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ETERNITÀ E TEMPO
La dimensione qualitativa del tempo e la tradizione dell’otium tra filosofia e teologia
Grazie agli organizzatori di questo workshop a cui sono stato chiamato per condividere una riflessione su
Tempo ed eternità.
Premessa
Ci troviamo qui oggi, assieme, come diversi individui ma per essere persone occorre sintonizzarsi.
Ho un debole per l’etimologia e mi ha sempre affascinato quella della parola “persona” che deriverebbe
dalla preposizione per e dal verbo suonare. Non è forse la vera ed unica etimologia, ma è interessante perché
un individuo diventa persona per qualsiasi altro individuo solo se lo attraversa per risuonargli dentro, così
come l’altro risuona in lui a sua volta attraversandolo. L’assoluta sonorità di questa ipotesi mi affascina, ma
mi chiedo: che cosa mai accade quando l’attraversamento non è reciproco? In quel caso ci può essere sordità
dell’anima, incomprensioni e i rifiuti possono ritardare o rendere impossibile la reciproca compenetrazione.
È indubbio che la comprensione e il “suonare all’unisono” è un cammino difficile che può essere compiuto a
partire dalla constatazione che non si è soli, avulsi dal tutto, bensì appunto persone, capaci di sentire l’Altro
che “risuona” dentro a ciascuno di noi.
Una premessa per dire che sono contento di essere qui, in questo pomeriggio, e cercherò di sintonizzarmi
con voi sul tema-problema-mistero del “tempo”, argomento su cui, generalmente, si fa una certa fatica ad
armonizzarsi.
Il mio intervento verterà su “Tempo ed eternità: la dimensione qualitativa del tempo e la tradizione
dell’otium tra filosofia e teologia”. Ovviamente il breve spazio concesso a una conferenza non consente una
riflessione articolata, quindi dovrò limitarmi a una sola prospettiva che devo subito chiarire.
- Prospettiva della riflessione
La mia prospettiva è quella cristiana: solo Gesù Cristo, Verbo eterno del Padre venuto ad abitare in mezzo a
noi, con la sua morte e risurrezione ha redento il tempo, ha vinto la morte è ci ha aperto la vita eterna.
Cercherò di argomentare questa fede nella consapevolezza che è vera ed è pienezza di umanità e lo farò
attraverso brevi cenni al rapporto fede-ragione e mediante un confronto e dialogo con altre prospettive.
Ricordo che nell’autunno del 2000, a Milano, si tenne l’XI sessione della «Cattedra dei non credenti» dal
titolo “I figli di Kronos s’interrogano”: una meditazione sul carattere finito o infinito del tempo. La
«Cattedra dei non credenti» è stata una creazione del card. C. M. Martini che, dal 1987, dette inizio a degli
incontri in Cattedrale invitando intellettuali, credenti e non credenti, al fine di stabilire un dialogo tra diverse
e talora lontane concezioni di vita, per cercare risposte alle “domande” fondamentali. Il fatto più interessante
era che C. M. Martini poneva spesso in cattedra i non credenti perché potessero insegnare ai credenti,
provocandoli a purificare la loro fede e, nel dialogo, i non credenti a loro volta potessero aprirsi alla fede.
1. Una prima visione generale del tempo
«La vita fugge, et non s’arresta una hora,/et la morte vien dietro a gran giornate». Con queste parole
Francesco Petrarca iniziava uno dei più bei sonetti della letteratura italiana.
La vita fugge inesorabilmente in quanto il tempo inghiotte tutte le cose, segnando la nostra vita come un
ineluttabile dirigersi verso l’appuntamento ultimo al quale nessuno può sottrarsi: la morte. Il tempo è
implacabile. Questo è l’unico punto fermo della vita.
