Conosci te stesso

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“Conosci te stesso”: rivisitazione di una formula.
Chi fu per primo a usare la formula “conosci te stesso”? Dove nasce questo precetto? Sembra che
l’origine di questa massima debba essere cercata in un tempo che precede l’origine stessa della
filosofia, quindi assai prima di Socrate, Platone e Pitagora, in un’epoca remota che “oltrepassa
anche l’ambito della filosofia”1, quando la massima “conosci te stesso” si trovava scritta sopra la
porta del tempio di Apollo a Delfi e rinviava ad un’origine divina e a-personale. È probabile che i
numerosi scambi commerciali e culturali che si sono avuti tra la regione greca e il vicino Oriente
abbiano favorito il trapasso in Occidente di alcuni princìpi della metafisica orientale, uno dei quali,
per l’appunto, è l’assai nota formula attribuita all’oracolo di Delfi. Solo successivamente nasce e si
sviluppa la filosofia vera e propria, quando nella regione greca prende forma lo spirito mediato e
sistematico2. Ma il livello di conoscenza della metafisica orientale era di grado superiore a quella
ottenibile dal pensiero sistematico e logico tipico della filosofia. La filosofia, infatti, per quanto
potente, è “creatura troppo composita e mediata per racchiudere in sé nuove possibilità di vita
ascendente”3. L’uso della parola – e più in generale della scrittura – ha certamente contribuito a
sistematizzare questo pensiero, declinando però il livello della conoscenza verso il basso,
diminuendone insomma la potenza esplicativa e conoscitiva. Così si esprime ancora in proposito
Giorgio Colli:
l’emozionalità, a un tempo dialettica e retorica, che ancora vibra in Platone, è destinata a disseccarsi in un
breve volgere di tempo, a sedimentarsi e cristallizzarsi nello spirito sistematico. 4
L’origine della filosofia sta proprio qui, nel passaggio dalla fase magmatica e irrazionale del
pensiero ad una fase più mediata e sistematica, quando effettivamente si voleva intendere il
significato della parola filosofia (philo-sophos) nel suo senso più autenticamente originario, ossia
come “amore per la saggezza e la conoscenza” (e non la conoscenza pura e semplice). Si trattava
quindi di un periodo caratterizzato non dalla contemplazione assoluta tipica di chi ha raggiunto la
conoscenza somma e la saggezza, ma di quell’atteggiamento generale e di quell’aspirazione che per
sua natura vuole tendere verso la conoscenza e la saggezza, e ne costituisce pertanto la
predisposizione e la preparazione. In questo clima generale la riflessione inizia a sistematizzarsi
mediante l’uso della parola (e quindi del concetto) e successivamente della scrittura. È necessario
tuttavia distinguere l’amore per la conoscenza dalla conoscenza (saggezza) vera e propria.
“L’amore della sapienza sta più in basso della sapienza” 5, scrive ancora Giorgio Colli, che ha ben
indagato questa delicata fase storica intermedia tra l’epoca in cui, per conoscere, si utilizzava
maggiormente l’intuizione, il rito e il silenzio, e l’epoca successiva in cui ci si è spostati
maggiormente verso l’uso della parola, della ragione e del concetto.
