"Attività fisica e prevenzione osteoarticolare"

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Attività fisica e prevenzione osteoarticolare
Alessandro Ronchi
Introduzione
“Se
fossimo in grado di fornire a ciascuno la giusta dose di nutrimento ed esercizio fisico, ne’ in eccesso ne’ in difetto, avremmo trovato la strada per la salute”
(Ippocrate, 460-377 a.C).
Gli effetti benefici del connubio tra alimentazione ed esercizio fisico, come si evince
dalle parole del grande Ippocrate, sono note da tempi immemorabili.
Non c’e’ dubbio infatti che l’attività’ fisica, soprattutto se esercitata in maniera uniforme e costante nel tempo, influisca positivamente su tutta una serie di parametri fisiologici che costituiscono una forma di prevenzione di numerose patologie.
Tuttavia, l’esercizio fisico, lo sport e soprattutto l’attività agonistica non sono scevri da
effetti collaterali che vanno tenuti in debita considerazione ed eventualmente “vigilati” e
prevenuti.
Appartiene all’epoca moderna la consapevolezza scientifica che tale attività, se praticata
in modo regolare, non solo favorisce la migliore funzionalità degli apparati del nostro
corpo ma incide in modo significativo sulla qualità della vita, sullo stato di salute e sul
benessere globale della persona, anche nella sua dimensione psicologica.
La sedentarietà è considerata, in relazione ai risultati di studi e ricerche pubblicate a livello internazionale, come un rilevante fattore di rischio per l’insorgenza di patologie
importanti e per la conseguente incidenza sui livelli di mortalità della popolazione adulta.
L’attività fisica è uno dei cardini fondamentali per garantire uno stile di vita sano e il
benessere.
Studi epidemiologici, infatti, hanno dimostrato che un buon livello di attività fisica, personalizzato in base ai singoli soggetti, è correlato ad una maggiore aspettativa di vita.
Per attività fisica non si deve intendere necessariamente la pratica di uno sport o
l’effettuazione di faticosi allenamenti ma un’attività moderata, alla portata di tutti, purché costantemente ripetuta nel tempo.
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Benefici dell’Attività fisica
Gli effetti dell’attività fisica sull’organismo umano sono in relazione alla risposta funzionale immediata e all’adattamento nel tempo in rapporto all’intensità e alla ripetizione
dello stimolo. Entrambe sono in relazione al tipo di stimolo e all’impegno dell’apparato
neuromuscolare, cardiocircolatorio e metabolico.
L’attività di tipo aerobico comporta l’intervento progressivo dell’apparato respiratorio
e cardiocircolatorio.
L’adattamento a lungo termine si evidenzia fondamentalmente nell’aumento del massimo consumo di ossigeno, espressione dell’efficienza fisica globale di un soggetto. Tale
aumento avviene a qualsiasi età, ma, quantitativamente, varia in funzione delle caratteristiche genetiche dei soggetti, della situazione di sedentarietà iniziale e del tipo di allenamento intrapreso.
Oltre alle variazioni sulla funzionalità respiratoria vi sono gli adattamenti cardiocircolatori. I più evidenti sono gli aspetti funzionali che determinano la riduzione della frequenza cardiaca sia a riposo che per un determinato carico di lavoro: ciò significa un
aumento della gittata sistolica e, considerando che la frequenza cardiaca massima non
varia, un aumento della portata cardiaca massima.
L’incremento della gittata sistolica è determinato dalla crescita delle dimensioni cardiache ma soprattutto da effetti riflessi dei muscoli allenati con un aumento del volume tele
diastolico e riduzione del volume tele sistolico.
L’incremento delle prestazioni è superiore all’eventuale ingrandimento delle dimensioni
del cuore , il che significa un aumento delle capacità contrattili.
Il maggiore flusso ematico si traduce soprattutto in un aumento del flusso a livello muscolare in rapporto all’aumento del letto vascolare per aumento delle dimensioni dei vasi e del numero di capillari pervi.
La capillarizzazione muscolare è uno degli effetti principali dell’allenamento aerobico.
