Programma
Tema: Il potere politico nella prospettiva storico-materialistica. Lettura e commento di Stato e
rivoluzione di Lenin.
Testo: V.I. Lenin, Stato e rivoluzione. La dottrina marxista dello Stato e i compiti del proletariato
nella rivoluzione. Va bene qualsiasi edizione.
Lenin, Stato e rivoluzione, Editori Riuniti, 1973.
dott.sa Simona Giacometti
e-mail: [email protected]
L’opera che ci apprestiamo a leggere fu composta nel 1917, quando l’urgenza dei compiti pratici
pone Lenin di fronte alla necessità di una riflessione teorica; nelle battute iniziali della prefazione al
testo, su questo punto l’autore è esplicito: «Il problema dello Stato assume ai nostri giorni una
particolare importanza, sia dal punto di vista teorico che dal punto di vista politico pratico». A
questa dichiarazione segue immediatamente un rimando all’attualità; il contesto storico è
profondamente segnato dall’accelerazione del processo di trasformazione del capitalismo
monopolistico in capitalismo monopolistico di Stato. Dalla lettura di alcuni passaggi dell’opuscolo
L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, scritto a Zurigo nella primavera del 1916, possiamo
ricavare alcune indicazioni per cogliere la prospettiva a partire da cui Lenin osserva l’evoluzione
del sistema capitalistico di cui è testimone in quegli anni.
Accogliendo la lezione marxiana che individuava nel capitale una tendenza costitutiva verso la
concentrazione, Lenin verifica come il capitalismo, raggiunto l’apice della sua fase concorrenziale
nel decennio compreso tra il 1860-1870, fin dal periodo immediatamente successivo alla crisi del
1873 evolve in direzione monopolistica. Il dato centrale che caratterizza il capitalismo
monopolistico è rappresentato da un immenso processo di socializzazione della produzione che
rimane tutto interno al sistema capitalistico nella misura in cui il criterio di appropriazione della
produzione resta privato. Negli anni a cui Lenin fa riferimento in apertura a Stato e rivoluzione è
caratteristica la presenza di legami strettissimi tra le classi dirigenti del governo e le associazioni dei
capitalisti. Le condizioni delle masse sono rese ulteriormente insostenibili dai costi della guerra ed è
esattamente in questa situazione che Lenin riconosce la maturazione delle condizioni di una
rivoluzione proletaria internazionale. In polemica con la corrente socialsciovinista dominante nei
partiti socialisti ufficiali di tutto il mondo, colpevoli di un atteggiamento di piatto servilismo verso
gli interessi delle borghesia nazionali, l’obiettivo che Lenin si propone di raggiungere in vista di fini
immediatamente pratici è il riesame della dottrina di Marx ed Engels sullo Stato. Il sottotitolo del
saggio Stato e rivoluzione è appunto la dottrina marxiana dello Stato e i compiti del proletariato
nella rivoluzione.
All’analisi della dottrina marxiana dello Stato seguirà lo studio delle posizioni di K. Kautsky come
più autorevole rappresentante delle deformazioni cui la dottrina in questione è affetta; in
conclusione una riflessione sulle rivoluzioni russe del 1905 e del 1917 è nelle intenzioni di Lenin
fonte di insegnamento perché «si tratta di far comprendere alle masse che cosa dovranno fare per
liberarsi, in un avvenire prossimo, dal giogo del capitale».
Il primo capitolo si sviluppa attorno al tema della società classista e lo Stato. La dottrina di Marx ha
subito lo stesso destino di tutte le dottrine dei pensatori rivoluzionari: proprio la loro dottrina
rivoluzionaria è svuotata di contenuto, è snaturato il lato rivoluzionario della loro lezione. Di ciò i
maggiori responsabili sono la borghesia e gli opportunisti in seno al movimento operaio.
Il compito che Lenin si assume è quello di ristabilire la vera dottrina di Marx sullo Stato, attraverso
un’analisi puntuale di alcuni passaggi centrali rispetto alla questione in esame. La prima citazione
cui Lenin fa riferimento è tratta dall’opera di Engels, L’origine della famiglia, della proprietà
privata e dello Stato. (citazione pp. 60-61). Lo Stato è il prodotto e la manifestazione degli
antagonismi inconciliabili tra le classi: «Lo Stato appare là, nel momento e in quanto, dove quando
e nella misura in cui gli antagonismi di classe non possono essere oggettivamente conciliati».
È su questa definizione marxiana dello Stato che gli ideologi borghesi e piccolo-borghesi operano la
prima deformazione correggendo il senso autentico del passaggio di Engels; in virtù di questa
forzatura gli attribuiscono un significato ed un’intenzione impropri per i quali lo Stato sarebbe
l’organo della conciliazione delle classi. Dalla lettura della citazione tratta dall’opera L’origine
della famiglia, della proprietà privata e dello Stato Lenin ricava la convinzione assolutamente
opposta: lo Stato non è l’organo della conciliazione degli antagonismi di classe, quanto piuttosto
l’organo del dominio di classe, di oppressione di una classe da parte di un’altra. Lo Stato antico è
organo di sfruttamento degli schiavi, lo Stato feudale è organo dello sfruttamento dei servi, lo Stato
rappresentativo moderno è lo strumento per lo sfruttamento del lavoro salariato da parte del
capitale, di cui il suffragio universale è uno strumento e, contemporaneamente, «la misura della
maturità della classe operaia. Più non può né potrà mai essere nello Stato moderno». La sua genesi è
in questo senso legata ad una necessità storica come si evince dalla citazione di un passo tratto
ancora da L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (citazione pp. 70-71).
L’ordine garantito dallo Stato sarebbe il prodotto della conciliazione tra le classi per gli uni,
dell’oppressione dell’una sull’altra per gli altri. Il rilievo mosso ai socialdemocratici piccoloborghesi è ulteriormente precisato: sul piano teorico, accolgono l’idea che lo Stato sia l’organo del
dominio di classe e dell’inconciliabilità degli interessi delle classi, ma dall’affermazione non ne
deducono le implicazioni teorico-pratiche più coerenti per le quali «la liberazione della classe
oppressa è impossibile non soltanto senza una rivoluzione violenta, ma anche senza la distruzione
dell’apparato del potere statale che è stato creato dalla classe dominante». Questa conclusione è
stata travisata o dimenticata da quella corrente e da Kautsky in primis.
(citazioni da Engels, p. 63). Lo Stato è una forza che consiste di distaccamenti speciali di uomini
armati che dispongono di prigioni, istituti di pena ed altro. Questo tratto è distintivo dello Stato e
rappresenta un unicum sia rispetto ad organizzazioni politiche precedenti sia rispetto alla successiva
dittatura del proletariato, quando all’esercito permanente e alla polizia come distaccamenti speciali
subentrerà l’organizzazione armata autonoma della popolazione. Lenin riconduce questa peculiarità
alla scissione della società in classi inconciliabilmente nemiche; l’armamento autonomo della
popolazione determinerebbe una lotta armata tra le classi ostili in cui è divisa la società. Sulla
questione distaccamenti speciali di uomini armati vs l’organizzazione armata autonoma della
popolazione Lenin tornerà successivamente nella descrizione della fase della dittatura del
proletariato.
Un ulteriore elemento distintivo dello Stato moderno è rappresentato dall’inviolabilità e dalla santità
attribuite alla figura dei funzionari. Anche rispetto a questo dato Lenin si riferisce a quanto
affermato da Engels ancora in L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato: in ogni
regime repubblicano democratico è caratteristica la pratica di due strategie volte alla difesa e alla
realizzazione dell’onnipotenza della ricchezza che, con Engels, Lenin riconosce nella corruzione
diretta dei funzionari e nell’alleanza tra Governo e Borsa.
Uno degli snodi teorici più importanti nell’economia di tutto il lavoro e non solo di questo primo
capitolo è costituito dalla riflessione sull’estinzione dello Stato e sulla rivoluzione violenta. (Lettura
della citazione tratta dall’Antidühring di Engels, pp. 71-72). Il concetto centrale su cui nelle pagine
conclusive del primo capitolo Lenin torna con insistenza può essere formulato in questi termini: se
lo Stato borghese deve essere soppresso dal proletariato nel corso della rivoluzione, lo Stato
proletario si estingue o meglio si assopisce. Le ragioni di questa differenza si ricavano dalla
definizione di Stato a cui accennavo in apertura e più nel dettaglio dalla peculiare funzione storica
cui Engels lega la sua genesi. Lo Stato risponde alla necessità storica posta dalla divisione della
società in classi dagli interessi inconciliabili; quando, dopo la rivoluzione socialista, il primo atto
dello Stato proletario sancisce «la presa di possesso di tutti i mezzi di produzione in nome della
società», allora vengono meno le condizioni della divisione della società in proprietari di mezzi di
produzione e lavoratori salariati e, con esse, la stessa necessità storica dello Stato.
La tesi dell’estinzione dello Stato è rivolta da Engels sia contro gli opportunisti che contro gli
anarchici. Le diverse ragioni della polemica di Lenin contro entrambi gli orientamenti risulteranno
più chiare alla luce delle successive argomentazioni; al momento basti considerare che contro la
socialdemocrazia Lenin sosteneva la necessità di spezzare la macchina statale che altrimenti non si
sarebbe estinta, mentre contro gli anarchici poneva in rilievo il momento della dittatura del
proletariato come transizione necessaria al socialismo. Contro la prima polemizzava anche rispetto
all’uso che essa fece negli anni 1870-80 della parola d’ordine «Stato popolare libero», alla luce
della convinzione che ogni Stato, qualunque forma esso assuma, in quanto «forza repressiva
particolare» non può essere né libero né popolare.
Alla teoria dell’estinzione dello Stato è connessa una considerazione sul significato della
rivoluzione violenta (citazione di Engels, pp. 76-77).
Abbiamo visto come, fin dalla prefazione, Lenin abbia ribadito la necessità di far seguire
all’esposizione della dottrina marxiana dello Stato un’illustrazione degli insegnamenti che vennero
dalle esperienze rivoluzionarie. Nel secondo capitolo l’autore, coerentemente con questa premessa,
sviluppa ulteriormente la questione dello Stato, assumendo come testi di riferimento Miseria della
filosofia e Manifesto del partito comunista proprio perché contengono oltre all’esposizione dei
principi generali del marxismo riferimenti costanti e precisi alla situazione rivoluzionaria concreta
di quel tempo. Lenin interroga entrambe le opere citate sul tema della «dittatura del proletariato»
(citazioni da Miseria della filosofia, p. 81 e da Manifesto del partito comunista, p. 82), la cui
formulazione erroneamente egli colloca nei testi successivi alla Comune di Parigi. In realtà nella
seconda edizione di Stato e rivoluzione Lenin preciserà che l’uso di quest’espressione risale alla
stesura di una lettera di Marx a Weydemeyer del 5 marzo 1852, ignorando che in un testo ancora
precedente, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, ve ne fosse già testimonianza.
Il punto centrale è la definizione dello Stato come «proletariato organizzato come classe
dominante», definizione consapevolmente assente nella lettura socialdemocratica del marxismo
perché radicalmente inconciliabile con il riformismo piccolo-borghese ed incompatibile con le sue
previsioni sullo sviluppo pacifico della democrazia. Il presupposto a fondamento di questa
previsione è l’idea di uno Stato posto al di sopra delle classi, organo di conciliazione della loro
incompatibilità; solo a queste condizioni è pensabile la trasformazione socialista nei termini di una
sottomissione pacifica della minoranza alla maggioranza consapevole dei propri compiti, e non
piuttosto come abbattimento del dominio della classe sfruttatrice. Per seguire meglio
l’argomentazione sostenuta da Lenin in questo passaggio torniamo su quanto già detto la scorsa
lezione circa la posizione di Marx ed Engels sulla genesi e l’essenza dello Stato. Lo Stato è un
prodotto della società giunta ad un determinato grado di sviluppo o, più precisamente, una necessità
storica posta dalla divisione della società in classi dagli interessi assolutamente inconciliabili.
Contrariamente alla lettura opportunistica, lo Stato non è l’organo della conciliazione delle classi,
ma piuttosto l’organo del dominio di una classe su un’altra, «è lo Stato della classe più potente,
economicamente dominante che, per mezzo suo, diventa anche politicamente dominante e così
acquista un nuovo strumento per tenere sottomessa e sfruttare la classe oppressa». Ma, se le classi
sfruttatrici hanno bisogno dello Stato per mantenere in vita le condizioni dello sfruttamento, anche
le classi sfruttate hanno bisogno dello Stato per sopprimere le condizioni del loro sfruttamento e
dello sfruttamento in generale; dunque anche il proletariato ha bisogno di uno Stato ma questa
convinzione è condivisa anche dai socialdemocratici opportunisti e kautskiani: la distanza tra le loro
posizioni e quelle rappresentate da Lenin si misura rispetto alla natura specifica dello Stato
proletario. Se lo Stato è un’organizzazione particolare della forza volta a reprimere una classe
determinata, allora lo Stato proletario è il proletariato organizzato come classe dominante volta a
reprimere la borghesia o, più precisamente, a reprimere la resistenza della classe borghese.
L’abbattimento del dominio borghese può essere compiuto solo ed esclusivamente dal proletariato
come classe particolare perché sono le sue condizioni economiche d’esistenza, la sua funzione
economica nella grande produzione che lo rendono adatto a questo rovesciamento.
Due obiettivi essenziali rendono necessari l’organizzazione del proletariato come classe dominante
e, dunque, lo Stato proletario: la repressione della resistenza degli sfruttatori e la direzione della
maggioranza della popolazione, costituita da contadini, piccola borghesia, sottoproletariato
nell’opera di avviamento all’economia socialista. Al conseguimento di queste mete è chiamata
l’avanguardia del movimento operaio che, educato al marxismo, prende il potere e conduce tutto il
popolo al socialismo. La tesi centrale di tutto lo scritto è che la creazione dello Stato proletario non
è pensabile senza aver prima distrutto la macchina dello Stato che la borghesia ha creato per sé; a
questa conclusione Marx giunse anche attraverso un bilancio dell’esperienza rivoluzionaria del
1848-1851.
(citazione da Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, pp. 86-87). Alla luce di quanto sostenuto da Marx
nel passaggio citato da Lenin, emerge con chiarezza l’idea di fondo di Marx per il quale le
rivoluzioni finora condotte hanno avuto il solo risultato di perfezionare la macchina dello Stato,
mentre il compito cui attualmente è chiamato il proletariato è quello di spezzarla.
Nella fase di declino dell’assolutismo, il potere statale centralizzato proprio della società borghese
presenta due caratteristiche istituzioni: la burocrazia e l’esercito permanente che, attraverso le
rivoluzioni borghesi, si rafforzano ulteriormente fino a presentarsi con evidenza sempre maggiore
come parassiti sul corpo della società borghese, generati dalle sue interne contraddizioni. In questo
processo di accentuazione degli apparati burocratico e militare, è evidente la forza di attrazione
esercitata dalla grande borghesia sulla piccola attraverso l’assegnazione di impieghi comodi ed
onorifici, l’attribuzione di sinecura ministeriali e di posti di governatori in generale. Sostiene Lenin
che in seguito alle rivoluzioni se le riforme sono rinviate la spartizione degli impieghi è compiuta.
In questo quadro cresce l’ostilità delle classi oppresse e del proletariato verso la società borghese
nel suo complesso. Ai tentativi di accentuare la repressione rafforzando l’apparato coercitivo della
macchina statale, il proletariato deve rispondere concentrando le proprie forze di distruzione contro
lo Stato borghese. Nella prefazione alla terza edizione del 18 Brumaio Engels individua
nell’evoluzione economico-politica della Francia il modello classico dell’evoluzione moderna degli
Stati capitalistici in generale, i cui tratti essenziali sono individuati nell’elaborazione di un potere
parlamentare, nella divisione del bottino delle rivoluzioni che lasciano intatte le basi del regime
borghese e nel perfezionamento/rafforzamento del potere esecutivo.
(citazione della lettera di Marx a Weydemeyer del 5 marzo 1852, p. 93). Marxista è solo colui che
estende il riconoscimento della lotta delle classi al riconoscimento della dittatura del proletariato.
La scoperta della lotta di classe non è di Marx, ma ha radici borghesi e in quanto tale è accolta dalla
borghesia consapevole che la condivisione di questa dottrina non ha di per sé implicazioni
rivoluzionarie, nella misura in cui è ancora pensabile nei limiti dei rapporti borghesi. La differenza
tra marxista e piccolo-borghese risiede nella connessione che solo il primo stabilisce tra lotta di
classe e dittatura del proletariato; la mancata connessione da parte di una certa socialdemocrazia è
la più grave deformazione del marxismo, di cui l’opuscolo di Kautsky La dittatura del proletariato
è significativa attestazione.
