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L’altro Schopenhauer
I. Esercizi spirituali, morali
e tecniche del sé
1. Filosofia come modo di vita
La filosofia è un’attività quotidiana che accompagna l’esistenza. Un
modo di vita. Questa è la sua origine. La tesi è di Pierre Hadot, esposta
nel suo testo principale, Esercizi spirituali e filosofia antica.1
I filosofi, nel corso della storia, hanno organizzato il proprio sapere sulle cose del mondo utilizzando dei concetti. Il grande merito di
Hadot è di aver messo in chiaro, testi alla mano, che questo è solo un
lato della questione. Questi princìpi, che hanno la pretesa di spiegare
le cose del mondo, hanno sempre avuto anche un ineludibile, seppur
troppo spesso dimenticato, banco di prova: la vita quotidiana, la condotta. A fare da ponte tra i princìpi delle diverse scuole filosofiche antiche
e la vita quotidiana, vi erano delle pratiche, dei modi con cui il sapere
era chiamato alla verità dei propri enunciati. Questo è l’ambito di una
vera e propria pratica ascetica. Questo è l’ambito degli esercizi.2 Un
training molto particolare, quello filosofico. Gli eventi della propria vita
vanno fatti interagire con i princìpi della scuola cui si è scelto di aderire.
Gli esercizi vanno ripetuti, spesso con l’ausilio di una guida, un maestro.
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Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica (1981), tr. it. Anna Maria Marietti, Einaudi, Torino, 20052.
2 Una classificazione degli esercizi si trova in Christoph Horn, L’arte della vita nell’antichità. Felicità e morale da Socrate ai neoplatonici (1998), ed. it. a c. di Emidio Spinelli, tr. it.
Francesca Longo, Francesco Dipalo, Carocci, Roma, 2005, p. 42ss.
1
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Michelantonio Lo Russo
Lo scopo è quello di formare delle abitudini, di pensiero e d’azione.
Nient’altro, alla fine, che stare al mondo con un certo portamento.
Uno stile di vita distinto, improntato a certi valori, a una certa prospettiva di pensiero. Si tratta di acquisire delle disposizioni, sintonizzate tra loro con criteri riferiti a modelli ideali tra i quali, il più celebre, è sicuramente quello del “saggio”. E il motivo dello sforzo è chiaro: queste disposizioni acquisite tramite esercizio sono guida per l’azione, faro per l’orientamento nel mondo. Dotano la vita di senso.
Hadot, nei suoi libri, ha spiegato che la tradizione degli esercizi spirituali in filosofia è rimasta viva, anche se i mutamenti storici hanno
fatto sì che si sia andata via via offuscando. L’avvento del cristianesimo, come anche, successivamente, l’istituzionalizzazione della filosofia
nelle università a partire dal Medioevo, sono tra le cause principali di
questo “sonno” della tradizione. Un qualcosa che ha cambiato l’essenza stessa del “fare filosofia”, incidendo in profondità sia su motivazione e scopi degli insegnanti, sia degli allievi. “Le motivazioni dello
studente medioevale o moderno – scrive Hadot – sono quindi molto
diverse da quelle dello studente antico. Per quest’ultimo, si trattava di
fare una scelta di vita o di acquisire una cultura generale, per lo studente medioevale o moderno si tratta di passare gli esami, a scopo di
lucro. Questo sistema presuppone un insegnamento spersonalizzato e
molto influenzato dalla prospettiva d’esame”.3
Tuttavia, dal momento che la filosofia come modo di vita coincide
con l’origine stessa della filosofia, non ci si deve stupire se la storia del
pensiero occidentale abbia conosciuto delle riprese in grande stile di
questa tradizione. Nella lettura di Hadot, questa ripresa è avvenuta con
alcuni autori, molto diversi tra loro: su tutti Petrarca, Montagine, Cartesio, Kant, Rousseau, Shaftesbury, Emerson, Thoreau, Kierkegaard,
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
P. Hadot, “L’insegnamento degli antichi, l’insegnamento dei moderni, Conversazione con Arnold I. Davidson del 1 giugno 2007”, in Arnold I. Davidson e Fréderic
Worms (a c. di), Pierre Hadot: l’insegnamento degli antichi, l’insegnamento dei moderni (2010),
tr. it. Laura Cremonesi, ETS, Pisa, 2012, pp. 25-40, p. 29.
3
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L’altro Schopenhauer
Marx, Nietzsche, William James, Bergson, Wittgenstein, MerleauPonty. In questa lista, c’è anche il nome di Schopenhauer.4
Anche nel suo testo principale, Esercizi spirituali e filosofia antica,
Hadot aveva inserito il nome di Schopenhauer nella tradizione della
filosofia come modo di vita.
Anche la filosofia di Schopenhauer e quella di Nietzsche sono inviti a
trasformare radicalmente il proprio modo di vivere. Del resto Nietzsche
e Schopenhauer sono pensatori immersi nella tradizione antica.5
Ed è stato proprio Nietzsche, nel delineare i tratti di Schopenhauer
come suo educatore, a sottolineare l’atteggiamento puro, da vero antico,
del maestro verso la filosofia. E, ancora, non è un caso se, nello stesso
contesto, e in polemica con la “filosofia dei professori”, Nietzsche abbia scritto queste parole:
L’unica critica di una filosofia che sia possibile e che dimostri qualche
cosa, vale a dire il tentare se si possa vivere secondo essa, non è mai stata
insegnata nelle università: ma, sempre, la critica delle parole alle parole.6
Schopenhauer fa filosofia a partire dall’esistenza. All’origine della sua
proposta filosofica c’è infatti la cognizione del dolore. Un’esperienza che
lui stesso fa risalire al suo diciassettesimo anno d’età, frutto delle osservazioni effettuate durante un viaggio compiuto attraverso l’Europa insieme ai genitori.7
Questo il punto di partenza. Ma la sua riflessione, poi, tocca il culmine con la soteriologia prospettata nella IV sezione del Mondo come
volontà e rappresentazione. In quelle pagine raggiunge ciò che si era prefissato. Ovvero, attraverso la comprensione di ciò che il mondo è, riu!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
P. Hadot, Che cos’è la filosofia antica? (1995), tr. it. Elena Giovanelli, Einaudi, Torino,
1998, p. 259.
