CINEMA E FILOSOFIA Fedora regia di Billy Wilder Soggetto: dalla novella di Thomas Tryon in “Crowned Heads”; sceneggiatura: Billy Wilder e I. A. L. Diamond; fotografia: Gerry Fischer; musiche originali: Miklos Rosza; scenografia: Alexandre Trauner; costumi: Charlotte Flemming; montaggio: Stefan Arsten e Fredric Steinkamp; interpreti principali: William Holden (Barry Detweiller), Marthe Keller (Fedora e Antonia), Josè Ferrer (dottor Vando); Frances Sternhagen (Miss Balfour), Mario Adorf (gerente dell’hotel), Michael York (lui stesso), Henry Fonda (presidente dell’Accademia), Hildegarde Kneff (contessa Sobryanski), Gottfried John (autista). produzione: Billy Wilder e Helmut Jedele per NF Geria II Bavaria; origine: Germania - Francia anno: 1978 distribuzione: Linea C I; durata: 114 minuti. Congiungimenti sono intero non intero, concorde discorde, armonico disarmonico, e da tutte le cose l’uno e dall’uno tutte le cose. L’opposto concorde e dai discordi bellissima armonia. Una e la stessa è la via all’insù e la via all’ingiù. (Eraclito, DK 22 B 10, 8, 60) Orbene io ti dirò e tu ascolta attentamente le mie parole, quali vie di ricerca sono le sole pensabili: l’una [che dice] cheè e che non è possibile che non sia, è il sentiero della Persuasione (giacchè questa tien dietro alla Verità); l’altra [che dice] che non è e che non è possibile che non sia; questa io ti dichiaro che è un sentiero del tutto inindagabile; (Parmenide, DK 28 B 2) Mai uno potrà essere uguale a molti! (Sofocle, Edipo re, 843) Da così lungo tempo … è negli uomini connaturato questo amore, che li spinge gli uni verso gli altri, e che, mirando a restaurare l’antico essere nostro, tenta di fare di due uno e risanare la natura umana. Per modo che ciascuno di noi è come una mezza tessera d’uomo, spaccato come le sogliole, e d’uno fatto due. (Platone, Simposio, 191d) Poiché prevedo che fra breve dovrò presentarmi all’umanità per metterla di fronte alla più grave esigenza che mai le sia stata posta, mi sembra indispensabile dire chi io sono. In fondo potrebbe essere già noto: perché non ho mancato di “dare prove” della mia esistenza. Ma la sproporzione fra la grandezza del mio compito e la piccolezza dei miei contemporanei si è dimostrata nel fatto che questi non mi ascoltano, e neppure mi vedono. […] In queste circostanze io ho un dovere, contro cui si rivoltano, in fondo, le mie abitudini, e ancor più la fierezza dei miei istinti, e cioè quello di dire: Ascoltatemi! Perché sono questo e questo. E soprattutto non scambiatemi per altro! (Friedrich Nietzsche, Ecce homo. Come si diventa ciò che si è, Milano, Adelphi, 1975, pag. 265) La fatalità della mia esistenza ne ha fatto la felicità, le ha dato, forse, il suo carattere unico: io, parlando per enigmi, come mio padre sono già morto, come mia madre vivo ancora e invecchio. Questa doppia discendenza, come dire dal più alto e dal più basso germoglio sulla scala della vita, décadent e inizio al tempo stesso – questo solo, se mai, può spiegare quella neutralità, quella libertà da qualunque partito di fronte al problema generale della vita, che forse mi contraddistingue. Mai nessuno ha avuto un fiuto più fine del mio per i segni dell’ascesa e della caduta, io sono il maestro par excellence di tutto questo, - conosco l’una e l’altra cosa, sono l’una e l’altra cosa. (Friedrich Nietzsche, Ecce homo. Come si diventa ciò che si è, Milano, Adelphi, 1975, pag. 271) Noi non crediamo che uno possa diventare un altro se non lo è già, cioè se non ha in sé, come accade piuttosto spesso, una pluralità di personaggi o almeno spunti di una pluralità di personaggi. In questo caso si ha il risultato che un altro ruolo passa in primo piano, che l’ “uomo antico” viene respinto indietro. L’aspetto cambia ma non l’essenza. (Friedrich Nietzsche, frammento della primavera 1888) Anche ammettendo che non si tratti, in fondo, di “Schopenhauer come educatore”, ma del suo opposto, “Nietzsche come educatore”, pure questo scritto offre un insegnamento inestimabile sulla mia maniera di concepire il filosofo, come un tremendo esplosivo, che mette tutto in pericolo, su un concetto di “filosofo” che sta miglia e miglia lontano da quell’altro concetto, che pure comprende in sé un Kant, per non parlare dei “ruminanti” accademici e degli altri professori di filosofia. – Se si considera che a quel tempo fare il dotto era il mio mestiere, e che forse quel mestiere lo capivo anche, non sembrerà senza significato che in questo scritto compaia improvvisamente un aspro frammento di psicologia del dotto: esso esprime il senso della distanza, la profonda sicurezza su ciò che per me può far parte del compito, e ciò che invece è solo mezzo, intermezzo e lavoro laterale. La mia accortezza mi ha fatto essere molte cose e in molti luoghi, perché potessi diventare uno – perché potessi arrivare a essere uno. Per un certo tempo dovevo anche essere un dotto. (Friedrich Nietzsche, Ecce homo. Come si diventa ciò che si è, Milano, Adelphi, 1975, pp.329-330)