SCHOPENHAUER Nel primo Ottocento la filosofia di Hegel diventa quella prevalente. Non mancano tuttavia, seppur minoritari, filosofi contemporanei ad Hegel, in particolare Schopenhauer e Kierkegaard, che reagiscono e si oppongono alla filosofia hegeliana. A differenza di Hegel, tali filosofi sostengono che non è vero che lo sviluppo e il divenire e della realtà sia sempre razionale, poiché spesso è invece irrazionale ed ingiusto. Perciò la realtà non va sempre giustificata ma bisogna anche cambiarla e migliorarla. L'ottimismo e la visione finalistica di Hegel circa la storia come continuo progresso non corrisponde sovente alla realtà effettiva. Affermano che la filosofia non deve occuparsi di concetti generali ed astratti, quali i concetti hegeliani di Idea o Spirito, ma che deve occuparsi soprattutto delle condizioni di vita dei singoli individui concreti, degli uomini reali e non della generica umanità. L'Idealismo, con la sua concezione astratta di unità tra finito ed infinito, non riuscirà mai a spiegare la vita, l'ansia e l'angoscia, l'insicurezza e la sofferenza del singolo e concreto individuo finito esistente. Al contrario di Hegel, il finito non è considerato connesso all'infinito: tra finito ed infinito permane una differenza, un contrasto insuperabile. ARTHUR SCHOPENHAUER (1788-1860). Nasce a Danzica. Studia filosofia e segue le lezioni di Fichte. Insegna presso l'università di Berlino, conducendo corsi di studio in aperta polemica con Hegel ma con poco successo di pubblico. Viaggia in Italia ed infine si stabilisce a Francoforte dove muore. Opera principale: Il mondo come volontà e rappresentazione. La filosofia di Schopenhauer è influenzata soprattutto dalla filosofia di Kant ma anche dalla filosofia di Platone (che contrappone il mondo delle idee, considerato come l'autentica realtà, al mondo della natura, considerato come imitazioni delle idee e quindi come apparenza, come realtà illusoria) ed inoltre dalla filosofia orientale, indiana e buddista. Animato da forti sentimenti romantici, Schopenhauer non si occupa, come Hegel, di questioni logicometafisiche generali ed astratte, bensì dei problemi concreti dell'esistenza individuale, della sofferenza e del dolore dei singoli uomini, dell'insicurezza e precarietà della vita. Considera un'illusione l'idea del continuo progresso della storia. Contrappone all'ottimismo di Hegel (tutto ciò che è reale è razionale) un profondo pessimismo, un pessimismo "cosmico", come Leopardi. Accusa Hegel di essere un "sofista", cioè di fare filosofia al solo scopo di successo e di guadagno personale. Compito della filosofia non è di illudere l'uomo con false concezioni ottimistiche, ma di comprendere il male dell'esistenza per offrire all'uomo consolazione e liberazione dal dolore. Il mondo come volontà e rappresentazione. Il mondo, afferma Schopenhauer, è come noi lo vediamo, come ce lo rappresentiamo. Il mondo quindi è una nostra rappresentazione e non possiamo sapere se esso, in realtà, è proprio così come lo vediamo e lo rappresentiamo oppure se diverso: nessuno di noi può uscire da se stesso, cioè dal modo in cui vede le cose 1 per osservare come sono in realtà, per cogliere le cose in sé. La rappresentazione nasce dal rapporto fra soggetto della rappresentazione (colui che vede, che rappresenta) ed oggetto della rappresentazione (ciò che è visto, che è rappresentato). Per impostare in modo corretto il problema della conoscenza si deve dunque ritornare, ad avviso di Schopenhauer, al dualismo di soggettooggetto della filosofia kantiana. L'oggetto della rappresentazione è condizionato dalle forme a priori dello spazio e del tempo e della causalità, che sono i modi in cui funziona la sensibilità e l'intelletto umano. Dalle forme a priori deriva la pluralità: ogni cosa esiste nello spazio e nel tempo suo proprio. Conseguono quindi rappresentazioni di cose molteplici e fra di esse distinte. Il soggetto invece è intero ed unico; è fuori dello spazio del tempo, che sono soltanto sue categorie mentali, suoi modi di rappresentarsi la realtà. Lo svanire del soggetto porterebbe con sé lo