5 P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, op. cit., p. 163.
6 Friedrich Nietzsche, Schopenhauer come educatore (1874), tr. it. a c. di Mazzino Montinari,
Adelphi, Milano, 20096, p. 91.
7 Arthur Schopenhauer, Der handschriftliche Nachlaß, a c. di Arthur Hübscher, 4/1, DTV,
München, 1985, p. 96.
4
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Michelantonio Lo Russo
scire a intravedere la massima possibilità di liberazione dal dolore. Un
percorso che lo porta a identificare nell’ascesi la possibilità di tale percorso volto alla negazione della volontà. Schopenhauer considera infatti il punto di vista ascetico l’apice della sua filosofia.8
Una filosofia che, seguendo le sue stesse indicazioni, può essere vista
come lo sviluppo di un unico pensiero. Un pensiero annunciato proprio
all’inizio della prefazione alla prima edizione della sua opera principale, ma mai veramente esplicitato. E tuttavia ricostruibile: “Giacché il
mondo è l’auto-coscienza della volontà”.9
Tutti gli esseri vogliono. Spinti dal bisogno, che è sintomo di una
mancanza e dunque fonte di dolore, invadono lo spazio altrui. La volontà dell’uno è per l’altro un ostacolo. È questo ciò che connota il pessimismo di Schopenhauer, che gli permette di scrivere che “ogni vita è
dolore” (M I, 366).
L’uomo non fa eccezione. Il suo desiderio non trova mai un oggetto
adeguato alla propria brama (M I, 231). Le promesse del desiderio non
vengono mai mantenute (M II, 657). La felicità è vana,10 ogni soddisfazione solo apparente. Da qui l’idea che la vita sia “un affare che
non copre le spese”, e che la condizione umana sia “piuttosto qualcosa che sarebbe meglio non fosse” (M II, 658; 662).
È dunque la coscienza del dolore a ritagliare i contorni del mondo
come volontà e rappresentazione. E che il mondo sia volontà e rappresentazione, è l’unico pensiero che anima la filosofia di Schopenhauer.11
Una via d’uscita temporanea dal dolore è prospettata nella teoria este!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
8A.
Schopenhauer, Parerga e Paralipomena II (1851), d’ora in poi P II, tr. it. Mazzino
Montinari, Eva Amendola Kuhn, Adelphi, Milano, 2007!, § 204, p. 547.
9A. Schopenhauer, Il Mondo come volontà e rappresentazione (1819-1859), I, p. 485, tr. it.
Sossio Giametta, Bompiani, Milano, 2010", d’ora in poi M I, M II. Sull’unico pensiero, cfr. Rudolf Malter, Der eine Gedanke. Hinführung zur Philosophie Arthur Schopenhauers, WBG, Darmstadt, 2010", p. 26. In modo riassuntivo, Jens Lemanski / Daniel Schubbe, “Konzeptionelle Probleme und Interpretationsansätze der ‘Welt als
Wille und Vorstellung’”, in D. Schubbe / Matthias Koßler (Hrsg.), Schopenhauer Handbuch, J. B. Metzler, Stuttgart – Weimar, 2014, pp. 36-43, p. 36-7. Cfr. anche la
formulazione in A. Schopenhauer, Der handschriftliche Nachlaß, I, op. cit., p. 462.
10 Per una discussione critica di questo punto, cfr. Oliver Hallich, “Ethik”, in D.
Schubbe / M. Koßler (Hrsg.), Schopenhauer Handbuch, op. cit., pp. 73-85, p. 77s.
11 Volker Spierling, Arthur Schopenhauer zur Einführung, Junius, Hamburg, 2002, p. 23.
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L’altro Schopenhauer
tica. Ma è solo con l’etica che si fanno davvero i conti con la metafisica della volontà: la volontà va negata appunto perché è dolore.
L’aver indicato la possibilità e fattibilità di tale liberazione è il punto
d’arrivo della filosofia di Schopenhauer.12 Certo si tratta di una soluzione di difficilissima realizzazione perché si contrappone alla vita.13
Difatti, il momento principale di questo percorso di redenzione, l’ascesi, è intesa in senso forte: rifiuto del piacevole, ricerca dello spiacevole,
penitenza, macerazione di sé, mortificazione della volontà (M I, 463).
La negazione della volontà è comunque additata come una possibilità, che fa leva sulla capacità umana di andare oltre i fenomeni, di
penetrare il principium individuationis. La stessa capacità che rende possibile la compassione, l’essenza della moralità.