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Ogni uomo fa esperienza del tempo e in particolare di tre tempi: il passato, il presente, il futuro. Il “tempo”,
tuttavia, sembra sottrarsi a qualunque definizione: il passato non è più, il futuro non è ancora e non è
possibile identificare il presente perché, nel momento stesso in cui ci concentriamo sull’istante che stiamo
vivendo, quello è già passato.
In questo senso, il tempo è come il vento: quando ci accorgiamo della sua presenza, è già volato via.
Ma allora qual è il senso del tempo? Quello di ricordare il carattere effimero della vita? Farne esperienza
significa solo prepararsi al momento della morte?
Certo, l’esperienza del tempo non è separabile da quella della morte. Questo è un punto su cui tornerò verso
la fine del mio intervento, ma che va tenuto presente perché in realtà e in verità il tempo ha il senso della
morte. Se la morte non ha senso, non lo ha neppure il tempo. E qual è il senso della morte? Qui si affaccia
l’altro termine della nostra riflessione, il termine eternità, oggetto dell’ultima parte del presente intervento.
Ricordo che, non a caso, nella mitologia greca il tempo è un dio (Kronos) rappresentato come un gigante
mostruoso, colto nell’atto di mangiare i suoi figli, essendogli stato predetto che sarebbe stato spodestato da
uno di loro. E l’immagine di Kronos è archetipica, inscritta nella coscienza umana. Quel mostro abita il
cuore dell’uomo, da sempre. Kronos è un dio che divora ciò che genera. Stritola ogni cosa. Incute paura,
angoscia. Il tempo è nemico. Data questa visione generale e realista, cerchiamo di approfondire.
2. La difficoltà a comprendere il tempo oggi
Il concetto di tempo ci sfugge continuamente perché esso non è un concetto. Più il pensiero cerca di
catturare il tempo più questo lo annienta prostrandolo. Definire il tempo è lottare contro il pensiero stesso,
contro il tentativo di acquisire come stabile ciò che non può esserlo.
Lungo la storia c’è sia una lotta contro il tempo sia una fuga da questo e uno dei motivi di fondo risiede nel
fatto che il tempo scompiglia gli equilibri immaginari nei quali l’uomo trova più facilmente i suoi
riferimenti, che sono le immagini e lo spazio. Diceva fratel Charles de Foucauld: “Sistemarsi è la cosa più
ridicola su questa terra” dove siamo pellegrini e stranieri.
Riflettere sul tempo è oggi particolarmente problematico ed urgente, tanto più constatando come il problema
ecologico, dell’habitat, dello spazio, sia entrato nella coscienza di molti in termini di rispetto, tutela e
salvaguardia. Non possiamo dire la stessa cosa del problema tempo. Ma la qualità della vita e delle relazioni
dipende dall’assunzione integrale e dall’umanizzazione di tutte le dimensioni antropologiche, e il tempo è
una dimensione fondamentale perché viviamo nel tempo e grazie al tempo.
Oggi il nostro modo di viverlo è segnato da una forte velocizzazione e frammentazione. Viviamo il
paradosso di un continuo progresso tecnologico-digitale che ci offre tante possibilità di relazioni e di
condivisione, prima inimmaginabili, ma con il rischio di non donarci più tempo e di renderci schiavi dello
stesso. La coscienza che il tempo passa velocemente ci porta a vivere nella fretta del “negotium”, fino a
ritrovarci a dire “non ho tempo”.
Nel 2001 ho avuto la grazia, come ministro provinciale dei frati francescani d’Abruzzo, di aprire una
missione in Burkina Faso, Africa occidentale subsahariana. Durante uno degli incontri con i capi dei
villaggi un burkinabé mi disse: “Voi del mondo così detto progredito e tecnologico avete gli orologi più
sofisticati, adesso gli eco-drive che funzionano sempre, grazie alla luce del sole, orologi precisissimi, ma
avete perso il tempo. Noi non abbiamo l’orologio ma abbiamo il tempo!”
Ebbene, non è forse il caso di lasciare l’orologio e di riprenderci il tempo? … Ma chi ha il coraggio di farlo?