La modificazione acuta connessa all’esercizio è rappresentata dall’incremento del flusso
ematico muscolare 50-100 volte il valore di riposo. In fase immediatamente iniziale è la
pompa muscolare, individuata nei muscoli che si contraggono e si rilasciano, a incrementare il flusso ematico. Con il prosieguo dell’esercizio sono i metaboliti con effetto
vasodilatatore liberati nel fluido interstiziale ad agire sulle arteriole terminali.
Queste sostanze vasoattive sono costituite da ioni potassio, da adenosina e da ossido di
azoto (NO). Quest’ultimo è liberato dai muscoli attivi e trasportato legato
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all’emoglobina. La vasodilatazione sembra iniziare dai microvasi e si trasmette progressivamente ai vasi prossimali di dimensioni maggiori.
L’aumento del flusso determina uno stress sulla parete dei vasi che stimola la produzione di NO e induce un’ulteriore vasodilatazione.
In caso di alterazione della funzionalità endoteliale la produzione di NO si riduce.
L’esercizio fisico, tramite lo stress sulle pareti dei vasi determinato dal flusso laminare,
concorre a ridurre o normalizzare la disfunzione endoteliale responsabile dei fenomeni
di aterosclerosi.
Nel contempo l’allenamento produce un aumento delle capacità ossidative per crescita
del numero di mitocondri e degli enzimi del metabolismo aerobico associato a modificazioni della mobilizzazione, immagazzinamento e trasporto di carboidrati, lipidi e proteine.
L’allenamento con carichi superiori al 30% della forza volontaria massima di un muscolo determina invece un incremento della forza e della massa muscolare per ipertrofia
delle fibre senza adattamenti significativi dell’apparato cardiocircolatorio. La crescita
della forza è, di solito, più marcata dell’aumento di massa perché migliorano le capacità
di reclutamento delle unità motorie e quindi le capacità di coordinazione neuromuscolare.
Questa migliore capacità di muoversi può essere importante in ogni fase della vita in
particolare negli anziani e nelle patologie disabilitanti.
L’esercizio di tipo anaerobico non necessita di un intervento diretto del sistema cardiocircolatorio ma non può prescindere da esso e, determinando un aumento delle resistenze periferiche per l’elevata tensione muscolare, richiede un brusco e intenso incremento dell’attività cardiaca.
Il metabolismo da esercizio fisico comporta l’intervento del sistema ormonale ai fini di
regolare l’afflusso ai muscoli delle sorgenti energetiche più importanti come il glucosio
e gli acidi grassi liberi.
Si avrà, quindi, una risposta immediata ma anche un adattamento cronico. Gli ormoni
più importanti da questo punto di vista sono l’insulina e gli ormoni della contro regolazione: glucagone, catecolamine e cortisolo.
L’aspetto più interessante è che l’esercizio fisico aumenta la sensibilità dei recettori periferici dell’insulina diminuendone la secrezione a parità di stimolo. Questa maggiore
sensibilità all’insulina è, però, di breve durata: una settimana di mancanza di attività fisica riporta la sensibilità a livello di quella dei soggetti non allenati. La risposta pancreatica a uno stesso valore di glicemia rimane invece ancora ridotta negli allenati per un periodo più lungo di tempo.
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Livelli più bassi di insulina facilitano poi la mobilizzazione dei grassi di deposito.
L’allenamento fisico aumenta la capacità di idrolizzare i trigliceridi e il rilascio di acidi
grassi dal tessuto adiposo ma soprattutto incrementa la capacità del muscolo di rimuovere acidi grassi dal circolo ematico e di utilizzarli come sorgente di energia potenziando la beta-ossidazione.
Una conseguenza di ciò può essere la riduzione dei trigliceridi ematici, la riduzione del
colesterolo LDL, l’aumento del colesterolo HDL con valori invariati del colesterolo totale, nei soggetti allenati rispetto ai sedentari, già a partire dall’età giovanile.
L’utilizzazione di grassi, insieme all’aumento del dispendio energetico, favorisce il controllo del peso corporeo, stante l’apporto calorico oculato, poiché il peso corporeo è il
risultato di un bilancio energetico. L’esercizio fisico determina la secrezione di catecolamine che aumentano con l’intensità dell’esercizio e si riducono con la durata.