Ma la negazione della volontà è un gradino oltre l’ambito etico. Il velo dell’egoistico confine tra la propria persona e quella altrui è sollevato, tanto che non solo si partecipa delle sofferenze altrui come nella
compassione, ma ci si spinge fino al sacrificio della propria individualità. Da qui segue “di per sé” (M I, 447) il riconoscere come proprio tutto il dolore del mondo, percepito “così vicino, come solo all’egoista la
propria persona” (M I, 448).14
Ma c’è anche un’altra via, la più comune, ed è quella dell’esperienza del proprio dolore (M I, 463). L’eccesso di dolore svela l’intimo
segreto della vita: male e cattiveria, dolore e odio, tormentato e tormentatore sono una cosa sola, manifestazione della volontà di vita che oggettiva il contrasto con se stessa mediante il principio di ragione, che li
fa apparire diversi. Questa presa di coscienza apre le porte alla rassegnazione e alla possibilità di negazione della volontà (M I, 465).15 Il
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
R. Malter, Arthur Schopenhauer: Transzendentalphilosophie und Metaphysik des Willens,
Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt, 1991, p. 51.
13 Ivi, p. 441.
14 Sulla “riabilitazione dell’egoismo”, cfr. M. Koßler, “Schopenhauers Soteriologie”
(WI §§68-71), in O. Hallich, M. Koßler (Hrsg.), Arthur Schopenhauer: Die Welt als Wille
und Vorstellung (= Klassiker Auslegen, Bd. 42), De Gruyter, Berlin, 2014, pp. 171190, p. 173s.
15 Sulla differenza tra ascesi e rassegnazione, cfr. O. Hallich, Mitleid und Moral. Schopenhauers Leidensethik und die moderne Moralphilosophie, Königshausen & Neumann,
Würzburg, 1998, p. 31s.
12
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Michelantonio Lo Russo
risultato non è garantito, poiché tra coscienza del dolore e negazione
della volontà il rapporto non è di causa-effetto (M I, 467).
La soteriologia presentata nel Mondo è stata definita sorprendente
e controversa. Per tanti aspetti. Il più importante dei quali è che la
negazione della volontà non indica né un fenomeno né un concetto filosofico unitario. Può riferirsi a uno stato cui si perviene, a una forma
di conoscenza, o a una pratica, quella dell’asceta che lotta contro la
propria volontà.16
Il dolore conosciuto e il dolore sentito aprono la via della rigenerazione, questa la proposta. Ma il punto d’arrivo rimane qualcosa di misterioso, una specie di dono poiché, se giunge, è come se giungesse da
fuori (M I, 478). Questo fenomeno prezioso e raro è spiegato anche, e
non a caso, con il ricorso alla grazia.17
Da questo punto di vista, può essere che l’esito possa essere considerato poco convincente. Perché pretende troppo dall’uomo. Ma questa
non è l’ultima parola, poiché esiste anche un altro lato dell’opera di
Schopenhauer che lascia intravedere un altro percorso, segnato dal
compromesso, lontano dall’annullamento della volontà. Questo percorso è quello additato negli Aforismi sulla saggezza della vita, contenuti
nei Parerga e Paralipomena. Un testo scritto utilizzando come prospettiva l’affermazione della volontà, e con lo scopo di fornire una sorta di
mappa sul come evitare l’infelicità.
Gli Aforismi sono l’opera che, più di altre, risente della lezione della
filosofia popolare dell’illuminismo tedesco, di quella britannica, dei
grandi moralisti francesi e di Baltasar Gracián.18 Ma anche, in generale, dell’insegnamento degli antichi.
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16M.
Koßler, Schopenhauers Soteriologie, op. cit., p. 175.
Sul ruolo della grazia nella negazione del volere e sulle differenze con la concezione di Agostino, cfr. M. Koßler, Empirische Ethik und christliche Moral, Königshausen & Neumann, Würzburg, 1999, p. 90-102.
18 Robert Zimmer, “Moralistik”, in D. Schubbe / M. Koßler (Hrsg.), Schopenhauer
Handbuch, op. cit., pp. 208-210; Id., “Schopenhauers zweites Hauptwerk. Die Parerga und Paralipomena und ihre Wurzeln in der Aufklärungsesayistik und Moralistik”, in Schopenhauer-Jahrbuch 94, 2013, pp. 143-155.
17
%)! !
L’altro Schopenhauer
È in quest’opera che l’appartenenza di Schopenhauer alla tradizione della filosofia come modo di vita si fa convincente. Il filosofo dice
espressamente di cosa si tratta:
Prendo qui il concetto di saggezza del vivere in un senso immanente,
cioè nel significato dell’arte di percorrere la vita nel modo quanto più
possibilmente piacevole e felice. L’avviamento a quest’arte si potrebbe
anche chiamare eudemonologia: si tratta quindi di indicare l’esistenza felice. 19
Un’esistenza che, in sé, è qualcosa di desiderabile, dunque preferibile
alla non-esistenza, e la cui durata, in genere, ci si augura possa essere
dilatata nel tempo all’infinito. Ma tutto questo è contrario al senso profondo che anima gli scritti di Schopenhauer, permeati dalla coscienza
del dolore che attraversa la vita, e dallo sforzo di ridurre al minimo la
volontà di vita fino all’autosoppressione della stessa. L’eudemonologia, invece, si basa sul presupposto che l’essere sia preferibile al nonessere. Questa è la ragione per cui, negli Aforismi, il consueto punto di
vista metafisico è messo da parte.20
Ciò che vi si trova è, come scrive Schopenhauer stesso nell’introduzione, “un accomodamento” (P I, p. 423), dato dal fatto di rimanere all’interno del punto di vista empirico, che considera la vita come
qualcosa desiderabile in sé, qualcosa cui siamo naturalmente attaccati,
e non solo perché temiamo la morte. Questo accomodamento rientra
tra i mutamenti di prospettiva che Schopenhauer offre nella sua opera, da lui intesa non come una sistematica catena di pensieri, bensì come
un qualcosa di organico, in cui le parti sostengono il tutto e viceversa
(M I, VIII-IX).