svanire del mondo come rappresentazione. Soggetto ed oggetto sono dunque inseparabili: ognuno dei due termini non ha senso né esiste in sè se non attraverso l'altro. Si tratta della gnoseologia kantiana che Schopenhauer, ammiratore di Kant, accoglie e fa sua, sia pur riducendo le dodici categorie a quella di causalità, ritenuta la principale. Perciò Schopenhauer critica sia il materialismo, perché non riconosce l'autonomia del soggetto (i modi di funzionare della sensibilità e dell'intelletto che sono propri del soggetto) riducendolo a materia, a puri meccanismi fisiologici, sia l'idealismo, perché non riconosce l'autonomia dell'oggetto (cioè l'esistenza di cose esterne ed indipendenti dalla nostra mente e coscienza) riconducendolo al soggetto (non c'è una realtà esterna e indipendente dalla coscienza, ma invece tutta la realtà, anche la natura, è un prodotto, cioè una manifestazione e realizzazione, della coscienza). Critica anche il realismo, perché ritiene che la realtà sia proprio così come la vediamo e ce la rappresentiamo, mentre invece non possiamo sapere se è davvero tale. Il mondo inteso come rappresentazione è pertanto un mondo di fenomeni (vediamo e ci rappresentiamo le cose così come ci appaiono, senza sapere se in realtà sono proprio così o diverse). Ma per Schopenhauer il fenomeno non è, come per Kant, l'unico aspetto conoscibile della realtà perché, egli dice, può essere anche colto, intuito il noumeno fondamentale, cioè la cosa in sé, l'essenza fondamentale del mondo e delle cose del mondo, anche se le cose in sé particolari e specifiche possono rimanere inconoscibili. I fenomeni sono come ricoperti da un velo, che Schopenhauer indica come il "velo di Maya", un velo ingannatore di cui parla la filosofia indiana, velo che nasconde l'essenza fondamentale della realtà che sottostà ai fenomeni. Ma questo velo può essere squarciato e sollevato e l'essenza del mondo, il noumeno o la cosa in sé fondamentale, può essere colta e avvertita, non già in termini di conoscenza razionale bensì mediante un'intuizione diretta e immediata. Per Kant il fenomeno è l'unica realtà accessibile alla mente umana, mentre il noumeno è un concetto limite che ci rammenta i limiti della conoscenza, la quale è solo fenomenica. Per Schopenhauer invece il fenomeno è parvenza, illusione, sogno, ovvero ciò che nell'antica sapienza umana è detto "velo di Maya", mentre il noumeno è una realtà che si nasconde dietro l'apparenza dei fenomeni e che il filosofo ha il compito di scoprire. Per Kant il fenomeno è l'oggetto della rappresentazione riguardante la cosa in sé, la quale esiste fuori della coscienza, anche se viene appreso tramite l'apparato delle forme a priori. Per Schopenhauer invece 2 il fenomeno è una rappresentazione che esiste solo dentro la coscienza: "il mondo è la mia rappresentazione". È un principio che per Schopenhauer è simile agli assiomi di Euclide. Schopenhauer rappresenta la sua filosofia come integrazione necessaria di quella di Kant, in quanto individua una via di accesso al noumeno. Per scoprire l'essenza della realtà e scoprire cosa c'è dietro le nostre rappresentazioni, cosa c'è al di là e al di sotto dei fenomeni, dobbiamo partire, dice Schopenhauer, dal soggetto conoscente, cioè da noi stessi, dall'uomo. L'uomo inizialmente conosce se stesso come corpo. Il corpo può essere percepito e conosciuto come fenomeno, così come tutti gli altri oggetti, quando ci fermiamo agli aspetti fisiologici del corpo stesso. Ma il corpo, precisa Schopenhauer, non è solo fenomeno, non è solo rappresentazione fenomenica. Del corpo, del "mio" corpo ho anche un'intuizione immediata, ne ho diretta coscienza, che non è conoscenza razionale fenomenica acquisita attraverso le forme a priori kantiane della sensibilità e dell'intelletto. Noi possiamo guardare al nostro corpo e parlarne come di un qualsiasi altro oggetto, ed in questo caso esso è fenomeno. Ma ascoltando noi stessi, riflettendo dentro di noi, sentiamo che esiste nel nostro corpo una forza profonda che guida tutti i nostri atti e comportamenti, sentiamo in noi una spinta ad esistere, a