L’allenamento tende a ridurre la liberazione di catecolamine a parità di intensità di esercizio. Le catecolamine stimolano la lipolisi e l’aumento degli acidi grassi liberi nel sangue. Quando questo incremento non avviene grazie a uno stimolo indotto dall’esercizio
fisico ma a causa di una situazione di stress può avere effetti metabolici negativi per
mancata utilizzazione energetica degli acidi grassi liberi.
L’aumento delle catecolamine può, inoltre, avere un effetto aritmogeno a livello miocardico. Lo stress da competizione può accentuare i valori di catecolamine circolanti e
dei loro effetti negativi.
Il movimento e la contrazione muscolare hanno importanti effetti su tessuto connettivo,
ossa, cartilagine, tendini e legamenti. Le forze applicate e la liberazione di ormoni anabolizzanti come testosterone e GH, durante e dopo un esercizio intenso, determinano
una crescita del tessuto connettivo nei tendini, nei legamenti e nelle fasce.
Si verificano vari adattamenti che vanno dall’aumento del diametro delle fibre di collagene all’aumento del numero delle fibre e della densità dei fasci di fibre. In particolare è
stato osservato l’incremento della resistenza della giunzione fra il tendine e la superficie
ossea.
Quando l’esercizio è di entità moderata si osserva soltanto un aumento del metabolismo
del collagene sufficiente a sostituire le fibrille danneggiate senza un incremento netto
della quantità di collagene. La risposta della cartilagine articolare all’esercizio è meno
chiara. Il fatto che la cartilagine riceva il suo supporto nutritivo dal liquido sinoviale lega strettamente la salute dell’articolazione al movimento.
Negli animali è stato osservato che l’esercizio su ergometro trasportatore aumenta lo
spessore della cartilagine e il numero di cellule. Inoltre è evidente, nell’articolazione del
ginocchio, che le aree sottoposte al carico del peso corporeo presentano uno spessore
maggiore delle altre zone.
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Il carico e la forza muscolare determinano un aumento e decremento del tessuto osseo.
Esiste una correlazione positiva fra la forza muscolare e la densità minerale delle ossa
su cui i muscoli si inseriscono.
Le attività che comportano un aumento della massa e della forza determinano uno stimolo di crescita sul tessuto osseo nel senso di un aumento della quantità di minerali depositati nella matrice di collagene.
Questa azione è specifica nel senso che le ossa interessate sono quelle specificamente
stimolate dalla contrazione muscolare. Esiste un carico minimo essenziale per determinare la formazione di nuovo osso al di sotto del quale non vi sono modificazioni. È ipotizzabile che un carico sotto soglia ripetuto troppo a lungo, nel tempo, possa determinare frattura da stress. L’efficacia del carico dipende dal suo valore assoluto, dalla velocità
di applicazione, dalla direzione della forza e dal numero di ripetizioni. Per quanto riguarda il numero di ripetizioni, esse sono direttamente proporzionali al risultato di aumento della massa ossea solo sino a un valore limite di 30-35 ripetizioni, oltre il quale
diventano ulteriormente inefficaci.
Infine è necessario ricordare gli effetti positivi dell’esercizio sul sistema nervoso centrale (SNC) e quindi sulla condizione psichica del soggetto con miglioramento dell’umore,
della sensazione di benessere, con miglior controllo dell’ansia e della depressione e miglioramento della risposta allo stress. Gli effetti fisiologici sul SNC che potrebbero indurre queste variazioni consistono nell’aumento di flusso ematico cerebrale, rilascio di
endorfine, variazioni dei neurotrasmettitori monoaminici, aumento temporaneo della
temperatura corporea.
Queste teorie biologiche non sono accettate unanimemente; alcuni ritengono che vi siano aspetti psicosociali altrettanto importanti come ad esempio evadere dallo stress della
vita quotidiana; avere un miglior controllo dell’ambiente attraverso l’aumento della forza, della resistenza e dell’abilità motoria; ottenere una maggiore autostima e avere una
maggiore interazione sociale.