I cambi di prospettiva sono imposti dal suo metodo, che non fa mistero di partire da determinati presupposti, ma che esplicitamente mette
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
A. Schopenhauer, Parerga e paralipomena I (1851), d’ora in poi P I, tr. it. Giorgio
Colli, Adelphi, Milano, 2007!, p. 423.
20 Sull’interpretazione della metafisica come un “mezzo meditativo” per un “fine
eudemonologico” nel contesto degli Aforismi, cfr. Heinz Gerd Ingenkamp, “Schopenhauer als Eudaimonologe”, in Schopenhauer-Jahrbuch 87, Königshausen & Neumann, Würzburg, 2006, pp. 77-90, p. 78.
19
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Michelantonio Lo Russo
in conto di compensare l’arbitrio connesso ad un inizio di questo tipo,
appunto con il cambiamento del punto di vista, cioè del vedere le cose dal punto di vista opposto (P II, § 27, p. 48).21
Così, ad esempio, nel Mondo, l’unilateralità del punto di vista della
filosofia trascendentale è completato con quello materialista. Ambedue queste prospettive costituiscono l’ambito del mondo come rappresentazione, la cui unilateralità è a sua volta compensata dal punto di
vista del mondo come volontà. All’interno del mondo come volontà e
rappresentazione, infine, alla prospettiva dell’affermazione della volontà è contrapposta quella della sua negazione.
Questo modo di procedere cerca di restituire la complessità dell’esistenza senza ricorrere a qualche ente assoluto, mettendo in conto il rischio di esporsi a qualche ambiguità. Ciò che ne risulta è il carattere
aperto del pensiero di Schopenhauer, in cui le diverse prospettive si rimandano a vicenda, relativizzandosi e completandosi.22
Per questo, negazione della volontà e ascesi non sono il punto d’arrivo del pensiero di Schopenhauer, ma solo un lato di una delle diverse aporie presenti nella sua opera, quella esistenziale, aperta dalla
tensione tra affermazione e negazione della volontà di vita.23 Il percorrere l’una o l’altra di queste due vie è frutto di una scelta, è l’oggetto di una decisione che subentra quando l’uomo inizia a chiedersi
“se la fatica e i sacrifici della sua vita e del suo agire siano compensati
dal guadagno, si le jeu vaut-il bien la chandelle” (M II, 656).
Hadot ha ricordato la distinzione schopenhaueriana tra “sistema
di pensiero” e “unico pensiero”, cioè tra “sistema architettonico” e
“sistema organico”, facendo notare come a ciascuno di questi due tipi
corrisponda un ideale di saggezza, vale a dire come, rispettivamente,
“sapere universale”, tipico della tradizione platonico-aristotelica, e
come “attenzione alla presenza del Logos in tutte le cose”, alla base
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
Sui “cambiamenti dei punti di vista”, cfr. Volker Spierling, Arthur Schopenhauer. Eine
Einführung in Leben und Werk, Reclam, Leipzig, 1998, pp. 223-240.
22 Ivi, p. 69.
23 Daniel Schubbe, Philosophie des Zwischen. Hermeneutik und Aporetik bei Schopenhauer,
Königshausen & Neumann, Würzburg, 2010, pp. 146-150. Cfr. anche Martin
Booms, Aporie und Subjekt. Die Erkenntnistheoretische Entfaltungslogik der Philosophie Schopenhauers, Königshausen & Neumann, Würzburg, 2003.
21
%+! !
L’altro Schopenhauer
della proposta stoica. Ma a questi due tipi di classificazione, Hadot ne
ha aggiunto una terza, che non descrive un tipo ideale di saggezza, ma
un itinerario in cui la dimensione pedagogica è in primo piano e che
caratterizza la filosofia come uno sforzo, un esercizio caratterizzato da
esitazioni, incoerenze e conflitti interni.24 Quest’ultimo è l’ambito in
cui collocare gli Aforismi che, se sono un compromesso, lo sono perché
riflettono un solo punto di vista, quello empirico. Non propongono
una negazione della volontà, bensì una sua modulazione.
Quando vengono pubblicati l’autore ha sessantatré anni. Il successo è grande, anche perché forse coglie un nervo scoperto di un’epoca
in cui la retraite, il ritiro nel privato era una sorta di fenomeno di massa.25 Ma quell’opera viene da lontano. La sua concezione e i suoi abbozzi accompagnano il progetto e la stesura del Mondo.26
Schopenhauer inizia giovanissimo a raccogliere massime di vita, poi
raggruppate in una triplice ripartizione: di ciò che uno è; di ciò che
uno ha; di ciò che uno rappresenta. Il primo ambito è quello che, nella prospettiva del soffrire il meno possibile, fa la differenza. Una personalità ben centrata è infatti la migliore arma contro il vuoto interiore
e la noia, e permette di guadagnare una giusta distanza verso le cose
di fuori che non dipendono da noi: possesso, rango, amicizie, affetti,
ad esempio. L’autonomia individuale che s’inizia a delineare, è poi ulteriormente rafforzata dal contenuto del capitolo Parenesi e massime,
una sorta di guida alla saggezza, che è individuata nella ricerca non del
piacere ma dell’assenza di dolore, attraverso il comportamento adeguato da tenere verso se stessi, gli altri e il destino.
Gli Aforismi non sono dunque un’eccezione nella produzione teorica di Schopenhauer. Le tematiche trattate sono una costante del suo
interesse di studioso. Tra le primissime annotazioni rinvenute tra le
carte del filosofo c’è infatti questo appunto:
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P. Hadot, Les divisions des parties de la philosophie dans l’Antiquité (1979), ora in Id.,
Études de philosophie ancienne, Les Belles Lettres, Paris, 2010", pp. 123-158, p. 149-151.