Tra i problemi che assillano l’uomo contemporaneo (nelle nostre culture occidentali, meno in quelle
“sapienziali” del terzo mondo e dell’Oriente) vi è proprio il problematico rapporto con il tempo. “Non ho
tempo” è un ritornello che diciamo e sentiamo spesso, ed è un indice di malessere, se non di una vera
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patologia. Abbiamo perso l’otium della meditazione, della riflessione, del pensare, della preghiera, per
essere assorbiti dal ne-gotium del fare, dell’attivismo, delle agende sempre piene.
Sono, questi, segni di uno scompenso che va attentamente esaminato per ritrovare l’equilibrio, innanzitutto
riappropriandoci del senso del tempo così da vivere il tempo del senso.
Mai come oggi l’uomo del progresso tecnologico ha potenzialmente tanto tempo libero ma,
paradossalmente, questo è meno libero perché tutto programmato e pieno di “negotii” per paura dell’otium.
Eppure il tempo e lo spazio, coordinate dell’esistenza umana, sono per la relazione, ossia il tempo è lo
spazio della relazione e lo spazio è il tempo della relazione.
3. L’enigma tempo
Il tempo pare effimero, non lo vediamo, ma ne percepiamo gli effetti. Come dicono i fisici lo possiamo
misurare, ma non lo possiamo afferrare.
Mentre preparavo questo intervento, ho visto crescere in me da una parte la sensazione di non sapere dire
che cosa sia, ritrovandomi nella celebre dichiarazione di Agostino: «Che cos’è dunque il tempo? Se nessuno
me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so più»1.
Dall’altra parte, mentre più cercavo di approfondire questo tema-problema, mi si apriva un ventaglio di
molteplici aspetti e ambiti:
-
C’è il tempo astronomico, quello misurato dagli orologi;
-
il tempo biologico, misurato dal metabolismo umano che inizia, cresce, invecchia e muore;
-
il tempo sociale, misurato dalle relazioni e scadenze;
-
i tempi epocali, misurati da eventi che segnano un cambiamento di paradigma culturale;
-
il tempo dell’anima, che ha una sua personale percezione e variazione;
-
c’è un tempo oggettivo e un tempo soggettivo: due tempi molto diversi.
Da notare che nelle lingue derivate dal latino il medesimo vocabolo indica anche il tempo
atmosferico, quasi a dire che allo scorrere “esteriore” del tempo fisico e a quello “interiore” del
tempo della psiche si affianca quella variabilità che va dal sereno alla tempesta.
Nessun esperto riuscirà mai a spiegare esattamente cosa sia. Come capire per esempio le misure senza
misura dell’Universo, per non parlare del Multiverso? Come non essere colpiti dall’intricata architettura di
un Multiverso in cui da un universo può sorgerne un altro, e così via?
La cosmologia studia il rapporto sussistente tra spazio e tempo ma chiama in causa anche altre scienze per
tentare di decifrare questo enigma, come la filosofia e la teologia. Due discipline deputate a riflettere
sull’origine, sul senso e sulla fine dell’Universo e dell’uomo. La filosofia secondo il suo statuto
epistemologico, la teologia in base alla Rivelazione cristiana come evento storico-metastorico e ragionevolecredibile.
4. Brevi cenni sulle concezioni del tempo nelle grandi religioni storiche
Dopo aver presentato lo status quaestionis passo a brevi cenni sulla concezione del tempo nelle grandi
religioni storiche, secondo i modelli ciclico, lineare e a spirale dove il “ciclico” è quello mitologico-pagano;
il “lineare” della concezione ebraico-cristiano-islamica (con notevole differenze tra di loro) e quello “a
spirale” proprio delle filosofie e religioni orientali.
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AGOSTINO, Confessioni, ed. it. a cura di R. de Montecelli, Garzanti, Milano 1999, 224.
