Habermasiana Collana di filosofia normativa diretta da Leonardo Ceppa 5 LEONARDO CEPPA IL DIRITTO DELLA MODERNITÀ. SAGGI HABERMASIANI TRAUBEN Ristampa corretta 2011 © 2009 Leonardo Ceppa © 2009 Trauben edizioni via Plana 1 – 10123 Torino fax 011837193 www.trauben.it ISBN 9788889909676 4 Indice Prefazione 7 Parte prima. Per un positivismo democratico 1. 2. 3. 4. I contenuti etici della democrazia habermasiana Un saggio di Habermas su Löwith Il dibattito Denninger-Habermas sulla costituzione Diritto costituzionale versus diritto egemonico 13 39 59 77 Parte seconda. Per un riformismo spregiudicato 5. 6. 7. 8. Lotte di riconoscimento nella società democratica La revisione di Habermas nella prefazione del 1990 Recuperare le religioni per rilanciare la democrazia Senza religioni, niente democrazia 101 117 127 155 Parte terza. Il postmodernismo democratico (stat pro ratione voluntas) 9. 10. 11. 12. Il nazionalismo umanitario di Thomas Mann I fondamenti del diritto: Günther versus Teubner Gunther Teubner: costituzionalizzare il politeismo L’affetto antimoderno di Michel Foucault Fonti 167 191 225 239 259 “La natura vuole irresistibilmente che il diritto abbia infine il supremo potere” (Kant, La pace perpetua) 6 Prefazione “C’è indifferenza per queste cose, perché il relativismo ha distrutto il vero scopo dell’educazione, la ricerca di una vita buona” (Allan Bloom) Giunto all’età del sabbath biografico, il sottoscritto raccoglie i saggi sparsi della sua ultima, scarsa produzione scientifica. Nel corso della vita, egli ha conosciuto due „scuole di Francoforte”: quella adorniana nei primi anni settanta, e quella habermasiana degli anni novanta. Un abisso le divide, nonostante gli omaggi formali che la seconda tributa alla prima. La parola d’ordine degli anni settanta era: deduzione teorica di ogni fenomeno (come negli aforismi adorniani di Minima moralia) dalla marxiana forma di merce. La parola d’ordine degli anni novanta era: verifica discorsiva della intuizione di partenza secondo criteri di validità differenziati. Tuttavia un filo comune lega le due fasi della scuola: l’esaltazione della dimensione normativa (l’universalismo razionale della modernità) di contro ai fronti contrapposti della metafisica premoderna e dell’irrazionalismo postmoderno. Dunque, per un verso, nessuna filosofia perenne del logos divino, né, per l’altro verso, alcuna celebrazione naturalistica della forza vitale („homo lupus” alla Hobbes, classe operaia alla Marx, emergenza del bios alla Foucault). L’autore di questo lavoro è stato influenzato da entrambe le scuole di Francoforte. Del suo innamoramento per Adorno sono testimonianza, oltre a lavori di traduzione, i saggi ospitati dalla rivista storica di Guido Quazza e da „Belfagor”, l’introduzione einaudiana ai Minima moralia, il saggio su Korsch per la „Storia del marxismo” Feltrinelli, e lo Schopenhauer diseducatore uscito presso l’editrice Marietti. Del suo innamoramento per Habermas, oltre a lavori di 7 traduzione, possono testimoniare i saggi e le recensioni qui raccolte (solo minimamente aggiornate). Habermas ha collocato la dimensione normativa nella „trascendenza dall’interno” che caratterizza, nel quadro della ragione comunicativa, la forza ideale del diritto e della democrazia. Ha potuto così collegarsi all’ottimismo della scienza politica americana congedandosi dalle melanconie del marxismo occidentale europeo. I princìpi normativi della ragione comunicativa e del patriottismo costituzionale gli consentono di differenziare i piani della validità giuridica, politica, morale attorno a un unico asse di legittimità. In Italia invece la congiuntura ideologica continua ad essere confusa. L’alleanza tra volontarismo dell’impegno e positivismo empiristico – tra l’ottimismo cieco del cuore e il pessimismo lucido dell’intelligenza – ha prodotto un cocktail cattivo di particolarismo etico (l’inferno lastricato dalle buone intenzioni) e relativismo culturale (la democrazia come aggregazione di arbitrarie preferenze private). In Schopenhauer diseducatore (1983) il sottoscritto aveva tematizzato – alla maniera francofortese – la complementarità di positivismo e superstizione, rasoio di Ockham e danza di Dioniso. Le strettoie ideologiche della sinistra italiana sembrano ora confermare quella diagnosi. Né l’impegno volontaristico delle ideologie marxistiche, movimentistiche