1 R. Guénon, Il Demiurgo - e altri saggi, Adelphi, Milano, 2007, p. 72.
2 G. Colli, La nascita della filosofia, Adelphi, Milano, 1975, p. 116.
3 Ibidem.
4 Ibidem.
5 Ivi, p. 13.
1
Ma la conoscenza e la saggezza, nella sua versione più profonda e originale, è conoscenza
dell’interiorità, per l’appunto, e solo in una fase successiva è diventata conoscenza esteriore, fatta
di ragione, di logica e di argomentazione. Anche se vi è certamente continuità e gradualità nel
passaggio dall’una all’altra, è doveroso distinguere la fase precedente - l’esoterismo - dalla fase
successiva - l’essoterismo6. La conoscenza più antica, quella intesa come saggezza, è certamente più
ampia, più potente e più profonda, poiché riguarda l’intero essere. Invece, la conoscenza
sviluppatasi successivamente, quella intesa come ragione, possiede necessariamente un carattere più
limitato e ristretto, essendo essa dipendente dalla sola ragione umana, e non potendo quindi
oltrepassare i limiti delle capacità conoscitive del singolo individuo. Pare che nella scuola di
Pitagora si lavorasse ad un livello relativamente elevato, quello della preparazione interiore al
conseguimento della saggezza. A questo livello, essendo le parole dipendenti dalla sola ragione
umana e individuale7, esse non potevano essere usate se non come simboli predisponenti alla
preparazione interiore. Inoltre: pare che non soltanto Socrate e Platone, ma anche, prima di loro, lo
stesso Pitagora sia stato legato al centro spirituale di Delfi, e che il nome stesso originario di Delfi
fosse Pytho (donde il nome Pitagora) e che la donna che riceveva l’ispirazione degli Dei si
chiamasse Pizia. “Il nome di Pitagora significa dunque guida della Pizia” 8, afferma René Guénon. I
filosofi antichi, quindi, prima della nascita della filosofia, utilizzavano la frase in quanto legati ai riti
e al simbolismo di Apollo, ossia in quanto legati al significato originario sacro e divino della
formula, destinata a rinviare ad un tipo di conoscenza che non poteva essere soltanto umana e
individuale, ma doveva oltrepassare la ratio per sconfinare nella dimensione sovra-umana e sovrarazionale della metafisica orientale.
Questa è la prima fase della storia della formula “conosci te stesso”, quella che interessa la sua
genesi e il suo significato originario. Tuttavia, oggi, la formula “conosci te stesso” viene intesa nel
suo significato psicologico e pedagogico, ossia in un senso molto più individuale e personale
rispetto a quello delle origini. Ma qual è esattamente la differenza tra il significato metafisico e
quello psicologico di questa massima? A rigore, i fenomeni mentali (quelli che concernono la
moderna psicologia, per l’appunto) sono soltanto la modificazione esteriore dell’essere, e non la sua
essenza9. In definitiva, passando dal significato sovra-individuale e sacro della metafisica orientale,
a quello individuale e psicologico, si passa da una dimensione sovra-umana, sovra-razionale e
metafisica (l’essenza) a una dimensione umana, individuale e razionale (una particolare
declinazione dell’essenza originaria). A questo livello - quello individuale e razionale - vi si può
scorgere, come correlato di senso, il significato morale e pratico che solitamente viene attribuito al
messaggio socratico. Non che uno escluda l’altro, naturalmente, né che uno dei due debba essere
invalidato per lasciar trionfare l’altro, essendo queste varianti soltanto trasformazioni conseguenti
allo spirito di ogni determinata epoca storica. Si deve soltanto fare attenzione a non dimenticare mai
6 R. Guénon, Il Demiurgo - e altri saggi, Adelphi, Milano, 2007p. 74.
7 Sui forti limiti e sull’inutilità del linguaggio per le verità sovra-individuali e sovra-razionali della metafisica si veda: D.
Roman, ; Uno sguardo dall’alto – la perdita della qualità nell’Occidente moderno secondo René Guénon; Aracne, Roma,
2015, Cap. II – Indefinibilità e incomunicabilità della metafisica pura, pp. 41-69.
8 R. Guénon, Il Demiurgo - e altri saggi, Adelphi, Milano, 2007, p. 77.
9 Ivi, p. 78.
il carattere sacro che la frase aveva in origine, e che implica un significato molto più profondo di quello che le
si vorrebbe così attribuire. Essa significa innanzitutto che nessun insegnamento essoterico è in grado di donare
la conoscenza reale che l’uomo deve trovare solo in se stesso, poiché in realtà qualsiasi conoscenza può essere
acquisita unicamente tramite una comprensione personale.10
Ecco perché Aristotele ha giustamente affermato che “L’essere è tutto quello che egli conosce” 11,
intendendo con ciò esattamente l’identificazione in una Una e medesima cosa la Conoscenza e
l’Essere (come effettivamente deve configurarsi ogni corretto e completo processo di conoscenza).