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Il tempo nell’ebraismo
Si è soliti affermare che una peculiarità ebraica consiste nell’aver prospettato una concezione lineare del
tempo, inteso come un procedere verso un compimento, tanto che in questa concezione la temporalità è
strutturata, dinamica e rivolta in avanti. Secondo questa visione gli eventi hanno un significato e un valore
sia in se stessi sia, soprattutto, in relazione alla meta finale in cui l’intera storia trova la sua ricapitolazione.
Secondo il celebre studioso dei fenomeni religiosi, M. Eliade, gli ebrei furono i primi a concepire e ad
elaborare un modello lineare di storia, attribuendo un significato pieno ai singoli avvenimenti. Quello che è
proprio della Rivelazione biblica è che la storia è luogo di Rivelazione e di dialogo tra l’uomo e Dio, tra il
popolo e Dio. Il tempo si presenta come una realtà orientata, e l’orizzonte storico come sede delle
manifestazioni di Dio.
Il tempo nell’islam
Se la storia d’Israele si costruisce fondamentalmente come storia di un alleanza tra Dio e il suo popolo, ben
diversa è la concezione dell’Islam, nonostante si mantenga una concezione lineare del tempo. Mentre la
Bibbia è rivelazione di un Dio della storia dell’Alleanza coscientizzata in tempi lunghissimi grazie ai profeti
e alla rilettura della storia, il Corano è rivelazione diretta fatta a Maometto, sigillo definitivo di ogni
profezia. Il Corano si presenta più come un monologo, mentre la Bibbia come un dialogo. Inoltre nel Corano
non sembra esserci un’autonomia che si realizza nel tempo e nello spazio affidati all’uomo, come invece
nella Bibbia: tempo e storia sono luoghi in cui opera solo un iperinterventismo divino. La storia per l’Islam
non è il teatro dell’azione umana bensì coscienza del fluire del tempo in cui occorre adeguarsi totalmente
all’onnipresenza di Dio che sovrasta tutti gli altri attori: gli uomini in questa concezione non sono
«cooperatori» del piano divino ma strumenti più o meno inconsapevoli.
Una visione ben differente da quella ebraico-cristiano in cui Dio dirige la storia ma dentro la storia
«coopera» l’uomo.
Il tempo nell’induismo e nel buddismo
Una concezione complessa e di non facile lettura è quella che troviamo nelle grandi religioni dell’Oriente,
con una marcata differenza tra induismo e buddismo, e all’interno dell’induismo con diverse “famiglie di
religioni”.
La temporalità nell’induismo è vista come il risultato dello smembramento dell’unità (ekan) e soltanto il
sacrificio o la meditazione dell’eterno possono salvare il tempo dalla sua corrosione e dispersione.
Il tempo nel buddismo
Non meno conflittuale è il problema nel buddismo con la sua concezione transitoria e dolorifica del tempo.
È noto che nel buddismo il principale imputato del dolore che avvolge ogni essere vivente è proprio il
tempo. Essendo la sua transitorietà causa della sofferenza, l’individuo è chiamato a uscire dal tempo, dalle
realtà mondane, annullandosi in modo da non concedergli lo spazio dove scaricare la sua mutevolezza e
conflittualità. La meditazione è quindi la strada per relativizzare il tempo sino ad annullarlo con lo spazio,
così come il nirvana - in quanto scioglimento di tutti i vincoli - ne rappresenta il vero passaggio e
superamento.
5. Cristo dona pienezza al tempo e ci “insegna a vivere in questo mondo” (cf. Tt 2,11-12)
5
«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna … perché ricevessimo
l’adozione a figli» (Gal 4,4-5). La “pienezza del tempo”: una espressione carica di significato! Il tempo
corre verso un fatto, accaduto il quale esso ha raggiunto il suo traguardo: ha raggiunto il suo fine e la sua
fine. Possiamo aiutarci con due immagini.