e cattoliche, da un lato, né l’empirismo metodologico delle scuole neo-illuministiche (Della Volpe, Abbagnano, Bobbio), dall’altro, hanno mai riconosciuto i vincoli universalistici della ragione pratica kantiana. Per un verso, si punta ancora sulla vecchia metafisica dialettica della storia, per cui la forza del negativo (della devianza, della protesta sociale, della trasgressione) produrrebbe automaticamente il progresso. (In questo senso è ancora la lotta di classe a legittimare la democrazia e non viceversa). Per l’altro verso, qualunque pretesa di trascendenza normativa, universalismo pratico, fondazione razionale, è vista come dogmatica e reazionaria (in questo senso Bobbio diceva che compito dell’intellettuale è “seminare dubbi”). Insomma: la giustizia resta cognitivamente “insondabile” e praticamente affidata alla forza 8 (invece che cognitivamente “inesauribile” e politicamente affidata alla democrazia) e i vincoli di legittimità restano “convenzionali” (castelli di carte soggetti ai venti della storia, invece che razionalmente fondati)1. Ma a che serve essere pessimisti? Un giorno, se Dio vorrà, usciremo anche da queste strettoie. E impareremo la differenza esistente tra la lotta di classe marxista (fondata sulla forza) e il patto civico republicano (fondato sulla legge). Capiremo anche che le due gambe del regime democratico servono per andare avanti e non per darsi da soli calci negli stinchi. Qualunque obiettivo, anche il più radicale e rivoluzionario, può essere raggiunto senza spargimento di sangue (e senza turpiloquio2) nel medium deliberativo e procedurale di un diritto che veicola il consenso della cittadinanza. Qui il revisionismo normativo e positivistico3 di Habermas potrà forse essere d’insegnamento. Si tratta di legare il diritto alla ragione del patriottismo costituzionale, rinunciando al volontarismo del non Sulla complementarità di superstizione e positivismo cfr. ora Enrico Zoffoli, Al di sotto della cittadinanza (Pera vs Flores d’Arcais), in “Teoria politica” 1/2009, 169-183; nonché le mie recensioni a Gustavo Zagrebelsky e Marcello Pera (in “Teoria politica” 2/2008, e 2/2009). 2 Gli atti linguistici di cui si compongono i discorsi della politica sono illocutivi e non perlocutivi (vulgo: sono argomenti e non insulti). Mentre parteggiano strategicamente per interessi e valori particolari, questi discorsi ribadiscono normativamente l’universalità delle regole e del quadro istituzionale. Questa duplicità del ‘gioco linguistico’ giuridico è ciò che ha incantato Habermas dopo il fallimento del ’68. 3 Ci sono due positivismi diversi. Quello deliberativo di Habermas dice (per motivi normativi) che una legge è valida finché non viene cambiata dal popolo sovrano. Quello empiristico di Norberto Bobbio dice (per scetticismo dei valori) che una legge è valida perché così vuole la maggioranza (aggregativa) delle (arbitrarie) preferenze soggettive. Sulle dimensioni positivistiche del normativismo habermasiano cfr. Peter Niesen, Oliver Eberl, Demokratischer Positivismus: Habermas und Maus, in Sonja Buckel et Alteri, a cura di, Neue Theorien des Rechts, Lucius&Lucius, Stuttgart 2006, pp. 3-28, e Hauke Brunkhorst, Kritik am Dualismus des internationalen Rechts: Hans Kelsen und die Völkerrechtsrevolution des 20. Jahrhunderts, in Regina Kreide, Andreas Niederberger, a cura di, Transnationale Verrechtlichung. Nationale Demokratien im Kontext globaler Politik, Campus, Frankfurt-New York, 2008, pp. 30-62. 1 9 praevalebunt. Vale a dire, legarlo alla forza del consenso e non alla violenza del potere, all’idea di giustizia e non all’idea di egemonia, alla forza dell’argomento migliore e non all’astuzia della strategia più efficace. Si tratta di costituzionalizzare il “politeismo dei valori” di cui parlava Max Weber. La guerra fredda è finita da tempo, i giovani imparano l’inglese, girano il mondo, smanettano computer e cellulari, utilizzano le borse erasmus. La speranza non è affatto l’ultima risorsa (spes ultima dea). La speranza è invece la condizione pregiudiziale di ogni possibilità. Per usare il gergo habermasiano, possiamo parlare di anticipazione normativa, patriottismo costituzionale, revisionismo spregiudicato, lotta di riconoscimento, legittimità che nasce dalla legalità. Questa tipo di speranza è comune sia alle teorie democratiche moderne (dunque