italia una rivoluzione democratica non ha probabilità di successo[..] Il partito favorevole alle
novità politiche[..] non incontra grandi simpatie nelle masse...in genere assai attaccate alle vecchie
istituzioni del paese. La sua forza risiede nelle classi medie e in una parte della classe superiore. Su
queste classi[..] cos‫ ى‬fortemente interessate al mantenimento dell'ordine sociale le dottrine
sovversive della Giovine Italia non hanno presa. Perciò ad eccezione dei giovani [inesperti ed
ingenui] si pu affermare che non esiste in Italia se non un piccolissimo numero di persone
seriamente disposte a mettere in pratica i principi esaltati di una setta inasprita dalla sventura.»
Lo statista sosteneva in effetti l'idea di una lega propagandata da Gioberti, e in seguito avversò
attivamente la spedizione dei mille, senza riuscire a fermarla: egli infatti temeva la reazione delle
potenze Europee di fronte al successo del massone Garibaldi, al contrario del re che era pronto a
prendere quanto di buono sarebbe risultato dalla spedizione, ma di fronte ai fatti compiuti non gli
restò che attendere il momento opportuno per sfruttare l'impresa in senso moderato o, a seconda dei
punti di vista, conservatrice.
In definitiva ci sentiamo di asserire che nessuno dei disegni che accendevano gli animi di
intellettuali e non di quegli anni ebbe una realizzazione concreta. Nonostante Cavour, insieme ai
successivi Presidenti del Consiglio Marco Minghetti e Luigi Carlo Farini, fosse un convinto
sostenitore del decentramento politico e di un'articolazione federale dello stato, in effetti a
prevalere fu il criterio dell'accentramento.
Era forse questa l'unica soluzione realisticamente realizzabile, o forse la natura composita dell'Italia
avrebbe richiesto una diversa organizzazione dell'amministrazione della Cosa Pubblica?
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Non è certo facile dare una risposta, ma senza ombra di dubbio il problema si è riproposto
ciclicamente nelle fasi successive della vita delle Stato Italiano.
La tendenza regionalista, come e se vogliamo federalista, si fece nuovamente viva infatti nel primo
dopo guerra, per essere stroncata nuovamente dal fascismo. Ritornò, quindi, nel secondo
dopoguerra e la nuova Costituzione conferì alle regioni ampio rilievo istituzionale.
4.Conclusioni
Elaborare delle conclusioni non è certo un'impresa facile, o priva di rischi; l'Italia forse era una
realtà che doveva nascere federale al principio? Forse un'identità artificiosa ed un po' forzata ha
causato più distacco che un vero senso di patriottismo?
Quello che è certo è che da vent’anni i dibattiti interni alla politica italiana hanno riguardato
l’esigenza, o meno, di riformare in senso federale le istituzioni. Da tempo, infatti , la difesa di uno
Stato nazionale centralizzato si è rivelato funzionale alla protezione di un sistema che moltiplica
sprechi e parassitismi. L’ ordine tardo statuale appare oggi delegittimato e quindi bisognoso di
essere ripensato: la sfiducia dell’opinione pubblica verso le istituzioni cresce sia nelle Regioni
settentrionali sia in quelle meridionali per le inefficienze che spesso lo stato dimostra nell’
affrontare i problemi sociali, economici e culturali più sentiti nei territori e per la dispersione della
ricchezza prodotta all’interno del Paese. Tali difficoltà rischiano oggi di radicalizzarsi a causa della
grave congiuntura economica che sta investendo il nostro Paese e l’Europa intera .
Appare dunque con urgenza la necessità di ripensare l’Italia con coraggio: le Regioni dovrebbero
poter contare sulla ricchezza prodotta, i governatori degli enti locali dovrebbero investire le risorse
con responsabilità, ai cittadini dovrebbe essere riconosciuta una maggiore autonomia nell’investire i
propri risparmi. Garantendo una efficiente organizzazione interna si incentiva ogni Regione a
contare sulle proprie forze e si favorisce in questo modo anche il perseguimento dell’interesse
collettivo dando modo a Coloro che contano di più, disponendo di una porzione più grande di beni
e di servizi comuni ,di sentirsi responsabili dei più deboli e di condividere quanto possiedono.
-Giovanni Paolo IIIl documento mira a proporre una seria riflessione a favore di un nuovo paradigma culturale che, nel
rispetto della legittima autodeterminazione delle identità regionali, non faccia perdere il senso di
appartenenza alla comunità. Il Federalismo resta una buona ipotesi di compromesso tra la spinta
regionalistica e la salvaguardia del valore di Nazione come finora inteso, se gestito in modo
conforme al principio di sussidiarietà. La sussidiarietà si prospetta come un processo di
istituzionalizzazione a gradi dell’ordinamento delle relazioni intersoggettive a partire
dall’autonomia personale di ciascuno. Questo processo sarebbe vantaggioso per la dignità personale
dei singoli, sulla cui autonomia si riconosce fondato l’intero processo dell’ordinamento delle
relazioni intersoggettive, ma anche per la dignità istituzionale dello Stato che, liberato da funzioni
minori seppur necessarie della vita di relazione, potrebbe convenientemente far fronte al suo
compito specifico di direzione, sostegno e di controllo. In altri termini si riconosce come la
sussidiarietà costituisca uno strumento politico per superare quella lontananza del “paese legale” dal
“paese reale”, per superare la scissione tra “vita delle istituzioni” e “vita dei cittadini” che ogni
giorno di più ci appare come il segno della crisi della vita sociale. Si tratta insomma di intelligenza
del bene comune: del Bene cioè che accomuna una molteplicità di soggetti diversi facendone una
comunità.
“E’ ingiusto rimettere ad una maggiore e più alta società quello che dalla minore, inferiore
comunità può fare” -Papa Pio XI-
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Bibliografia
-Politica aut/et statistica, Francesco Gentile
- Diritto regionale , Sergio Bartole, Roberto Bin, Guandomenico Falcon, Rosanna Tosi
- Diritto pubblico comparato, Giuseppe Morbidelli, Lucio Pegoraro, Antonio Reposo
- Come il federalismo fiscale può salvare il Mezzogiorno , Piercamillo Falasca e Carlo Lottieri
-Diritto costituzionale, Livio Paladin
- Il sole 24 ore
- Enciclopedia Treccani,
- Le tracce della Storia, Eva cantarella, Giulio Guidorizzi,
- La conoscenza Storica, Alberto De Bernardi, Scipione Guarracino,
- L'immancabile Wikipedia
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