Ecco anche perché Platone ha parlato di anamnesis e di reminiscenza: con queste parole si deve
intendere - come ha riconosciuto Guénon12 - la scoperta delle verità metafisiche, ossia di tutte quelle
verità essenziali che appartengono all’interiorità di ogni individuo. Si tratta di verità non-materiali,
non fenomeniche, non-sensibili, a-spaziali e a-temporali, e quindi eterne e qualitative al massimo
grado. A partire dalla conoscenza della propria interiorità si può poi giungere a comprendere,
successivamente e per gradi, tutto il mondo, anzi l’intero universo; e ciò in virtù della legge di
corrispondenza tra microcosmo e macrocosmo, che implica la riproduzione simmetrica di tutti gli
aspetti qualitativi dell’essere individuale nell’essere universale e viceversa. La conoscenza più vera
e più profonda dell’anima di ogni individuo, quindi, rappresenta solo un primo gradino verso quella
via che può portare alla realizzazione completa e definitiva - in senso metafisico - di ogni individuo;
poiché quella realizzazione coincide con la realizzazione dell’essere in tutti i suoi stati13.
Socrate ha utilizzato la formula “conosci te stesso” più o meno nello stesso senso al quale anche noi
oggi ci rifacciamo. Questo utilizzo non è quindi quello relativo al senso sacro e divino tipico della
fase pre-filosofica, ma quello successivo della moderna psicologia e pedagogia; una sorta di
strumento per conoscere agevolmente il fondo più importante della nostra anima, per poterla poi
coltivare ai fini del conseguimento del senso esistenziale e della felicità. Ma questo tipo di utilizzo
implica l’impiego pratico della formula “conosci te stesso” in un senso più limitato e ristretto
rispetto a quanto non sia accaduto in epoca pre-filosofica (anche se pur sempre collegato al suo
senso originario). Utilizzare la formula “conosci te stesso” nel senso socratico significa quindi
sfruttarla per ricavarne, al massimo, un livello di conoscenza che è un primo gradino verso la via
della realizzazione completa in senso metafisico 14; ed è già tanto, nel mondo moderno, come
vedremo, giungere anche soltanto a questo primo gradino.
Ma è necessario richiamare brevemente il senso più completo e organico del messaggio socratico,
sia per differenziarlo rispetto alla fase precedente e originaria, sia per differenziarlo dalle fasi
successive. Le massime “conosci te stesso” e “non superare il tuo limite” sono state ampiamente
utilizzate nelle argomentazioni psicologiche e pedagogiche come chiave per trovare la felicità e il
10 Ivi, pp. 78-79.
11 Ivi, p. 81.
12 R. Guénon, Il Regno della Quantità e i segni dei tempi, Adelphi, Milano, 1982, p. 62.
13 R. Guénon, Il Demiurgo - e altri saggi, Adelphi, Milano, 2007, p. 82.
14 Sulla realizzazione metafisica completa, totale e definitiva si veda: D. Roman, Uno sguardo dall’alto - la perdita
della qualità nell’Occidente moderno secondo René Guénon; Aracne, Roma, 2015, Cap. IV - La realizzazione metafisica,
pp. 77-104.
3
senso della propria esistenza. Secondo un’ampia aneddotica, Socrate, un giorno, rivolgendosi alla
sacerdotessa appartenente agli oracoli di Delfi e chiedendole chi fosse il più saggio tra gli uomini, si
sentì rispondere dapprima “conosci te stesso”, e subito dopo “non superare il tuo limite”.