kantiane) che subordinano la forza al diritto, la volontà alla ragione, sia alle teorie democratiche postmoderne (dunque nietzscheane e weberiane), che subordinano il diritto alla forza, la ragione alla volontà, la giustizia al mito. Il soldato Ryan ha svolto così bene il suo compito, che anche l’irrazionalismo di Nietzsche e Carl Schmitt ha infine dovuto volgersi in direzione della solidarietà democratica (vedi Rorty) abbandonando le suggestioni dello stato etico e carismatico. Sennonché la democrazia postmoderna del “pensiero debole” (Vattimo) e del “diritto mite” (Zagrebelsky) non riconosce l’autonomia del giusto sul bene, della norma sul valore, del vero sull’utile. Pertanto non risulta immunizzata dalle suggestioni della propaganda, del risentimento, della fratellanza paternalistica, del relativismo nichilistico4. Solo se porteremo avanti il progetto normativo della modernità nel senso di Kant e di Habermas riusciremo a controllare con la ragione, e non solo con la volontà, gli scenari della nostra storia. L.C. Per una lettura non relativistica del pragmatismo cfr. Jürgen Habermas, Richard Rorty: Achieving our Country, in Idem, Tempo di passaggi, Milano 2004, pp. 113-123; sul nichilismo del post-sessantotto cfr. Allan Bloom, La chiusura della mente americana. I misfatti dell’istruzione contemporanea (1987), Lindau, Torino 2009. 4 10 Capitolo 6 LA REVISIONE DI HABERMAS NELLA PREFAZIONE DEL 1990 In premessa alla ristampa Laterza 2002 del più famoso libro di Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, trad. it. di A. Illuminati, F. Masini, W. Perretta, revisione di M. Carpitella, (pp. VIIXLIII), troviamo tradotte le quaranta pagine con cui l’autore aveva licenziato nel 1990 la sua diciottesima edizione tedesca. Originariamente uscito presso l’editore Luchterhand nel 1962, questo libro aveva molto influenzato la cultura del Sessantotto europeo. Tradotto in italiano nel 1971, era subito diventato un testo classico di riferimento per molte discipline storiche, sociologiche e letterarie, tanto da venire adottato come manuale di studio in diverse facoltà. La prefazione habermasiana del 1990 è interessante soprattutto in quanto rappresenta una revisione e una autocritica fondamentale dell’autore. Si tratta della registrazione e giustificazione di una svolta che, nel corso degli anni Settanta e Ottanta, aveva progressivamente allontanato Habermas dalla impostazione francofortese originaria, inducendolo a formulare una “teoria del discorso” sempre più lontana dalla vecchia Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno. Di fronte alla richiesta di scrivere nel 1990 una prefazione nuova per questo suo libro fortunato di trent’anni prima, Habermas prende di petto il problema e scrive una revisione folgorante della propria impostazione originaria. Di fatto, queste quaranta pagine di Habermas anticipano anche – in una straodinaria sintesi teorica che è quasi una sorta di “manife- 117 sto” programmatico – tutta la prospettiva su cui poggia Faktizität und Geltung (il capolavoro uscito in Germania nel 1992 e tradotto da Guerini e Associati nel 1996 col titolo Fatti e norme). I Il primo punto dell’autocritica habermasiana riguarda la mancata tematizzazione, nel testo del 1962, dei meccanismi di esclusione cui la sfera pubblica borghese dava origine. Habermas fa ora tesoro della esperienza di Foucault pur continuando a divergere teoricamente da lui. Per un verso, il pluralismo delle sfere pubbliche plebee, proletarie e contadine, nonché la strutturale emarginazione delle donne nel carattere patriarcale della società borghese, vengono ora intesi da Habermas come fenomeni costitutivi di esclusione che oltrepassano il concetto marxiano di falsa coscienza. Per l’altro verso, Foucault ha torto nel pensare come totalmente “altro” ciò che viene escluso, assumendolo come qualcosa di contrapposto, non inclusivo, democraticamente inassimilabile. Solo la contrapposizione di sfera carismatica feudale e rivolta plebea alla Bachtin conserva anche per Habermas queste caratteristiche di reciproca esclusione costitutiva: ma “in quel caso la cultura e la controcultura erano così legate tra loro che l’una scompare con l’altra” (p. XVI). Invece il carattere inclusorio e universalistico dei diritti rivendicati dall’illuminismo borghese consente, secondo Habermas, di interpretare come potenziale