La dittatura del proletariato risponde a necessità precise e copre un periodo storico determinato che
va dal capitalismo al comunismo, cioè alla società senza classi. (citazione chiusura del capitolo,
pp.95-96).
Nel terzo capitolo di Stato e rivoluzione Lenin continua ad esaminare la dottrina marxiana dello
Stato intendendo restituirle il senso autentico contro le distorsioni operate dall’interpretazione di
una certa socialdemocrazia; in queste pagine il tema centrale di tutta l’opera è discussa alla luce
della valutazione che Marx espresse sull’esperienza della comune di Parigi del 1871.
Nel Secondo Indirizzo del Consiglio generale dell’Internazionale sulla guerra franco-prussiana,
nel settembre del 1870 Marx aveva espresso serie perplessità circa l’opportunità che, proprio in quel
momento, la classe operaia francese guidasse un’iniziativa rivoluzionaria volta a rovesciare il
governo. In un’ottica di più ampio respiro egli riteneva che l’obiettivo dell’emancipazione del
lavoro potesse essere conseguito se la classe operaia si fosse limitata in quella specifica fase a
«migliorare con calma e risolutamente tutte le possibilità offerte dalla libertà repubblicana per
lavorare alla sua organizzazione di classe» (da Marx, La guerra civile in Francia, citazione nota 24,
p. 97). Tuttavia quando nel marzo del 1871 la classe operaia insorse, Marx accolse con entusiasmo
la notizia della rivoluzione proletaria. Nel rilevare ciò Lenin non manca di polemizzare contro chi,
come Plekhanov, dopo aver sostenuto ed incoraggiato la lotta di operai e contadini,
successivamente alla rivoluzione del 1905 ritenne un errore il fatto di essersi armati. Marx
considerò quella della Comune di Parigi un’esperienza storica di tale importanza da indurre lui ed
Engels ad introdurre un emendamento al Manifesto del partito comunista; nella prefazione ad una
nuova edizione tedesca datata 24 giugno 1872 gli autori riconoscono che alla luce degli eventi più
recenti il programma esposto nel Manifesto era in alcuni passaggi un po’ «invecchiato». (citazione
dal Manifesto del partito comunista, p. 98).
Nel passo appena citato del manifesto gli autori riprendono quanto affermato in La guerra civile in
Francia. Contrariamente a quanto comunemente sostenuto, l’idea che «la classe operaia non può
impossessarsi puramente e semplicemente di una macchina statale già pronta e metterla in moto per
i suoi propri fini» confuta radicalmente la tesi di un’evoluzione lenta e graduale dal sistema
capitalistico ad un regime economico socialista; ad ulteriore conferma Lenin cita una lettera di
Marx a Kugelmann del 12 aprile 1871 (citazione dalla lettera pubblicata sulla rivista Neue Zeit, XX,
I, 1901-1902, p. 99). Il compito che il proletariato è chiamato ad assolvere durante la rivoluzione è
dunque inequivocabilmente quello di «spezzare la macchina burocratica e militare».
Al di là di questa significativa indicazione, la lettera di Marx a Kugelmann offre ulteriori elementi
di riflessione che erano già emersi dalla lettura della prefazione di Engels alla terza edizione del 18
Brumaio, in merito all’idea che la Francia costituisse il modello classico, il prototipo
dell’evoluzione moderna degli Stati capitalistici. Quando riconosce nella rottura della macchina
statale la condizione preliminare di ogni reale rivoluzione popolare Marx si riferisce esclusivamente
all’Europa continentale; nel 1871, anno a cui risalgono le considerazioni di Marx cui Lenin fa
riferimento, l’Inghilterra ancora non aveva conosciuto quel processo di perfezionamento degli
apparati burocratico e militare, anzi Lenin la assume come modello di un capitalismo puro senza
militarismo e senza burocrazia, in cui perciò mancano le condizioni stesse della distruzione della
macchina statale già pronta.
Nel 1917 lo scenario mondiale è profondamente modificato: anche Inghilterra ed America «sono
precipitate interamente nel lurido e sanguinoso pantano, comune a tutta Europa, delle istituzioni
militari e burocratiche che tutto sottomettono a sé e tutto comprimono».
Un secondo elemento che emerge dalla lettura della lettera a Kugelmann è l’uso della formula
«reale rivoluzione popolare» in riferimento alla rivoluzione. Lenin assume questa formula anche in
riferimento alla rivoluzione borghese russa del 1905-07; è incontestabile la partecipazione della
massa degli sfruttati a sostegno di proprie esigenze ed in vista della propria idea di società
alternativa. Nel corso dell’argomentazione leniniana a questo giudizio segue il riferimento ad una
questione centrale: perché una rivoluzione potesse dirsi veramente popolare era essenziale che ad
essa partecipasse il fronte compatto di operai e contadini. Nell’Europa del 1871 ma ancora nella
Russia di quegli anni il proletariato rappresentava una minoranza esigua della popolazione, ma
tuttavia già Marx riconosceva nella distruzione della macchina statale il fondamento comune
dell’alleanza tra contadini ed operai, senza la quale una trasformazione socialista non era
praticamente attuabile. Con la questione dell’alleanza tra contadini ed operai Lenin si era
confrontato fin dai primissimi anni del secolo, prima ancora dello scoppio delle rivoluzioni del
1905-1907; in un articolo scritto nel febbraio del 1901 e pubblicato nell’aprile dello stesso anno sul
terzo numero dell’Iskra, Il partito operaio e i contadini, Lenin riconosce come compito precipuo
del partito operaio socialdemocratico l’inserimento nel proprio programma delle rivendicazioni
essenziali dei contadini che la riforma del 1861 non aveva assolutamente interpretato. La riforma
agraria solo nominalmente sanciva «l’emancipazione dei contadini con la terra grazie all’aiuto dello
Stato», perché nel concreto della sua attuazione significò un’emancipazione dei contadini dalla
terra. Essi furono sottoposti ad una doppia spoliazione: da un lato furono costretti al pagamento di
un riscatto di entità molto superiore al valore reale della terra che avevano da sempre coltivato,
dall’altro all’oppressione del signore feudale si aggiunse quella del capitale. Era necessario
procurarsi denaro per il pagamento dei tributi, per l’affitto della terra, ma anche per l’acquisto dei
prodotti dell’industria di fabbrica che aveva cominciato a soppiantare quelli dell’industria
domestica del contadino. Queste trasformazioni ebbero una ricaduta immediata sulla composizione
della popolazione contadina che, nella maggior parte, non resse il peso e si trasformò in proletariato
e, nella minoranza, riuscì ad accaparrarsi le aziende e le terre dei contadini finendo in tal modo per
costituire la base della futura borghesia rurale. È alla luce di queste trasformazioni che Lenin
riconosce la condizione materiale perché il partito socialdemocratico operaio dia il suo appoggio
alla causa contadina attraverso l’introduzione della lotta di classe nelle campagne, precisando che
l’assunzione della causa della popolazione contadina nelle proprie rivendicazioni non comporta
modificazioni essenziali nella struttura e nella finalità del movimento operaio (Citazione Lenin, il
partito operaio e i contadini, in Id., Opere complete p. 464).
La questione che nel Manifesto del partito comunista Marx poneva senza dare indicazioni sulle
possibili opzioni era relativa alle forme concrete che avrebbe dovuto assumere l’organizzazione del
proletariato come classe dominante. È dall’esperienza della Comune di Parigi che Marx ricava gli
elementi necessari per rispondere concretamente alle urgenze poste dall’attualità; essa rappresenta
«l’antitesi dell’Impero», di quello Stato che, in risposta alle rivoluzioni del 1848-49, aveva
ulteriormente accentuato la sua natura di «strumento pubblico di guerra del capitale contro il
lavoro». Marx vi riconosce «la forma positiva di una repubblica che non avrebbe dovuto eliminare
soltanto la forma monarchica del dominio di classe, ma lo stesso dominio di classe».
Ancora una volta Lenin riprende alcuni passaggi tratti da La guerra civile in Francia (citazione pp.
103-104). Nel concreto delle scelte politiche, il primo provvedimento adottato dalla Comune fu la
soppressione dell’esercito permanente e la sua sostituzione con il popolo armato e il riconoscimento
dell’assoluta revocabilità ed eleggibilità di tutti i funzionari. Abbiamo verificato già nelle lezioni
precedenti quanto Lenin insista su un tratto distintivo dello Stato per cui esso si qualifica come
forza che consiste di distaccamenti speciali di uomini armati che dispongono di prigioni, istituti di
pena ed altro; in questa caratteristica Lenin riconosce un unicum da ricondurre alla scissione della
società in classi inconciliabilmente nemiche, nella misura in cui l’armamento autonomo della
popolazione determinerebbe una lotta armata tra le classi ostili in cui è divisa la società. Già in un
articolo del giugno 1905 L’esercito rivoluzionario e il governo rivoluzionario, pubblicato sulla
rivista “Proletari”, a commento dell’insurrezione a Odessa, Lenin aveva sostenuto: «Bisogna sapersi
rivolgere al popolo, nel vero senso di questa parola, non soltanto con un semplice appello alla lotta
(questo è sufficiente per il periodo che va fino alla formazione del governo rivoluzionario), ma con
un appello all’immediata realizzazione delle trasformazioni democratiche fondamentali, alla loro
applicazione immediata ed autonoma. L’esercito rivoluzionario e il governo rivoluzionario sono le
due facce d’una stessa medaglia». La Comune rappresenta in concreto il modello d’organizzazione
che il proletariato come classe dominante avrebbe dovuto assumere. (citazione da Marx, La guerra
civile in Francia, pp. 104- 105).
Abbiamo insistito su uno dei tratti caratteristici dello Stato proletario di cui la Comune di Parigi
costituisce la prima sperimentazione storica concreta: la soppressione dell’esercito permanente
tipico dello Stato borghese e la sua sostituzione con il popolo armato. Abbiamo ricondotto la sua
genesi alla specifica fisionomia della società borghese, caratterizzata dalla divisione in classi
antagoniste e abbiamo verificato quanto anche la costituzione di una milizia popolare abbia il suo
necessario radicamento nel superamento della divisione di classe, garantito dall’assunzione della
proprietà dei mezzi di produzione in nome dell’intera società. Prima di procedere oltre nell’analisi
del secondo paragrafo del terzo capitolo di Stato e rivoluzione che offre indicazioni esplicite sulla
forma che sarà assunta dallo Stato proletario, offrono spunti di riflessione alcuni passaggi della
lettera di Lenin scritta nel marzo del 1917 e pubblicata su Kommunisticeski Internatsional del 1924.
Sulla milizia proletaria è la terza delle cinque Lettere da lontano scritte tra il 7 e il 26 marzo 1917,
nelle quali Lenin discute nei modi di un programma rispettivamente di La prima fase della
rivoluzione, Il nuovo governo e il proletariato, Sulla milizia proletaria, Come ottenere la pace, I
compiti dell’organizzazione proletaria rivoluzionaria dello Stato. Sulla milizia proletaria consente
di verificare nello specifico le modalità della sua organizzazione e di ribadire alcuni concetti
centrali della concezione leniniana dello Stato. Lenin analizza la situazione della Russia durante il
governo Guckov in una prospettiva entro la quale la rivoluzione di febbraio-marzo appare solo la
prima fase della rivoluzione, mentre sussistono tutte le condizioni storiche per il passaggio alla fase
successiva. Il governo Guckov, infatti, da un lato è legato agli interessi del capitale per cui deve
necessariamente proseguire la guerra e, dall’altro, ha una matrice rivoluzionaria rispetto all’ordine
zarista che lo vincola alla realizzazione delle rivendicazioni delle masse. La possibilità di rovesciare
il nuovo governo è legata da Lenin alla capacità di opporre «all’eccellente organizzazione di tutta la
borghesia russa e di tutti gli intellettuali borghesi una non meno eccellente organizzazione del
proletariato» (N. Lenin, Sulla milizia proletaria in Id., Opere complete, vol. XXIII, Roma, 1965, p.
323). Il nucleo di questa organizzazione è costituito dai soviet dei deputati operai, già definiti in un
articolo dell’ottobre del 1915 «organi per l’insurrezione, organi del potere rivoluzionario»; ad essi si
aggregano i deputati di soldati, di operai salariati agricoli, di tutti i contadini poveri, posta la
necessità del coinvolgimento di tutti gli strati della popolazione proletaria e sottoproletaria, di tutti i
lavoratori e di tutti gli sfruttati. Un elemento da rilevare è il riferimento alla centralità del ruolo dei
contadini cui abbiamo già fatto riferimento a partire dall’uso marxiano prima e leniniano poi della
formula “reale rivoluzione popolare”. Alla indicazione circa le forme concrete in cui si struttura lo
Stato rivoluzionario, nella lettera citata segue una nuova considerazione della sua natura più propria
e specifica rispetto alla Stato borghese. Quella che apparentemente sembra una semplice
sostituzione di istituzioni fondate su diversi principi alle istituzioni tradizionali è per Lenin la
dimostrazione di come, hegelianamente, la quantità si trasformi in quantità: «da borghese che era, la
democrazia, realizzata quanto più pienamente e conseguentemente sia possibile, è diventata
proletaria».
Nonostante la radicalità di queste prime disposizioni, rimane a lungo la necessità di reprimere i
tentativi di resistenza della borghesia, anzi la scarsa risolutezza delle posizioni assunte in merito a
questa necessità è, per Lenin, la causa determinante l’esito fallimentare dell’esperienza
rivoluzionaria dei comunardi; tornando a ribadire le necessità a fondamento dell’istituzione di uno
Stato proletario, l’autore insiste sull’urgenza della repressione della resistenza degli sfruttatori e
sull’opportunità che la maggioranza della popolazione, costituita da contadini, piccola borghesia,
sottoproletariato assuma la direzione nell’opera di avviamento all’economia socialista. L’organo di
repressione, però, non è più la minoranza bensì la maggioranza della popolazione che, chiamata a
compiere direttamente questa funzione, non ha più alcuna necessità dello Stato come forza
particolare di repressione: «quanto più il popolo stesso assume le funzioni del potere statale, tanto
meno si farà sentire la necessità di questo potere». Una delle misure più significative è costituita, a
giudizio di Lenin, dalla riduzione degli stipendi assegnati a tutti i funzionari dello Stato al livello di
salari da operai, dalla soppressione di tutte le indennità di rappresentanza e dei privilegi economici
in cui trovava materialmente espressione l’inviolabilità e la sacralità attribuite dallo Stato borghese
ai funzionari. (Citazione p. 106).
Questo provvedimento venne interpretato da Bernstein come semplicemente indicativo di un
recupero del «democratismo primitivo»; Lenin denuncia l’incapacità di questa lettura di riconoscere
nel recupero del democratismo primitivo una scelta funzionale alla transizione dal capitalismo al
socialismo nella misura in cui solo questa condizione preliminare consente di far compiere alla
maggioranza della popolazione le funzioni per cui il dominio borghese – in quanto dominio di una
minoranza – aveva bisogno dello Stato come forza repressiva particolare. Inoltre nel recupero del
democratismo primitivo non si esprime una nostalgia nei confronti di epoche e sistemi
precapitalistici o patriarcali; non si tratta di una semplice trasposizione di un modello organizzativo,
ma di un suo utilizzo in condizioni materiali completamente diverse da quelle in cui esso ha avuto
origine. Lo si assume in un contesto in cui le grandi innovazioni introdotte dal sistema capitalistico
consentono di snellire al massimo le funzioni del potere statale fino a ridurle a semplici operazioni
di registrazione, iscrizione, controllo la cui attuazione non richiede competenze specialistiche e può
essere retribuita con un salario da operaio. L’errore commesso dalla corrente opportunista e
kautskiana della socialdemocrazia è evidentemente riconoscibile nella deformazione del marxismo:
piuttosto che individuare in queste misure provvedimenti funzionali alla transizione al socialismo,
da connettere ad un più ampio progetto di «espropriazione degli espropriatori», questi orientamenti
pseudomarxisti le assumono come traguardi definitivi che confermerebbero la legittimità di
un’interpretazione di Marx come teorico della lenta e graduale transizione da un sistema all’altro.
