Atene all`indomani delle guerre persiane

Atene all'indomani delle guerre persiane
Tucidide, La guerra del Peloponneso, libro I
La Pentecontaetia
118. Erano trascorsi pochi anni dalle ultime vicende narrate, quando si verificarono i casi,
già riferiti, di Corcira e Potidea e gli incidenti che costituirono il motivo dichiarato per lo
scoppio di questa guerra. Questo complesso quadro di operazioni militari e politiche, di
rapporti reciproci tra Greci e con popolazioni straniere, si estende nel periodo di
cinquant'anni circa che corre tra la ritirata di Serse e l'esplosione di questa guerra. Furono
anni per Atene d'intensa e fruttuosa attività espansiva con l'ampliamento e l'energica
organizzazione dell'impero e un impulso vigoroso, all'interno, della sua potenza
economica e militare. Gli Spartani avvertivano questa crescita pericolosa, ma non
sapevano frapporvi che limiti e ostacoli di breve respiro. Preferivano in più occasioni, una
politica di acquiescenza: non avevano mai avuto, neanche prima, la dote della fulmineità
nel risolversi a una guerra. Occorreva in genere che vi fossero costretti, senza alternative:
e in più fu un periodo difficile e inquieto per Sparta, sconvolta dalle sommosse
civili. Ma alla fine la potenza d'Atene s'era imposta, rigogliosa e superba all'attenzione
del mondo: perfino la sfera d'influenza e d'alleanza tradizionalmente legata a Sparta non
era immune dai suoi attacchi. […]
La Lega delio-attica
96. Accettato in tal modo il comando che le forze alleate, avverse a Pausania, avevano loro
spontaneamente offerto gli Ateniesi disposero l'entità delle quote in denari o
armamenti navali, con cui ogni città doveva singolarmente contribuire alla comune
lotta contro lo straniero. Fine dichiarato era quello di dar corpo a una lega che, devastando
i paesi del Re, vendicasse le sofferenze patite. S'istituì per la prima volta allora, con
sede in Atene, la carica di Ellenotami, con l'ufficio di esigere il «contributo» (si definì
così il versamento contributivo in denaro, cui erano tenuti gli alleati). Il primo
«contributo» fu fissato in quattrocentosessanta talenti. La tesoreria della lega era situata a
Delo e le assemblee si radunavano nel sacro recinto.
97. Egemoni di una lega alleata, in cui vigeva dapprima l'indipendenza dei singoli
membri, e l'uso di deliberare in assemblee plenarie, gli Ateniesi conseguirono una serie di
progressivi successi militari, diplomatici e, più ampiamente, politici, nell'intervallo di
tempo tra questa guerra e quella persiana, impegnati nella lotta contro il barbaro, contro
gli alleati che manifestassero disegni di defezione e contro le città del Peloponneso che, di
volta in volta, trovassero come ostacolo sulla loro strada. Ho descritto queste imprese
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aprendo una digressione nell'esporre la mia storia, in quanto tutti coloro che prima di me
si sono occupati di opere storiche hanno trascurato questo spazio di tempo,
concentrandosi o sull'epoca anteriore alla guerra persiana o propriamente su quest'ultima.
Solo Ellanico, nella sua «Storia dell'Attica» ha toccato di scorcio l'argomento, ma troppo in
breve e senza esattezza cronologica. Nello stesso tempo, si avrà dimostrazione di come si
sia venuta costituendo la signoria d'Atene.
98. Come prima impresa, gli Ateniesi agli ordini di Cimone figlio di Milziade, occuparono
e ridussero in servitù Eione, un possesso persiano sullo Strimone. In seguito
assoggettarono Sciro, isola dell'Egeo dimora dei Dolopi e vi collocarono una loro colonia.
Intrapresero poi una guerra contro i Caristi da soli, senza l'intervento delle altre città
dell'Eubea e dopo un certo tempo vennero a un accordo. Organizzarono una campagna
contro i Nassi, che erano in rivolta, e li piegarono con un assedio, primo esempio di una
città alleata asservita contro i trattati in vigore nella lega, seguita poi via via da altre, in
tempi e circostanze diverse.