La prima: immaginiamo un recipiente vuoto che viene progressivamente riempito d’acqua. Arriva il
momento in cui non è più vuoto. Il tempo, quindi, come un’attesa, l’invocazione di una Presenza, dell’arrivo
di qualcosa/qualcuno. Questa Presenza è arrivata e quindi il tempo è compiuto.
Seconda immagine: pensiamo a come una donna vive il tempo della sua gravidanza, un periodo di attesa per
un evento che permetterà di vedere il volto di colui che già vive in lei. Il tempo - i mesi, le settimane e i
giorni - non è un movimento senza meta ma, al contrario, culminerà in un grande evento.
La visione cristiana del tempo, dunque, è quella biblica lineare dell’ebraismo con la differenza che non c’è
da aspettare il Messia e/o la nuova rivelazione: con Gesù è venuta la “pienezza” del tempo, pienezza di
significato e pienezza di salvezza.
L’evento della Rivelazione cristiana ha come centro il rapporto, l’incontro, tra tempo ed eternità, espresso
con il celebre asserto giovanneo (1,14) ho Lógos sárx eghéneto: Il Logos eterno, perfetto che era “in
principio”, che era “presso Dio”, anzi che “era Dio” si intreccia con la sárx, cioè, secondo il linguaggio
giovanneo, con la fragilità esistenziale umana, con la storia mutevole, col divenire del tempo. La storia per
la Rivelazione cristiana è lo spazio della epifania dell’eterno, è lo spazio della salvezza e dell’alleanza tra
Dio e l’uomo. Questo rapporto tra eterno e tempo nello spazio della storia non è una commistione panteistica
ma conserva una sua dialettica e drammaticità. La creazione, lo spazio, non è annientato o assorbito in Dio,
ma è redento; lo spazio non è dissolto in una immediata escatologia. Come scrive Paolo la creazione è in
attesa, è in tensione, partecipa quasi di un parto (cf. Rm 8,18-27).
Cristo ci chiede di assumere radicalmente la temporalità e la spazialità della nostra esistenza per vivere in
esse la fede, la relazione, la comunione.
La tradizione giudaico-cristiana introduce nella cultura occidentale una immagine non prevista dalla cultura
greca: il tempo «escatologico» dove alla fine (éschaton) si realizza quello che all’inizio era stato annunciato.
A differenza del tempo ciclico e di quello progettuale, quello escatologico iscrive la temporalità in un
“disegno” che va dall’origine alla fine del mondo. Quando è iscritto in un disegno, il tempo acquista un
“senso”, e quando questo è fornito di senso, nasce la vera “storia”.
Il cristianesimo, dunque, annunciando la Risurrezione e la vita eterna, ha immesso nella cultura un’enorme
carica di ottimismo sul futuro.
6. Tempo ed eternità - Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?
Ci sono domande che gli uomini non cessano di porsi, da sempre: “Chi siamo? Da dove veniamo? Dove
andiamo?”
La secolarizzazione ha portato a curvare il tempo nell’intramondano fino ad escludere ogni richiamo
all’eternità e al Trascendente così che le domande fondamentali sono sì rimosse ma non cancellate dal fondo
del cuore.
Chiediamoci, in questo contesto di secolarismo, di tempo accelerato e frammentato, cosa ne è dei vocaboli
che si coniugano col tempo lungo, aperto all’eternità, quali per es. perseveranza, fedeltà, attesa, pazienza,
vigilanza, speranza … Termini che, avendo a che fare con tempo ed eternità, sembrano oggi così difficili da
declinare, riflettendosi nell’ambito delle relazioni.
Pensiamo alla realtà-mistero dell’amore umano che è tale, autentico, vero-buono-bello solo se punta
all’eternità. L’amore, già nell’etimo, ha un non-morte, a-mors. Che tipo di amore è se non mira a conservarsi
6
per sempre? La fedeltà è l’amore che dura nel tempo perché è agganciato all’eternità. Di conseguenza, il
tradimento è un venir meno a una promessa, a un’alleanza per sempre, diventando trauma o superficialità 2.