Tra le caratteristiche dei paesi a sviluppo capitalistico, Lenin aveva riconosciuto l’elaborazione di
un potere parlamentare, sia nei paesi repubblicani sia monarchici. Non sorprenda quindi che
l’esperienza della Comune significhi la soppressione del parlamentarismo: «la Comune non doveva
essere un organismo parlamentare, ma di lavoro, esecutivo e legislativo allo stesso tempo. […]
Invece di decidere una volta ogni tre o sei anni quale membro della classe dominante dovesse mal
rappresentare il popolo nel Parlamento, il suffragio universale doveva servire al popolo costituito in
comuni così come il suffragio individuale serve ad ogni altro imprenditore privato per cercare gli
operai e gli organizzatori della sua azienda» (Citazione p. 106 da K. Marx, La guerra civile in
Francia). L’essenza vera del parlamentarismo consiste nel decidere ogni qualche anno quale
membro della classe dominante debba opprimere, schiacciare il popolo nel Parlamento.
Da parte opportunista la critica marxiana al parlamentarismo, nella formulazione che risale al 1871,
è stata accusata di anarchismo. Anche rispetto a questo punto, Lenin ha ragione di polemizzare
contro la corrente che fa capo a Kautsky: la sua critica del parlamentarismo è autenticamente
proletaria e rivoluzionaria, non va schiacciata su quella mossa dagli anarchici ai quali, peraltro,
contestava l’incapacità di utilizzare la “stalla” del parlamentarismo quando è evidente che la
situazione non è rivoluzionaria.
Anche la questione della soppressione del parlamentarismo, se posta entro l’ambito più ampio della
questione dello Stato, va formulata in questi termini: nell’ottica del proletariato che assume su di sé
il compito della transizione dal capitalismo al comunismo, com’è praticamente superabile il
modello parlamentare? «La via per uscire dal parlamentarismo è nel trasformare le istituzioni
rappresentative da mulini di parole in organismi che lavorino realmente». Nei parlamenti non si fa
che chiacchierare allo scopo di turlupinare il popolino e tutto ciò riguarda anche la repubblica
democratica borghese russa, sebbene essa abbia compiuto da poco i primi passi in questa direzione.
Come partito al governo, anche i socialisti-rivoluzionari e i menscevichi sono tra coloro che si
dividono il bottino del successo elettorale attraverso la spartizione di incarichi e funzioni
remunerative. Una conferma Lenin la ricava anche da un articolo pubblicato nel quotidiano Dielo
Naroda, organo degli stessi socialisti-rivoluzionari: si ammetteva in queste pagine che anche nei
ministeri affidati ai socialisti l’apparato amministrativo funzionava secondo la logica tradizionale e
che, di conseguenza, non esisteva più alcuno spazio per l’attuazione delle riforme rivoluzionarie.
Rispetto alle degenerazioni del parlamentarismo borghese che rende praticabile l’accordo tra
“socialisti” e partito cadetto, la Comune rappresenta un esperimento felice in virtù della
caratteristica per cui al suo interno i parlamentari devono applicare le loro leggi, verificarne i
risultati, rispondere di essi davanti agli elettori. Il discrimine tra i due modelli organizzativi, quello
borghese e quello proletario, va significativamente ricondotto ai seguenti termini: non l’elemento
della rappresentanza è rifiutato, anzi esso è essenziale nella definizione di un ordine democratico,
sia pur esso di tipo proletario; l’ostacolo da rimuovere è il parlamentarismo come sistema speciale
esemplificativo della moderna divisione del lavoro tra legislativo ed esecutivo.
Tornando alla lettera del passaggio di Marx citato in apertura, Lenin si sofferma a considerare come
Marx accosti il personale amministrativo interno alla Comune alla figura del personale di ogni altro
imprenditore, avvicinando il modello organizzativo della Comune ad un’ordinaria impresa
capitalistica con «operai, sorveglianti e contabili». È questa la conferma dell’assenza entro il
discorso marxiano di qualsiasi forma di utopia: «egli studia, come un processo di storia naturale, la
genesi della nuova società che sorge dall’antica, le forme di transizione tra l’una e l’altra». In
nessun momento dell’elaborazione marxiana è possibile riconoscere l’annuncio di una società
completamente nuova in cui non ci sia spazio alcuno per la burocrazia; piuttosto si tratta di spezzare
subito la vecchia forma di amministrazione, sostituire ad essa una nuova che, nell’atto stesso del
suo porsi, permetta la graduale soppressione di qualsiasi forma di organizzazione burocratica. È
l’esperienza della Comune che consente di verificarlo, offrendo indicazioni precise circa i contenuti
del compito primordiale ed immediato del proletariato rivoluzionario. «Noi non siamo degli
utopisti. Non sogniamo di fare a meno, dall’oggi al domani, di ogni amministrazione, di ogni
subordinazione; questi sono sogni anarchici, fondati sull’incomprensione dei compiti della dittatura
del proletariato, sogni che non hanno nulla in comune con il marxismo e che, di fatto, servono
unicamente a rinviare la soluzione socialista fino al giorno in cui gli uomini saranno cambiati. No,
noi vogliamo la rivoluzione socialista con gli uomini quali sono oggi, e che non potranno fare a
meno né di subordinazione, né di controllo né di sorveglianti, né di contabili».
L’esperienza della Comune consente di verificare storicamente che non è il sistema gerarchico di
sovraordinazione e subordinazione ad essere contestato a partire dalla prospettiva marxiana, quanto
piuttosto la specifica forma che esso assume in epoca borghese sotto un sistema capitalistico: alla
figura dei funzionari statali va sostituita quella di semplici sorveglianti e contabili affidata
all’avanguardia proletaria armata. Un’idea centrale è rappresentata dal dato per cui la
semplificazione estrema dei metodi amministrativi che già il sistema borghese ha messo in atto,
consente di retribuire tutte le figure chiavi dell’amministrazione statale con salari da operai.
I primi provvedimenti di cui deve farsi carico un governo proletario vanno in questa direzione:
l’organizzazione proletaria della grande industria intrapresa attraverso una disciplina rigorosa e
mantenuta attraverso l’esercizio del potere statale ad opera dei lavoratori armati; quindi la riduzione
dei funzionari dello Stato al rango di semplici esecutori degli incarichi del governo proletario,
modestamente retribuiti, responsabili e revocabili. Queste prime manovre portano da sé alla
graduale estinzione di ogni burocrazia, alla graduale estinzione di un ordine in cui le funzioni
saranno adempiute a turno da tutti, per divenire poi un’abitudine a tal punto da scomparire come
funzioni speciali di una speciale categoria di persone. È significativo che sia proprio il dominio
economico della borghesia a fornire al proletariato organizzato come classe dominante un
meccanismo che, sotto il profilo tecnico, è assolutamente funzionante. «Tutta l’economia nazionale
organizzata come la posta; i tecnici, i sorveglianti, i contabili, come tutti i funzionari dello Stato
retribuiti con uno stipendio non superiore al “salario da operaio”, sotto il controllo e la direzione del
proletariato armato: ecco il nostro fine immediato. […]. Ecco cosa ci darà la distruzione del
parlamentarismo e il mantenimento delle istituzioni rappresentative, ecco ciò che sbarazzerà la
classe lavoratrice dalla prostituzione di queste istituzioni da parte della borghesia».
La questione dell’organizzazione del potere in modi alternativi rispetto a quelli borghesi è posta da
Lenin anche in una prospettiva nazionale. Già Marx, ancora in La guerra civile in Francia, richiama
alla necessità di elaborare un progetto di organizzazione nazionale che la Comune si limitò ad
abbozzare e che non riuscì ad attuare. La lettura dei passaggi in cui Marx discute della questione ha
un’importanza strategica ai fini del discorso di Lenin, in particolare rispetto alle distorsioni operate
sulla dottrina marxiana e, quindi, ai motivi della polemica con i socialdemocratici opportunisti, da
un lato, e gli anarchici dall’altro. La rottura della macchina statale che la rivoluzione doveva portare
a termine non implicava la rottura dell’unità della nazione, anzi essa doveva essere organizzata sul
modello della Comune, il che significava nel concreto attraverso l’elezione da parte delle comuni
locali della delegazione nazionale di Parigi che avrebbe funzionato attraverso la soppressione degli
apparati militare e burocratico e la loro sostituzione rispettivamente con l’intero popolo armato e
l’assegnazione di funzioni di controllo, registrazione e iscrizione, retribuite con salari da operai.
In Le prospettive del socialismo e i compiti della socialdemocrazia Bernstein riconosce in questo
modello organizzativo l’espressione di un progetto federalista a partire dal quale le posizioni di
Marx e Proudhon in merito coinciderebbero. Lenin esprime la propria idea circa questo
accostamento in questi termini (Cfr., p. 118). E’ tipico della visione opportunista confondere il
progetto di distruzione della vecchia macchina dello Stato borghese con un programma federalista,
ma proprio il progetto di distruzione della vecchia macchina dello Stato borghese non significa in
Marx rifiuto del centralismo: per Lenin, Marx è centralista. Proudhon non è in grado di pensare alla
soluzione centralista nei termini di un’unione volontaria delle comuni in nazione, ma lega
necessariamente l’adozione di un’opzione centralista alla presenza degli apparati burocratico e
militare, incaricati della sua imposizione e del suo mantenimento. Lenin, al contrario, sottolinea
ancora una volta che in questione è la forma specifica che questo modello assume: si tratta di un
centralismo proletario cosciente, democratico, da opporre a quello borghese, militare e burocratico.
Il dato più rilevante è rappresentato dal fatto che nessuno abbia contestato il giudizio di Bernstein,
neppure Kautsky e Plekhanov: l’origine di questa distorsione risiede nel fatto che i
socialdemocratici opportunisti non hanno una prospettiva rivoluzionaria.
A chiarire le ragioni dell’accordo e della distanza teorica di Marx e Proudhon, Lenin specifica che è
comune ai due l’obiettivo della demolizione dell’attuale macchina statale ma non la forma specifica
che deve assumere l’organizzazione del potere edificato in opposizione al modello borghese.
Il capitolo si chiude con una ripresa de passaggi marxiani più significativi attraverso cui fare un
bilancio della Comune. Essa, a giudizio di Marx, segna una rottura delle strutture statali moderne e,
contrariamente ad una certa lettura, non si tratta di una semplice riproduzione del modello
rappresentato dai comuni medioevali o di una federazione di piccoli Stati. È in questo senso che
Marx vi riconosce «una forma politica espansiva, […] un governo della classe operaia, il prodotto
della lotta della classe dei produttori contro la classe appropriatrice, la forma politica finalmente
scoperta, nella quale si poteva compiere l’emancipazione economica del lavoro». Lenin condivide
con Marx l’idea che la Comune abbia rappresentato un momento storico di centrale importanza se
conclude che le rivoluzioni russe del 1905 e del 1917 continuano in una situazione differente e in
altre condizioni l’opera della Comune.
Se Marx ha detto l’essenziale sull’esperienza della Comune, da Engels si ricavano elementi
significativi per interpretare l’analisi e le conclusioni di Marx ma anche per considerare anche altri
aspetti del problema in questione. L’analisi di Lenin si concentra nelle prime battute del IV capitolo
sul testo di Engels La questione delle abitazioni del 1872, nella misura in cui alcuni passaggi
offrono indicazioni concrete sui provvedimenti che uno Stato proletario deve adottare e, quindi
ancora una volta, su ciò con cui lo Stato borghese deve essere sostituito (Cfr., pp. 123-124). In
merito al programma di espropriazione degli alloggi dalle mani degli attuali proprietari, Lenin
specifica, riprendendo Engels, che la misura in questione non è assimilabile al riscatto
proudhoniano attraverso il quale è il lavoratore come singolo a diventare proprietario delle
abitazioni, degli strumenti di produzione ecc.. Nel programma di espropriazione cui fa riferimento
Engels in gioco è l’effettiva presa di possesso di tutti gli strumenti di lavoro, delle abitazioni da
parte del popolo lavoratore in toto. L’attuazione di questa misura ci consente di verificare nel
concreto il senso di quanto detto a proposito delle operazioni di controllo, registrazioni cui è
chiamata a turno l’intera popolazione in sostituzione del corpo di funzionari parassiti. L’affitto degli
alloggi richiede una forma di Stato che provveda a elaborare norme che regolino la ripartizione e
l’assegnazione delle abitazioni, a percepire gli affitti, al controllo di queste operazioni; ma – torna a
ribadire Lenin – tutto ciò non implica necessariamente la presenza di un corpo di funzionari
privilegiati.
Lo snodo centrale di queste pagine è costituito dalla formalizzazione dei motivi della polemica
contro gli anarchici a cui il testo fin qui ha più volte rimandato. Una prima indicazione era
ricavabile dalla ripresa di quel passaggio dell’Antidühring nelle cui battute conclusive Engels
polemizzava con l’idea anarchica di un’abolizione dello Stato borghese che si compia dall’oggi al
domani (Cfr., p. 72). La polemica risale al 1873, anno in cui furono pubblicati in una raccolta
socialista italiana, Almanacco repubblicano per l’anno 1874, alcuni articoli di Marx ed Engels
contro i proudhoniani, autonomisti ed anti-autoritari. Negli articoli è espresso a chiare lettere che la
ragione del disaccordo con gli anarchici non è nell’idea dell’abolizione dello Stato come
conseguenza della scomparsa delle classi, quanto piuttosto nel rifiuto da parte degli anarchici del
concetto marxiano per il quale, spezzata la macchina statale borghese, occorre che gli operai
facciano uso della violenza organizzata, vale a dire dello Stato, per schiacciare la resistenza
borghese. Il fine è comune, l’abolizione dello Stato, ma per il raggiungimento di questo scopo,
secondo Lenin, è indispensabile utilizzare temporaneamente strumenti, mezzi e metodi del potere
statale. Nel quaderno Il marxismo sullo Stato sono così sintetizzati i motivi della distanza con la
socialdemocrazia da un lato, e con gli anarchici dall’altro. Rispetto ai secondi, il termine di
disaccordo è relativo all’utilizzazione dello Stato durante la rivoluzione; rispetto ai primi, il
carattere temporaneo dello Stato proletario, il carattere non completamente statale della dittatura del
proletariato per cui sarebbe più corretto parlare di Gemeinwesen (in Stato e rivoluzione Lenin
sviluppa questo punto sostenendo che «la comune cessava di essere uno Stato nella misura in cui
essa non doveva più opprimere la maggioranza della popolazione, ma una minoranza – gli
sfruttatori; essa aveva spezzato la macchina dello Stato borghese; invece di una forza particolare di
oppressione, era la popolazione stessa che entrava in campo», cfr., p.135). Negli articoli di Marx ed
Engels, gli autori contestano la posizione degli anarchici condannando il loro vuoto
antiautoritarismo in questi termini (Citazioni pp. 128-129 e pp. 129-130).
Un ulteriore documento per ricostruire la natura e le ragioni della polemica di Marx prima e di
Lenin poi contro gli anarchici è costituito dalla lettera che Engels scrive a Bebel nel marzo del 1875
non a caso pubblicata a distanza di trentasei anni; in essa torna l’idea dello Stato come istituzione
temporanea di cui è necessario servirsi nella lotta, per tener soggiogati con la forza i propri nemici;
ma accanto alla ripresa di questo motivo, Engels espone le ragioni per cui la formula “Stato
popolare libero” non ha alcun senso, è un’assurdità. (citazione p. 132). Al nome di Stato è
opportuno sostituire quello di Gemeinwesen dal momento che se si deve parlare di Stato lo si fa
propriamente solo per indicare, secondo la sua definizione generale, «una forza repressiva
particolare», nello specifico dello Stato proletario, lo strumento attraverso cui la classe operaia frena
i tentativi di resistenza della classe borghese; lo Stato non esiste se non come strumento di dominio
di una classe su un’altra e, a partire da questo presupposto, finché c’è Stato non c’è libertà. Nella
sua risposta, Bebel si dice d’accordo con Engels in ogni punto, eppure nel suo opuscolo, I nostri
scopi, egli incorre nello stesso errore che Engels ha rimproverato a socialdemocratici sostenendo la
necessità di trasformare lo Stato fondato sulla dominazione di una classe in uno Stato popolare.
Nel quaderno Il marxismo sullo Stato alla ripresa di questa lettera di Engels a Bebel seguiva
l’enucleazione dei punti più significativi della dottrina marxiana sullo Stato (Cfr., nota 48, pp. 132133). Al punto 7 Lenin riprende l’idea engelsiana secondo cui laddove c’è Stato non c’è liberta e
riconosce i pseudomarxisti Kautsky, Plekhanov colpevoli di aver a torto identificato libertà e
democrazia, mentre la dialettica è piuttosto la seguente: dall’assolutismo alla democrazia borghese,
dalla democrazia borghese a quella proletaria; da quella proletaria a nessuna.