25 H. G. Ingenkamp, “Aphorismen zur Lebensweisheit”, in Schopenhauer Handbuch,
op. cit., pp. 142-145, p. 143.
26 V. Spierling, Arthur Schopenhauer. Eine Einführung in Leben und Werk, op. cit., p. 205.
24
!
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Michelantonio Lo Russo
Perciò massime di saggezza e regole di prudenza non sostituiranno mai
l’esperienza, non saranno mai un surrogato della vita. Eppure non vanno respinte, perché appartengono alla vita; vanno piuttosto tenute in
gran conto e considerate come i quaderni in cui altri hanno scritto seguendo quel grande insegnamento dello Spirito del mondo, ma che
per loro natura potevano soltanto essere imperfetti, e mai in grado di
sostituire quell’autentica viva vox.27
L’interesse per la saggezza pratica degli Aforismi non è una “svolta
senile”. Arte del vivere e arte del non-vivere rappresentano una polarità costante nella vita del filosofo francofortese. Il Mondo, con tutta la
carica soteriologica che lo contraddistingue, cioè di redenzione e salvezza dalla volontà, non è né il primo né l’ultimo messaggio che Schopenhauer ci ha lasciato. Nelle sue opere aleggia sempre anche l’aspetto
eudemonologico, l’arte di vivere che si rifà, oltre ai moralisti francesi
e tedeschi, anche alla grande tradizione stoica ed epicurea.28 Due
scuole in cui la tematica degli esercizi spirituali, nel senso che Hadot ha
dato a questo termine, raggiunge vette insuperate.
Schopenhauer, ad esempio, è certamente colui che ha indicato nell’ascesi la via maestra per l’autosoppressione della volontà. Ma è anche il
filosofo che non ha smesso di porre l’accento su tratti più propriamente
eudemonologici, come la meditazione sulla libertà del volere, sull’immutabilità del carattere oppure sul destino e sulla tranquillità dell’anima.
Per tacere di elementi classici della riflessione ellenistica come il dominio di sé oppure il controllo delle passioni.29
Nelle sue opere è sempre ravvisabile il solco profondo, la contraddizione, tra il voler vivere e il non voler soffrire. Questi due poli caratterizzano costantemente la meditazione schopenhaueriana. L’ultima
parola non è dunque l’annullamento della volontà. Perché insieme a
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
A. Schopenhauer, “I manoscritti giovanili 1804-1818”, in Id., Scritti Postumi, a c.
di Arthur Hübscher, ed. it. a c. di Franco Volpi, tr. it. Sandro Barbera, Vol. I, tr. it.
Adelphi, Milano, 1996, § 18, p. 18.
28 Cfr. Giovanni Gurisatti, Schopenhauer maestro di saggezza, Colla, Costabissara, 2007.
Testo imprescindibile per questa tematica.
29 Sul carattere “apertamente epicureo” degli Aforismi, cfr. H. G. Ingenkamp,
“Erlösung durch Humor. Ansätze einer weltbejahenden Ethik bei Schopenhauer”,
in Schopenhauer-Jahrbuch 79, 1998, pp. 137-148, p. 138
27
%#! !
L’altro Schopenhauer
questo elemento, c’è anche sempre lo sforzo teso verso la necessità di
comprendere chi e cosa si è, la propria natura, cioè di acquisire il proprio carattere individuale, che è un compito che equivale allo stesso
vivere, all’esercizio teso alla progressiva trasparenza del sé a se stessi.
Agire in accordo con la propria natura, conoscere i propri punti di
forza e debolezza, essere a conoscenza dei lati immutabili della nostra
persona che guidano il nostro volere: questo vuol dire, in Schopenhauer, avere carattere. La distinzione tra carattere intelligibile, empirico e
acquisito serve a farci prendere coscienza dell’intima natura del nostro
proprio volere, a iniziare un percorso di cura e conoscenza di sé il cui
traguardo ideale potrebbe essere definito come un non desiderare d’essere altro da ciò che si è realmente, un essere artefici del proprio destino perché lo si accetta come tale.
In fondo, un compito terapeutico, perché equivale a percorre la
strada maestra per evitare la scontentezza, il tormento del mancato
autoriconoscimento, cioè la sofferenza causata da pentimento e rimorso. Non è un caso che, nel Mondo, si dica che un grande merito dell’etica
stoica è stato quello di aver chiarito che i tormenti dell’animo non
sono dati tanto dal non avere, quanto dal voler avere quando non si
ha (M I, 104). Ed è su questo che bisogna lavorare.
Dietro le figure dei caratteri, però, si cela un nodo irrisolto, cioè
l’individualità appunto dei caratteri.30 L’uscita dal giogo del dolore e
della noia può avvenire solo andando oltre il principium individuations,
squarciando il velo di Maja, al di là della soggettività, che è il regno
dell’egoismo. Il polo soteriologico esige come suo ideale regolativo la
scomparsa dell’individualità, la sua fusione nell’Altro, la comprensione che, di fatto, si è fatti della stessa pasta, si è manifestazione della
volontà, che è unica e non ha nulla fuori di sé.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
Cfr. G. Gurisatti, Caratteriologia, metafisica e saggezza. Lettura fisiognomica di Schopenhauer,
Il Poligrafo, Padova, 2002.
30
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%$!
Michelantonio Lo Russo
Ma il polo eudemonologico impone una figura della soggettività
che non è affatto mera apparenza. Anzi, impone la stessa unicità della
soggettività.31 Di ogni soggettività. L’individualità, scrive Schopenhauer,
non è integralmente mera apparenza, bensì essa è radicata nella cosa in
sé, nella volontà del singolo: infatti il suo carattere stesso è individuale. A quale profondità giungano le sue radici è una questione alla
quale non mi metto a rispondere (P II, § 116, p. 300).
