I FARMACI ANTIDEPRESSIVI
Se si considera l’impiego di farmaci antidepressivi si direbbe che la depressione è divenuta in Italia
e in Europa una vera e propria epidemia. In realtà l’impiego di questi farmaci è stato banalizzato
perché è diventato una specie di rimedio omnibus per tutti coloro che mostrano una qualche forma
di “infelicità”. Occorre infatti distinguere chiaramente la depressione, una grave malattia che può
portare al suicidio, dagli “stati depressivi” che rappresentano invece una situazione di
insoddisfazione dovuta a cause esterne. Se ad esempio si perde una persona cara, si è stati licenziati
o si sono subiti danni finanziari, è chiaro che non ci si possa sentire felici; ma ciò non rappresenta
una malattia che richieda una terapia farmacologica. Al contrario, proprio quando ci si trova di
fronte ad eventi sfavorevoli della vita, è importante fare appello alle proprie forze interiori per
reagire, chiedendo aiuto non tanto ai farmaci quanto semmai alla famiglia e agli amici. Invece, le
prescrizioni di farmaci antidepressivi sono diventate frequenti soprattutto con l’avvento dei farmaci
che agiscono sulla serotonina del sistema nervoso centrale aumentandone la disponibilità a livello
dei recettori serotoninergici. Il primo farmaco, definito dai mass media la pillola della felicità, è
stato la fluoxetina, seguito poi da un gran numero di prodotti analoghi a vari dosaggi che includono
paroxetina, sertralina, citalopram, mirtazapina ed altri. Questi farmaci hanno praticamente
sostituito, grazie ad un’abile azione pubblicitaria i vecchi farmaci antidepressivi triciclici (ad es.
imipramina, amitriptilina) ritenuti apparentemente più tossici. Tuttavia gli antidepressivi
serotoninergici, noti con la sigla SSRI, hanno subito negli ultimi anni una serie di critiche che
evidentemente non hanno raggiunto gli operatori sanitari. La prima è dovuta all’osservazione che vi
era un’anomalia nelle pubblicazioni. Venivano infatti pubblicati solo gli studi positivi, mentre
venivano archiviati gli studi negativi in cui gli SSRI non dimostravano vantaggi. Quando si è potuta
fare una valutazione complessiva di tutti gli studi, si è arrivati alla conclusione che gli SSRI
offrivano un beneficio rispetto al placebo solo per le gravi forme di depressione. Non vi era invece
differenza rispetto al placebo in tutte le forme di depressione che potremmo definire “minori”,
quegli stati depressivi cui si è accennato più sopra. In altre parole l’impiego dei farmaci
antidepressivi serotoninergici è inutile per la maggior parte dei casi. Non solo, ma siccome non
esistono farmaci innocui, sono man mano emersi rapporti riguardanti gli effetti tossici degli SSRI;
si sono scoperti effetti negativi ad esempio sulla densità ossea e sulla formazione di trombi. Una
recente ricerca svedese è ancora più preoccupante perché riguarda la mortalità nei giovani soggetti
depressi che assumono SSRI. Il 5,6 percento dei soggetti dall’età di 20-34 anni riceve un farmaco
antidepressivo che in oltre il 76 percento dei trattati è rappresentato da SSRI. In questa popolazione
la percentuale di mortalità è più alta per chi assume SSRI rispetto ai controlli. Per ogni 10.000
abitanti fra i 20 e i 34 anni che non usano farmaci antidepressivi si osservano 4 morti mentre tra i
trattati con SSRI se ne osservano 14. In altre parole il trattamento aumenta il rischio di morte di
circa oltre 3 volte (3,4 volte nei maschi e 5,1 volte nelle femmine). Pur richiedendo adeguate
conferme, l’insieme di queste considerazioni indica che l’impiego degli SSRI dovrebbe essere
limitato alle gravi depressioni per evitare che in tutti gli altri casi alla tossicità non si contrapponga
alcun beneficio.
Silvio Garattini
Milano, 26 aprile 2011