Sennonché, da quanto ci è noto, fu Socrate stesso a costruire, su questa base, uno dei primi
importanti nuclei filosofici della tradizione del pensiero occidentale. Rispondendo ai suoi allievi
con la massima “conosci te stesso”, egli intendeva dire che lui non poteva conoscere l’essenza e la
virtù di ogni singolo individuo (donde la sua famosa massima “so di non sapere”), e che soltanto
ogni singolo individuo poteva - e doveva - effettuare questa conoscenza in prima persona (donde
l’espressione “una vita che non sia ricerca è una vita non degna di essere vissuta”). Ma se la verità,
essendo tutta interiore ad ogni singolo individuo, non poteva essere insegnata da altri, con i suoi
allievi Socrate ha dovuto capovolgere il tradizionale schema secondo cui è il maestro ad insegnare
agli allievi la sapienza, la virtù e la saggezza. Egli ha così dovuto instaurare un tipo di dialogo (e qui
si vede il Socrate figlio dei sofisti) - il cosiddetto “dialogo socratico” - finalizzato non a insegnare
la virtù, ma a predisporne la scoperta e a favorirne la ricerca in prima persona. Questo tipo di
dialogo si sviluppa attraverso alcune fasi: innanzitutto è necessario far emergere tutte quelle comuni
credenze apprese erroneamente dal mondo esterno, e che poco o nulla hanno a che fare con la
scoperta di ogni vera e autentica essenza individuale. Successivamente, attraverso la cosiddetta
“ironia socratica”, è necessario sottoporre a verifica queste credenze facendo entrare
spontaneamente in contraddizione la debolezza interna e l’incoerenza delle medesime, allo scopo di
far emergere la loro sostanziale non-plausibilità rispetto all’impronta interiore dell’anima di ciascun
individuo. A questo punto, chiarita la sostanziale falsità di queste credenze, idee, pseudo-valori e
punti di vista (non a caso di provenienza sofistica), e fatta quindi opera di pulizia di tutta quella
“crosta” di false credenze, assorbite per via esteriore e sociale, diventa possibile - e pur anche
doveroso - operare per far emergere (dall’interno di ogni individuo) l’autentica virtù, verità,
essenza, e quindi saggezza, fonte del bene e della sua felicità (è questa, in estrema sintesi, la “virtù
socratica”). Questa fase del dialogo socratico, denominata “fase maieutica”, sta proprio ad indicare
che, in effetti, se la virtù non può essere insegnata, si può almeno operare per favorirne la nascita 15,
portandola alla luce, e rendendola in tal modo chiara, riconoscibile, coltivabile.
A questo punto, come è noto, la conoscenza di se stessi andrebbe accompagnata dall’amore di sé e
da una costante pratica finalizzata alla coltivazione della propria virtù, senza superare quel
particolare limite che, presupponendo il controllo degli istinti mediante la ragione, garantisce
armonia, equilibrio e pace, sia con se stessi, sia con la propria comunità di appartenenza16.
Quindi: chi non conosce se stesso non conosce il bene, e chi non conosce il bene fa il male. Ma se
bene e male dipendono dalla conoscenza, allora chi conosce fa il bene e non può fare altro che il
bene, mentre chi non conosce non può fare altro che il male, anche se lo fa soltanto per ignoranza (è
questa la famosa “contraddizione socratica”). La vita dovrebbe quindi essere ricerca, che è ricerca
del proprio bene, pena il rimanere intrappolati nella non-conoscenza di sé, che determina il male
fatto per ignoranza.
15 Naturalmente la parola “nascita” non deve qui essere intesa alla lettera: la virtù, essendo eterna, non può mai
nascere né morire, ma può soltanto essere ignorata o scoperta e portata alla luce.
16 Come è noto, sarà proprio Nietzsche ad operare una critica a Socrate proprio su questo punto: per Socrate il
proprio demone, una volta scoperto, deve essere autolimitato e riequilibrato dalla ragione, mentre per Nietzsche esso
deve esprimersi al massimo grado possibile senza porvi alcun limite.
Come si può vedere, l’utilizzo che Socrate fa della famosa massima, pur mantenendone inalterato il
senso di fondo, è quello più riduttivo e relativo della psicologia e della pedagogia. Inoltre, le
modalità con le quali vi si applica sono quelle del dialogo (e non più quelle dei riti e dei simboli).