Quando si ama davvero una persona la si ama totalmente, si ama tutto dell’altro/a, e il tutto esige - appunto il per sempre, l’eternità. In quest’ottica, il perdono è un dono che riporta al centro l’eternità e la rinnova in
quanto si crede all’amore.
La fede cristiana, pienezza di umanità, è riconoscere e credere all’Amore di Dio per noi.
Il tempo, in realtà, poggia sull’eternità. L’espressione “tutto è mortale” è insensata, è l’eternità che dà senso
a ogni nostra parola e tanto più al nostro tempo, al nostro spazio e ai nostri negotii.
Ogni esperienza vissuta, checché ne diciamo o pensiamo, ha già evocato la vita eterna in quanto questa non
è un contenuto della vita ma ne è un frammento, un ritaglio. La vita eterna, di per sé, è inqualificabile in
quanto ogni “qualità” già le appartiene. Affermava Kant: Se avete stabilito un punto, a partire dal quale tutto
sarebbe derivato, dove pensate di avere collocato quel punto se non in qualcosa che c’era già? Il “c’era già”
è la vita eterna che sorregge tutti i punti con i quali noi possiamo cercare di misurarla, di “numerarla”, di
dirla o di afferrarla, di perderla, di odiarla o di amarla.
a. Cenni su alcune concezioni del rapporto tempo ed eternità
Richiamo per sommi capi la storia della fede in una vita oltre la morte, per comprendere la novità recata dal
Vangelo. Nella religione ebraica dell’Antico Testamento, tale credenza si afferma solo tardivamente.
Soltanto dopo l’esilio, di fronte al fallimento delle attese temporali, si fa strada l’idea della risurrezione della
carne e di una ricompensa ultraterrena dei giusti. La piena rivelazione della vita eterna si ha, nel mondo
biblico, con la venuta di Cristo.
Nel mondo greco-romano si assiste a una evoluzione nella concezione dell’oltretomba. L’idea più antica è
che la vita vera termina con la morte. Una novità si registra con la comparsa della religione orfico-pitagorica
secondo la quale il vero io dell’uomo è l’anima che, liberata dalla prigione (sema) del corpo (soma), può
finalmente vivere la sua vera vita. Platone darà a questa scoperta una dignità filosofica, basandola sulla
natura spirituale, e dunque immortale, dell’anima3.
Si capisce su questo sfondo l’impatto che doveva avere l’annuncio cristiano di una vita dopo la morte,
infinitamente più piena e più gioiosa di quella terrena.
b. Quale rapporto tra tempo ed eternità
Tra la vita di fede nel tempo e la vita eterna c’è un rapporto analogo a quello che esiste tra la vita
dell’embrione nel seno materno e quella del bambino, una volta venuto alla luce. Esiste una storiella che
illustra questo paragone. C’erano due gemellini, un maschietto e una femminuccia, così intelligenti e precoci
che, ancora nel grembo della madre, parlavano già tra di loro. La bambina domandava al fratellino:
“Secondo te, ci sarà una vita dopo la nascita?”. Lui rispondeva: “Non essere ridicola. Cosa ti fa pensare che
ci sia qualcosa al di fuori di questo spazio angusto e buio nel quale ci troviamo?”. La bimba, facendosi
coraggio: “Chissà, forse esiste una madre, qualcuno insomma che ci ha messi qui e che si prenderà cura di
noi”. E lui: “Vedi forse una madre tu da qualche parte? Quello che vedi è tutto quello che c’è”. Lei di nuovo:
“Ma non senti anche tu a volte come una pressione sul petto che aumenta di giorno in giorno e ci spinge in
avanti?”. “A pensarci bene, rispondeva lui, è vero; la sento tutto il tempo”. “Vedi, concludeva trionfante la
sorellina, questo dolore non può essere per nulla. Io penso che ci sta preparando per qualcosa di più grande
di questo piccolo spazio”. Cfr. l’altro noto apologo del bruco e della farfalla.