La polemica contro gli anarchici sviluppata da Engels si concentra sul tratto genericamente
antiautoritario che caratterizza la loro posizione come rifiuto di ogni forma di potere che come tale
implichi una subordinazione. A conferma, Lenin riprende alcuni passaggi tratti dall’articolo di
Engels, Sull’autorità, laddove è affermato il carattere relativo delle nozioni di autonomia ed
autorità, il senso della cui applicazione varia nelle differenti fasi dello sviluppo sociale. L’analisi di
Lenin non manca quindi di valutare le implicazioni che il rifiuto categorico dell’autorità da parte
degli anarchici ha sulla loro impostazione del problema dell’organizzazione statale. Nel considerare
la posizione socialista, il motivo comune a tutti coloro che aderiscono a questo orientamento è
rintracciato nell’idea che la rivoluzione socialista sia più o meno imminente e che l’esito ultimo cui
essa deve pervenire sia la scomparsa dell’autorità e dello Stato politico. Sulla centralità di questo
passaggio nell’economia della dottrina marxista dello Stato, Lenin insiste riprendendo numerosi
luoghi in cui Marx ed Engels affermano la necessità che al carattere politico delle funzioni
pubbliche subentri quello puramente amministrativo per cui al governo sulle persone si sostituisca
l’amministrazione delle cose e la direzione del processo produttivo. (citazione da Marx, La guerra
civile in Francia, p. 104; Marx, Miseria della filosofia, p. 81; Engels, Antidühring, p. 72).
L’elemento che definisce specificamente la posizione anarchica rispetto alla questione dello Stato è
l’idea che questo debba essere abolito d’un tratto. In polemica con questa posizione Lenin sottolinea
il carattere assolutamente autoritario della rivoluzione; che gli anarchici non rilevino questo dato è
indicativo del carattere non rivoluzionario del loro progetto di abolizione dello Stato.
Nella critica del progetto del programma di Erfurt inviata da Engels a Kautsky il 29 giugno 1891,
l’autore illustra le ragioni della sua polemica contro le concezioni opportunistiche della
socialdemocrazia sullo Stato. Lenin rileva a partire da questo contributo l’attenzione con cui Engels
guarda alle trasformazioni del capitalismo dalla fase libero-concorrenziale a quella monopolistica in
cui erroneamente i socialdemocratici riconoscono un socialismo di Stato. Rispetto alla questione
dello Stato Engels considera prioritaria una riflessione sulla forma repubblicana, sul legame tra
questione nazionale e l’organizzazione dello Stato, sui problemi posti dall’amministrazione
autonoma locale.
La costituzione tedesca altro non è che una copia della costituzione ultrareazionaria del 1850 per cui
il Reichstag appare semplicemente “la foglia di fico dell’assolutismo”; a queste condizioni non ha
alcun fondamento sensato il tentativo di trasformare i mezzi di lavoro in proprietà comune.
Una transizione pacifica al socialismo, così come prospettata dalla socialdemocrazia, è concepibile
solo nelle repubbliche o nei contesti politici in cui è garantito un pieno esercizio della libertà, non in
Germania, dove il governo, a discapito degli altri organismi rappresentativi, è onnipotente.
Dunque, anche la socialdemocrazia è la foglia di fico dell’assolutismo nella misura in cui essa
riconosce la lotta di classe nei limiti dei rapporti borghesi e non estende questo riconoscimento fino
all’accettazione della dittatura del proletariato (Cfr., Lettera di Marx a Weydemeyer del 5 marzo
1852 citata a p. 93). Alla luce di queste considerazioni, Lenin conclude che da parte opportunistica
si sacrifica il futuro del movimento al suo presente.
La repubblica democratica è la forma specifica per la dittatura del proletariato. Questa affermazione
va accolta alla luce di una significativa precisazione contenuta in una lettera di Engels del 6 marzo
1894 in cui l’autore chiarisce che la repubblica non è, nella sua essenza, una forma socialista; come
ogni altra forma di governo, la sua natura è determinata dal contenuto assunto (Cfr., nota 54, p.
140), ma è altrettanto indubbio che essa costituisce la via più breve verso la dittatura del proletariato
perché porta a un livello altissimo la lotta di classe.
La repubblica una e indivisibile rappresenta ciò con cui sostituire l’attuale costituzione monarchica
reazionaria. Dimostrando una certa attenzione per la specificità di ogni situazione storico-politica,
Engels rileva come il modello federale costituisca una necessità per gli Stati Uniti in considerazione
della straordinaria estensione del suo territorio, un progresso in Inghilterra, attualmente organizzata
in 4 realtà nazionali, un regresso in Germania, laddove essa fu concepita come la forma di
transizione verso uno stato unitario per cui, assunti i risultati delle guerre del 1866 e del 1870, la
riproposizione di un modello federale appare assolutamente insensata.
Senza mai prescindere dalla considerazione delle specifiche questioni nazionali, il centralismo
democratico va sostenuto accanto al riconoscimento di una larga autonomia amministrativa locale,
il cui tratto più significativo è la volontà di regioni e comuni di preservare l’unità dello Stato. A tal
fine è essenziale la soppressione del carattere burocratico di un potere che emana dall’alto
(Citazione pp. 143-144). Se lo Stato non nomina più le autorità locali e provinciali, ma esse sono
rappresentate da impiegati eletti con suffragio universale, una repubblica centralizzata sembra
offrire garanzie di libertà maggiori di quelle concesse da una forma federale.
La prefazione alla 3° edizione di La guerra civile in Francia del 18 marzo 1891 costituisce un
riassunto incisivo degli insegnamenti della Comune a distanza di vent’anni.
Dopo ogni rivoluzione il primo provvedimento emanato dalla borghesia al governo stabilisce il
disarmo degli operai il che comporta che ogni rivoluzione vinta agli operai si trasformi in una
disfatta. Lo storico discorso tenuto da Tsereteli l’11 giugno 1917, sancendo il disarmo degli operai
di Pietrogrado, fa di Tsereteli il Cavignac del partito cadetto e mostra storicamente il passaggio dei
socialisti rivoluzionari e menscevichi alla parte borghese contro il proletariato.
Nel capitolo V Lenin discute delle basi economiche dell’estinzione dello Stato.
Solo un confronto superficiale tra il contenuto della lettera di Marx a Bracke del 5 maggio 1875 e
quello della lettera di Engels a Bebel del 28 marzo 1875 può indurre a credere che Marx sia più
statalista di Engels. Laddove il primo fa riferimento al “futuro Stato della società comunista”
intende comunque un’organizzazione statale in via di estinzione. Le differenze tra i giudizi espressi
sulla questione dello Stato sono da ricondurre alla differenza degli argomenti trattati e degli scopi
perseguiti nelle due testimonianze. L’interesse di Marx si concentra sullo sviluppo della società
comunista e la sua teoria consiste in un’applicazione della teoria dell’evoluzione al capitalismo
contemporaneo. La prospettiva d’analisi di Marx è quella di un naturalista che, in un’ottica
evolutiva, verifica come il comunismo si generi dal capitalismo, si sviluppi da questo storicamente
come risultato dell’azione di una forza sociale prodotta al suo interno. Dalla citazione di un
passaggio tratto da Critica al programma di Gotha Lenin riprende la questione del rapporto tra
Stato e società civile in una prospettiva marxista. Assunta come storicamente certa la necessità di
una fase di transizione dal capitalismo al comunismo, è necessario interrogarsi sull’atteggiamento
della dittatura del proletariato nei confronti della democrazia. Lenin richiama a ciò che in più luoghi
aveva già sostenuto in merito all’idea di democrazia come strumento di dominio della classe
borghese (Cfr., Citazione da Engels, La guerra civile in Francia, pp. 151-152; Lenin, p. 155;
Engels, Lettere sul partito operaio francese, nota 54, p. 140).
L’evoluzione dalla forma capitalistica della democrazia “a una democrazia sempre più perfetta”
avviene necessariamente attraverso quella fase di transizione rappresentata dalla dittatura del
proletariato, necessaria a spezzare la resistenza dei capitalisti sfruttatori. La democrazia sempre più
perfetta è quella per l’immensa maggioranza del popolo da cui sono esclusi gli oppressori del
popolo. È evidente che nella fase iniziale immediatamente successiva alla rivoluzione, di fronte alla
minaccia della resistenza borghese si ponga la necessità di uno Stato che, per definizione, implica
l’esercizio della violenza di una classe su un’altra. La differenza sostanziale tra le due forme di
esercizio del potere politico e, dunque, della violenza è posto dalla quantità minore di coloro i quali
sono oggetto dell’oppressione nella fase della dittatura del proletariato (Cfr., pp. 165-166).
Descrivendo la prima fase della società comunista, Lenin riprende la critica marxiana a Lassalle
contenuta ancora nella Critica al programma di Gotha; Marx rifiuta l’idea che all’operaio spetti il
reddito integrale del suo lavoro perché ritiene necessaria l’istituzione di un fondo di riserva che
consenta di provvedere alle spese di amministrazione, alle scuole, agli ospizi….
Inoltre, ancora riprendendo la lettera marxiana, Lenin precisa che la socializzazione della proprietà
dei mezzi di produzione, pur sopprimendo le condizioni di sfruttamento dell’uomo sull’uomo poste
dalla proprietà privata, non è ancora comunismo. Il criterio di distribuzione dei beni di consumo
resta ancora il lavoro, ragion per cui l’angusto orizzonte giuridico borghese sopravvive ancora in
questa fase e configura uno Stato borghese senza borghesia (Cfr., p. 175). “l’uguale diritto di
ciascuno all’uguale prodotto del lavoro” rappresenta il livello solo formale di uguaglianza perché
assegna a persone diseguali, per una quantità di lavoro diseguale una quantità uguale di produzione
sociale.
La fase superiore della società comunista, descritta da Lenin attraverso la ripresa di un passaggio
essenziale della Critica al programma di Gotha (Cfr., pp. 170-171), è inaugurata dalla fine della
divisione del lavoro, a partire dal primo livello del contrasto tra lavoro intellettuale lavoro fisico; il
lavoro non è più criterio di distribuzione dei beni di consumo, ma questa funzione ora spetta al
bisogno, realizzando il passaggio da un livello formale ad uno reale di uguaglianza. Sui tempi che
richiede questa fase di transizione Lenin esprime con Marx ed Engels assoluta incertezza.
Nel capitolo VI Lenin riconosce tipica dell’opportunismo la tendenza ad eludere il problema che
Marx ed Engels avevano tematizzato formulando due interrogativi: 1.Bisogna spezzare la vecchia
macchina dello Stato? 2. Con che cosa sostituirla?
Di quest’orientamento sono una testimonianza alcuni lavori dei teorici marxisti più in vista,
Plekhanov e Kautsky. Del primo Lenin considera un opuscolo dedicato al problema
dell’atteggiamento degli anarchici verso il socialismo, Anarchismo e socialismo del 1894.
Strutturato in due sezioni, di cui la prima è una sorta di storia delle idee di Stirner, Proudhon ecc. e
la seconda una riflessione teorica estremamente grossolana, il lavoro non affronta la questione
dell’atteggiamento della rivoluzione nei confronti dello Stato né tanto meno la questione dello Stato
in generale.
In questa sede, Lenin formalizza le ragioni della polemica di Kautsky con gli opportunisti con
l’obiettivo di dimostrare come le argomentazioni da lui addotte contro questo orientamento siano, al
contrario di quanto lo stesso Kautsky sostenga, una concessione all’opportunismo.
Il primo testo di Kautsky contro gli opportunisti è del 1899, Bernstein e il programma
socialdemocratico; l’obiettivo di questa opera è la denuncia della falsificazione che Bernstein opera
sull’affermazione di Marx, contenuta nella prefazione del 1872 al Manifesto del partito comunista,
secondo la quale «la classe operaia non può impossessarsi puramente e semplicemente di una
macchina statale già pronta e metterla in moto per i suoi propri fini». Invece di recuperare il senso
proprio della tesi esposta da Marx, sottolineando come in questi termini egli formulasse la necessità
di spezzare la macchina statale borghese, Kautsky conclude che secondo Marx la classe operaia non
può impadronirsi puramente e semplicemente della macchina statale già pronta, ma che, in
generale, essa può impadronirsene, e nient’altro. Scrive Kautsky: «possiamo in tutta tranquillità
lasciare all’avvenire la cura di risolvere il problema della dittatura del proletariato» e, in tal modo,
confonde i termini con cui Marx sostiene la necessità di spezzare la macchina statale borghese con
la questione delle forme concrete della demolizione.
In un testo successivo, La rivoluzione sociale, Kautsky ammette la conquista del potere senza la
distruzione della macchina dello Stato. In riferimento alle forme e alle armi della rivoluzione
sociale, senza in alcun modo considerare la riflessione di Marx sulla Comune e la trasformazione
della democrazia borghese in democrazia proletaria, conclude che il proletariato vittorioso
realizzerà il programma democratico.
La ripresa di un passaggio di La rivoluzione sociale consente ulteriormente di verificare la distanza
con l’impostazione marxiana della questione (Cfr., p. 188). Kautsky manca di rilevare la differenza
tra il parlamento nel senso delle istituzioni parlamentari borghesi e gli organi della democrazia
proletaria; inoltre l’apparato di cui parla avrà perso il suo carattere burocratico nel momento in cui
gli operai che lo costituiranno saranno eleggibili, ma anche revocabili, percepiranno un salario da
operaio e assumeranno tutti le funzioni di controllo e sorveglianza, di modo che divenuti tutti
burocrati nessuno lo sarà nella sostanza.
Il terzo lavoro in cui Kautsky sviluppa la sua polemica contro gli opportunisti è La via del potere
nelle cui pagine l’autore riconosce l’acuirsi degli antagonismi di classe e l’ingresso nell’era delle
rivoluzioni, ma ancora una volta omette di considerare la questione dello Stato.
Kautsky polemizza anche con Pannekoek a partire dalla posizione di quest’ultimo sui compiti della
rivoluzione proletaria nei confronti dello Stato, precisando le ragioni dell’opposizione tra
socialdemocratici e anarchici (Cfr., p. 192).
In La via del potere è evidente che il progetto politico di Kautsky non va oltre un certo spostamento
nel rapporto delle forze entro il potere statale, la conquista del potere statale mediante il
conseguimento della maggioranza in Parlamento e della trasformazione del parlamento in padrone
del governo.
LENIN E IL NOVECENTO: UN LABORATORIO TEORICO E POLITICO
DOTT. SALVATORE IODICE
e-mail [email protected]
Althusser che legge Lenin: non c’è pratica scientifica senza una teoria scientifica.
Nel presentare queste due letture di Lenin, Lenin e la filosofia di Louis Althusser e
Trentatre lezioni su Lenin di Antonio Negri, vorrei sviluppare un solo nucleo concettuale, che ci
permetterà di cogliere il diverso taglio ermeneutico dei due testi secondo lo schema: pratica teorica
e pratica politica. L’ambito terminologico nel quale ci muoviamo è quello althusseriano e perciò
ritengo che sia opportuno dare a questi due concetti chiave una definizione preliminare, che
possiamo leggere in Per Marx di Louis Althusser:
«Il problema posto dal mio ultimo lavoro: in che cosa consiste il rovesciamento
della dialettica hegeliana da parte di Marx? oppure: qual è la differenza specifica che
distingue la dialettica marxista dalla dialettica hegeliana?, è un problema teorico.
«Dire che è un problema teorico implica che la sua soluzione teorica deve darci
una conoscenza nuova legata alle altre conoscenze della teoria marxista» (PM, p.143).
«Per pratica intenderemo ogni trasformazione di una determinata materia prima
data in un determinato prodotto, trasformazione effettuata da un determinato lavoro
umano facendo uso di determinati mezzi di produzione. In ogni pratica così concepita,
il momento o (l’elemento) determinante del processo non è né la materia prima né, il
prodotto, ma la pratica in senso stretto: il momento del lavoro di trasformazione, che
mette in opera, in una struttura specifica, uomini, mezzi e una data tecnica di impiego
dei mezzi. Questa definizione generale della pratica include in sé la possibilità della
particolarità: esistono pratiche diverse, realmente distinte, benché appartenenti
organicamente a una stessa totalità complessa». (ibid., p. 145)
«Per teoria intenderemo dunque, sotto questo aspetto, una forma specifica della
pratica appartenente anch’essa all’unità complessa della pratica sociale. La pratica
teorica rientra nella definizione generale della pratica» (ibid., p. 146).