L’integrazione di tutti questi elementi finisce, in ogni caso, per fornire risultati interessanti tanto da determinare effetti terapeutici positivi anche nel trattamento della depressione maggiore.
Attività Fisica come mezzo di prevenzione
Il vero segreto di un ottima salute risiede nella prevenzione cioè nell’insieme delle azioni rivolte al mantenimento o al miglioramento dello stato di salute e ad anticipare
l’insorgere di un determinato tipo di patologia, curarne gli effetti o limitarne i danni.
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In campo sanitario si distinguono tre tipi di livelli di prevenzione: primaria , secondaria
e terziaria.
La prevenzione primaria mira, per evitare che la malattia insorga, ad incrementare le difese dell’organismo eliminando i fattori casuali delle malattie attraverso la selezione
delle cause e il trattamento degli stati di rischio.
La prevenzione secondaria riguarda, invece, individui clinicamente sani che presentano
un danno biologico già in atto, e si prefigge lo scopo di guarire la lesione prima che la
malattia si manifesti clinicamente.
La prevenzione terziaria si identifica con la riabilitazione e la prevenzione delle recidive
e si pone come fine ultimo il miglior reinserimento del soggetto.
L’attività fisica può rivelarsi un ottimo sistema di prevenzione a tutti i livelli e innescare
una serie di modifiche strutturali tali da assicurare la salute e la longevità anche per
quanto riguarda il sistema osteoarticolare. La letteratura scientifica e la ricerca possono
testimoniare come un allenamento personalizzato possa prevenire e migliorare patologie
osteoarticolari. Bisogna, però, fare sempre più chiarezza sulle tecniche e sulle modalità
di allenamento eseguite sotto la supervisione di personale medico .
La stessa Organizzazione Mondiale della Sanità ha indicato nella costante attività
fisica un mezzo ottimale per la prevenzione di malattie degenerative e la cura di altre su
base metabolica. Accenneremo alle più comuni malattie osteoarticolari, a tutti note
non per la loro pericolosità, ma per i grossi limiti che esse impongono alla vita quotidiana di chi ne soffre: artrosi, artrite ed osteoporosi.
Per Osteoporosi si intende una condizione in cui lo scheletro è soggetto a perdita di
massa ossea e resistenza causata da fattori nutrizionali, metabolici o patologici. Lo scheletro è quindi soggetto ad un maggiore rischio di fratture patologiche in seguito alla diminuzione di massa e alle modificazioni della microarchitettura delle ossa.
Scopo dell’attività motoria in soggetti affetti da osteoporosi
Creare una stimolazione meccanica dinamica sufficiente ad ottenere un miglioramento
della mineralizzazione ossea.
La letteratura più recente riconosce come miglior stimolo possibile la forza muscolare
trasmessa tramite i tendini al tessuto osseo durante la contrazione (sono adatti esercizi
isotonici a carico naturale o con pesi leggeri e a resistenza elastica).
Per pianificare l’attività motoria, in modo da mantenere l’osso “in salute”, occorre prima di tutto rispettare cinque principi:
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1) Specificità: L’adattamento osseo alle sollecitazioni meccaniche è principalmente locale, per cui, è opportuno allenare specificatamente le regioni scheletriche da rinforzare. L’attività è efficace sulla deposizione di matrice ossea in
relazione al punto di inserzione del muscolo che sta lavorando. Nello specifico:
rinforzare il femore nella porzione prossimale ed eseguire esercizi che coinvolgano l’anca (pressa, squat, step, cammino); rinforzare le vertebre lombari ed
eseguire esercizi di estensione del rachide; rinforzare il polso ed eseguire esercizi con gli arti superiori. Rinforzare l’anca ed eseguire esercizi che coinvolgano i glutei per il grande trocantere; esercizi che coinvolgano l’ileopsoas per
piccolo trocantere; esercizi che coinvolgano adduttori ed estensori dell’anca
per triangolo di Ward del collo femorale.
2) Sovraccarico: Gli effetti positivi sulla matrice ossea si vedono se viene aumentato progressivamente il carico meccanico che deve essere comunque superiore
ad una soglia minima efficace. Bisogna, comunque, considerare che un eccesso
di sollecitazioni produce un osso con minore resistenza biomeccanica.
