17 novembre 2013 - Trentatreesima domenica del Tempo Ordinario C
RESPONSABILI DELL’ETERNITÀ
Malachia 3,19-20a
Salmo 97 (Il Signore giudicherà il mondo con giustizia)
2 Tessalonicesi 3,7-12
Luca 21,5-19
La tradizione religiosa occidentale prevede due esiti per la vita dei singoli e del
cosmo stesso: la felicità o la pena eterna. Fermiamoci oggi su questa seconda triste
possibilità. Spesso essa viene descritta come la sofferenza inferta in un luogo,
l’inferno, ardente di un fuoco che brucia ma non consuma, dove convivono dannati e
demoni. Il profeta Malachia, vissuto circa 450 anni avanti Cristo, nei suoi oracoli
rimprovera aspramente i sacerdoti per la loro indolenza e il popolo per la sua
idolatria, minacciando la pena del fuoco ai trasgressori della legge.
Per una adeguata riflessione sull’inferno, come per il paradiso, bisogna però rifuggire
da ogni fantasia: esso non è un luogo, il fuoco è una analogia, i diavoli non sono gli
aguzzini; esso è uno stato di sofferenza legata all’impossibilità di vivere nell’amore
di Dio e alla presenza del Signore. Nella visione cristiana infatti, la storia non ha un
andamento ciclico, come avviene nell’induismo attraverso la reincarnazione o
nell’antico gnosticismo con la teoria dell’apocatastasi (reintegrazione), ma lineare. La
storia va dal tempo all’eternità e l’eternità sarà come si è “costruita” nel tempo. Chi si
è fatto capace d’amore, chi ha costruito relazioni felici durante la sua vita terrena (con
Dio, con gli altri, con la natura) le ritroverà potenziate e trasfigurate dalla grazia di
Dio per l’eternità, così che potrà viverle nella gioia. Chi, al contrario, nel tempo
terrestre, ha visto solo se stesso, si è chiuso nei propri interessi, ha nutrito un cuore
piccolo, non potrà nell’eternità godere di relazioni che danno felicità solo in quanto
aperte sul cuore di Dio nel quale tutti e tutto vive. L’inferno quindi non è una
vendetta o un capriccio di Dio: è l’esito di una vita, è l’incapacità di vero amore, è la
scelta della lontananza dalla fonte d’ogni bene. Dio non lo vuole, ma egli rispetta la
libertà della sua creatura umana anche nell’eternità come la rispetta nel tempo. In
verità, alcuni teologi moderni non ammettono l’eternità dell’inferno, in quanto,
dicono, alla fine, Dio giustificherà tutti, ma la tradizione cattolica è concorde.
A parte la questione dell’eternità dell’inferno, che lasciamo all’insondabile volontà di
Dio, è importante sottolineare la nostra responsabilità nella vita terrena. Non è
indifferente fare il bene o il male, non tanto per una questione individuale di “meriti”
onde guadagnare la vita eterna, ma per una questione strutturale: il bene compiuto fa
crescere il bene del tutto per tutta l’eternità e il male diminuisce il bene nell’universo
per tutta l’eternità. A quelli che prendevano a pretesto la supposta prossima fine del
mondo per non far nulla, san Paolo, dice di lavorare, come del resto faceva lui (II
lettura). Non è solo una questione di pane da mangiare (“chi non lavora, neppure
mangi”), ma di educare il cuore e il mondo a diventare capace di felicità eterna.