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3
Cf. M. RECALCATI, Non è più come prima, Elogio del perdono nella vita amorosa, Raffaello Cortina Editore, Milano 2014.
Cf. M. POHLENZ, L’uomo greco, La Nuova Italia, Firenze 1967, 173ss.
7
Ancora per tentare di riconoscere e credere all’eternità pensiamo a un uomo con una bilancia in mano: una
di quelle bilance che si reggono con una sola mano e hanno da un lato il piatto su cui mettere le cose da
pesare e dall’altro una barra graduata che regge il peso o la misura. Se cade a terra, o si smarrisce la misura,
tutto quello che si mette sul piatto fa sollevare in alto la barra e fa inclinare a terra la bilancia. Tutto ha il
sopravvento, anche un pugno di piume. Così siamo noi quando smarriamo il peso, la misura di tutto che è
l’eternità: le cose e le sofferenze terrene gettano facilmente la nostra anima a terra. Tutto ci sembra troppo
pesante, eccessivo. L’eternità è la misura del tempo! San Paolo scrive: “Il momentaneo, leggero peso della
nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria: noi non fissiamo lo sguardo sulle
cose visibili, ma su quelle invisibili, perché le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili invece sono
eterne” (2 Cor 4,17-18).
E S. Francesco cantava nella tribolazione: “Tanto è il bene che mi aspetto che ogni pena mi è diletto!”.
c. Il paradosso cristiano del tempo
La mia riflessione voleva suscitare più domande che dare risposte. l’interrogativo fondamentale potrebbe
essere: quali visioni del tempo si incrociano nel cuore di colui che vuole essere “pensante”? E per quanto mi
riguarda, che cosa dice tutto ciò alla concezione cristiana del tempo?
Il rapporto che il cristiano vive col tempo appare paradossale: da una parte questo è qualcosa di prezioso, di
denso, di pieno; dall’altra qualcosa di leggero, di relativo. In realtà il tempo è il luogo precario e fragile in
cui ne va della propria eternità. Una paradossalità del tempo presente, già nel NT nella relazione tra
escatologia e salvezza, è sottolineata con incisività nella Lettera a Diogneto nell’affermare che il cristiano
vive in questo momento, ma è anche cittadino del tempo eterno, nel mondo ma non del mondo.
La domanda sul senso del tempo coincide con la domanda sul senso della vita. E la domanda sul senso della
vita coincide con la domanda sul senso della morte.
d. Rapporto tra identità nella storia e identità nell’eternità
Qui si apre una riflessione interessante che mi limito ad accennare. La vera identità dell’uomo nella storia
può essere garantita solo dal superamento della morte, che si è realizzata con la Risurrezione di Cristo.
Unendosi a Lui l’uomo, come ricorda Paolo, “riceve un’identità nuova. Il suo io chiuso si è aperto”4.
La dimensione corporea, che restringe l’esistenza umana nel tempo e nello spazio, può partecipare alla
stessa esperienza di eternità dello spirito. Nel battesimo il Signore Gesù, il Risorto, entra nella nostra vita,
non solo la chiama, ma la tocca, la trasforma e ci dona di partecipare così ad una identità nuova. Essa
consiste di partecipare alla sua vita del Risorto. Il corpo di Cristo risorto è lo stesso corpo storico di Gesù,
ma ormai riempito dello Spirito Santo e pienamente “spiritualizzato”. Si tratta di un corpo che ha maturato
una completa apertura al mondo e agli altri. Così quei limiti che la corporeità provoca sono per Cristo
ormai superati: Egli può vincere i vincoli dello spazio e del tempo e abbracciare tutta la storia, rendersi
presente all’interno della vita di ogni essere umano.