3) Valori di partenza: Il maggior sviluppo di massa ossea si nota in soggetti che
partono da una massa ossea minore.
Va tenuto presente che il tessuto osseo si adatta alle variazioni delle sollecitazioni in modo diverso a seconda dell’età. L’esercizio fisico è più osteogenico
(stimola di più il rinforzamento osseo) durante la crescita rispetto all’età matura. Di conseguenza gli esercizi in età pre-adolescenziale possono ridurre il rischio di frattura nella senescenza.
4) Riduzione degli effetti positivi: Con l’avvicinarsi del raggiungimento della
massima densità ossea si rendono necessari maggiori sforzi fisici per poterla
incrementare ulteriormente.
5) Reversibilità: L’effetto osteogenico positivo legato all’attività fisica si estingue se l’attività fisica viene sospesa.
Obiettivi primari dell’attività fisica per la prevenzione dell’osteoporosi
• Incremento della massa ossea
• Stimolazione meccanica dinamica
• Utilizzo di carichi distrettuali
• Miglioramento della capacità aerobica
• Irrobustimento muscolare
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• Utilizzo della forza di gravità
Obiettivi secondari dell’attività fisica per la prevenzione dell’osteoporosi
• Prevenzione delle fratture
• Miglioramento dell’equilibrio
• Miglioramento della coordinazione
• Incremento del trofismo dei tessuti molli (riduzione dell’effetto traumatico
sull’osso)
• Educazione posturale ed ergonomia
Si possono considerare sette diversi principi che regolano l’attività motoria affinché
questa abbia effetti benefici sull’apparato scheletrico:
1° Principio: Affinché l’osso possa avere una risposta adattativa positiva richiede
stimolazioni meccaniche dinamiche anziché statiche. L’attività dinamica oltre a
produrre stress osteogenici intermittenti sull’osso, aumenta la secrezione ritmica di ormoni anabolici che favoriscono la risposta adattativa dell’osso stesso.
2° Principio: Affinché l’osso possa avere una risposta adattativa positiva è richiesto un esercizio che abbia un’intensità superiore alle normali sollecitazioni. La
stimolazione meccanica deve superare una certa forza di tensione, geneticamente predeterminata, per divenire osteogenica.
3° Principio: La risposta osteo genica (mineralizzazione ossea) è proporzionale alla frequenza dello stimolo meccanico. La soglia di stimolazione per il mantenimento della struttura ossea è il prodotto tra la frequenza dell’esercizio e la
sua intensità. L’osso viene “mantenuto” sia con stimolazioni meccaniche meno
frequenti ad alta intensità che con stimolazioni più frequenti ad una minore intensità.
4° Principio: La risposta adattiva dell’osso è maggiore se si propongono 2 sessioni
di esercizio brevi intervallate nell’arco della giornata. Infatti l’osso richiede un
minimo di 6-8 ore di riposo per rispondere in modo ottimale ad un carico dinamico che superi la soglia.
5° Principio: La risposta adattiva dell’osso richiede una particolare modalità di carico; le forze che lo colpiscono devono variare in orientamento ed intensità rispetto a quelle che normalmente agiscono sull’osso.
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6° Principio: La risposta adattiva dell’osso richiede un’abbondante disponibilità di
nutrienti energetici. Una disponibilità inadeguata comporterebbe effetti negativi sugli ormoni con azione anabolica sull’osso.
7° Principio: Affinché l’osso possa avere una risposta adattiva positiva
all’esercizio, necessita di un’abbondante disponibilità di calcio e colecalciferolo. Questo principio è particolarmente importante prima della pubertà e dopo la
menopausa.
