L`ironia socratica. - Agenzia Libraria Editrice

Approfondimento tematico
L’ironia socratica
Un aspetto essenziale e permanente del carattere di Socrate è
l’ironia, che è parte integrante di ciò che i contemporanei chiamavano
1topía. Essa è un atteggiamento costante, posto in essere dal Maestro
nelle discussioni con gli interlocutori.
L’ironia socratica consta di due elementi: in primo luogo Socrate
manifesta un iperbolico entusiasmo nei confronti della sapienza della
persona con la quale egli dialoga, giudicata eccellente e densa di
erudizione; rispetto all’oratoria politica e sofista, egli esprime un senso
di fascinazione e stordimento, che conferma il dialogante nella validità
delle proprie argomentazioni. Si veda ad esempio l’inizio di Apologia
17 a, ove egli esprime la propria ammirazione nei confronti dei discorsi
degli accusatori, a tal punto convincenti erano le argomentazioni
addotte (oÞtw piqanÔj ðlegon). Non solo: la suggestiva eloquenza
dell’accusa provoca in Socrate un momentaneo obnubilamento sensoriale, che lo porta a scordarsi di se stesso (2mautoû 2pelaqómhn).
Il secondo elemento dell’ironia è la dissimulazione di completa
ignoranza e di inettitudine espressa costantemente da Socrate, la quale
è conseguenza necessaria della sua non sapienza. Egli afferma più
volte di non sapere nulla, sia rispetto alle indagini naturalistiche
coltivate dai filosofi della natura (Apologia 19 c-d), sia rispetto all’educazione della gioventù (ibidem 20 a-c). E così pure in moltissimi altri
luoghi, che potremmo menzionare ad abundantiam. Tuttavia occorre
precisare questo aspetto; se è vero che Socrate asserisce di non sapere
nulla, è anche vero ch’egli ammette di avere svolto, in gioventù,
indagini naturalistiche: «… da giovane ebbi desiderio di acquisire
quella sapienza denominata ricerca sulla natura (perì fúsewj
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$storían); era per me molto stimolante conoscere le cause degli enti,
ovvero sapere il perché dell’esistenza della generazione e della corruzione. Esaminai accuratamente i problemi dei viventi… e poi dedicai
la mia attenzione ai fenomeni celesti…, ma alla fine mi convinsi di
non avere competenza alcuna in siffatte ricerche» (Fedone 95 e - 99
d).
Similmente in Simposio 177 e Socrate asserisce di essere competente solamente nelle cose d’amore (tà 2rwtiká). In ogni caso,
Socrate afferma di non sapere nulla e di non avere alcuna dottrina da
trasmettere, esercitando la stessa professione della madre, la levatrice
Fenarete, ossia l’arte maieutica (maieutikÈ téxnh). Vi è una sola
differenza: mentre l’arte della madre è rivolta al corpo, per facilitare
il parto, l’arte socratica si rivolge invece agli uomini e non alle donne,
all’anima gravida di corretti e validi pensieri e non ai corpi. Il dio gli
ordina di esercitare quest’arte, negandogli tuttavia la possibilità di
generare qualcosa di suo. E pertanto il Maestro ritiene giusto il
rimprovero dei suoi concittadini: non essendo sapiente, egli continua
ad interrogare con insistenza gli Ateniesi, senza però fornire alcuna
soluzione. E così i giovani che frequentano il Maestro da lui non
apprendono nulla, ma sono essi stessi che, sollecitati da Socrate,
producono eccellenti ragionamenti (Teeteto 149 a - 150 d).
Donde nasce, dunque, codesta non sapienza socratica (1gnwsía)?
Bisogna ritornare alla difesa di Socrate davanti al tribunale ateniese.
Di fronte all’accusa di essere un educatore e di percepire denaro
similmente ai sofisti, egli asserisce che ciò non è vero, cercando di
esporre ai magistrati l’origine e le caratteristiche di questa sua sapienza, che egli definisce umana (1nqrwpính sofía). Egli intende produrre quale testimonianza incontrovertibile il responso oracolare delfico: richiesto dall’amico Cherefonte se ci fosse qualcuno più sapiente
di Socrate, la sacerdotessa di Delfi, interprete della sapienza apollinea,
rispose perentoriamente che nessuno era più sapiente di lui (1neîlen
oÙn # Puqía mhdéna sofÓteron eñnai). Ciò provocò somma
stupefazione nel filosofo, il quale, per conoscere l’autentico significato
del vaticinio, iniziò la sua peregrinazione per Atene, interrogando
coloro che riteneva sapienti: gli uomini politici, i poeti, gli artigiani.