Pratica teorica e pratica politica dovranno essere intesi come i due universi di discorso al
cui interno si sviluppano, rispettivamente, le analisi di Althusser e di Negri; grazie all’uso di queste
categorie sarà possibile cogliere le discordanze tra le due letture di Lenin, ma anche i possibili
punti di convergenza.
Althusser è un filosofo francese, vissuto tra l’inizio degli anni 20 e la fine degli anni 90. La
sua fama intellettuale è legata a due opere principali, che hanno portato un fortissimo contributo, se
non hanno addirittura segnato in maniera decisiva, la critica marxiana del Novecento: Per Marx e
Leggere il capitale. Al di là di una serie di associazioni che si sono fatte tra Althusser e lo
strutturalismo, Althusser e la psicoanalisi, potremmo dire che l’obiettivo principale di questo
filosofo, che proveniva da studi hegeliani, è stato la comprensione di una differenza specifica nella
filosofia di Marx. “Il problema della differenza specifica della filosofia marxista assunse così una
forma tale da chiedersi se esisteva o no, nello sviluppo intellettuale marxiano, una rottura
epistemologica tale che segnasse il sorgere di una nuova concezione della filosofia” (Pour Marx p.
146).
Quando Althusser parla di rottura epistemologica intende dire (cercherò di essere molto
coinciso su questi temi di introduzione generale) che tra il giovane Marx e quello maturo (cioè dalla
Tesi di laurea fino ai Manoscritti del 1844, e dalle Tesi su Feuerbach fino al Capitale) si pone un
momento di rottura: l’abbandono della filosofia hegeliana, che fino a quel momento Marx aveva
ereditato da Feuerbach, per la fondazione di una nuova filosofia. È in questo passaggio che va colta
la differenza specifica della filosofia di Marx rispetto a quella di Hegel. Per Althusser, l’ipotesi del
rovesciamento marxiano della filosofia hegeliana è solo una metafora, un’ipotesi euristica, uno
strumento didattico, che non coglie a pieno il significato di questa operazione intellettuale, che
deve, invece, essere definita come rottura epistemologica. Con questa espressione si intendono una
rottura netta rispetto alla filosofia hegeliana e l’assunzione di una struttura e di una base
epistemologica radicalmente diverse. Da questa premessa derivano tutte le conclusioni che hanno
letteralmente stravolto il marxismo di allora e animato dibattiti talvolta anche violenti. Contro ogni
apparente evidenza e contro dichiarazioni di intenti dello stesso Marx, Althusser afferma che la
dialettica di Marx non è quella di Hegel, in quanto il materialismo non è semplicemente un
idealismo rovesciato; che il soggetto non può essere una categoria conoscitiva (per una pratica
teorica, diverso è il discorso delle altre pratiche); che la storia, cioè il processo dialettico, è un
processo senza soggetto, (ma attenzione, senza soggetto trascendentale!). Il marxismo, in quanto
scienza, deve rinunciare quindi al soggetto e, di conseguenza, a ogni pretesa umanistica.
Queste brevissime enunciazioni, che certo meriterebbero di essere spiegate in maniera
approfondita, lasciano intendere qualcosa di preciso e permettono di rispondere alla domanda “che
cos’ è il marxismo?”, se non con una definizione, quanto meno con l’individuazione di due precisi
ambiti disciplinari: la scienza e la filosofia, giacché il marxismo è entrambe queste cose, cioè, è
rispettivamente, materialismo storico e materialismo dialettico.
Con un colpo d’occhio, divengono immediatamente chiare l’importanza e la centralità, nel
percorso intellettuale altusseriano, di questa comunicazione alla Société Française de Philosophie,
tenuta a febbraio del 1968. Lenin e la filosofia potrebbe essere interpretato come una
comunicazione sul marxismo e sulla filosofia. D’altronde, una delle motivazioni intellettuali che
spinsero Althusser ad essere così pregnante e puntuale in certe definizioni, nonché il punto di
partenza di tutta la sua riflessione (maturata in seguito ai fallimenti politici del partito comunista
francese, in un clima politico internazionale, che vedeva le possibilità rivoluzionarie ridursi sempre
più e che manifestava in tutta evidenza il fallimento dell’esperienza socialista) è data da un’accusa
precisa nei confronti del marxismo di allora: mancanza di teoria, inadeguatezza scientifica dei
sedicenti filosofi marxisti, incapacità di comprendere il senso dell’affermazione di Lenin: non c’è
rivoluzione senza una teoria della rivoluzione.
Una delle ragioni per cui gli intellettuali francesi di allora si rifiutavano di leggere e
comprendere Lenin era proprio il fatto che egli non era un filosofo, bensì un rivoluzionario, e che
quando si pronunciava sulla filosofia non lo faceva da filosofo, ma da militante politico. Negli
scritti di Lenin, infatti, non troviamo una filosofia, ma una teoria della filosofia. Ma una teoria è già
qualcosa di pratico, è una pratica teorica, nella fattispecie, una pratica filosofica: «Ciò che tenterò di
dire potrebbe infatti meritare questo titolo [Lenin sulla filosofia] se come spero, potessi comunicarvi
qualcosa sulla filosofia, qualche elemento rudimentale insomma, per l’idea di una teoria della
filosofia. Teoria, qualcosa che anticipa in un certo modo su una scienza.
«E appunto così vi chiedo di intendere il mio titolo: Lenin e la filosofia. Non la filosofia di
Lenin, bensì Lenin sulla filosofia. Ciò che noi dobbiamo a Lenin, infatti, … è l’averci dato di che
cominciare a poter tenere un certo tipo di discorso, un discorso che anticipa su ciò che sarà forse un
giorno una teoria non filosofica sulla filosofia» (LEF 16).
Ma subito: Lenin è un marxista e la filosofia di cui parla non è certo la Filosofia, una
qualche conoscenza astratta e iperuranica. Egli si esprime direttamente sul marxismo, sulle sue basi
scientifiche o su quelle filosofie che, assumendo posizioni in netto contrasto col materialismo
storico, costituivano un serio ostacolo alla realizzazione della prassi rivoluzionaria; sicché è proprio
negli elementi della sua pratica politica, che Lenin ci dà la possibilità di una critica marxista del
marxismo e quindi la possibilità di riconoscere quella Teoria che Marx non aveva mai scritto, ma
solo applicato. Lenin stesso dice di sé di non essere un filosofo; la sua opera non può essere intesa
come la produzione di una nuova filosofia, ma come la pratica della filosofia e precisamente come
una nuova pratica. Ed è proprio in questa nuova pratica, in netta rottura con una pratica
tradizionale, che Lenin mette in discussione lo statuto generale della disciplina, ne offre una critica
e individua la possibilità di «qualcosa come la premessa e l’embrione di una conoscenza oggettiva
del modo d’essere della filosofia» (LEF 20). Detto in altri termini, Lenin porta a compimento
quell’opera di distruzione della filosofia iniziata da Marx, per la realizzazione di un campo di
conoscenza radicalmente diverso rispetto al precedente.
Più da vicino, il problema sembra strutturarsi in una interrogazione del tipo: «Che cos’è
nella sostanza la teoria marxista? Una scienza o una filosofia? Il marxismo è nella sostanza una
filosofia, «filosofia della prassi» - ma che ne è allora delle pretese scientifiche annunciate da Marx?
Il marxismo è invece nella sostanza una scienza – ma che ne è allora della filosofia, il materialismo
dialettico? O anche, se si accetta la distinzione classica tra materialismo storico (scienza) e
materialismo dialettico (filosofia), come pensare questa distinzione: in termini tradizionali o in
termini nuovi? O anche: quali sono i rapporti tra il materialismo e la dialettica nel materialismo
dialettico? O ancora: che cos’è la dialettica, un semplice metodo o tutta la filosofia? ». (LEF p. 22).
E il modo il cui Lenin sviluppa tali quesiti è del tutto coerente con il senso della famosissima XI tesi
su Feuerbach: “I filosofi fino ad ora hanno variamente interpretato il mondo, si tratta invece di
trasformarlo” e la trasformazione non va nel senso di una diversa filosofia della storia, una diversa
teoria del tutto capace di svelarci quanto le precedenti filosofie non sono state in grado di fare.
Anzi, nota Althusser, quella tesi ha prodotto un vero e proprio vuoto filosofico, perché, come lo
stesso Marx ha detto più tardi, era giunto il momento di chiudere definitivamente con la coscienza
filosofica anteriore. Il vuoto filosofico è stato sostituito da un pieno scientifico: con Le tesi su
Feuerbach e l’Ideologia tedesca Marx annuncia timidamente l’esplorazione scientifica del
continente Storia. Inaugura una nuova scienza, la scienza della storia, inizia una rivoluzione al pari
di tutte le grandi rivoluzioni scientifiche.
In questo contesto, l’interrogazione sul rapporto tra filosofia e scienza nel marxismo assume
dei tratti interessanti, che possono essere illuminati dalla storia di questo rapporto. La scienza, ogni
nuova scienza, ci spiega Althusser, non compare senza sortire effetti decisivi sulla filosofia. La
filosofia vera e propria comincia con Platone, perché per molti versi è proprio da lì, cioè dal
momento della contettualizzazione, che nasce la scienza; subisce una svolta epocale con Cartesio
come risposta a un certo di tipo di scienza; l’opera di trasformazione continua fino ad Husserl, il cui
discorso è tutto condizionato dalle crisi delle scienze europee.
Questa retrospettiva rivela qualcosa che Hegel aveva compreso sin troppo bene: la filosofia
giunge sempre per ultima, a cose fatte. Del pari, bisognava aspettare Lenin perché quella scienza
fosse portata a compimento e perché si facessero, in virtù della sua maturità, delle dichiarazioni
sulla filosofia che non era stato possibile fare precedentemente. Le opere in cui Lenin dà i maggiori
contributi su tale punto sono Sullo sviluppo del capitalismo in Russia e l’Imperialismo. La filosofia
marxista non poteva nascere che più tardi del marxismo stesso; certamente, essa era già all’opera
nel marxismo, ma non in maniera cosciente. Questo ritardo del marxismo su se stesso rivela e
spiega molte cose: rivela perché Marx non abbia mai scritto un filosofia o una dialettica, perché non
lo abbiano fatto Engels, né, più tardi, lo stesso Lenin.
Ma allora, se una filosofia marxista non c’era ancora stata, si comprende la ragione del fatto
per cui lo stesso Lenin si era sì pronunciato sulla filosofia, ma non ne aveva realmente scritta una e
maturiamo uno sguardo prospettico tale da mostrarci che quanto di filosofico vi è in Lenin è detto
da un non-filosofo: «I rapporti tra Lenin e la filosofia si esprimono sì nella filosofia, all’interno del
“gioco” che costituisce la filosofia, ma questi rapporti non sono filosofici, perché questo gioco non
è filosofico» (LEF, p. 32). D’altra parte, spiega Althusser, Lenin si muove in un contesto
terminologico e concettuale della filosofia precritica e molto probabilmente, non solo conosceva
molto poco della filosofia, ma addirittura non aveva mai letto nemmeno una riga di Kant. Ma è
significativo che, pur muovendosi in quel contesto (empirista) egli giunga su posizioni nettamente
antiempiriste.
Che cosa ci insegna innanzitutto Lenin sulla filosofia? Che per un materialista la categoria
più importante è quella di materia e che bisogna operare una distinzione netta tra il concetto
scientifico di materia e la relativa categoria filosofica. Mentre in filosofia, infatti, il concetto di
materia non designa nient’altro che l’oggettività e l’esistenza di un oggetto, nelle scienze esso è
qualcosa di qualitativamente determinato: è ogni volta una precisa materia, che definisce
quell’oggetto e lo distingue dagli altri, identificando i campi di pertinenza della disciplina e il suo
modo di procedere.
Questa Tesi elementare, che prescrive una differenza sostanziale tra la filosofia e la scienza,
ha delle conseguenze importantissime: il concetto di materia delle scienze è storicamente dato, dal
che segue che la storia delle scienze è la storia dell’evoluzione del loro oggetto; la stessa categoria
filosofica ha, invece, un valore assoluto, non storico, e quindi, propriamente parlando, la filosofia
non ha una storia, almeno allo stesso modo delle scienze. Inoltre, quando si parla di crisi delle
scienze, evidentemente, si tratta di pseudocrisi; é più corretto parlare di avanzamento e
trasformazione della conoscenza. L’unica vera crisi delle scienze è allora una crisi filosofica, poiché
è solo la filosofia a dover ripristinare le tesi di oggettività e di esistenza dei nuovi oggetti.
Questo modo di intendere la differenza tra filosofia e scienza, anche se era chiaramente fatta
in termini precritici, aveva come oggetto polemico tutti i vari positivismi che svilivano il marxismo
dell’epoca: l’economicismo, il determinismo, il soggettivismo, l’umanismo ecc., cioè tutte quelle
filosofie che, nella loro pretesa materialistica, definivano come materia ora questa ora quella realtà
positiva e pretendevano dedurre le leggi dello svolgimento interno delle loro discipline,
semplicemente elaborandole come conseguenze di quel fondamento variamente scelto.
Esiste ancora un’altra conseguenza molto importante che deriva da quella distinzione: la tesi
materialistica dell’oggettività costituisce un punto di fusione tra la scienza e la filosofia (Althusser
lo chiama Punto nodale 1). Questa tesi si sviluppa su due versanti. Il primo di essi concerne la
natura della conoscenza scientifica. Si tratta di una serie di riflessioni che Lenin espone non solo in
Materialismo ed Empiriocriticismo, ma anche nei Quaderni sulla dialettica. Nella conoscenza
scientifica, afferma Lenin, è di fondamentale importanza la pratica dell’astrazione scientifica, della
sistematicità concettuale, della funzione della teoria in quanto tale (cfr. LEF, p. 36). (È chiaro che
qui si tratta dell’astrazione determinata, nel senso sviluppato da Marx nell’Introduzione a Per la
critica dell’economia politica del ’57 – e vedremo parlando di Negri quali importanti conseguenze
politiche ha avuto questa assunzione). Althusser spiega questo punto dicendo che così come Lenin
fu un fermo avversatore della spontaneità nella politica – non perché criticasse in assoluto la
spontaneità delle masse, di cui aveva un profondo rispetto, ma perché questa era facilmente
assoggettabile a pratiche ideologiche – altrettanto lo fu per la spontaneità della scienza; allo stesso
modo in cui non c’è una prassi rivoluzionaria senza una teoria rivoluzionaria, non c’è una prassi
scientifica senza una teoria scientifica. Ma questa, precisa Althusser, non significa una caduta
teoricistica, ma, al contrario, una strutturazione scientifica della prassi, nel rispetto della
spontaneità delle pratiche scientifiche.
Su questo tema si sviluppa l’altra conseguenza decisiva, di cui abbiamo avuto modo di
parlare precedentemente, e cioè che la filosofia è strettamente legata alla pratica scientifica e al
cambiamento dei suoi oggetti: la filosofia materialista, si confronta con le pratiche scientifiche
spontanee sulla tesi materialistica dell’esistenza oggettiva. Il più grande contributo alla nascita di
una filosofia materialista non può provenire, quindi, che dal materialismo storico, dalla scienza
della storia. Definire questa scienza e ricostruire una Teoria marxista: questo è il grande compito
che Althusser cerca di realizzare.