L’attività fisica e soprattutto il carico che l’esercizio impone ha un forte impatto sul trofismo dell’osso e su tutto l’apparato articolare. Il tessuto osseo reagisce a fattori quantitativi come massa, densità minerale, volume e a fattori qualitativi quali la particolare
struttura dell’osso, la macro e microarchitettura, il turnover osseo e il suo metabolismo
dal momento che è un tessuto dinamico e non statico e vi sono particolari cellule che
mantengono un continuo ricambio. L’osso è una complessa struttura di tessuto connettivo denso, mineralizzato, provvisto di dotti sanguigni, linfatici e nervosi per
l’approvvigionamento, lo smaltimento e l’informatica delle cellule ossee. Queste cellule
(osteoblasti, osteociti e osteoclasti) permettono il continuo processo di rigenerazione ossea.
La crescita della massa ossea sino al raggiungimento del cosiddetto “picco di massa
ossea”, ossia del patrimonio individuale di contenuto minerale osseo, è un processo naturale che raggiunge l’acme attorno ai 30-35 anni di età.
I fattori genetici condizionano per circa il 70-80% il raggiungimento e mantenimento
del picco di massa ossea; per il resto rivestono notevole importanza altri fattori legati
allo stile di vita come un’alimentazione ricca di calcio ed una costante attività fisica.
Quest’ultima, in particolare, costituisce un fattore determinante nel promuovere l’entità
del picco di massa ossea ed anche nel rallentare la perdita che si verifica dopo la menopausa.
Numerosi studi hanno dimostrato rapporti, statisticamente significativi, tra l’attività fisica ed un ridotto rischio di fratture da osteoporosi. Tale attività risulta essere determinante in età giovanile cioè nel periodo in cui il tessuto osseo risponde attivamente alle sollecitazioni ed è in grado di determinare un incremento della densità minerale ossea
(BMD).
Tra le varie attività sportive un’attività motoria come la pesistica, condotta in condizioni
di carico gravitazionale, determina maggiori benefici del nuoto che, proprio a causa del
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minor carico rappresentato dalla forza di gravità che lo caratterizza, comporta benefici
minori a livello della BMD anche se svolto con grande intensità.
La risposta dello scheletro all’esercizio fisico è maggiore in quel distretto in cui è massimo lo stress meccanico (braccio dominante del tennista 30% di massa ossea in più rispetto all’arto contro laterale).
Un altro fattore che agisce favorevolmente sulla densità ossea è la iterazione
dell’esercizio. Ogni attività fisica, che determina “stress meccanici” ripetitivi su una determinata parte dello scheletro, tende ad aumentare la densità ossea in quella zona.
Un allenamento aerobico che comprenda movimenti continui di due o più arti è sempre
associato ad un incremento della densità ossea.
La sedentarietà, invece, è indicata come uno dei fattori principali di rischio per
l’osteoporosi.
Da uno studio, eseguito mediante particolari tecniche, si è osservato che il grado di perdita ossea prodotto dall’immobilità, è pari all’1% per ogni settimana.
Sarebbe l’assenza di forza di gravità e l’immobilizzazione prolungata a determinare la
mancanza degli stimoli meccanici necessari per il fisiologico equilibrio omeostatico dello scheletro. Infatti uno studio effettuato sugli astronauti, dopo il loro ritorno a terra, ha
dimostrato una ridotta BMD.
Anche la contrazione muscolare, verosimilmente, non solo esplica un effetto di “pompa” sui vasi sanguigni ma stimola meccanicamente l’osso sul quale il tendine muscolare
si inserisce.
Non esistono dubbi sulla correlazione diretta tra peso corporeo e BMD.
I “sottopeso” sono maggiormente soggetti ad andare incontro all’osteoporosi.
E’ stato dimostrato, inoltre, come l’attività fisica determina favorevoli modificazioni
biochimiche che favoriscono ed incrementano l’attività cellulare ossea.
Negli adolescenti e nei giovani adulti, l’attività fisica possiede un valore determinante
per il raggiungimento ed il mantenimento del picco di massa ossea ma l’esercizio fisico
assume un ruolo molto importante per lo sviluppo ed il mantenimento del tessuto osseo
durante tutto l’arco della vita. In età menopausale, l’esercizio fisico attenuerebbe la perdita di tessuto osseo che si accompagna alla riduzione del tasso di estrogeni. L’esercizio
fisico, perciò, associato ad un normale livello di estrogeni, in una donna di età compresa
tra 20 e 30 anni, può essere determinante nel ridurre il rischio di osteoporosi in età avanzata.