desiderare e a volere. Avvertiamo che dentro di noi agisce ed opera una volontà che è volontà di vivere, di affermarci e di realizzarci sempre di più; è una volontà tesa ad imporre la nostra superiorità sugli altri uomini, sulle cose e sul mondo: è quindi una volontà di vivere e di realizzarci che è volontà di dominio. Questa volontà non è conosciuta da noi nello stesso modo in cui conosciamo i fenomeni, ma è colta ed avvertita per intuizione immediata. Avvertiamo che l'essenza di fondo del nostro essere, più che l'intelletto e la conoscenza, è proprio questa volontà, che siamo capaci di sentire e cogliere come cosa in sé, come noumeno fondamentale facendoci intuire la vera essenza di tutta la realtà e squarciando in tal modo "il velo di Maya", che nasconde ciò che vi è al di sotto della molteplicità delle rappresentazioni fenomeniche. Scopriamo che questa volontà di vivere e di dominio (il voler prevalere su ogni cosa) è l'essenza che caratterizza non solo l'uomo ma tutta la realtà, cioè tutti gli esseri viventi (uomini, animali e piante) ed anche tutti gli esseri non viventi (la materia inorganica: i minerali, le pietre). Riusciamo a scoprire e sentire che noi siamo parte di un'unica volontà universale, che sta sotto ai fenomeni e che è la vera causa del loro accadere e del loro divenire. È questa volontà universale che costituisce il principio noumenico e metafisico di tutta la realtà, perché ogni essere, animato ed inanimato, è mosso e si trasforma per effetto proprio di questa volontà di affermarsi ed imporsi. Si comprende così il titolo dell'opera "Il mondo come volontà e rappresentazione". Come fenomeno e apparenza il mondo è rappresentazione; come cosa in sé, nella sua essenza di fondo, esso è volontà costitutiva del principio metafisico del mondo. Come cosa in sé, come noumeno, l'universale volontà di vivere e di dominio è al di là dei fenomeni ed è anche al di fuori delle forme a priori di spazio, tempo e causalità attraverso cui i fenomeni sono conosciuti. Essendo al di la dello spazio, questa volontà è quindi infinita; essendo oltre il tempo è eterna, immutabile e perciò unica; essendo al di là del principio di causalità è anche incausata, cioè priva di una causa, di un'origine. È altresì una volontà inconscia, colta con un'intuizione ma di cui l'intelletto non ha coscienza e 3 conoscenza razionale. Essa è insomma impulso inconsapevole, energia universale che sospinge tutte le cose. La volontà di vivere e di dominio non ha alcun fine. Il suo unico scopo è solo di affermare e di imporre se stessa, di espandersi sempre di più. Perciò è una forza cieca, irrazionale, insaziabile, crudele, che permea ed è diffusa in tutto l'universo. Da qui il pessimismo cosmico di Schopenhauer. La natura non possiede quella struttura razionale concepita dai filosofi platonici e poi dall'idealismo; è piuttosto una natura matrigna, così come concepita da Leopardi: la vita è dolore ed il piacere è solo la momentanea scomparsa del dolore. 4 Questa volontà si manifesta nella natura in gradi diversi, da quelli inferiori a quello superiore costituito dall'uomo. Dapprima si manifesta nel mondo inorganico come forza di gravità e come forza di attrazione e repulsione, cioè come magnetismo; nel mondo vegetale si manifesta come istinto di nutrizione e di crescita; nel mondo animale si manifesta come istinto e sensibilità; infine nell'uomo si manifesta come consapevolezza ma non contrastabile (l'uomo riesce a comprendere l'esistenza di questa volontà universale, irrazionale e crudele, ma non riesce a controbatterla, a vincerla). È questa volontà universale, irrazionale e crudele, che ha comportato l'avvento del male nel mondo. Il male non è solo nel mondo, ma nel principio stesso da cui esso dipende (la cieca e crudele volontà di vivere e di prevalere). L'unico fine della natura è di perpetuare la vita, anche attraverso il dolore e la prepotenza. Unico scopo è la sopravvivenza della specie. Tale volontà universale ed infinita di vivere ed affermarsi è per Schopenhauer il principio metafisico di fondo, in grado di spiegare l'essenza della