Soltanto a questo punto e con queste premesse è possibile, secondo Althusser, enucleare la
tesi più importante di queste considerazioni sulla filosofia, e, per questa enunciazione, giungere alla
definizione di un secondo punto nodale. Tutta la storia della filosofia, dice Lenin, può ridursi ad un
gioco di opposte tendenze tra materialismo e idealismo. Se infatti è vero che esiste una certa
distinzione tra il concetto filosofico e quello scientifico di materia e se è vero che la filosofia ha in
comune con la scienza la tesi materialistica dell’oggettività, bisogna dire che la filosofia,
propriamente parlando, non ha contenuti e che il suo procedere è l’alternarsi e il rifriggersi di due
modi diversi di pensare l’oggettività. Due modi diversi: ma come può esservi una storia di un
qualcosa che si presenta come opposizione di tendenze, tutto sommato sempre uguali? Se la
filosofia non ha un oggetto, nello stesso senso in cui lo hanno le scienze, la filosofia non ha
contenuti. Questa è la conclusione di Lenin: in filosofia non accade nulla, essa non produce
conoscenze nuove. Dal momento che materialismo ed idealismo sono due categorie semplici, di cui
non è possibile dimostrare la validità, appare chiaro che la tendenza delle due concezioni opposte si
rivela un gioco di forza. Il prevalere dell’una sull’altra è il frutto di una lotta reale. La filosofia,
proprio perché non produce conoscenze e per questo non ha una storia in cui accada qualcosa,
appartiene all’universo di discorso che è proprio dell’ideologia. Ma l’ideologia che cos’è, se non
uno strumento della politica, nella misura in cui può essere usata come arma per l’imposizione di un
potere? In ultima istanza, quindi, il gioco di forza che si esercita nella filosofia si rivela un gioco di
forza per il potere ed è quindi, nella sua più intima natura, un gioco politico: «Quello che è in gioco
nella filosofia attraverso le categorie ultime che comandano tutti i sistemi filosofici, è dunque il
significato di questa gerarchia, il significato di questa collocazione di una categoria in posizione
dominante, è insomma, nella filosofia, qualcosa che fa irresistibilmente pensare a una presa di
potere o a una messa al potere. Filosoficamente dobbiamo dire: una messa al potere è senza
oggetto. Una messa al potere è ancora un categoria meramente teorica? Una presa di potere (o una
messa al potere) è politica, essa non ha oggetto, ma ha una posta: il potere appunto e un obiettivo:
gli effetti del potere» (LEF, p. 41).
A questo punto, che ne è del problema dalla cui definizione eravamo partiti? In che rapporto
stanno scienza e filosofia nel Marxismo? Engels si limitava a dire che la filosofia è in certo qual
modo la scienza del pensiero e che quest’ultimo si esprime nella dialettica. Questa tesi, come è stato
mostrato da più lettori, dal momento che assume la tendenza materialistica, e che quindi intende
spiegare la natura in base ai suoi stessi principi, non fa che riportare la filosofia di Marx ad un Kant
meno il soggetto trascendentale: pretende cioè ad un’operazione assurda, che è quella di pensare un
soggetto conoscente, senza il soggetto conoscente. Solo nella misura in cui Lenin, con la radicalità
delle sue tesi, ha potuto svelare l’intima connessione tra filosofia e gioco di potere, come lotta per
l’imposizione di un potere, ci permette di sviluppare nuovamente e in maniera più profonda il
problema che fa l’oggetto di questa analisi.
Dobbiamo guardare, spiega Althusser, alla pratica filosofica di Lenin e cercare di coglierne
il senso. Lenin ne dà una definizione alquanto sommaria – separare le idee vere da quelle false – e
tuttavia adeguata al suo scopo. Infatti, che cosa ha di mira questa operazione se non l’imposizione
di un punto di vista semplice – e in virtù della sua semplicità, giustificabile solo da una presa di
posizione politica? La pratica filosofica di Lenin è quindi un’inserzione nella pratica teorica ed ha
una duplice funzione: da un lato svolge un compito teorico con cui contribuisce alla definizione e
alla formulazione di nuove categorie; dall’altro, essa ha un compito pratico, poiché prescrive le
funzioni e definisce gli ambiti di utilizzabilità di tali categorie. Detto in altri termini, la pratica
filosofica – presa in questa contesa di opposte tendenze – non fa altro che circoscrivere quel vuoto
di oggetto che le è proprio, definendo di volta in volta una linea di demarcazione, identificando le
sue idee e respingendo quelle che non le appartengono, distinguendo, in ultima analisi, ciò che è
scientifico da ciò che non lo è, da ciò che è ideologico. Ma allora, ciascuna pratica definisce vera se
stessa e ideologica quella avversaria. La ragione sta non nella teoria, nelle diverse pratiche teoriche,
ma nella forza di imporre la propria tendenza. Ciò dimostra il rapporto privilegiato della filosofia
marxista con la pratica scientifica: la filosofia marxista si definisce proprio a partire da quella
pratica. «Possiamo generalizzare questa definizione dicendo: ogni filosofia consiste nel tracciato di
una linea di separazione maggiore mediante cui respinge le nozioni ideologiche delle filosofie che
rappresentano la tendenza opposta alla sua; la posta di questo tracciato, e quindi della pratica
filosofica, è la pratica scientifica, la scientificità» (LEF, p. 44).
Si capirà che il confine tra ideologia e filosofia è un confine mobile e che la definizione di
questo limite è quanto realizza la pratica filosofica. Si noti come questo discorso somigli in tutto e
per tutto a un piano strategico di lotta: definizione dei contendenti (materialismo/idealismo),
circoscrizione del campo (filosofia), posta in gioco (il potere). Ma dobbiamo andare oltre. Questo
accostamento, almeno stando a quello che Althusser dice di Lenin, non è arbitrario, né tanto meno
metaforico, nel senso che Lenin lo abbia ereditato dalla sua quotidiana pratica politica. La risposta
di Lenin, lo ripetiamo, non è una risposta filosofica, ma politica, una posizione presa sulla filosofia,
ma dall’esterno della filosofia. La pratica di quest’ultima genera una contesa, non solo verbale o
teorica, ma intimante legata alla contesa politica principale: la lotta di classe. Tutto il pensiero di
Marx (e qui ci avviciniamo già a Negri) non è comprensibile senza l’assunzione di questo dato
politico. Ed è merito di Lenin l’averlo reso manifesto. Che cos’è per Lenin la filosofia? Essa è una
presa di partito, chiaramente, una presa di posizione politica, in questo gioco di opposte tendenze.
Qui si ricollegano i punti fondamentali di questa analisi: Filosofia, Scienza, infine Politica.
La filosofia, potremmo dire, è un modo di continuare la politica, un modo teorico, chiaramente,
poiché sviluppa il prolungamento della politica nella filosofia per mezzo della pratica scientifica.
Comprendiamo l’indispensabile premessa che il marxismo è più che una filosofia; esso esordisce
come una scienza e il suo obiettivo non è quello di introdurre una nuova filosofia (giacché abbiamo
visto che la filosofia non può mai essere nuova) ma una nuova pratica della filosofia. Questa pratica
resta ancora da pensare rispetto ai suoi presupposti teorici. Qui sta, a mio avviso, l’importanza di
Althusser.
Cosa era mancato sino ad allora ad una corretta comprensione del marxismo? Cosa produceva
questa carenza teorica? La risposta è questa: era necessario imparare a vedere che il marxismo
nasce quando Marx in Francia ed Engels in Inghilterra scoprono la lotta di classe e le potenzialità
dello sviluppo del capitalismo, cioè quando affondano la radicalità del politico nel punto di vista
operaio.
Ma con questo già ci stiamo allontanando dall’analisi di Althusser ed entriamo nel vivo del
laboratorio politico che invece sarà oggetto delle analisi di Negri. Ora, è chiaro che queste
considerazioni Althusser abbia potuto svilupparle dalla lettura di un testo più di ogni altro teorico,
Materialismo ed empiriocriticismo, tuttavia, non è possibile affermare una loro estraneità rispetto a
Stato e rivoluzione. Althusser è, detto in altri termini, alla ricerca di quei presupposti teorici
necessari, in quanto parte di una teoria della rivoluzione, ma non teoreticamente chiari. Il suo è
quindi un lavoro scientifico di pratica teorica: produce una conoscenza nuova. Diversamente da
Negri, che invece, si muove già nella politica, e si pronuncia su Lenin, da militante politico.
Negri che legge Lenin: Lenin e noi, nuova tattica e nuova strategia, per una mutata condizione
sociale delle forze e dei rapporti di produzione.
Le analisi di Negri che ci accingiamo a presentare, come quelle di Lenin, si muovono in un
universo di discorso che è difficile definire filosofico, poiché la motivazione che le animò era
profondamente politica e si poneva chiaramente nei termini di una possibile attualità di Lenin.
I due più recenti scritti di Negri sono Impero e Moltitudine (in collaborazione con Michael
Hardt) e l’universo teorico dal quale questi muovono è un post-marxismo, un oltre Marx, che nasce
da Marx stesso. Uno dei testi più importanti, dai quali costoro traggono i loro spunti, è Lineamenti
fondamentali della critica dell’economia politica di Marx e in particolare una sezione di questo
testo, meglio nota col titolo di Frammento sulle macchine o VII Quaderno. Vi si affronta il
problema di una trasformazione interna al capitale e della ristrutturazione delle sue due parti: il
capitale circolante (costituito da quella parte di capitale che è in continua circolazione e che si
scambia immediatamente col lavoro, in primo luogo nella forma del salario) e il capitale fisso (che è
invece quella parte di capitale costituito dagli apparati della produzione sempre più
tecnologicamente perfezionati: le macchine e, in generale, l’impiego tecnologico dei saperi
scientifici).
L’aumento del capitale fisso e l’automazione dei processi di produzione ha fatto sì che la
produzione delle società contemporanee non sia basata più sul lavoro materiale, ma sempre più su
quello immateriale. Il potenziamento del comando del capitale e la sua estensione, al punto che
l’intera società è stata trasformata in un immenso apparato di produzione, ha dislocato il comando
del capitale dai vertici dello stato. La mondializzazione dei mercati o, per dirla con un termine più
contemporaneo, la loro globalizzazione, mette in crisi l’identità degli stati, fonti, fino a un certo
punto, di una produzione giuridica normativa e detentori del processo di controllo (della produzione
e del comando). Lo stato è sostituito da qualcosa che Negri chiama Impero, che non deve essere
confuso con l’Impero dell’imperialismo ottocentesco o con i vecchi imperi del mondo classico.
Impero è piuttosto la forma globale di un nuovo potere politico. In maniera conseguente a queste
trasformazioni, sono cambiati anche i soggetti politici: non più classe borghese contro classe
proletaria, ma moltitudini, che sono inevitabilmente dentro il capitale (visto che il capitale,
nell’attuale società, è tutto), ma contemporaneamente anche fuori.
Ma qual è il centro teorico di tutte queste elaborazioni? Ci avviciniamo così al tema del testo
di cui vorrò parlare. Gli anni 70 furono un periodo di intensa riflessione e attività politica. Furono
anni di lotte, di scioperi violenti, di grandi manifestazioni di piazza. Furono anni in cui l’emergenza
del politico era sentita in maniera forte, al punto che un’altra rivoluzione comunista era
concretamente pensata come possibile. Un’altra rivoluzione: non senza l’esperienza della
precedente Rivoluzione russa, alla quale la maggior parte di quei movimenti si ispirava. Negri
apparteneva in quegli anni ad una corrente politica e di pensiero detta operaismo e che prendeva le
mosse da una lettura immediatamente politica di Marx. Il marxismo, dicevano quegli autori, nasce
quando Marx capisce che quanto fino ad un certo punto aveva chiamato lavoro era qualcosa di
molto concreto, che si specificava come forza-lavoro. Gli operaisti precisavano che dire forzalavoro significa dire classe operaia e che il centro propulsore di tutta la produzione è la classe
operaia, in quanto da un lato contribuisce materialmente a mantenere attivo il processo di
produzione e, dall’altro, con le lotte, in tutte le forme che allora erano praticate, costringe il capitale
a trasformarsi. Con una forte intenzione antieconomicistica e antideterministica, si affermava che il
problema fondamentale da sciogliere era quello della soggettività, precisamente: di una nuova
soggettività politica della società post-moderna. Detto in altri termini, alla classe operaia era
rivendicato un potere politico ed economico insieme. Di conseguenza, assumevano un significato
preminente le domande: Chi è il nuovo soggetto rivoluzionario? Quali strategie di lotta sono ancora
applicabili? È ancora possibile una rivoluzione? E in che termini? Che cosa significa, in questo
contesto, transizione al comunismo?
Questo era esattamente il clima culturale in cui furono tenute queste lezioni, in maniera non
continua, presso l’Istituto di Scienze Politiche dell’Università di Padova, tra gli anni 60 e 70,
raccolte e pubblicate solo tra il 72-73 da alcuni studenti, subito dopo la chiusura dell’istituto e la
condanna a diversi anni di carcere di molti dei suoi collaboratori, con l’accusa di costituire il centro
intellettuale delle Brigate rosse. Come detto, la motivazione che animava una rilettura di Lenin era
posta nei termini di una attualità di Lenin e di una riproponibilità della sua opera rivoluzionaria.
Questo compito si definiva immediatamente come un compito teorico e pratico insieme. Erano
infatti necessarie da un lato, un’analisi rigorosa dell’opera e del pensiero di Lenin, dall’altro, una
comprensione della situazione attuale, nella consapevolezza che parlare di Lenin, precisava Negri,
non poteva significare parlare del leninismo, poiché una siffatta cosa non esiste: «Il leninismo non
c’è: o, meglio, le affermazioni teoriche racchiuse in questa sigla vanno ricondotte alla serie di
comportamenti e di atteggiamenti cui si riferiscono; la loro correttezza va misurata dentro il
rapporto fra l’emergenza di un soggetto storico (il proletariato rivoluzionario) e la serie di problemi
sovversivi che questo soggetto ha di volta in volta dinanzi a sé» (TLL, p.18). Riproporre una lettura
di Lenin significava riproporre il problema dell’attualità, della contemporaneità, dell’emergenza di
un problema politico: la rivoluzione possibile e il soggetto di questa rivoluzione. Lenin è
assimilabile in tutto e per tutto a un laboratorio politico, un luogo di preparazione e di studio per la
politica, per la messa a punto degli strumenti di intervento: la tattica e la strategia; pertanto il primo
nucleo di indagine viene collocato sulla piattaforma costituita dal binomio Teoria del capitale e
Teoria dell’organizzazione.
Negri ritiene che la base teorica (ma come vedremo anche pratica) di tutte le analisi di Lenin
è data dall’assunzione di una categoria marxiana specifica: l’astrazione determinata, di cui
possiamo leggere una “definizione” nel quaderno M dei Lineamenti fondamentali della critica
dell’economia politica. Dopo aver parlato dei diversi modi possibili di procedere dell’economia
politica, cioè la scienza che studia la produzione della ricchezza, Marx si sofferma sulla categoria
del lavoro, così come era analizzata da Adam Smith. Questi aveva sì avuto l’intuizione del fatto che
il lavoro si presentava come lavoro sans phrase, cioè come lavoro astratto, senza nessuna
determinazione particolare, ma non aveva capito che tale categoria era una categoria moderna,
propria soltanto della società borghese e valida solo nel rapporto di capitale. «Così l’astrazione più
semplice che l’economia moderna pone al vertice e che esprime una relazione antichissima e valida
per tutte le forme di società, si presenta tuttavia praticamente vera in questa astrazione solo come
categoria della società moderna…L’esempio del lavoro mostra in modo evidente che anche le
categorie più astratte, sebbene siano valide – proprio a causa della loro natura astratta – per tutte le
epoche, sono tuttavia, in ciò che vi è di determinato in questa astrazione, il prodotto di condizioni
storiche e posseggono la loro piena validità solo per ed entro queste condizioni» (LFCEP, p. 34).
Lenin, per poter procedere all’analisi del capitalismo in Russia, ha quindi bisogno di
determinare l’astrazione di una categoria che esprime i rapporti di classe. Egli parla di formazione
sociale determinata, con cui descrive la composizione della classe, le forze e i rapporti di
produzione. Una siffatta base teorica, sviluppata in diretta continuità con la critica dell’economia
politica ha, dal punto di vista di Negri, un immediato valore politico: «Lo scheletro del Capitale non
è tanto l’analisi critica della teoria economica del capitale; consiste piuttosto nel rapporto sociale
che la teoria scopre, nel rapporto cioè che, nella formazione sociale determinata, si costituisce tra le
forze sociali produttive, quindi nella definizione del tessuto complessivo dialettico dentro il quale il
punto di vista operaio va formandosi» (TLL, p. 27). Con la definizione di questa categoria, infatti,
non è dato spazio ad una revisione della scienza marxista della storia, che è già data come acquisita;
le specificazioni valgono come un aggiornamento dell’oggetto, non come revisione degli strumenti
di indagine. Nella formazione sociale determinata deve essere colto il fatto che la produzione della
ricchezza si basa sulla lotta di classe e che la storia del capitale è storia di lotte di classe. La
produzione stessa non è quindi una categoria solo economica, ma anche, immediatamente politica,
poiché produzione significa scontro violento tra le classi. Se i presupposti scientifici sono dati come
acquisiti, ne segue che il senso del discorso verterà sul modo di intervento della formazione sociale,
cioè del soggetto politico. E poiché i soggetti politici agiscono come classi, è sempre in virtù del
concetto di formazione sociale determinata che Lenin respinge le pratiche rivoluzionarie
spontaneiste a favore di una scienza della rivoluzione, cioè, a favore di un intervento organizzato
della classe. «Il rapporto tra movimento di massa e direzione si pone quindi a partire dalla realtà
determinata dei rapporti rivoluzionari del processo, dalla comprensione complessiva che
l’organizzazione si propone. Il concetto di formazione sociale determinata, in quanto sia la
risultante dei principi dell’astrazione determinata e della tendenza, si fa dialetticamente concetto di
organizzazione, mediando la specificità dei rapporti di forza che copre, in funzione sovversiva e
distruttiva di essi. L’organizzazione costituisce il riflesso di una formazione sociale determinata, in
quanto questa sia percorsa dalla lotta di classe, in quanto il proletariato rivoluzionario sia animato
dalla volontà di sconvolgere ogni rapporto di forza preesistente e di porre in atto il processo della
propria liberazione» (TLL, p. 38).