In età più avanzata l’attività fisica interviene soprattutto nel ridurre il rischio di cadute
che costituiscono il fattore di rischio di primaria importanza nell’incidenza delle fratture
di femore.
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Che l’attività fisica debba essere considerata fattore essenziale per l’omeostasi del tessuto osseo lo dimostra il fatto che la BMD è molto più elevata negli atleti che negli individui sedentari.
In questa fase della vita l’attività fisica ha come obiettivo principale quello di incrementare la massa ossea. In tal senso sono indicati esercizi di rafforzamento dei muscoli degli
arti e della muscolatura dorsale; esercizi di stress meccanico attraverso l’utilizzo della
forza di gravità, il peso corporeo e di piccoli-medi pesi.
L’allenamento fisico deve essere sempre graduale, regolare e personalizzato. Graduale
poiché la massima intensità, sia per i carichi di lavoro sia per le difficoltà dell’esercizio,
deve essere raggiunta attraverso un progressivo potenziamento delle capacità fisiche.
Regolare in quanto, se condotto con cadenze discontinue, non determina quella stimolazione costante nel tempo in grado di produrre effetti positivi dell’omeostasi ossea. Infine, l’allenamento fisico deve essere personalizzato poiché le soglie di stimolazione
meccanica variano in ogni soggetto in rapporto con l’età, abilità fisica e capacità scheletrica di sopportazione del carico.
Molti studi hanno messo in evidenza come l’adozione di un programma di attività fisica
sia in grado di frenare la perdita di tessuto osseo nelle donne in menopausa.
L’attività aerobica, come una passeggiata veloce di 20’-30’minuti due volte al dì, oltre a
ridurre i rischi a livello cardiovascolare, presenta notevoli effetti sul tessuto osseo: incremento della BMD nelle donne pre-menopausali mentre nelle donne in postmenopausa si è dimostrato in grado di impedire la riduzione della BMD.
Artrosi
L’artrosi è una delle più frequenti malattie degenerative osteoarticolari (in Italia quattro
milioni di persone ne soffrono) che colpisce inizialmente la cartilagine articolare e successivamente tutte le altre strutture con perdita della mobilità e della funzionalità articolare. Tutte le articolazioni possono essere influenzate ma l’incidenza maggiore si ha nel
rachide lombare e cervicale, nel ginocchio e nelle mani. Pur non essendo stato chiarito
il meccanismo che porta allo sviluppo della patologia, sono stati comunque individuati
diversi fattori di rischio come età, fattori genetici ecc.
L’esercizio fisico moderato non aumenta tale rischio, anzi, certi sport e alcuni programmi di esercizio fisico, opportunamente selezionati, sono in grado di migliorare la
forza muscolare e la mobilità articolare nell’individuo con un’artrosi in fase iniziale.
Gli sport a maggior rischio traumatico e quelli che comportano elevate sollecitazioni a
livello articolare sono i più rischiosi; dal momento che le lesioni della cartilagine artico-
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lare nello sportivo possono derivare sia da singoli traumi (tali da comportare un improvviso ed eccessivo carico a livello delle superfici articolari) sia da microtraumi ripetuti nel tempo.
Lo sport non agonistico, entro certi limiti, potrebbe collaborare a mantenere le articolazioni in buone condizioni anatomo-funzionali; lo sport di tipo agonistico può, invece,
minacciare la comparsa di un’artrosi precoce.
La riabilitazione prevede il recupero dell’articolarità conseguente alla riduzione del controllo motorio e della forza muscolare.
Nella fase successiva possono essere intrapresi esercizi a catena cinetica aperta e senza
carico al fine di rinforzare la muscolatura e proteggere così l’articolazione da insulti futuri. Iniziando dapprima con esercizi di contrazione isometrica, si passa successivamente a contrazioni lungo tutto l’arco di movimento.