Qui, l’elemento soteriologico non può che cedere il passo a quello
eudemonologico, alla cura di sé. È il terreno degli Aforismi, che indicano una strada tortuosa, quella del soffrire il meno possibile. Il carattere forse non muta, ma la conoscenza sì. Una situazione in fondo un po’
paradossale: il sapere può migliorare “l’operari”, senza che “l’esse” ne
sia toccato.
In particolare, l’invito è a lavorare sulla consapevolezza delle sofferenze causate da un agire che non è in accordo con la propria natura.
È questo il dolore che va evitato. Quest’assenza di dolore è l’essenza
della felicità “consigliata” da Schopenhauer. Perché non c’è nessuna
via diretta verso qualcosa di denotabile, appunto, come “felicità”. Non
sarebbe stato possibile, data l’impostazione di fondo dell’autore, secondo il quale credere che noi esistiamo in vista della felicità, è né più
né meno che un errore innato.
I trattati eudemonologici classici, con le loro formule e precetti tesi all’ottimismo, non fanno che fortificare questo errore, aumentando la
confusione e il dolore, il disappointment che si legge soprattutto nei volti
senili, quando ormai le speranze e le illusioni sono messe da parte (M
II, 730).
I dogmi morali, in quest’impostazione, sono visti come delle mappe, degli schemi che servono per giustificare le azioni non egoistiche.
Ma si tratta solo di uno schermo, perché la vera ragione per cui, raramente, si devia dall’egoismo, rimane un mistero. Dogmi, abitudini ed
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
Sulla contraddittorietà tra il concetto di eudemonologia e quello di personalità in
Schopenhauer, cfr. Konstantin Alogas, “Enthält Schopenhauers Philosophie einen
Eudaimonia-Begriff?”, in Schopenhauer-Jahrbuch, 2014, pp. 71-89, pp. 88-9.
31
'&! !
L’altro Schopenhauer
esempi possono, se esercitati, al massimo diventare dei motivi per l’azione. E l’influenza di questi motivi sulla volontà è da intendersi come un suggerimento, l’indicazione di una via diversa, alternativa per
giungere alla stessa meta. La volontà in se stessa, la nostra vera natura, che si rispecchia nel carattere intelligibile, non ne è intaccata.
L’esperienza ci insegna ciò che vogliamo. Questo conoscere la nostra
volontà, la propria natura, è ciò che caratterizza un agire sicuro, che
non esita né oscilla. E la riduzione in massime di questo tipo d’agire
fa parte del carattere acquisito (M I, 360). Schopenhauer, nel Mondo,
scrive che il carattere acquisito “è importante non tanto per l’etica vera
e propria, quanto per la vita nel mondo” (M I, 362). Per questo l’ambito tematico che caratterizza l’acquisizione del carattere è il punto che
unisce idealmente la metafisica della volontà presentata nel Mondo,
con il contenuto degli Aforismi. Un libro, quest’ultimo che, totalmente
nel segno della tradizione dei moralisti, non parte da un unico pensiero, ma è concepito come un’opera aperta. Qui non c’è più traccia di
santità, trascendenza ascetica o di superamento dell’egoismo mediante l’identificazione con l’Altro bensì, al contrario, si ritrovano meccanismi di difesa che fanno leva sulla distanza e la separatezza dagli altri.32
La struttura degli Aforismi, questo trattato sul come evitare una vita
infelice, con quelle frasi che rimandano direttamente alla tradizione dei
grandi moralisti ma anche a quella degli esercizi spirituali in filosofia,
sta a dimostrare che, anche se la conoscenza può solo suggerire delle vie
alternative ma non la meta, tuttavia vale la pena mettersi in cammino.
Certo, è un trattato che si distingue più per il suo carattere “di parte” che per quello “ecumenico”, a differenza dell’epicureismo cui a tratti
sembra ispirarsi. Questo perché le pagine di questo libro, in sostanza,
concernono “la presentazione e la raccomandazione di una forma di
vita”.33 Una forma di vita adatta a un ideale di personalità che punta
tutto sulla ricchezza interiore, avendo cura di coltivare le proprie doti
spirituali e fuggendo il mondo il più possibile. Un ideale di personali!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
32 Cfr. R. Zimmer, “Philosophie der Lebenskunst aus dem Geist der Moralistik. Zu
Schopenhauers Aphorismen zur Lebensweisheit”, in Schopenhauer-Jahrbuch 90, 2009,
pp. 45-64.