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Per quanto concerne i primi, esaminando un politico del quale non
viene menzionato il nome, ma che era ritenuto sapientissimo dagli
Ateniesi, Socrate rileva che quell’uomo non conosceva assolutamente
nulla, né di bello né di buono, esattamente come il filosofo stesso
(#mÔn o7déteroj o7dèn kalòn k1gaqòn e4dénai). Vi era soltanto
una piccola differenza: il politico aveva la convinzione di possedere
una grande sapienza mentre in realtà non conosceva nulla; al contrario,
Socrate, dal momento che non possedeva cognizione alcuna, aveva la
certezza di non sapere nulla (1ll/ oÚtoj mèn oÎetaí ti e4dénai o7k
e4dÓj, 2gÒ dé, ßsper oÙn o7k oñda, o7dè oÎomai). Lo stesso
discorso è valido sia per gli artigiani che per i poeti. E pertanto Socrate
è in grado di sciogliere il contenuto enigmatico del vaticinio oracolare
delfico: egli è il più sapiente degli uomini, poiché è consapevole che
la sapienza umana null’altro è se non vanità (Apologia 21 a - 23 b).
Successivamente il filosofo dichiara di essere completamente d’accordo con l’interlocutore tranne che in una «piccola questione irrilevante» su cui è perplesso. Codesta irrilevante questione è di tale forza
argomentativa da annichilire totalmente la tesi del contendente (si
vedano Protagora 328 e; Gorgia 461 d; Simposio 199 b-c; Teeteto 145
d), provocando quella stupefazione, quello sconcertante smarrimento
che, con somma maestria, Platone descrive nel dialogo Menone 80 a-b,
che qui giova riportare: «O Socrate, prima di incontrarti, già avevo
udito che non fai altro che dubitare e mettere in dubbio pure le altre
persone; ora, a quanto pare, mi affascini, mi seduci con la tua eloquenza, mi incanti, non mi concedi alcuna via d’uscita. E mi sembra… che
tu sia simile sia per l’aspetto sia per il resto alla piatta torpedine marina,
che intorpidisce quando la tocchi, così come tu, o Socrate, hai fatto
con me. E veramente io sono intorpidito e nella mente e nella bocca e
non so più che dire! Nel passato ho tenuto buone orazioni sulla virtù
innanzi a un folto pubblico di uditori, ma ora non so più che cosa essa
sia!».
Potentissima è dunque la fascinazione socratica; come tanti altri
interlocutori, anche il giovane Menone di Larissa, in Tessaglia, discepolo di Gorgia, viene annichilito dall’ironia e dalla maieutica filosofica
di Socrate. Si comprende quindi il motivo per cui egli venne recepito
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come Maestro, non solo da Platone e dai socratici ma anche dai filosofi
non greci e nelle età posteriori. Cicerone, ad esempio, così ne parla
(Tusc. Disp., V, 4, 10-11): «Socrates autem primus philosophiam
devocavit e caelo et in urbibus conlocavit et in domus etiam introduxit
et coëgit de vita et moribus rebusque bonis et malis quaerere. Cuius
multiplex ratio disputandi rerumque varietas et ingeni magnitudo
Platonis memoria et litteris consecrata plura genera effecit dissentientium philosophorum; e quibus nos id potissimum consecuti sumus, quo
Socratem usum arbitrabamur, ut nostram ipsi sententiam tegeremus,
errore alios levaremus, et in omni disputatione quid esset simillimum
veri, quaereremus» («Per primo, Socrate trasse la filosofia dal cielo,
la introdusse nelle città e nelle dimore, e la costrinse ad indagare la
vita e i costumi, e ad interessarsi di ciò che è bene e di ciò che è male.
La sua metodologia dialettica, la molteplicità argomentativa, nonché
la profondità del suo intelletto risultano negli scritti platonici; ne
conseguirono disparate scuole filosofiche, fra le quali noi ci proponiamo di seguire il metodo socratico: dissimulare le proprie opinioni,
liberare l’interlocutore dall’errore intellettuale, cercare di attenersi il
più possibile alla verità»).