Noterete subito una diversità di impostazione del percorso: in Althusser aveva come
momenti chiave Filosofia-Scienza-Politica, in Negri Economia-Politica-Rivoluzione e l’essenzialità
di questo diverso taglio interpretativo è posta in rilievo dal fatto che, se per Althusser il problema
era quello di dimostrare che in Lenin la filosofia è una sorta di continuazione della politica per
mezzo della scienza, Negri invece ritiene di dovere insistere sul passaggio adialettico dall’economia
al politico, sulla rottura che questo salto impone, ma anche sulla paradossale continuità di questa
rottura: «La lotta politica non è solo lotta economica: se la lotta politica si mantiene su un livello
fabbrichista, se l’organizzazione spontanea non riesce a trovare al suo interno la capacità di rompere
il processo indefinito della lotta economica e a superarsi nella determinazione di un atto di volontà
soggettiva, costituitasi all’esterno, in termini di totalità – bene, se questo non avviene, il processo
dell’organizzazione non si sposta all’altezza della formazione sociale determinata e della sua
necessità» (TLL, p. 35). Ciò significa che l’opposizione di Lenin alle varie forme dello
spontaneismo non va radicalizzata. Al contrario, ogni opposizione nasce con un carattere di
spontaneità, poiché ogni opposizione è immediatamente una risposta economica. Detto in altri
termini, il rapporto di capitale si basa sullo sfruttamento del lavoro vivo, ma il lavoro vivo è forza
lavoro, cioè classe operaia; questa si oppone al comando del capitale, e lo farà in maniera tale da
riflettere la forma dell’attacco capitalistico a cui risponde. Questo livello delle lotte è ancora
economico, perché ancora interno al processo di produzione capitalistico. È necessario che alla lotta
si aggiunga un sovrappiù, una determinazione politica che proviene dall’esterno del capitale, il che
diviene possibile solo quando il grado delle lotte ha raggiunto la massima intensità. Solo allora, e
cioè, solo quando la classe operaia diviene più forte, è possibile al suo interno un passaggio ad una
fase più elevata, che per il momento limitiamoci a designare come passaggio all’organizzazione,
cioè all’unificazione delle lotte contro le particolarità regionalistiche delle opposizioni spontanee.
Ma allora, anche l’organizzazione è un processo spontaneo, nella misura in cui è un portato del
grado di intensità delle lotte. Spontaneo: questo significa che proviene in maniera dialettica dal
livello economico della lotta.
La comprensione di questo passaggio richiede l’analisi della formazione sociale determinata
di cui parlava Lenin, detto in altri termini della composizione di classe. Ma una definizione di
questo soggetto politico non può essere sviluppata in maniera astratta e teorica. La classe muta col
mutare delle sue azioni e dei suoi scopi: stabilisce alleanze, adotta tattiche nuove, definisce il suo
nemico sul campo. La formazione sociale può essere identificata in maniera pragmatica dagli
obiettivi che essa si pone: i bolscevichi erano coloro che, da un lato, lottavano contro lo
sfruttamento capitalistico del lavoro, dall’altro, si impegnavano per la soluzione di tutte le
contraddizioni e i ritardi storici che affliggevano la Russia del tempo. La loro lotta partiva dalle
fabbriche, che rappresentavano in quel momento la punta dell’avanzamento scientifico, e quando si
parlava di organizzazione era inevitabile che questa acquisisse una connotazione fabbrichista. Fino
a questo punto l’opposizione, restando interna alla fabbrica, è di tipo economico. Il salto al politico
avviene quando l’organizzazione – che è un riflesso della composizione di classe (operai e fabbrica)
– si impone come strumento per strappare al capitale non solo il comando sulla produzione, ma
anche sull’organizzazione, quando cioè la classe è capace di uscire dalla fabbrica e può sferrare il
suo colpo al capitale dall’esterno; detto ancora in altri termini, quando la classe passa dalla classe in
sé alla classe per sé.
Ci avviciniamo quindi alla centralità del politico, che funge da perno in tutta questa lettura
di Lenin. È un’esigenza politica a richiedere una scienza dell’organizzazione che permetta di
individuare il modo dell’attacco rivolto contro il capitale e il punto preciso di intervento. A una
scienza al servizio della politica corrisponde l’esigenza dell’organizzazione e quella impostazione
della rivoluzione che in essa diviene rivoluzione imposta dall’alto. Era necessario che il proletariato
in armi, impossessatosi del controllo della produzione, desse vita e ampia possibilità di sviluppo
alle condizioni di possibilità del comunismo e cioè che favorisse un ammodernamento del paese e
l’accumulazione di quella ricchezza necessaria all’attuazione di una economia comunista. In questo
senso, l’organizzazione è solo in un primo momento una reazione alla condizione esistente, essa
deve diventare, subito dopo, azione. La politica non può essere intesa semplicemente come politica
di difesa, ma deve anche essere capacità di offesa, di sferrare un colpo adeguatamente pensato e
preparato. Se quindi si dà una scienza nella politica, essa deve essere vista tutta al servizio degli
obiettivi della pratica politica per la realizzazione del comunismo. Il punto di arrivo, la meta, agisce
in ogni momento come motivazione psicologica, certo, ma più fondamentalmente, come terreno da
conquistare. Parlare di comunismo non può essere inteso come un’utopia; piuttosto, si tratta di un
fine per il cui raggiungimento sono stati approntati tutta una serie di strumenti che rispondono alla
scelta razionale dei mezzi adeguati a quel fine. Ma la scelta dei mezzi non può essere dettata solo
dalla necessità del momento. È necessario che la soggettività divenga, da momento determinato da
una serie di condizioni naturali, momento determinante. Qui si approfondisce un aspetto della
politica che in Althusser, per esempio, non era presente: «La democrazia borghese – scrive Negri –
non è solo una delle forme nelle quali si sviluppa il dominio di classe: si tratta di sapere chi
comanda la dittatura, chi ha in mano le leve del potere. Si tratta di sapere se chi ha in mano le leve
del potere è il proletariato, o invece, come nel caso tedesco, la borghesia: una borghesia timida,
incapace di un processo rivoluzionario, incapace di corrispondere ai propri stessi interessi, e quindi
portata necessariamente ad allearsi con i ceti reazionari, e a mettere in atto (all’interno della
democrazia borghese stessa) la più feroce repressione nei confronti delle forze reazionarie» (TLL,
p. 79, corsivo mio). In politica è sempre importante il “chi” dell’azione. Se la scienza delle
condizioni, il materialismo storico, ci presenta in un primo momento uno sviluppo necessario delle
cose, e se è sempre con la stessa precisione delle scienze naturali che dalla formazione sociale
determinata evinciamo che l’organizzazione ne è un momento interno costitutivo, il salto politico
permette di rovesciare questo rapporto e di aprire quello spazio necessario alla liberazione di una
nuova soggettività: «A questo punto però si assiste (ed è un tipico passaggio leninista) ad
un’inversione del discorso: vale a dire che il discorso sulla dittatura operaia, dentro le fasi
transitorie, è in realtà introduzione del concetto che l’organizzazione, la forza dell’organizzazione
può modificare la composizione stessa di classe e quindi la situazione sociale determinata. Il
passaggio che fino a questo momento abbiamo descritto in maniera lineare (dalla composizione,
all’organizzazione, alla strategia) viene a questo punto forzosamente risolto e rovesciato. In Lenin
c’è la convinzione che, laddove il proletariato si organizza, esso riesce a produrre un effetto di
potere tale da determinare un’inversione del rapporto tra composizione di classe e organizzazione.
La variabile indipendente non è più perciò la composizione di classe bensì l’organizzazione». (81).
È questa inversione dalla composizione all’organizzazione che permette di comprendere
anche il giudizio altalenante espresso da Lenin sui Soviet. Essi furono visti, nella prima fase del
1905, con massimo sospetto. A partire dal 1917 la diffusione del fenomeno viene salutata con
entusiasmo. «Alla prova di una formidabile capacità di organizzazione che si esprimeva nella
costituzione di un comitato esecutivo con funzione di direzione all’interno del movimento, si
aggiungevano specifiche condizione politiche che configuravano i soviet in modo profondamente
diverso dal 1905… Tali nuove condizioni politiche sono essenzialmente: il carattere politico
senz’altro socialista dell’intero movimento e la particolare qualificazione del suo carattere di
massa… I soviet si definiscono come organi di democrazia radicale, di classe e di massa, il cui
compito – quale che sia l’obiettivo strategico delle forze in esse operanti – è comunque di esprimere
un potenziale politico alternativo rispetto al potere [anch’esso politico] della borghesia» (TLL, p.
129-130).
Ora, l’altalenante giudizio di Lenin sull’utilità del soviet alla rivoluzione, allo stesso modo
dei giudizi pronunciati sullo spontaneismo e del salto adialettico dalla composizione
all’organizzazione, non possono essere letti come cifre di una inconsistenza teorica del politico
Lenin. I giudizi che egli esprimeva erano sempre riferiti ad una situazione concreta ed erano, per
tornare ad usare una terminologia althusseriana, non il prodotto di una pratica teorica e quindi di
una nuova conoscenza scientifica, ma la direttiva della pratica politica adatta a quel momento. E la
pratica politica si identificava in quel momento, nel 1917 e la diffusione dei Soviet, con l’obiettivo
di dare inizio alla rivoluzione. Leggendo le pagine di Stato e rivoluzione sulla fase della transizione
e della graduale estinzione dello stato, Negri spiega che quella teoria dello Stato è tutta presa dentro
la definizione dello sviluppo del capitale ed è elaborata in continuità con la critica dell’economia
politica di Marx. I Soviet non potevano semplicemente (come già diceva Marx nel Manifesto e,
dopo l’esperienza della comune di Parigi, spiegava in maniera più chiara) impadronirsi di una
macchina statale già data per servirsene ai propri fini; era necessario spezzare il vecchio apparato di
Stato. Ma questo significa che il Soviet, nella misura in cui diviene organo dell’organizzazione della
rivoluzione e strumento della transizione, non può limitarsi ad essere un semplice mezzo di
amministrazione. In tal caso, esso cadrebbe nel giogo della democrazia borghese, resterebbe
strumento al servizio del capitale. Era necessario quindi che accadesse quella trasformazione
politica del Soviet per cui questo diventasse non solo organo di controllo, ma anche e soprattutto,
organo di potere. Se restavano quindi valide le riflessioni che Lenin elaborava nel 1905, e cioè il
fatto che i Soviet, in quanto frutto della spontaneità delle masse e in quanto troppo simili ai governi
borghesi della Duma, non potevano esercitare la direzione della rivoluzione, che invece restava
nelle mani del partito, nel 1917 la mutata composizione della classe operaia, nonché l’emergenza
della situazione rivoluzionaria imponevano una svolta. E la svolta, spiega Negri, è tutta intesa nel
senso di quella inversione dialettica dalla composizione all’organizzazione. I Soviet, in quella fase,
costituivano un polo del cosiddetto dualismo di potere, cioè, erano espressione diretta della lotta di
classe. Essi si trovavano ad assumere la direzione del movimento e, da soggetto
dell’organizzazione, acquisivano la straordinaria capacità pratica di imporre una direzione al
processo di sviluppo. Tutto ciò non significa che la posizione di Lenin sui Soviet sia radicalmente
cambiata, al contrario, continua ad essere affermata la necessità di un organo di direzione che è e
resta il partito visto ora all’interno della pratica soviettista: «la strategia bolscevica, che in una
prima fase prevede la dissoluzione del dualismo di potere, si articola su tre linee: rafforzamento ed
estensione del potere dei Soviet, loro conquista al partito, trasformazione socialista dello Stato
attraverso i Soviet» (TLL, p.131). Ma questo, altro non significa, come chiaramente si evince da
Stato e rivoluzione, che la politica entra nei Soviet, ed è per mezzo di questi che si compie l’opera
di estinzione dello stato, senza passare attraverso l’ammodernamento borghese dei processi di
produzione.
È dunque solo nella politica, come universo di discorso a sé stante, come campo anche di
conoscenze, ma di conoscenze pratiche, che è possibile ricostruire la ratio che lega le tendenze
apparentemente opposte di queste analisi. Legittimo interrogarsi sul significato del politico in
Lenin. Politico è in prima battuta qualcosa che risponde ad una esigenza pratica. Qualcosa che
risponde ad una esigenza pratica non è qualcosa di cui si dispone sul momento, è qualcosa che deve
essere prodotto, raggiunto attraverso l’azione. Il politico ha a che fare con un agire la cui
determinazione è data dal modo della contesa. Tutto il discorso sull’organizzazione e sui soviet ha il
senso della preparazione e della strutturazione di un’azione volta alla conquista del potere. Politico
significa contesa del potere, ma potere a sua volta significa esercizio della violenza organizzata.
Secondo Negri questa posizione, che troviamo a chiare lettere in Lenin, è sicuramente in una
relazione di stretta continuità con l’ortodossia marxista, ma vi aggiunge anche qualcosa di nuovo.
Uno è il problema di Lenin: l’attualità della rivoluzione – e si tratta come è chiaro di un problema
politico, il che significa possibilità concreta della fine del capitalismo e sua distruzione violenta. E
questo compito Lenin lo svolgeva attraverso una riduzione della scienza marxista ad alcuni principi
fondamentali: «Scelta del rapporto di forza determinato fra classe operaia e capitale in un certo
momento storico; scelta dell’organizzazione in quanto consapevolezza di questo rapporto e della
serie di nessi e di articolazioni che su questo rapporto si appuntano e che, a partire da questo
rapporto, formano la base del rovesciamento della prassi. Questa scelta del soggetto
dell’organizzazione e del rovesciamento della prassi è un scelta settaria, particolare: è un punto di
vista che non si propone semplicemente di definire il rapporto che si stende di volta in volta fra
classe operaia e forza capitalistica, ma vuole insieme essere la capacità di stravolgere il rapporto su
cui si fonda, di identificare in ogni momento la possibilità di mettere in crisi l’avversario, di
rovinare i suoi strumenti di dominio, possibilità di mettere in movimento la distruzione violenta di
questi meccanismi. La teoria si articola in maniera esattamente precisa con la possibilità di
esercitare la violenza. La violenza è il tessuto sul quale si costruiscono tutti i rapporti politici. Il
dominio dello stato è il dominio della violenza, la legalità, tutte le forme costituzionali, le forme
normali del comando capitalistico sono violenza pura e semplice. Il marxismo è la scoperta che la
violenza vive non semplicemente nei rapporti formali, ma nei rapporti quotidiani di produzione e di
vita, scopre che la scienza del capitale è la scienza della violenza capitalistica, è una delle forme in
cui il capitale organizza la sua violenza sui subordinati: il marxismo – quindi – è distruzione e
rovesciamento. Riportare questo rapporto tra conoscenza e violenza direttamente dentro l’analisi di
classe rappresenta il punto di vista settario, il punto di vista operaio, il punto di vista della teoria
marxista» (TLL, p. 20). Ma in Lenin, è questo l’ulteriore riflessione di Negri, il politico è tutto
schiacciato sulla dualità del potere, sull’opposizione di borghesia e di proletariato, di stato borghese
contro la classe operaia. E per Lenin, come in generale per la maggioranza di coloro che
parteciparono alla II Internazionale, il potere politico era il potere dello stato, identificato, nella
ricostruzione dello sviluppo capitalistico, come il nemico da distruggere.