di autotrasformazione democratica sia il pluralismo delle proteste proletarie sia le rivendicazioni femministe. II Il secondo punto dell’autocritica habermasiana riguarda sia la semplificazione ottimistica con cui Wolfgang Abendroth interpretava la democratizzazione del capitalismo da parte dello stato sociale sia la semplificazione pessimistica con cui Theodor W. A- 118 dorno leggeva la manipolazione mediatica operata dall’industria culturale. Lo stato sociale nasce nel momento in cui le masse espropriate, non potendo fondare la loro autonomia politica sui meccanismi del mercato e della concorrenza, devono affidarsi ai meccanismi di compensazione, pianificazione e assistenza messi in atto dal potere politico. Abendroth interpretava lo stato sociale come la possibilità di estendere il controllo politico-democratico alla totalità del processo economico. Negli anni Sessanta anche Habermas condivideva la speranza di riplasmare dall’interno la sfera economica tramite un allargamento della partecipazione democratica. Oggi egli la pensa diversamente: “il seducente programma di Abendroth tradiva le debolezze del pensiero hegeliano-marxista articolato in concetti totalitarii (…) Una società funzionalmente differenziata si sottrae a concezioni sociali olistiche. Il fallimento del socialismo di stato che noi oggi osserviamo ha confermato ancora una volta che un sistema economico moderno non può venire convertito a piacimento dal denaro al potere amministrativo e alla formazione democratica della volontà senza che ne venga intaccata l’efficienza” (pp. XXI-XXII). La lezione di Luhmann sulla pluralità delle logiche sistemiche non è passata invano: Habermas ritiene oggi che il mercato non sia intrinsecamente democratizzabile, ma solo estrinsecamente addomesticabile. La logica interna del sistema economico va dunque rispettata per quello che è. Persino certe degenerazioni sclerotico-burocratiche dello stato sociale legittimano oggi, agli occhi di Habermas, programmi politici di privatizzazione e liberalizzazione (p. XXII). Di fronte invece alle semplificazioni adorniane sulla industria culturale e sulla manipolazione del consenso, Habermas fa oggi valere l’idea della “civic culture” e di una imprevedibile interpretazione del messaggio mediatico. È questo il tema della “vermachtete Öffentlichkeit”, espressione che il traduttore volge in italiano con “sfera pubblica depotenziata” e che invece sarebbe 119 forse meglio tradurre con “dominata dal potere” oppure, più semplicemente, “manipolata” (“prestrutturata e dominata dai mezzi di comunicazione”, come si legge nella prima riga di p. XXIII). In sostanza, Habermas non condivide più l’idea adorniana che la fine della sfera pubblica liberale debba automaticamente significare anche la fine della democrazia. Operazionalizzare il carattere discorsivo e critico della società civile – ossìa trovare indicatori empirici sulla natura deliberativa dei processi dibattimentali in cui si formano le opinioni e le volontà collettive – significa per Habermas eludere l’alternativa secca e antinomica (in cui cade invece la ortodossìa adorniana) tra il valore ideale, controfattuale e normativo del concetto di opinione pubblica e il suo referente empiricosociologico, visto come pregiudizialmente manipolato ovvero vittima di una irredimibile “connessione di accecamento” “A suo tempo ho giudicato troppo pessimisticamente la capacità di resistenza di un pubblico di massa… pluralistico, assai differenziato verso l’interno” (p. XXIV). III Il terzo punto dell’autocritica habermasiana riguarda la più generale revisione teorica del quadro categoriale complessivo avvenuta negli anni Settanta e Ottanta. Habermas si era allora allontanato dal marxismo di Abendroth e di Adorno, sviluppando la teoria democratica a partire da una teoria dell’agire comunicativo. Avendo abbandonato le versioni ottimistiche e pessimistiche della filosofia dialettica della storia, la democrazia deliberativa di Habermas si scontrava con il problema sostanziale delle procedure. Si trattava di superare ogni concezione meramente elitista e scetticheggiante della democrazia quale mero meccanismo procedurale di ricambio delle leaderships. Il pluralismo orizzontale degli interessi fattuali doveva infatti dimostrarsi conciliabile alla verticalità normativa della validità. Nell’ambito della nuova prospettiva, il