Tuttavia, più tardi ancora, in alcuni momenti del Medioevo e della Scolastica, la formula “conosci
te stesso” viene intesa nel senso agostiniano, ossia come invito a gettare nuovamente lo sguardo
nella direzione della propria interiorità, al fine di cogliere quella “scintilla divina” che per Agostino
è presente in ognuno di noi. Non più attraverso l’uso della parola, quindi - che viene anzi svalutata
da Agostino, come anche, conseguentemente, tutta l’attività politica umana - ma mediante un
recupero del silenzio e del dialogo interiore. Il “conosci te stesso” diventa qui “conosci Dio, poiché
Dio è contenuto in te” (e in ciò riecheggia la legge di corrispondenza tra microcosmo e
macrocosmo, secondo la quale ciò che c’è nell’universo è contenuto anche dentro di noi e
viceversa: non è un caso che Avicenna abbia detto “Tu ti credi un nulla ed è in te che risiede il
mondo”17).
Infine, arriviamo al giorno d’oggi. Come si può procedere per conoscere se stessi nella nostra
attuale epoca? Quali problemi si incontrano oggi nel cercare di scoprire chi e che cosa veramente
siamo? Quale utilizzo possiamo fare delle antiche massime? Innanzitutto, il singolo individuo oggi
è costretto a confrontarsi con uno scenario sociale marcatamente spinto verso la materialità e la
quantità, verso l’oscuramento e l’uniformità, verso la perdita di ogni princìpio di ordine qualitativo
e metafisico. Conoscere se stessi, oggi, quindi, è molto, molto più difficile. Cerchiamo di capire
perché.
Innanzitutto, chi, oggi, utilizza simboli e riti per innalzarsi verso la saggezza? E ancora: chi, oggi,
sarebbe pronto ad affermare che basti un certo tipo di dialogo per arrivare a scoprire se stessi? È
veramente così? Se bastasse la pratica del dialogo saremmo tutti dei profondi conoscitori di noi
stessi, se non altro per il fatto che dialoghiamo in continuazione con i nostri simili. Si può obiettare
che la formula funziona solo se si applica il dialogo socratico con la sua precisa metodologia. Ma in
realtà oggi rimane ugualmente molto difficile scoprire se stessi, anche utilizzando il dialogo
socratico in modo rigoroso: mai come in epoca moderna l’uomo si trova tanto lontano dalla sua
essenza, dalla sua interiorità, e da quel delicato equilibrio che ne conseguirebbe, fatto di armonia,
prudenza, felicità e l’integrazione organica e sintetica di tutte le parti del suo io (e che invece si
trovano oggi molto spesso divise e frammentate).
I motivi sono diversi, ma tutti riconducibili al generale decadimento dello sviluppo della
manifestazione universale18. In estrema sintesi, la manifestazione universale si sviluppa sempre in
senso discendente secondo una ciclicità cosmica assai ampia: dal polo essenziale e qualitativo essa
discende fino al polo sostanziale e quantitativo attraverso un percorso lento e graduale, per poi
ripartire daccapo. È la famosa “legge della quattro età”, della quale si trova traccia anche negli
scritti di Esiodo. Dall’età dell’oro si passa all’età dell’argento, poi a quella del bronzo, per giungere
infine all’età del ferro (la nostra attuale). A questo livello la manifestazione universale si trova
pesantemente appiattita verso la materialità e la quantità, l’uniformità e l’accelerazione, la
17 R. Guénon, Il Demiurgo - e altri saggi, Adelphi, Milano, 2007, p. 80.
18 Su questo tema si veda: D. Roman, Uno sguardo dall’alto - la perdita della qualità nell’Occidente moderno secondo
René Guénon; Aracne, Roma, 2015.