realtà, mentre per Hegel il principio metafisico fondamentale è lo Spirito. Anche la filosofia di Schopenhauer quindi, come in Hegel e secondo la sensibilità romantica, nonché questa volta a differenza di Kant, mantiene un'impostazione metafisica volta a cogliere il principio infinito della realtà. Sia lo Spirito di Hegel sia la volontà universale di Schopenhauer sono principi immanenti, che escludono l'esistenza di un principio assoluto divino trascendente. Tuttavia, mentre per Hegel lo Spirito è razionalità suprema che coincide con la realtà, per Schopenhauer invece la volontà universale è principio irrazionale e privo di finalismo. La vita umana tra noia e dolore. Nell'uomo la volontà universale si fa cosciente (l'uomo comprende l'essenza irrazionale e crudele della volontà) e si manifesta come dolore (la vita è dolore). Essa suscita infatti continui desideri di affermazione e di dominio. Ogni desiderio si presenta come mancanza di qualcosa e ciò produce sofferenza. La sofferenza cesserà con la soddisfazione del desiderio, ma l'appagamento sarà di breve durata. Non appena il desiderio viene soddisfatto subentra la noia, l'insoddisfazione, e sorgono ulteriori desideri, e quindi nuove sofferenze, finché non vengano anch'essi realizzati e così via in un ciclo continuo perché, essendo infinita la volontà di vivere e di possesso, saranno infiniti anche i desideri che essa suscita. Così tutta la vita, dice Schopenhauer, è come un pendolo che oscilla tra noia e dolore. Anche nel mondo della natura non vi è pace e felicità: ogni animale, ogni pianta, ogni cosa è spinta dalla medesima volontà universale a desiderare e a volere sempre di più. Anche ogni essere della natura lotta continuamente contro gli altri per la propria sopravvivenza e per prevalere; ovunque è conflitto e prepotenza. Le forme di liberazione dalla volontà. Scopo della filosofia deve essere allora quello di rendere l'uomo consapevole dell'infelicità dell'esistenza ed indicargli le vie, i modi della salvezza, cioè i modi in cui potersi liberare dalla dipendenza dall'irrazionale e crudele volontà universale del mondo. Se l'essenza della realtà e dell'esistenza è tale volontà irrazionale e crudele, allora il suicidio potrebbe sembrare il rimedio al male della vita. Però il suicidio, in questo caso, non è la negazione della vita, non è il desiderio di non vivere più ma il desiderio di vivere invece una vita diversa, senza noia e senza dolore: quindi il 5 suicidio non sconfigge l'irrazionale volontà di vivere. La salvezza, cioè il rimedio, può avvenire in altri modi: ci si può liberare dal dolore della vita causato dall’irrazionale e crudele volontà di vivere e di dominio solo con la negazione della volontà di vivere, passando dalla volontà alla "nolontà" (in latino "noluntas"), come chiamata da Schopenhauer, ossia al rifiuto di una vita basata sull'impulso, sulla forza irrazionale e malvagia della volontà universale. Tale salvezza è possibile per tre vie, per tre modi diversi: 1) attraverso l'arte; 2) attraverso la pietà, che Schopenhauer chiama l'etica della compassione; 3) attraverso l'ascesi o, appunto, la nolontà (non volontà). L'arte. L'arte è per Schopenhauer un'espressione libera e disinteressata di sentimenti, capace di liberare l'individuo dai suoi desideri e dai suoi egoismi e quindi capace di liberarlo dalla crudele ed irrazionale volontà di vivere e di prevalere. La contemplazione artistica intuisce le idee eterne, che sono i modelli, le essenze delle cose (si nota l'influsso della filosofia di Platone), e quindi oltrepassa i limiti della vita terrena dominata dalla volontà di vivere che rimane come annullata. Schopenhauer concepisce una gerarchia delle arti in base alla loro capacità di distaccarci dalla volontà di vivere. Si passa così dall'architettura alla scultura e poi alla pittura e alla poesia. Al di sopra di tutte c'è la musica, che è l'arte più universale. Ma l'arte permette una liberazione solamente momentanea e provvisoria dalla volontà. Si passa così al secondo grado, al secondo modo di salvezza e di liberazione. La pietà o etica della