li- 120 bro del 1962 “diventava inservibile alla teoria democratica nel momento in cui poneva come insopprimibile il pluralismo degli interessi concorrenti, giudicando impossibile che da questo pluralismo potesse derivare un interesse generale capace di rappresentare un criterio normativo per l’opinione pubblica” (p. XXVII, trad. modific.). Habermas ci ricorda sinteticamente le tappe di questo suo percorso teorico. Tre aspetti vengono soprattutto evidenziati. a) Una collocazione più profonda dei fondamenti normativi della teoria democratica (ora identificati non più nella filosofia dialettica della storia, bensì negli stessi presupposti pragmatici del linguaggio quotidiano). b) Una recezione del pluralismo sistemico di Luhmann, in seguito alla quale le sfere dell’economia e dello stato capitalistico non sono più comunisticamente abolibili, ma solo riformisticamente addomesticabili nei loro effetti ecologici e sociali. (Valga al riguardo un’altra citazione: “La società auto-amministrata, capace di programmare legislativamente tutti i propri settori vitali, inclusa la propria riproduzione economica, avrebbe dovuto, in teoria, venire integrata dalla volontà politica del popolo sovrano. Sennonché la supposizione che la società… possa autoregolarsi tramite i media del diritto e del potere politico ha ormai perso ogni plausibilità di fronte al grado di complessità delle società funzionalmente differenziate” p. XXIX, trad. modif.). c) Nessuna immediata “pretesa di virtù” alla Rousseau: anche la distinzione marxiana tra borghese egoista e cittadino virtuoso è strutturalmente obsoleta. Secondo Habermas, lo stato sociale delle democrazie di massa intreccia fin dall’inizio ruolo pubblico e ruolo privato, iniziativa politica e passività clientelare, universalismo della partecipazione e particolarismo del risarcimento. Così l’autonomia del cittadino non sta più nella sua aprioristica virtù morale, di stampo rousseauiano o kantiano, ma è il risultato della socializzazione politica, ossìa l’effetto delle procedure con cui viene strutturalmente formata l’opinione e la volontà collettiva. “Con ciò l’onere della dimostra- 121 zione si sposta dalla morale dei cittadini a quei procedimenti della formazione dell’opinione e della volontà che sono destinati a fondare la presunzione di raggiungere risultati razionali” (p. XXXII). Il concetto discorsivo della democrazia presuppone tuttavia che i problemi pratico-politici siano razionalmente decidibili attraverso norme suscettibili di fondazione e di applicazione razionale (al di là dunque del mero calcolo utilitaristico e strategico). Nel ricondurre tali problemi all’imparziale intersoggettività del “punto di vista morale” Habermas si affianca ad autori neokantiani come Rawls, Dworkin, Ackermann e Apel. Le questioni politiche si differenziano certo in un ampio ventaglio procedurale e argomentativo: la natura empirica delle questioni pragmatiche chiede di essere affrontata con tecniche diverse da quelle adeguate alla natura esistenziale, valoriale e identitaria delle questione etiche, mentre la preminenza metodologica del “giusto” sul “bene” caratterizzante le questioni morali va sempre distinta dal carattere compromissorio delle trattative applicate a interessi insuscettibili di generalizzazione ( p. XXXIV). Tuttavia, secondo Habermas, la decidibilità razionale delle questioni pratiche sta nella loro riconducibilità (diretta o indiretta) al punto di vista della giustizia, dunque alla prospettiva di un imparziale “moral point of view” cognitivamente identificabile sul piano argomentativo. Ciò consente ad Habermas di collegare la pluralità degli interessi concorrenti e degli indicatori empirici alla unicità dell’interesse generale discorsivamente (e normativamente) vincolante. In tal modo la democrazia si presenta come una mediazione di fattualità e validità, comunità reale dei cittadini e comunità ideale degli agenti morali – una mediazione operata dai cittadini attraverso gli strumenti del medium giuridico. Anticipando temi che saranno sviluppati in Fatti e norme, Habermas propone qui una versione comunicativa del modello giusnaturalistico di Rousseau e Kant. La natura paradossale del diritto come unione di legittimità e costrizione rinvìa in Habermas al 122 concetto illuministico di “autolegislazione” quale coincidenza dei destinatari coi