99. Tra i numerosi motivi di defezione, primeggiavano il mancato versamento del
«contributo», il rifiuto di consegnare le navi e la renitenza al servizio armato, quando
toccava. Gli Ateniesi procedevano con inflessibilità; perciò le loro pretese pesavano
intollerabili su gente che, non avvezza e meno disposta a durar fatiche, si vedeva costretta
da un'energia ferrea a subire le privazioni e le miserie di una guerra continua. Anche per
altri e diversi motivi gli Ateniesi esercitavano il comando non più circondati dal consueto
favore. Non partecipavano infatti in parità di condizioni alle campagne: per loro era
immensamente più facile piegare i ribelli. Ma di questo stato di cose si rendevano
responsabili gli alleati stessi: per la loro renitenza al servizio armato, la maggior parte di
essi, per poter restare a casa, si lasciava imporre il pagamento di una somma pari in
valore alle navi non corrisposte. In tal modo cresceva la potenza navale degli Ateniesi, che
vi impegnavano i fondi derivati dalle varie contribuzioni, e gli alleati quando accennavano
a un tentativo di rivolta, si trovavano in guerra senza preparazione né esperienza.
Pericle
Tucidide, La guerra del Peloponneso, libro II
65. Era questo in sostanza il discorso con cui Pericle tentava di far sfumare l'avversione che
gli Ateniesi avevano concepito per la sua persona e, in più, di distrarre il loro spirito dalle
presenti e via via più gravi difficoltà. Nella sfera della vita pubblica si adattavano
volentieri alle direttrici da lui proposte, cioè cessarono d'inviare ambascerie a Sparta e
rafforzarono la loro volontà di battersi. Ma quando si ritrovavano tra le pareti domestiche,
le privazioni e le perdite subite erano un supplizio per tutti: per il popolo minuto che
si sentiva strappare perfino quel poco che possedeva all'inizio; per le classi ricche,
pesantemente provate dalla rovina dei loro averi di campagna: ville, lussuosi arredi,
denaro. Ma era questo il cruccio che più a fondo li affliggeva: vivere in guerra, piuttosto
che in pace. Orbene, il diffuso malumore contro Pericle non si placò prima che gli fosse
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inflitta un'ammenda in denaro. Non passò molto e la folla si comportò come è solita: lo
rielessero stratego e gli affidarono la piena direzione politica. Poiché reagivano ormai alle
personali disgrazie con sensibilità sempre meno viva, mentre nessuno, nella loro
considerazione, era dotato di abilità pari a quella di Pericle nell'elaborare le soluzioni più
adatte al momento critico che la città, nel suo complesso, stava attraversando. Il periodo
contrassegnato dalla sua attività di governo in tempo di pace, ne mise in luce
l'equilibrio politico e la fermezza con cui seppe tutelare gli interessi dello stato che nelle
sue mani crebbe in potenza. La guerra esplose: anche in questa circostanza risulta chiaro
che ne previde perfettamente la portata. La visse per due anni e sei mesi. Dopo la sua
scomparsa si comprese di che acuta sagacia egli fosse munito nei riguardi della
guerra. Aveva predetti i principi che avrebbero assicurato il successo finale ad Atene: non
lasciarsi trascinare dall'orgasmo, dedicare ogni cura alla flotta, non tentare di ampliare i
confini nel periodo di guerra esponendo la città a pericoli superflui. Gli Ateniesi non solo
stabilirono una condotta del tutto opposta, ma sotto lo stimolo di private ambizioni e
abbagliati da personali guadagni si slanciarono in avventure politiche, ritenute estranee
allo svolgimento del conflitto, ma in realtà rovinose per la stessa sopravvivenza dello stato
e per i rapporti con i paesi alleati. Si trattò in generale, di iniziative che, fin quando furono
coronate da successo, procurarono, ma solo ai singoli, prestigio e sostanze: ma fallirono
anche, e fu ogni volta per lo stato un tracollo incalcolabile nei confronti dello sforzo
bellico. Il motivo consiste nel fatto che Pericle, molto autorevole per la considerazione che
lo circondava e per l'acume politico e per la condotta limpidamente pura dal minimo
dubbio di venalità, dirigeva il popolo nel rispetto della sua libera volontà. Dominava
senza lasciarsi dominare. Poiché le trasparenti e oneste basi su cui poggiava il suo
prestigio gli consentivano di astenersi dagli artifici tribuni di una eloquenza volta a
carpire, con le lusinghe il favore della moltitudine. La contrastava anzi, talvolta con
durezza: tanta era la sua autorità morale. Se ad esempio avvertiva in loro un agitarsi, un
impulso inopportuno all'osare, con il rigore dei suoi discorsi li riconduceva nei confini di
una giudiziosa prudenza, ovvero restituiva loro la fiducia in se stessi, avvilita da un moto
di irrazionale scoramento. Nominalmente, vigeva la democrazia: ma nella realtà della
pratica politica, il governo era saldo nel pugno del primo cittadino.
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La Grecia all'inizio della guerra del Peloponneso (da Atlante Storico De Agostini, p. 13).
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