La terza fase prevede esercizi a catena cinetica chiusa utili anche per il miglioramento
dell’equilibrio e della propriocezione; in questa fase il soggetto può iniziare a utilizzare
la cyclette (il movimento articolare svolge una funzione condro protettrice); in particolare, 3 sedute a settimana della durata di 20-30 minuti sono sufficienti per il mantenimento di una buona efficienza del sistema cardiocircolatorio e per rinforzare la muscolatura flesso estensoria dell’arto inferiore.
La quarta fase del percorso riabilitativo prevede il ritorno graduale all’attività sportiva
praticata: vengono introdotti esercizi di contrazione muscolare concentrica ed eccentrica
e l’atleta deve dimostrare di possedere una forza, una velocità e una resistenza della
contrazione muscolare sovrapponibili a quelle dell’arto contro laterale. In questa fase
devono essere effettuati esercizi che richiamano il gesto motorio specifico dello sport
praticato in modo tale da consentire un ritorno all’attività sportiva riducendo al minimo
i rischi di una recidiva.
Artrite
Mantenere il benessere psicofisico, anche grazie alla pratica di attività fisica regolare, è
essenziale per il paziente con artrite. L’inattività, al contrario, è associata a una qualità
della vita più bassa e alla maggiore facilità di affaticamento generale, oltre all’aumento
del rischio di sviluppare concomitanti patologie cardiovascolari e al rischio di andare
progressivamente incontro a disabilità. L’inattività, nel soggetto con artrite, è connessa a
una progressiva perdita funzionale.
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L’artrite reumatoide è spesso associata a limitazioni funzionali. Si tratta di una patologia
degenerativa, pertanto, il deterioramento tende a peggiorare con la progressione della
patologia nel tempo.
Di conseguenza la valutazione della necessità di intraprendere attività fisica ma soprattutto dell’intensità e della tipologia di esercizi va soppesata sulla base delle condizioni
fisiche dello specifico paziente e del grado di progressione della malattia.
A questo scopo Komatireddy et al. hanno svolto uno studio che ha preso in considerazione 37 soggetti di sesso femminile e 12 di sesso maschile, affetti da artrite reumatoide
di classe II e III di età compresa tra i 35 e i 76 anni, che si sono sottoposti ad un programma di rinforzo muscolare con bassi carichi ed elevato numero di ripetizioni per la
durata di 12 settimane.
L’analisi dei soggetti partecipanti allo studio prevedeva la valutazione della mobilità articolare, della forza muscolare e della resistenza prima dell’inizio dello studio e al termine dello stesso; è stato verificato in tutti i soggetti il valore del massimo consumo di
ossigeno (VO2 max) e quello della soglia anaerobica.
Dal confronto con un gruppo di controllo è emerso che i soggetti affetti da artrite reumatoide, dopo 12 settimane di programma di esercizio fisico con sovraccarichi lievi,
hanno evidenziato significativi miglioramenti in termini di riduzione della sintomatologia dolorosa in riferimento ad entità del dolore e numero di articolazioni dolenti, miglioramento della mobilità articolare e miglioramento della forza muscolare.
Gli esercizi consigliati per il soggetto che soffre di artrite reumatoide sono essenzialmente di tre tipologie:
• esercizi di stretching: sono consigliati qualunque sia il grado di disabilità funzionale del soggetto. Consistono nel tendere i vari gruppi muscolari per 10-30
secondi. Lo stretching aumenta la flessibilità e un programma di stretching
quotidiano è la base per ogni altro programma di esercizio;
• esercizi di potenza: sono quelli che coinvolgono il lavoro del muscolo contro
una resistenza. Possono implicare o meno l’uso di pesi. Il training di resistenza
rafforza il muscolo e aumenta la quantità di lavoro che è possibile compiere
senza che insorga il dolore;
• esercizi aerobici: sono quelli che migliorano l’attività cardiovascolare. Nel paziente reumatico, l’attività aerobica comprende essenzialmente attività a basso
impatto, come camminare, nuotare, andare in bicicletta.
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In conclusione l’attività fisica è fondamentale per il benessere generale dell’individuo
e, se integrata con un’alimentazione corretta, uno stile di vita sano e un’ottimale gestione dello stress, produrrà certamente effetti benefici destinati a migliorare la qualità della
vita.
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