Nella prospettiva della nuova identità che il Risorto ci conferisce, anche la persistenza sostanziale del nostro
io nella sua identità è conservata. Che sarà dei nostri corpi, della nostra memoria, dei nostri affetti e desideri,
che costituiscono la nostra identità? Da un lato vi è la continuità del corpo glorificato col corpo terreno,
fondato sull’identità del Cristo risorto col Gesù crocifisso. Dall’altro in noi rimarranno gli affetti che hanno
colorato la nostra vita e che ci hanno permesso di stabilire le relazioni determinanti. Rimarrà anche la
memoria dei peccati, che abbiamo commesso, affinché in paradiso più intensa e convinta rifiorisca con
4
BENEDETTO XVI, Omelia nella veglia pasquale del 22 marzo 2008.
8
stupore sempre rinnovato la lode alla misericordia divina che li perdona5. La storia, con i suoi drammi non è
annullata, ma pienamente assunta e trasfigurata.
Neppure la continuità del soggetto desiderante è tolta. Con il suo sottile umorismo, il card. G. Biffi rassicurò
i bolognesi che in paradiso si sarebbero mangiati anche i tortellini, perché risorgeremo col corpo e dunque
anche con lo stomaco. Che fascino potrebbe avere per i bolognesi un paradiso senza tortellini? Una visione
realista dell’eternità, diversa da quella evanescente dell’Anticristo, che, è già all’opera, e che secondo il
teologo russo Soloviev è «pacifista, vegetariano, convinto spiritualista, filantropo, e specialista in
ecumenismo»6. Cfr. le immagini bibliche dell’eternità: banchetti «di grasse vivande e di vini eccellenti, di
cibi succulenti e di vini raffinati» (Is 25,6); e Gesù ci parla di un assidersi a tavola nel regno dei cieli (Mt
8,11), in cui Dio ha preparato il cibo, passerà a servirci, affinché mangiamo e beviamo alla sua mensa (cf. Lc
12,37). L’intimità con Dio sarà un «cenare con lui ed egli con me» (Ap 3,20).
Siamo chiamati nel tempo e nello spazio ad accogliere la grazia con l’invito a partecipare sempre più
intensamente ad una tale esperienza di apertura agli altri nell’amore, per costruire quella comunione in cui la
nostra identità è più vera perché non distrugge quella personale ma porta a compimento quella vocazione
all’amore, che il corpo nel tempo e nello spazio testimonia, o dovrebbe testimoniare.
Ma cos’è l’eternità, che dona senso alla vita, al tempo e allo spazio? Possiamo tentare di dare una risposta
attingendo alle parole intense e luminose di Benedetto XVI, con le quali concludo il mio intervento:
Che cosa significa veramente «eternità»? (…) Possiamo soltanto cercare di uscire col nostro pensiero dalla temporalità della
quale siamo prigionieri e in qualche modo presagire che l’eternità non sia un continuo susseguirsi di giorni del calendario,
ma qualcosa come il momento colmo di appagamento, in cui la totalità ci abbraccia e noi abbracciamo la totalità. Sarebbe il
momento dell’immergersi nell’oceano dell’infinito amore, nel quale il tempo - il prima e il dopo - non esiste più. Possiamo
soltanto cercare di pensare che questo momento è la vita in senso pieno, un sempre nuovo immergersi nella vastità
dell’essere, mentre siamo semplicemente sopraffatti dalla gioia. Così lo esprime Gesù nel Vangelo di Giovanni: «Vi vedrò di
nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia» (Gv 16,22). Dobbiamo pensare in questa
direzione, se vogliamo capire a che cosa mira la speranza cristiana, che cosa aspettiamo dalla fede, dal nostro essere con
Cristo7.
Cf. SAN TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, III Supplementum, q. 87, a.1.
V. SOLOVIE’V, Il racconto dell’Anticristo, in Tre dialoghi, Marietti, Torino 1975.
7
BENEDETTO XVI, lett. Enc. Spe salvi, 11-12.
5
6