33 H. G. Ingenkamp, Schopenhauer als Eudaimonologe, op. cit., p. 80-1.
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Michelantonio Lo Russo
tà i cui contorni si confondono con quelli dell’autore e che, per questo,
ha il carattere dell’eccezione piuttosto che della regola.34
Nello scrivere gli Aforismi, Schopenhauer attinge però a un vasto
repertorio classico, permeato dalla filosofia come modo di vivere. Da
qui le chiare tracce di questa tradizione in questo piccolo libro che ha
conosciuto un buon successo. Ha scritto Rüdiger Safranski:
Gli Aforismi sulla saggezza del vivere divennero, dopo il 1850, il libro di famiglia della borghesia colta. L’etica delineata negli Aforismi è diversa
da quella della compassione, perché mira all’adattamento al principio
di autoconservazione, e a vivere in modo moderatamente felice. Cioè,
mette tra parentesi la negazione della volontà. Questo il motto ideale
di quest’etica del “come se”: se facciamo finta che la vita valga la pena di essere vissuta, come possiamo fare per raggiungere il massimo
della felicità? Il “come se” mette da parte lo scandalo metafisico della
negazione del volere. Negli Aforismi, il pungiglione più pericoloso risulta essere “il mondo degli altri in noi”, cioè il valore dato ai beni
esteriori, ai giudizi ecc. In questi aforismi, si fa i conti con il peggio
per cavarsela con il male minore.35
In realtà, in quest’opera non ne va di un’etica del “come se”, di una
specie di surrogato etico. Piuttosto, quest’opera va vista come un progetto di filosofia dell’arte di vivere, che va a completare l’etica schopenhauriana delineata nelle opere precedenti.36
Basterebbe questo per accomunare Schopenhauer alla tradizione
della filosofia come stile di vita. Ma c’è di più. Gli argomenti degli
Aforismi si ritrovano, a volte, in piccoli trattati separati nascosti nelle
carte postume del filosofo, su cui la critica ha gettato nuova luce. È il
caso, ad esempio, dell’Eudemonologia, ovvero dell’Arte di essere felici, esposta in cinquanta massime. Nell’introduzione a questo “manualetto”, il
curatore dell’edizione italiana, Franco Volpi, ha indicato con estrema
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R. Zimmer, Arthur Schopenhauer. Ein philosophischer Weltbürger, Dtv, München, 2010,
p.238.
35 R. Safranski, Schopenhauer e gli anni selvaggi della filosofia. Una biografia (1987), tr. it.
Luca Crescenzi, Longanesi, Milano, 1997, p. 490s.
36 R. Zimmer, Arthur Schopenhauer. Ein philosophischer Weltbürger, op. cit., p. 223.
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L’altro Schopenhauer
chiarezza la tradizione che fa capolino in queste massime dalla fuzione parenetica:
Dall’intensa frequentazione dei classici greci e latini, dei grandi moralisti, dei massimi filosofi di ogni tempo, letti e studiati come maestri di
vita, e poi, dal 1813-14, dallo studio della sapienza indiana, Schopenhauer impara a concepire la filosofia non solo come sapere teorico,
ma anche come forma di vita ed esercizio spirituale, non solo come
pura conoscenza, ma anche come insegnamento sapienziale e saggezza pratica.37
Forma di vita, esercizio spirituale. Più espliciti non si potrebbe essere. Ma Franco Volpi ribadisce il concetto anche introducendo un altro di questi piccoli trattati, Senilia:
La filosofia non è soltanto la costruzione di un edificio teorico indifferente alla vita, ma è anche comprensione pratica della vita che le dà
forma e la orienta. È saggezza e cura di sé: una dimensione del sapere
filosofico, questa, che la tradizione accademico-universitaria ha trascurato, ma che si tratta di ritrovare e rinnovare.38
E qui, in nota, Volpi cita proprio Hadot.
Ma l’appartenenza di Schopenhauer alla tradizione della filosofia
come modo di vita, è maggiore negli Aforismi che, in generale, possono essere considerati come una morale provvisoria, propedeutica a
un punto di vista più elevato.39
Punto di vista che può essere forse identificato nella figura del saggio della filosofia antica. Un ideale regolativo, una meta irraggiungibile. Se è così, allora, il padroneggiamento dell’esistenza suggerito negli
Aforismi, cioè quel particolarissimo tirocinio mirato all’essere il meno
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
F. Volpi, “Introduzione” a A. Schopenhauer, L’arte di essere felici esposta in 50 massime,
tr. it. Adelphi, Milano, 200725, pp. 11-22, p. 14.
38 Id., “Quando il Nilo sta arrivando al Cairo”, in A. Schopenhauer, L’arte di invecchiare, tr. it. G. Gurisatti, Adelphi, Milano, 20093, pp. 11-36, p. 19.
39 Piero Martinetti, Schopenhauer, Garzanti, Milano, 1941, p. 30.
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Michelantonio Lo Russo
infelici possibile, sarebbe in realtà già tantissimo, forse il massimo cui
un essere uomo possa ragionevolmente aspirare.
D’altronde, quest’idea che gli esercizi siano il primo gradino di una
formazione spirituale più alta, è presente anche nell’antichità. Simplicio, ad esempio, nel suo Commento al Manuale di Epitteto trascritto da
Arriano, sostiene appunto che l’opera del maestro stoico non è destinata a coloro che vogliono acquisire le virtù catartiche (o purificatrici),
e neppure le teoretiche (o contemplative), bensì a coloro che vogliono
padroneggiare le virtù morali (o politiche).
E le virtù politiche, dette anche civiche o pratiche, nel neoplatonismo, sono caratterizzate dallo sforzo di dominare le passioni, nel senso della metriopatia peripatetica. A differenza delle virtù catartiche,
teoretiche e paradigmatiche, sono ancora legate al corpo, e il loro ambito d’esercizio è la vita sociale.40
Gli Aforismi di Schopenhauer, dunque, sono appunto un esempio
di questi tentativi di padroneggiamento dell’esistenza, alla quale spesso la filosofia ha guardato come prima tappa di un eventuale sviluppo
spirituale più alto che, però, rimane nell’ambito del possibile. Gli Aforismi, invece, proprio perché scritti dal punto di vista empirico, disegnano lo sviluppo di una personalità autonoma, conscia che la vita valga
la pena di essere vissuta “con grande partecipazione e molta cura, finché è possibile, come si gonfia una bolla di sapone il più a lungo e più
che si può, seppure con la ferma certezza che scoppierà” (M I, 367).