5
molteplicità e il pluralismo, l’antagonismo e l’esteriorità, la confusione e l’instabilità. È questo
l’oscuramento generale del mondo moderno (donde l’espressione “età oscura” - o Kali-Yuga - con
cui si usa denominare questa nostra età). Come è facile intuire, se nell’epoca antica ci si era spinti
tanto in alto con il livello della conoscenza da oltrepassare la sfera della ragione umana e
individuale, per poi discendere fino al piano logico della filosofia e della ragione, oggi siamo
addirittura sprofondati al di sotto del livello della razionalità. A questo livello agisce pesantemente
la cosiddetta “legge della materia”, che per definizione è sempre antagonismo, separazione,
conflitto e instabilità. Negli individui, lontani come non mai dal loro centro, prendono oggi il
sopravvento le forze dell’inconscio. Nelle strutture sociali agisce con violenza inaudita il conflitto
nelle sue svariate forme; e ovunque si respira un’atmosfera di generale confusione e instabilità.
A questo livello, a causa dell’allontanamento dai princìpi di ordine universale della metafisica,
diventa quanto mai difficile scoprire se stessi. Più semplicemente: l’individuo agisce senza sapere
chi è e senza capire quale sia l’impronta più profonda ed essenziale del suo essere. Tuttavia,
difficile non vuol dire impossibile (allo stesso modo che l’oscuramento della luce metafisica non
deve mai significare cancellazione della stessa). Tuttavia, in un’epoca e in un contesto
metafisicamente orientato basterebbe un rapido sguardo intuitivo per capire immediatamente chi
siamo e che cosa dobbiamo fare; ma in un’epoca di oscuramento, senza questo sguardo, non è
possibile cogliere se stessi, né tantomeno è possibile farlo con il dialogo socratico, che può anzi
condurre sovente fuori strada a causa della mancanza di riferimenti superiori. Allora non rimane che
l’esperienza! Oggi è solo provando in prima persona a buttarsi nella vita che possiamo scoprire chi
siamo, almeno in una certa misura. Infatti, se è vero che oggi le forze della materia hanno preso il
sopravvento, nel singolo individuo ha preso il sopravvento quella che Schopenhauer ha chiamato
“volontà di vita” (la “volontà di potenza” di Nietzsche e l’“inconscio” di Freud) che si dimostra
sempre più forte della realtà fenomenica e rappresentativa, e che pertanto determina le nostre scelte
e il nostro destino. “Secondo l’antica dottrina, l’uomo vuole ciò che conosce; secondo la mia,
conosce ciò che vuole”19, afferma Schopenhauer. Egli distingue infatti il cosiddetto “carattere
intelligibile” (insieme di disposizioni fisse e immutabili di ogni individuo) dal “carattere
acquisito”20 (frutto di modificazioni del carattere operate dall’esperienza). Ne deriva che non solo è
necessario esperire la vita per conoscere un po’ se stessi, ma è necessario anche saper aspettare (“i
motivi, che soli possono mettere in luce ogni cosa, esigono tempo ad esser conosciuti” 21, afferma
ancora Schopenhauer; “In verità, imparai anche ad attendere e fino in fondo, - ma solo ad attendere
me stesso”22 gli fa eco poco più tardi Nietzsche). Vi sono in ciò almeno due ordini di motivi: da un
lato gli individui maturano come dei frutti ognuno secondo il proprio tempo, dall’altro lato chi si
dimostra più coraggioso nel fare esperienze di vita arriva più velocemente a capire qual è la sua
natura, i suoi gusti, le sue forze, la sua sensibilità, e il suo particolare angolo visuale del mondo; e,
naturalmente, anche i suoi limiti. L’uomo può quindi iniziare a dare prova di carattere solo dopo
aver conosciuto se stesso, e quindi solo dopo aver svolto le necessarie esperienze; anzi: per
dimostrare carattere egli deve anche dimostrare di perseguire gli obiettivi coerenti con la propria
19 A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Mursia, Milano, 1969, p. 334.
20 Ivi, p. 344.
21 Ivi, p. 337.
22 F.W. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Newton & Compton, Roma, 1980, Cap. Dello spirito di gravità, p. 148.