produttori delle norme. In tal modo Habermas riesce a coniugare il massimo dell’idealismo normativo con il massimo del realismo empirico. “Le procedure giuridiche servono a far valere sul piano di una comunità di comunicazione, idealmente ipotizzata, le costrizioni selettive di natura spaziale, temporale e materiale presenti nella società reale “ (p. XXXV, trad. modif.). In questo senso la trascendenza normativa è per Habermas sempre situata, cioè interna a un contesto. La decidibilità razionale (non meramente compromissoria) delle questioni pratiche si coniuga dall’interno alla dimensione empirica della forza e degli interessi concorrenti. Per un verso la democrazia dipende dalla partecipazione spontanea e disinteressata dei cittadini al bene pubblico, per l’altro verso le procedure sono una “dolce costrizione” alla virtù, in quanto servono a purificare le preferenze soggettive, articolare identità culturali (non fondamentalistiche), graduare la distanza tra il cittadino come cliente-destinatario dei servizi e il cittadino come soggetto legislatore. IV Il quarto e ultimo punto della prefazione habermasiana riguarda la traduzione del vecchio concetto di “sfera pubblica politica” nel nuovo concetto di “società civile”. Ora l’ambivalenza tra una società civile come fonte normativa e repubblicana della legittimazione e la società civile come oggetto della manipolazione, dell’influenza, della compliance verso gli imperativi sistemici, non viene più dialetticamente risolta da Habermas né “col rinvìo a garanzie di status dello stato sociale” (p. XXXVIII) né con la teoria della passività conformistica del pubblico mediatizzato. Piuttosto la teoria dell’agire comunicativo consente ora di inserire le trasformazioni della sfera pubblica dentro i vasti processi della modernizzazione e della razionalizzazione del mondo di vita. “Una sfera 123 pubblica dalle funzioni politiche ha bisogno non solo delle garanzie delle istituzioni dello stato di diritto, ma deve anche dipendere dalla compiacenza (Entgegenkommen) di tradizioni culturali e modelli di socializzazione, dalla cultura politica di una popolazione abituata alla libertà” (p. XXXVIII-XXXIX). Il vecchio concetto di società civile, che in Hegel e Marx rinviava strutturalmente al mercato capitalistico-borghese, subisce così una revisione. Come fonte della legittimazione, la società civile – dalla cui anarchica mobilitazione dipende la vita democratica – coincide ora con l’associazionismo critico di un pubblico culturalmente differenziato, libero dai condizionamenti sia del mercato sia del potere politico. Questa prefazione viene scritta da Habermas nel 1990, l’anno successivo al crollo del Muro di Berlino. All’Est come all’Ovest, “il nucleo istituzionale della società civile è… costituito da associazioni non statali e non economiche su base volontaria” (p. XXXIX). Nella pagina conclusiva Habermas ricorda i lavori di Andrew Arato e Jean Cohen, i quali nella grande ricerca uscita in America due anni dopo – Civil Society and Political Theory, The MIT Press, Cambridge, Mass., 1992 – collegheranno esplicitamente il concetto di società civile all’architettura habermasiana della teoria della modernità e dell’agire comunicativo. Quale conclusione trarre da queste pagine dense e difficili? Il senso complessivo della revisione teorica habermasiana sta forse in un approfondimento della natura ambivalente della sfera pubblica (ovvero di quella società civile che è, simultaneamente, fonte della legittimazione e luogo della manipolazione). La democrazia potrà superare il suo stadio storico “liberale” solo se saprà realizzarne per altra via gli obiettivi (libertà ed eguaglianza). Ossìa solo se il pubblico mediatizzato potrà ancora mettere in moto processi critici di comunicazione, di partecipazione, di responsabilizzazione. Rispetto a questa impresa, il pessimismo radicale con cui Adorno (e il primo Habermas) avevano influenzato la cultura del Sessantotto sembra avere bisogno di una autocritica esplicita. “Se oggi mi ac- 124 cingessi ancora una volta a studiare la trasformazione strutturale della sfera pubblica, non saprei quale risultato otterrei ai fini di una teoria della democrazia – forse un risultato che darebbe lo spunto a una valutazione meno pessimistica e a un modo di vedere meno provocatorio (trotzig) di un tempo” (p. XLIII, trad. modif.). 125