Con queste semplici parole, Cicerone rileva il carattere profondamente innovativo della filosofia socratica, rispetto alle precedenti
indagini sulla natura. Far ridiscendere la filosofia dal cielo alla terra
significa solamente questo: abbandonare ciò che l’intelletto dell’uomo
non potrà mai comprendere e ricercare il fondamento dell’Essere,
dell’Esistenza della Vita e della Morte all’interno della nostra anima,
della nostra struttura conoscitiva, senza la quale l’universo intero,
come scrive Schopenhauer, così reale con tutti i suoi soli, i mondi, la
Via Lattea, altro non è che un misero nulla! Codesto concetto viene
ribadito da Cicerone in Acad. I, 4, 15: «Socrates mihi videtur, id quod
constat inter omnes, primus a rebus occultis et ab ipsa natura involutis,
in quibus omnes ante eum philosophi occupati fuerunt, avocavisse
philosophiam et ad vitam communem adduxisse, ut de virtutibus et de
vitiis omninoque de bonis rebus et malis quaereret, caelestia autem vel
procul esse a nostra cognitione censeret vel, si maxime cognita essent,
nihil tamen ad bene vivendum. Hic in omnibus fere sermonibus, qui
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ab iis qui illum audierunt perscripti varie copioseque sunt, ita disputat
ut nihil affirmet ipse, refellat alios, nihil se scire dicat nisi id ipsum,
eoque praestare ceteris, quod illi quae nesciant scire se putent, ipse se
nihil scire id unum sciat, ob eamque rem se arbitrari ab Apolline
omnium sapientissimum esse dictum, quod haec esset una hominis
sapientia, non arbitrari sese scire quod nesciat». («Mi sembra che
Socrate, secondo una opinione assai diffusa, inducesse la filosofia a
tralasciare l’esame dei fenomeni occulti, avvolti nell’oscurità della
natura, che furono indagati dai filosofi precedenti, conducendola ad
occuparsi della vita quotidiana di modo che iniziò ad esaminare il vizio
e la virtù, il bene e il male, ritenendo che il mondo celeste fosse non
esperibile dalla nostra cognizione, oppure, anche se ben conosciuto,
non fosse nulla rispetto alla vita dell’uomo. Socrate, in tutti i discorsi
trascritti dai suoi discepoli, nulla afferma, bensì confuta le altrui
argomentazioni, dicendo di non conoscer nulla, tranne questo: egli sa
di non sapere. Per questo motivo è affatto diverso dagli altri uomini,
proprio perché quelli presumono di sapere ciò che ignorano, mentre
egli sa soltanto questo. Perciò l’oracolo apollineo lo giudicò l’uomo
più sapiente, in quanto egli ebbe l’intima convinzione di non presumere di sapere quello che non si sa!»).
Anche in questo testo Cicerone ribadisce la peculiarità del magistero socratico, fondato su una sapienza umana, forse troppo umana,
direbbe Friedrich Nietzsche, capace di esaminare il nostro animo per
ritrovarvi il senso autentico della vita, ammesso che essa ne abbia uno.
Similmente, Valerio Massimo, storico romano vissuto nell’epoca
dell’imperatore Tiberio (42 a.C. - 37 d.C.), nei suoi Factorum et
Dictorum Memorabilium libri (III, 4, ext. 1), conferma la validità del
giudizio di Cicerone e definisce Socrate il migliore Maestro di vita:
«Socrates, non solum hominum consensu, verum etiam Apollinis
oraculo sapientissimus indicatus, Phaenarete matre obstetrice et Sophronisco patre marmorario genitus ad clarissimum gloriae lumen
excessit. Neque immerito: nam cum eruditissimorum virorum ingenia
in disputatione caeca vagarentur mensurasque solis ac lunae et ceterorum siderum loquacibus magis quam certis argumentis explicare conarentur, totius etiam mundi habitum complecti auderent, primus ab
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his indoctis erroribus abductum animum suum intima condicionis
humanae et in secessu pectoris repositos adfectus scrutari coëgit, si
virtus per se ipsa aestimatur, vitae magister optimus». («Socrate,
giudicato il più sapiente degli uomini non solo per comune sentire ma
anche dal responso oracolare apollineo, sebbene nato da una levatrice
e da un lavoratore del marmo, acquisì una splendida gloria. Mentre gli
eruditi, con varie parole, cercavano di spiegare le dimensioni degli astri
senza addurre argomenti probativi tentando di fornire una spiegazione
alla genesi dell’universo, egli per primo si allontanò da queste vane
ricerche, penetrando nel profondo dell’umana condizione, divenendo,
in relazione alla virtù medesima, il migliore maestro di vita»).
