Il corpo cancellato
/ 18.04.2017
di Maria Bettetini
«È ormai venuta l’ora di andare: io a morire, e voi, invece, a vivere. Ma chi di noi vada verso ciò che
è meglio, nessuno lo sa, solo il dio lo sa». Parole dell’apologia, della difesa di Socrate davanti alle
insulse delazioni dei concittadini, così come ce le racconta, da ventitré secoli, l’allievo Platone, forse
il prediletto. Le parole di Socrate danno forti indicazioni sul senso dell’aldilà. E persino sul senso dei
tatuaggi e dei piercing, continuare a leggere per credere.
Quanta speranza, quanto felice ottimismo nelle parole di Socrate, quanta ironia. Intesa come la
intendiamo oggi: razza di idioti, sono io quello che vince, che va verso un premio sicuro; siete voi che
rimanete qui nelle vostre miserie e poi nell’aldilà non sarete certo premiati, meschini oggi e miseri
domani. Oppure ironia nel senso greco dell’eironeia, dello sminuirsi perché il riconoscersi inferiori
sia in realtà segno di superiorità. Come – dice Aristotele nell’Etica a Nicomaco – come gli spartani,
che si vestono con abiti grezzi e scomodi per significare il loro amore alla povertà, proprio loro che
sono in verità ricchissimi grazie all’oro conquistato in guerra.
«Ma chi di noi vada verso ciò che è meglio, nessuno lo sa, solo il dio lo sa»: le vibranti parole di
commiato che Socrate rivolse agli Ateniesi al termine del suo processo, potrebbero essere segno di
come i Greci intendevano l’aldilà: un’altra vita, forse, ma non migliore di questa, forse – Socrate
poche righe prima aveva detto di «un lungo sonno», un «sonno senza sogni», «un sonno da gran re»,
o di passeggiate nei Campi Elisi come possibilità valide entrambe. Niente di strano, non fosse che
Platone fa dire allo stesso suo maestro ben altro, nella Repubblica, e anche nel Fedro: l’anima è
certo immortale, l’attende un destino di premio o punizione, e tante possibili reincarnazioni fino a
una sorta di divinizzazione, che spetterebbe al filosofo, colui che più di tutti si è avvicinato alle cose
divine.
E però il testo sacro della grecità tutta, l’opera di Omero, ancora una volta smentisce e riporta a una
ben diversa e trista concezione della sopravvivenza dell’anima, se di anima si può parlare, quando
sappiamo che il termine psyche fa riferimento al soffio vitale che anima i corpi. Nell’undicesimo libro
dell’Odissea, Achille, ormai nell’Ade, rifiuta gli omaggi del vivo Ulisse, che riconosce al figlio di Teti
una superiorità rispetto agli altri morti: «Non lodarmi la morte, splendido Odisseo», perché «vorrei
essere un bifolco, servire un padrone», piuttosto che «dominare su tutte l’ombre consunte». Privo di
ogni dignità, ma sotto la luce del sole, vorrebbe essere Achille, lo stesso che nell’Iliade aveva
dedicato a Patroclo imponenti cerimonie funebri, e grida e preghiere: per ottenere cosa? Per farlo
vivere nella memoria? Per strappare agli dèi un destino diverso?
Un classico sull’argomento, Psiche. Culto delle anime e fede nell’immortalità presso i Greci di Erwin
Rohde (Laterza), permette di approfondire l’argomento mai risolto. Concluso nel 1893, diciassette
anni dopo La nascita della tragedia di Nietzsche, il testo riprende l’intuizione che vuole il dionisiaco
come figura di continuità tra le religioni misteriche e quella olimpica, tra un mondo di uomini
destinati alla terra e uno di dèi felici di mischiarsi agli altri in figure come quelle di Dioniso, mezzo
uomo e mezzo dio. Alle radici della nostra civiltà non ci sarebbe quindi l’opposizione tra la carnalità
di Dioniso e la razionalità di Apollo. L’idea è invece quella di una evoluzione, di una nuova modalità
per potere avvicinare il divino. Il semi-dio in fondo è un metaxù, un essere di mezzo come i dèmoni, a
metà strada tra l’oltresensibile e la nostra vita di quaggiù, tra l’eterno e il temporale. E che cosa
cercano il ragazzo tatuato, la fanciulla coi piercing? Che cosa se non dimostrare che il corpo offre
una testimonianza che va oltre la sua normale vita?
Io credo invece che questi atti indichino una cancellazione, come un tentativo di distrarre
l’attenzione dall’ingombrante sé del nostro corpo. Si può ottenere in tanti modi, anche indossando
abiti o abbronzature o trucchi, ma gli aghi del tatuatore e i ferri che perforano hanno anche un senso
punitivo. Altro che Quaresima, altro che purificazione: i Greci tentarono la via della sola anima, con
esiti alterni, come abbiamo letto. A noi tocca il paradosso dell’epoca del nudo esibito e disinibito, che
trova mille modi per nascondere ciò che potrebbe senza scandalo mostrare.