Il pensiero della morte serve a potenziare la cura del presente,
breve e prezioso. Da qui l’insistenza nel delineare i contorni di una
personalità che vive pienamente nel momento dato, senza essere appiattita dall’ottusità del volere eterodiretto, dall’unidimensionalità della
rincorsa a tutti i costi di stili di vita e valori che vanno per la maggiore, dal consumismo, dall’egoistica mancanza di riguardo verso i viventi. Per questo, ancora, il messaggio degli Aforismi è stato definito un
“Nirvana della quotidianità”.41 Cosa che, per analogia, richiama le
pagine conclusive del Mondo.
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40
41
I. Hadot e P. Hadot, Apprendre à philosopher dans l’Antiquité, LGF, 2004, p. 75s.
V. Spierling, Arthur Schopenhauer. Eine Einführung in Leben und Werk, op. cit., p. 218-9.
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L’altro Schopenhauer
A testimoniare il debito verso la filosofia antica degli Aforismi, vi è
poi anche la struttura del saggio, che è tripartita, perché gli ambiti
presi in considerazione sono tre. La posta in gioco, come ricordato, è
costituita da: ciò che uno è, ciò che uno ha, ciò che uno rappresenta
agli occhi degli altri. Ma è subito dopo queste tre trattazioni che la
questione si fa intrigante. Perché Schopenhauer passa a esaminare le
regole di vita, e lo fa in una sezione intitolata Parenesi e massime. Scusandosi con il lettore per la mancata compiutezza del capitolo, sottolineando d’aver scritto solo ciò che gli veniva in mente reputandolo
degno d’essere comunicato, scrive:
Per portare tuttavia un certo ordine nella grande molteplicità delle opinioni e dei consigli su questo argomento, voglio suddividere tali precetti, esaminando via via quelli generali, quelli riguardanti il nostro
comportamento verso noi stessi, verso gli altri e infine rispetto al corso del mondo e al destino (P I, p. 546).
E dunque, dopo la parte generale, gli ambiti presi in considerazione
sono: il comportamento verso noi stessi, verso gli altri e verso il mondo. Una triplice distinzione42 che ricalca gli ambiti d’esercizio di logica, etica e fisica vissuta presenti nelle Diatribe e nel Manuale di Epitteto,
struttura fatta propria anche da Marco Aurelio nei Pensieri.43
Qui, ogni titubanza deve essere messa da parte. La concordanza con
l’impostazione di Hadot è presente. Secondo quest’ultimo, infatti, il
fine degli esercizi, è triplice. La verità del giudizio deve essere subordinata al vivere al servizio della comunità umana, avendo sempre
ben presente che siamo parte di un contesto molto più vasto, quello
dell’universo che ci accoglie. Si tratta di tre movimenti trascendenti,
che hanno come base appunto la relazione con noi stessi nel giudizio,
con gli altri nelle azioni, e verso il cosmo nella contemplazione. Hadot,
qui, si fa portatore dello sguardo di fondo che, sulla filosofia, avevano
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42 L’opera in realtà è costruita attorno a una doppia tripartizione, più un capitolo
finale sulle età della vita. Cfr. H. G. Ingenkamp, “Eudämonologie”, in Michael Fleiter
(Hrsg.), Die Wahrheit ist nackt am schönsten. Arthur Schopenhauers philosophische Provokation,
Societäts-Verlag, Frankfurt am Main, 2010, pp. 191-198, p. 195.
43 Cfr. P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, op. cit., p. 135ss.
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Michelantonio Lo Russo
gettato in particolare gli stoici dell’età imperiale, e tra loro quelli cui
Hadot ha dedicato splendide monografie e traduzioni: Epitteto e
Marco Aurelio.
In entrambi questi filosofi, infatti, la suddivisione classica della filosofia in: logica, fisica, etica, corrisponde a degli ambiti di esercizio.
Delle vere e proprie discipline, tra loro strettamente interconnesse: dell’assenso (logica), del desiderio (fisica), delle tendenze (etica). Si tratta
sempre di sforzarsi di avere un giudizio adeguato, obiettivo sulle cose
del mondo, cercando di separare la rappresentazione delle cose in se
stesse dalle proiezioni dei nostri desideri, per finire con un agire corrispondente al servizio di chi ci sta intorno, tenendo presente che siamo tutti parte di un destino comune.44
Nella lettura di Hadot, il momento etico è un po’ il coronamento dell’educazione filosofica. Non potrebbe essere altrimenti, visto che l’orizzonte interpretativo è quello che vuole la filosofia come un modo
di vita. In Schopenhauer, se si prende come sfondo il suo insegnamento morale, allora si può dire che gli Aforismi, caratterizzati dalla
ricerca di una condotta appropriata, vanno ad integrare i due pilastri
della sua filosofia pratica, e cioè l’ambito propriamente morale e quello
ascetico. Il primo, è caratterizzato dallo sforzo di negazione dell’egoismo, dunque da una rinuncia relativa della volontà. Il secondo, da
una rinuncia assoluta. Se si considera che la compassione è ciò che ci
consente di denotare un’azione come morale, allora alla compassione
verso gli altri va aggiunta quella verso il dolore universale (ascesi), e
quella verso se stessi, il cui ambito sono appunto gli insegnamenti
contenuti negli Aforismi.45
2. Pratiche vecchie e nuove
Degli esercizi si possono dare varie classificazioni. Quella scelta da
Hadot è la più convincente, proprio perché ha sempre di mira il fatto
che il fine è quello dell’inserimento in una prospettiva universale, cioè
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
Ivi, pp. 135-154.
Matteo Vincenzo D’Alfonso, “‘Le cœur et la tête’: les enseignements moraux des
Parerga et Paralipomena”, in Schopenhauer-Jahrbuch 94, 2013, pp. 229-249, p. 246-48.
44
45
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