La teologia cristiana non potrebbe sussistere senza il continuo
riferimento al sostrato della filosofia greca dalla quale acquisì i concetti, il lessico, le strutture dell’argomentazione, pure adattandole,
com’è ovvio, al testo biblico. I due massimi sistemi del mondo greco,
il platonico e l’aristotelico, costituirono pertanto il riferimento filosofico di un confronto permanente, ancora oggi altamente proficuo.
Aurelio Agostino (354-430 d. C.), santo, dottore della chiesa cattolica,
massimo esponente della cultura patristica, ritenne che Platone fosse
il più vicino alla verità rivelata dagli Evangeli. Ritenne inoltre Socrate
Maestro di vita e di morale, come si evince dal seguente testo (De
Civitate Dei, VIII, 3): «Socrates ergo primus universam philosophiam
ad corrigendos componendosque mores flexisse memoratur, cum ante
illum omnes magis physicis… rebus perscrutandis operam maximam
impenderent… Quando quidem ab eis causas rerum videbat inquiri,
quas primas atque summas non nisi in unius ac summi Dei voluntate
esse credebat; unde non eas putabat nisi mundata mente posse comprehendi; et ideo purgandae bonis moribus vitae censebat instandum,
ut deprimentibus libidinibus exoneratus animus naturali vigore in
aeterna se adtolleret naturamque incorporei et incommutabilis luminis,
ubi causae omnium factarum naturarum stabiliter vivunt, intelligentiae
puritate conspiceres. Constat eum tamen inperitorum stultitiam scire
se aliquid opinantium etiam in ipsis moralibus quaestionibus, quo
totum animum intendisse videbatur, vel confessa ignorantia sua, vel
dissimulata scientia lepore mirabili disserendi et acutissima urbanitate
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agitasse atque versasse». («Socrate viene menzionato quale il primo
che indirizzò la filosofia verso il perfezionamento dei costumi…
mentre, prima di lui, i filosofi si erano occupati con grande zelo di
cosmologia… Egli li vide esaminare la genesi degli enti naturali, le
cui cause supreme dovevano essere la conseguenza di un unico Dio;
pertanto egli riteneva che solo una limpida intellezione le avrebbe
comprese. Da ciò la sua volizione nel risanare moralmente la vita degli
uomini, affinché l’animo, risanato finalmente dalla sensibilità, con la
sola sua forza, potesse innalzarsi verso l’eternità, e scorgere con retta
intelligenza la luce imperitura laddove stabilmente sono allocate le
cause prime degli enti derivati. Egli esaminò la stoltezza degli insipienti, sopra tutto di coloro che eran convinti della propria sapienza
etica… egli agì affermando la propria ignoranza, mediante la dissimulazione ironica condotta sempre con finezza urbana e così profonda
compostezza»).
Nella filosofia moderna, uno degli studi più significativi concernenti l’ironia socratica è contenuto nella dissertazione di dottorato
presentata da Søren Kierkegaard (1813-1855) alla facoltà di Filosofia
dell’Università di Copenaghen nell’anno 1841 per il conseguimento
del titolo di magister artium. Il titolo originale dell’opera, redatta,
diversamente dalla consuetudine, in lingua danese e non in latino, è il
seguente: Om begrebet ironi med stadigt hensyn til Socrates (Sul
concetto di ironia in riferimento costante a Socrate). Si veda l’edizione
italiana a cura di D. Borso, BUR, Milano 1995).
Fra le varie tesi accluse alla sua dissertazione, il filosofo si propone
di discutere in particolare le seguenti, che cito dalla premessa del
curatore: V. L’Apologia di Socrate platonica o è spuria o è da spiegare
come totalmente ironica; VI. Socrate non solo si servì dell’ironia, ma
le fu dedito al punto da caderne egli stesso vittima; VIII. L’ironia, in
quanto negatività assoluta e infinita, è il segno più breve e più lieve
della soggettività. X. Socrate introdusse per primo l’ironia; XII. Nel
descrivere l’ironia, Hegel guarda più alla moderna che all’antica.
Bisogna tenere presente che sia il linguaggio criptico, sia l’impostazione teoretica si muovono all’interno di un contesto filosofico di
matrice idealistica hegeliana. In modo particolare, il filosofo danese si
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propone di sviluppare la quinta tesi, per fornire un’adeguata dimostrazione dell’ironia socratica. Scrive Kierkegaard: «L’Apologia è… un
congegno ironico… in quanto la gran massa di accuse si riduce… a un
niente che Socrate spaccia proprio per il contenuto della sua vita.