compassione. L'arte, in fondo, è un estraniarsi dal mondo concreto. Invece la morale rappresenta un impegno nel mondo; è un darsi da fare per migliorare il mondo. Quando noi ci rivolgiamo verso il nostro prossimo, comprendiamo che anche gli altri uomini sono come noi vittime della medesima irrazionale e crudele volontà di vivere. Sentiamo che le loro sofferenze sono simili alle nostre e sorge in noi un sentimento di compassione, di pietà verso gli altri, grazie al quale possiamo superare e liberarci dell'egoismo che ci deriva dall'universale volontà di vivere e di prevalere. A differenza di Kant, per Schopenhauer la morale non nasce dalla ragione pratica, cioè dalla volontà, ma dal sentimento di pietà. La morale, o etica, si pone in contrasto con l'egoismo e quindi con l'universale volontà di vivere in due modi: 1. attraverso la giustizia, intesa come non fare il male; 2. attraverso la carità, intesa, ad un livello più alto, come volontà di fare il bene degli altri, che è il contrario dell'egoismo che caratterizza la volontà di vivere. Ma anche nella compassione, nella giustizia e nella carità rimane ancora un attaccamento alla vita, se non alla nostra a quella altrui, attaccamento che va eliminato per non offrire alcuna occasione di rivincita alla volontà di vivere. Il traguardo vero non è solo quello della liberazione dall'egoismo e dall'ingiustizia della 6 vita, ma quello della totale liberazione e distacco dalla stessa volontà di vivere. Si passa perciò alla terza via, al terzo modo di salvezza. L'ascesi o nolontà. Il vero distacco dalla volontà di vivere, cieca e prevaricatrice, si raggiunge solo con l'ascesi (elevarsi al cielo), intesa come rinuncia ad ogni desiderio, ad ogni egoismo, ad ogni volontà. L’asceta è colui che vive senza desiderare di vivere, distaccato completamente dalla vita terrena. Secondo le filosofie orientali, che hanno influenzato Schopenhauer, si giunge all'ascesi attraverso la meditazione, la povertà, la castità ed attraverso il rifiuto di ogni piacere della vita. Ebbene, quando l'uomo non vuole più niente, e giunge dunque alla nolontà, allora avrà sconfitto la volontà di vivere. Quando l'asceta giunge a contemplare il mondo come un puro nulla (il nirvana delle filosofie orientali), allora la volontà di vivere viene annullata. Per Schopenhauer dunque l'ascesi non è immedesimarsi in Dio ma è totale negazione del mondo; il suo è un misticismo ateo. Se infatti la volontà di vivere si manifesta nel mondo, di cui essa è l'essenza, ad essa è allora impedita ogni manifestazione qualora il mondo sia concepito come un nulla. Il pessimismo di Schopenhauer giunge così a conclusioni di "nichilismo" (dal latino "nihil" che significa nulla: il mondo non è niente, non è nulla, cioè non vale niente), nichilismo che sarà poi ripreso, in forma diversa, dal suo discepolo Nietzsche. In verità, la teoria orientalista dell'ascesi costituisce la parte più debole del pensiero di Schopenhauer. Infatti, se la volontà di vivere si identifica con la struttura metafisica (l'essenza) del reale, anzi con l'assoluto infinito stesso, come si può ipotizzare il suo annullamento da parte dell'asceta? In che modo la volontà, la cui essenza è appunto il volere, ad un certo momento può essere in grado di non volere e di non far più prevalere se stessa? Inoltre, la fuga ascetica dalla vita è sempre un atto individuale che contrasta con l'ideale etico della compassione verso il prossimo. Conclusioni. Il pessimismo e la filosofia di Schopenhauer non furono accettati ed ebbero poco successo nella prima metà dell'Ottocento, allorquando prevaleva l'ottimismo della filosofia idealistica. La sua influenza si fece sentire dopo, con la caduta delle illusioni che avevano fatto sperare nelle rivoluzioni del 1848 e col diffondersi di un nuovo clima culturale. In campo filosofico l'influenza di Schopenhauer è presente in Kierkegaard ed ancor più in Nietzsche per quanto riguarda la tematica del nichilismo. Influenzò anche Bergson, Wittgenstein, Heidegger e Horkheimer. Ma la sua influenza si estese anche alla letteratura e all'arte con Thomas Mann e Wagner. 7