La lotta politica richiede la conoscenza esatta della situazione e la capacità di sapere
intervenire al momento giusto con i mezzi più adeguati. Ecco perché se Lenin nel ’17 riteneva che
un cambiamento politico decisivo fosse avvenuto all’interno dei soviet, tuttavia, continuava ad
assegnare al partito la direzione della lotta, coerentemente, d’altronde, con una rappresentazione
verticistica del parallelogramma delle forze. Ma ancora, continuava a sostenere la natura politica
del soviet, in quanto strumento della transizione dal socialismo al comunismo e di organizzazione
della produzione, fino alla conclusione del processo di estinzione dello stato e alla soluzione del
conflitto di classe.
In conclusione di questa prima parte dobbiamo allora dire che attualità di Lenin altro non
significava, per il Negri operaista, radicalità del politico e violenza dello scontro. Quando Negri
riflette su Stato e rivoluzione lo legge come un libro dell’inquietudine del marxismo, come cifra di
un pensiero che si sforza di pensare la transizione, come piena attuazione di un metodo marxista,
certo, ma che non è più calibrato dall’astrazione determinata, bensì dal metodo della tendenza. Il
campo di indagine si sposta allora sì al politico, ma con un senso particolare, costituito dal binomio
politica/tendenza, politica/soggetto e che legge la politica come spazio della transizione, id est,
dell’emersione di una nuova forma di potere.
Lenin e noi
Per Negri che legge Lenin il problema della transizione si pone tutto sul terreno della
politica, ma politica, è questo il plusvalore aggiunto a Marx, è liberazione della soggettività. Non a
caso l’obiettivo principale di queste lezioni fu quello di riproporre una attualità di Lenin; “Lenin e la
nostra generazione” è il titolo del primo paragrafo di questo scritto, e non è un caso che Negri
potesse compiere questa operazione proprio a partire dall’essenzialità del politico. La linea seguita
da Lenin, composizione-organizzazione-rivoluzione, si rivelava contenutisticamente inadeguata a
spiegare la situazione presente. Quale insegnamento, se è lecito esprimerci in questo senso, trarre da
quella direzione dell’esperienza rivoluzionaria russa, se non il fatto che i termini in cui essa era
posta mostravano la tendenza irresistibile dell’inversione del rapporto tra composizione e
organizzazione e il fatto che era in quella radicalizzazione soggettiva del politico che era ancora
possibile parlare di Lenin? E inoltre, un altro problema concerneva il metodo di questo recupero.
Risolvere questo nodo ci dà modo di approfondire ulteriormente la distanza di questa lettura
da quella di Althusser. È evidente che una mutata composizione della classe e la relativa necessità
di partire da una nuova base teorica, cioè da una nuova definizione della formazione sociale
determinata, impongono un atteggiamento critico nei confronti di Lenin. Ma ancora una volta: la
forma del problema non è in questo luogo teorica, ma pratica, cioè politica, poiché direttamente
coinvolta in quel gioco di forze ed elaborata da un solo lato: dal punto di vista operaio.
Comprendiamo allora il senso una affermazione: «dato che il soggetto dal quale Lenin e noi
dobbiamo partire è profondamente diverso, che cosa ci interessa oggi del leninismo? E
risponderemo guardando a quel rapporto leninista fra strategia tattica e organizzazione per
verificare dentro una particolare composizione di classe (interpretata da Lenin in modo corretto) le
leggi generali identificate. E sottoporremo queste alla critica pratica. Poiché solo riconoscendo
quali siano i passaggi, i salti, le discontinuità che il pensiero operaio è costretto a riflettere, bene,
solo da questo punto di vista potremmo semmai dirci leninisti e utilizzare i modelli leninisti di
organizzazione. Credo che non ci siano altri tramiti per ricollegarci oggi al pensiero di Lenin»
(TLL, p. 25).
La prima operazione da compiere rispetto a Lenin concerne un problema di definizione; è
necessario capire come è cambiata la composizione di classe. La classe operaia del tempo si trovava
a “conciliare” due diverse tendenze: lo sviluppo industriale della Russia e il relativo sviluppo di
un’economia basata sul capitale, con la conseguente nascita di un vero e proprio proletariato
industriale; la sopravvivenza di forme di produzione e di servaggio che erano estranee ai rapporti di
capitale propriamente detti: in primo luogo i rapporti di tipo feudali. La lotta, la classe subalterna e
la sua capacità di rivalsa, doveva nascere necessariamente dall’alleanza degli operai e dei contadini.
D’altronde, l’industrializzazione della Russia rispondeva a un compito importante su cui ci istruisce
lo stesso Marx: il capitalismo è la forma di produzione più avanzata della storia, e poiché il
comunismo è il momento della ricchezza realizzata, la produzione industriale è necessaria al
comunismo. Con questo è spiegata anche la ragione del fatto che in un primo momento Lenin pensa
la transizione nei termini di un ammodernamento del paese.
Le trasformazioni del capitalismo attuale e la ricomposizione della classe sono oggi sotto gli
occhi di tutti: non solo non esistono più rapporti di tipo feudale, ma nemmeno è immaginabile
qualcosa come un’industrializzazione preliminare per l’accumulo della ricchezza. Ovunque regna
un sistema di produzione capitalistico. Detto con le parole di Marx, se Lenin si pronunciava sulla
composizione della classe da una situazione in cui il capitale sussumeva solo formalmente i rapporti
di produzione, oggi questa sussunzione è diventata reale. Sussunzione reale significa che non esiste
un angolo della terra dove non sia arrivato il capitale e che quindi il suo comando sulla produzione
della ricchezza si è direttamente trasferito dalla fabbrica alla società. A questo punto anche il
socialismo come teoria della transizione sbiadisce, poiché una conseguenza importantissima della
sussunzione reale è data dalla ricomposizione del rapporto tra economico e politico. Se per Lenin la
politica sopraggiungeva solo dopo l’economia e la lotta nasceva nelle fabbriche, contro quelle
forme di produzione, per acquisire poi, in virtù della classe organizzata nel partito, una forma anche
politica, oggi una tale distinzione non è più possibile. La lotta ha immediatamente un carattere
politico poiché è immediatamente anche lotta per il potere: «Nella teoria marxiana del salario il
rapporto fra soddisfacimento dei bisogni e richiesta del potere diventa man mano sempre più
essenziale: è su questo ritmo di sviluppo che si arriva oggi ad una situazione che vede una classe
operaia (per usare i termini profetici dei Grundrisse) ricomposta in termini non solo di prestazione
omogenea di lavoro sociale (di lavoro astratto), ma ricomposta come «individuo storico», base
indispensabile alla produzione di tutta la ricchezza possibile, e in cui il rapporto fra prestazione
lavorativa per la riproduzione dell’esistenza e richiesta di potere viene rovesciato rispetto alla prime
ottocentesche forme di composizione. La prospettiva dei Grundrisse giunge a lambire una
definizione di classe operaia che ormai non soddisfa più bisogni, ma chiede solo potere, in quanto la
sua essenzialità e la sua necessità al processo produttivo agiscono in maniera così radicale che
qualsiasi movimento di classe incide su tutta la struttura di potere, ne fonda e ne mina l’esistenza»
(57). La classe operaia, in lotta contro il capitale, solo in un primo momento chiede un salario più
alto e la riduzione del tempo di lavoro; ma questo chiaramente non può essere l’obiettivo principale,
che è e resta l’emancipazione del lavoro e dal lavoro, cioè dal comando imposto dal capitale sulla
produzione.
Qui si rendono necessarie due considerazioni relative al nuovo soggetto politico e
all’organizzazione possibile della lotta. Per quanto riguarda il soggetto-classe proletaria lo abbiamo
detto: esso non corrisponde più all’operaio di fabbrica, ma dal ’29 in poi fino ad oggi, si è passati da
una fase estrema di astrazione del lavoro, alla formazione di un operaio massa. Sono quindi le
masse, il portato della socializzazione della produzione, ad incarnare la nuova soggettività
rivoluzionaria. Esse, in una certa misura, realizzano quella condizione di omogeneità della classe,
che invece Lenin doveva imporre con il partito. Attualmente quindi, non è pensabile
un’avanguardia esterna alle masse, giacché sono esse, con le loro lotte, ad essere immediatamente
fonte di un potere costituente (cfr. TLL, pp. 90-93). E anche questo nuovo stato di cose si presenta
come una conseguenza diretta della avvenuta sussunzione materiale del lavoro. Nella situazione
della Russia rivoluzionaria, il proletariato aveva la “fortuna” di essere dentro il rapporto di capitale,
nella misura in cui questo cominciava ad affermarsi, ma per la stessa disomogenea composizione
della classe (sussunzione formale, sopravvivenza di altre forme di produzione, altri soggetti) ne era
contemporaneamente fuori; i contadini erano, infatti, in quel momento, il principale alleato degli
operai. Era la possibilità di una linea di demarcazione così netta tra capitale e centro esterno ad esso
a imporre un tipo di organizzazione verticistica: il partito e il soviet da un lato, lo Stato dall’altro.
La figura dell’operaio massa non corrisponde più a quello stato di cose; il potere dello Stato non è
più un vertice che impone il proprio comando alla società, in maniera verticistica. Il potere di
controllo è ramificato dentro la stessa società, in maniera orizzontale, e impone il comando
introiettandolo in tutte le figure consiliari che sono proprie dello stato corporativista (chiaramente in
riferimento alla posizione da cui si esprimeva Negri). Lenin stesso doveva conoscere la possibilità
di una tale evoluzione se vedeva bene che il Soviet era tanto un organo costituzionale, dal momento
che fungeva da strumento di pianificazione della produzione, quanto un organo dell’insurrezione.
Pensato in questi termini, il Soviet oggi appartiene ad una archeologia rivoluzionaria. Tuttavia, è
proprio nella mutata condizione della composizione e nell’inversione del rapporto tra politica ed
economia che una forma soviettizzata delle masse torna ad essere proponibile.
Negri osservava in quegli anni le esperienze autonome di sovversione all’interno delle
fabbriche, quando negli stabilimenti dell’Alfa, della Renault, della Ford, le assemblee spontanee
degli operai sembravano far rivivere lo spettro del Soviet. Soviettizzazione delle masse, in accordo
con un diverso concetto di organizzazione, può significare leggere il Soviet non come organo della
costituzione e dell’insurrezione, ma come organo di potere e di lotta (cfr. TLL, p. 144). Ecco il nodo
del problema: politica ed economia si identificano senza possibilità di scarti e questo significa che
la forma politica del potere si articola in maniera sostanzialmente diversa da come la descriveva
Lenin; se questi ne aveva una rappresentazione verticistica e, per continuare ad usare la metafora
della piramide, immaginava una gerarchia di successioni tra i vari organi del potere (leggi: soggetti
politici), nel momento in cui la società e non la fabbrica è il luogo in cui il potere si diffonde, il
comando si estende su una linea orizzontale: «Oggi, a partire dallo stato pianificato, il potere
piuttosto che un vertice è un pieno, un estendersi uguale e massiccio di comando, non sopra, ma
attraverso tutta la società civile. Le due ipotesi marxiane, quella della maturazione del capitale come
forma esclusiva di organizzazione della società, e quella, convergente, della identificazione
tendenziale del capitale complessivo e dello stato (come organizzazione comando organicamente
fusi) sembrano giunte a maturazione. Ma – qui è importante far uso di tutto il potenziale dialettico
dell’insegnamento marxiano – questo pieno di potere è insieme un pieno di potere capitalistico e un
potenziale pieno di potere operaio: perché l’unificazione capitalistica della società e la sua
organizzazione totalizzante riproducono sul tessuto sociale complessivo l’intera potenza
dell’antagonismo di classe, essenziale alla definizione del capitale» (TLL, p. 146). In maniera
conseguente al dislocamento della produzione dalla fabbrica alla società e alla constatazione del
fatto che la produzione capitalistica si fonda su un rapporto di produzione che è anche un rapporto
politico, dobbiamo evincere che anche la lotta subisce un dislocamento fondamentale.
L’opposizione resta sì una forma della lotta tra le classi, ma non si espleta più in una maniera
puntuale, bensì in maniera ramificata e diffusa a tutta la società. Il pieno di potere del capitale
corrisponde sì ad un pieno di potere operaio, ma si badi bene, soltanto possibile, poiché il potere,
per essere esercitato, deve anche essere conquistato. Ma sarebbe proprio in questa situazione che
una conquista del potere da parte del proletariato dovrebbe corrispondere ad una cessazione
immediata della produzione basata sul capitale. Detto in altri termini, il capitale si trova realmente a
vivere nella fase più avanzata e ultima del suo sviluppo, tanto da dare alla possibile contesa che esso
provoca un significato decisivo. Se giunti questo punto dell’analisi ci chiediamo perché l’attuale
sistema di produzione sarebbe giunto in una impasse, dobbiamo rispondere perché la classe operaia,
cioè le masse, è divenuta tanto generale da costituire non solo la maggioranza semplicemente
numerica, ma la maggioranza politica, la parte più forte: è in questo senso che è possibile far
rivivere un soviettismo delle masse.
Come intervengono le masse nella lotta contro il capitale? Questa si presenta ora come
questione determinante. Rispetto all’impianto del leninismo, bisogna subito notare la difficoltà di
pensare una strategia delle masse organizzata nel partito, a meno che non si accetti l’unica efficacia
che il sistema partitocratrico può garantire, cioè il riformismo borghese. È chiaro che paralare di
una strategia delle masse implichi necessariamente porre il problema non solo della transizione, ma
ora più che mai, dei contenuti specifici del comunismo, poiché, rispetto alla costituzione del politico
e alla sua radicalizzazione nella prassi sociale, non sembra più possibile parlarne se non in termini
politici. Era la rappresentazione che Lenin (e Marx) avevano del potere – cioè quello di un assoluto
naturale, riconducibile alle teorie borghesi delle contrapposizioni amico/nemico – a permettere di
immaginare la fine della lotta di classe con la semplice scomparsa di uno dei due poli.
Diversamente stanno le cose quando il comando è ramificato e quando lo stesso soggetto
antagonista non si presenta più come classe, ma come massa soviettizzata. Può essere ancora
possibile concepire la rivoluzione come un attacco puntuale e preciso contro il capitale, una volta
che sono realizzate tutte queste premesse? (cfr. TLL, pp. 152-153).
Negri riteneva che, date quelle condizioni, l’unico atto di cui le masse sovietizzate potessero
essere capaci fosse quello della guerra civile permanente, il che resta sicuramente la conseguenza
più coerente rispetto alla composizione della classe, ma pone in gioco la riscrittura di una nuova
Critica al programma di Gotha, poiché tende inevitabilmente ad identificare comunismo e
transizione nel denominatore della politica.
Credo che a questo punto sia possibile leggere e cogliere pienamente il senso di una attualità
politica di Lenin: «Non possiamo immaginare un’ortodossia marxista che non sia questo: la
capacità di cogliere il processo rivoluzionario e le leggi materiali del suo sviluppo a partire dal
movimento, a partire dalla lotta, a partire immediatamente dall’organizzazione del rifiuto, dell’odio,
della negazione dell’esistente…di qui viene la determinazione specifica del soggetto proletario; ed è
solo a partire da questo soggetto che ogni proposta teorica può cominciare a valere, nella misura in
cui è traducibile in proposta pratica, giocata, vinta o sconfitta all’interno delle lotte determinate di
classe». (TLL, p. 58) «Credo che l’accettazione di questi presupposti costituisca il momento
fondamentale per quanto riguarda questo aspetto del problema in riferimento alla lettura di Lenin;
non di distinguere metodo da sostanza, dunque, si tratta; bensì, al contrario, di assumere fin
dall’inizio la stessa intensità del punto di vista pratico che fu proprio di Marx e di Lenin, di rendere
– fin da principio – la scienza espressione del soggetto operaio. E se poi ci sarà chi ci accusa di
idealismo, ecc., ecc., gli ricorderemo che il soggetto è definito dalla sua composizione materiale:
materialità di lotte, di salario, di collocazione istituzionale. Siamo fieri del nostro materialismo
dinanzi a tutte le vecchie posizioni che non sanno elogiare il leninismo se non in esaltati termini di
coscienza di classe. E siamo anche fieri del nostro materialismo rispetto alle più recenti apologie
strutturaliste di Lenin, che separano il momento analitico da quello soggettivo, la scienza dalla
materialità agente della lotta di classe» (TLL, p. 59).
ABBREVIAZIONI
LEF = Lenin e la filosofia
TLL = Trentatre lezioni su Lenin