Questo… coincide con l’ironia, come anche la sua proposta di venir
mantenuto al Pritaneo, o condannato ad una ammenda, l’Apologia non
contiene… nessuna difesa, e invece Socrate vuoi si prende gioco degli
accusatori, vuoi si concede quattro piacevoli chiacchiere con i giudici»
(op. cit., pagg. 47-49).
Dunque il filosofo danese considera l’Apologia di Socrate una
formidabile macchina dissimulatrice, nella quale la potenza dell’ironia
socratica annienta qualsivoglia parvenza di solennità dei meccanismi
processuali. La conclusione la troviamo a pag. 50: «Così vediamo
l’ironia in tutta la sua infinità divina, un’ironia tale da non lasciar
sussistere assolutamente nulla. Novello Sansone, Socrate stringe le
colonne portanti della conoscenza e precipita tutto nel nulla dell’ignoranza».
Kierkegaard ritiene che due dialoghi platonici, in modo particolare,
siano normativi per l’ermeneutica della personalità socratica: il Simposio e il Fedone, giacché «l’uno presenta il filosofo nella vita, l’altro
nella morte» (pag. 51). Nel Simposio, secondo Kierkegaard, «Socrate
ha introdotto il suo discorso con un’ironia… una mera figura retorica,
ed egli non meriterebbe… il nome di ironista, se a distinguerlo fosse
stata solo la bravura nel parlare ironico» (pag. 55). Diversamente dagli
oratori precedenti partecipanti al simposio, i quali avevano lodato il
dio Amore, senza definirlo concettualmente, «Socrate spiega loro la
faccenda… amore è desiderio, è bisogno… ma desiderio, bisogno sono
niente… amore viene via via liberato dalla concrezione accidentale in
cui si mostrava negli altri discorsi, e ricondotto alla sua determinazione
più astratta, in cui si mostra… come amore per un qualcosa che non
ha… come desiderio, nostalgia… in più… è anche l’amore infinito…
il risultato cui giunge è… la determinazione indeterminabile del puro
essere: l’amore è; l’aggiunta infatti che è nostalgia, desiderio, non è
una determinazione trattandosi solo di un rapporto a qualcosa di non
dato» (pagg. 55-56).
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Il termine «ironia»
Il sostantivo astratto e4rwneía (lat. dissimulatio) è connesso al
verbo e4rwneúomai, verbo con diatesi media che esprime la viva
partecipazione del parlante ai contenuti del proprio discorso (cfr. lat.
loquor, miror, etc.). Lo Stephanus (cit., t. IV, pag. 285) definisce il
termine e4rwneía quale dissimulatio in oratione, e allega la definizione fornita da Cicerone (De oratore, 2, 67): «Urbana etiam dissimulatio
est, quum aliter sentias ac loquare… In hoc genere Fannius in annalibus suis Africanum hunc Aemilianum dicit fuisse, et eum verbo
Graeco appellat eÎrwna. Sed, uti ferunt, qui melius haec norunt,
Socratem opinor in hac e4rwneía dissimulantiaque longe lepore et
humanitate omnibus praestitisse». («L’ironia è una forma cortese e
civile, quando si fanno affermazioni non conformi a ciò che si pensa…
Nei suoi annali, Fannio (fu console nel 122 a.C., n.d.c.) dice che
Scipione Africano Emiliano sia stato egregio in tale genere di elocuzione e con parola greca lo chiama eÎrwn. Ma come affermano quelli
che conoscono meglio tali eventi, ritengo che in codesta forma ironica
e dissimulatrice Socrate sia stato il migliore, sia per garbo, che per
leggiadria»).
Sia Platone (Hippia Min. 371 a 6), che Aristotele (EN 1108 a 19-22)
distinguono la e4rwneía dalla 1lazoneía, impostura volutamente
ingannevole. In particolare il fondatore del Liceo così scrive: «Perì
mèn oÙn tò 1lhqèj % mèn mésoj 1lhqéj tij kaì # mesóthj
1lÉqeia legésqw, # dè prospoíhsij # mèn 2pì tò meîzon 1lazoneía kaì % ðxwn a7tÈn 1lazÓn, # d/ 2pì tò ðlatton e4rwneía kaì
eÎrwn» («Per quel che concerne la verità colui che è collocato nel
giusto mezzo è retto e veritiero e pertanto la medietà coincide con la
verità; la simulazione eccessiva chiamasi impostura, e colui che la
utilizza, impostore; la simulazione tenue invece chiamasi ironia, ed
ironico colui che la usa»).