virtù imparando a rinunziare a tutto ciò che è estraneo ad essa. Queste le parole esatte di
Schopenhauer:
il volere e il potere soli non bastano; l’uomo deve anche sapere che cosa voglia e che cosa possa; soltanto
allora darà prova di carattere, e condurrà bene un’impresa.23
Ma tutto ciò è possibile solo nella fase post-esperienza, appunto, e non prima: “finché l’esperienza
non ce l’abbia insegnato, non sappiamo quel che vogliamo e che possiamo” 24 afferma ancora
Schopenhauer. Se ne deduce che l’uomo che non agisce, che non prova, che non fa esperienze, non
può conoscere se stesso. È perfettamente inutile dire a qualcuno “conosci te stesso”, o “devi vedere
tu”, così come è inutile dirgli “ama te stesso” o “stai attento a non superare il limite” (oltre il quale,
come è noto, non si ha più la realizzazione ma il fallimento di se stessi), poiché questi sono tutti
parametri che possono essere colti soltanto dall’individuo in prima persona, ossia solo da chi ha
avuto l’ardire di provare la vita in prima persona in un numero sufficiente di direzioni tale da
indurlo ad operare poi una scelta chiara su che cosa meriti per lui di essere coltivato. Meglio
sarebbe dirgli allora “prova, buttati, fai un esperimento e vedi come va, poi cambia e prova ancora e
poi rifletti e fai un bilancio...” (“un tentare e un interrogare fu sempre il mio andare” 25 scrive
Nietzsche). Ne deriva che per giungere a conoscere se stessi, oggi, ci si dovrebbe orientare, almeno
in parte, secondo modelli educativi che favoriscano la pratica, la prova e l’esperimento, che
sdrammatizzino gli inevitabili fallimenti, e che insegni a far tesoro di quanto possa esser ricca,
preziosa e interessante un’esistenza vissuta pienamente e intensamente (amandola appieno, per
l’appunto!). Perché allora, solo a quel punto, nella seconda parte della propria esistenza, dopo aver
esplorato a sufficienza il mondo, la vita e se stessi, ci si può serenamente dedicare ad essere quello
che si è (è questo il significato dell’espressione “diventa te stesso” di Nietzsche). Perché solo allora,
quando si conoscono le proprie forze, il proprio talento e i propri limiti, ci si può davvero salvare
dal fallimento e dall’insoddisfazione:
Quando ci siamo resi esattamente e definitivamente conto delle nostre buone qualità e delle nostre forze, dei
nostri errori e delle nostre debolezze; quando abbiamo dato alla nostra vita un orientamento in armonia con ciò
che la coscienza ci rivela, rinunziando all’inconseguibile, siamo, per quanto è possibile, al sicuro dal più
crudele dei mali: dalla scontentezza di noi stessi: conseguenza inevitabile dell’ignoranza, della falsa opinione
intorno alla propria individualità, e della presunzione che ne risulta. 26
E solo allora si può arrivare a dire:
questo - è il mio gusto: - non è né buono né cattivo: è soltanto il mio gusto, di cui né più mi vergogno né faccio
più mistero. «Questa - è ora la mia strada, - dov’è la vostra?» - così rispondevo a quelli che mi chiedevano «la
strada». La strada infatti - non c’è! Così parlò Zarathustra. 27
23 A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Mursia, Milano, 1969, p. 345.
24 Ivi, p. 346.
25 F.W. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Newton & Compton, Roma, 1980, Cap. Dello spirito di gravità, p. 148.
26 A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Mursia, Milano, 1969, p. 348.
27 F.W. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Newton & Compton, Roma, 1980, Cap. Dello spirito di gravità, p. 148.
7
Intendendo con l’espressione “la strada infatti non c’è” che essa può essere creata: ognuno di noi, se
vuole, sperimentando la vita e scoprendo se stesso, può rendersi artefice della creazione della
propria strada e del proprio destino. Ognuno di noi, se vuole, può davvero diventare un piccolo
“creatore”.
Dario Roman
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