Pentecontetia e Pericle

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A.A. 2009/2010 – STORIA GRECA – PROF. EUGENIO LANZILLOTTA – 31 MARZO 2010
Atene all'indomani delle guerre persiane
La Pentecontaetia
Tucidide, La guerra del Peloponneso, libro I
118. Erano trascorsi pochi anni dalle ultime vicende narrate, quando si verificarono i casi,
già riferiti, di Corcira e Potidea e gli incidenti che costituirono il motivo dichiarato per lo
scoppio di questa guerra. Questo complesso quadro di operazioni militari e politiche, di
rapporti reciproci tra Greci e con popolazioni straniere, si estende nel periodo di
cinquant'anni circa che corre tra la ritirata di Serse e l'esplosione di questa guerra. Furono
anni per Atene d'intensa e fruttuosa attività espansiva con l'ampliamento e l'energica
organizzazione dell'impero e un impulso vigoroso, all'interno, della sua potenza
economica e militare. Gli Spartani avvertivano questa crescita pericolosa, ma non
sapevano frapporvi che limiti e ostacoli di breve respiro. Preferivano in più occasioni, una
politica di acquiescenza: non avevano mai avuto, neanche prima, la dote della fulmineità
nel risolversi a una guerra. Occorreva in genere che vi fossero costretti, senza alternative:
e in più fu un periodo difficile e inquieto per Sparta, sconvolta dalle sommosse
civili. Ma alla fine la potenza d'Atene s'era imposta, rigogliosa e superba all'attenzione
del mondo: perfino la sfera d'influenza e d'alleanza tradizionalmente legata a Sparta non
era immune dai suoi attacchi. *…+
Su Pausania
94. Pausania, figlio di Cleombroto, era partito da Sparta per assumere il comando delle
forze greche con venti navi del Peloponneso. Le affiancavano trenta navi ateniesi e un
numero consistente di alleati. La spedizione era rivolta contro Cipro e gran parte
dell'isola fu sottomessa. Si diressero poi verso Bisanzio, ancora possesso persiano, e vi
posero l'assedio, agli ordini di Pausania.
95. La condotta prepotente di quest'uomo aveva già suscitato non lieve malumore negli
altri Greci ma soprattutto negli Ioni e in quelli che si erano da poco affrancati dal dominio
del Re. Presero quindi ad insistere con gli Ateniesi, affinché assumessero loro il comando,
per i vincoli di stirpe che li univano, e non permettessero a Pausania di accanirsi in quel
modo su di loro. Gli Ateniesi si mostrarono ben disposti a dar loro soddisfazione,
lasciando intendere che non avrebbero tollerato nessun atteggiamento prevaricatore.
Quanto al resto, avrebbero disposto nel senso a loro più vantaggioso. Quand'ecco, gli
Spartani richiamano Pausania per interrogarlo sui fatti di cui è giunta voce. Sono molte e
pesanti le critiche sollevate dai Greci che di tanto in tanto giungono a Sparta, sui suoi
arbitri e illegalità. L'esercizio del suo comando ha piuttosto l'aria di modellarsi sulla
tirannide. La citazione in tribunale lo raggiunge proprio nel momento in cui gli alleati,
tranne le truppe del Peloponneso, passano agli Ateniesi, per l'odiosità che ispirava.
A Sparta, fu ritenuto colpevole di certe irregolarità a danno di privati, ma sciolto dalle
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più gravi accuse: era principalmente imputato di sospetta inclinazione verso la Persia
e, pareva, senza ombra di dubbio. Comunque, non è più proposto capo delle
spedizioni armate. Sparta manda Dorchis, e altri colleghi di carica, con un ristretto
contingente. Ma neppure a costoro gli alleati commisero più il supremo comando. Intuito
il clima che li circondava, tornarono a Sparta, che in seguito non inviò più altri
comandanti, nel dubbio che, fuori del suo controllo, degenerassero, come insegnava
l'esperienza patita con Pausania. Gli Spartani volevano anche chiudere con la guerra
persiana: riconoscevano agli Ateniesi, legati in quel momento da rapporti d'amicizia con
loro, le doti di comando atte a perfezionare l'impresa.
La Lega delio-attica
96. Accettato in tal modo il comando che le forze alleate, avverse a Pausania, avevano loro
spontaneamente offerto gli Ateniesi disposero l'entità delle quote in denari o
armamenti navali, con cui ogni città doveva singolarmente contribuire alla comune
lotta contro lo straniero. Fine dichiarato era quello di dar corpo a una lega che, devastando
i paesi del Re, vendicasse le sofferenze patite. S'istituì per la prima volta allora, con
sede in Atene, la carica di Ellenotami, con l'ufficio di esigere il «contributo» (si definì
così il versamento contributivo in denaro, cui erano tenuti gli alleati). Il primo
«contributo» fu fissato in quattrocentosessanta talenti. La tesoreria della lega era situata a
Delo e le assemblee si radunavano nel sacro recinto.
97. Egemoni di una lega alleata, in cui vigeva dapprima l'indipendenza dei singoli
membri, e l'uso di deliberare in assemblee plenarie, gli Ateniesi conseguirono una serie di
progressivi successi militari, diplomatici e, più ampiamente, politici, nell'intervallo di
tempo tra questa guerra e quella persiana, impegnati nella lotta contro il barbaro, contro
gli alleati che manifestassero disegni di defezione e contro le città del Peloponneso che, di
volta in volta, trovassero come ostacolo sulla loro strada. Ho descritto queste imprese
aprendo una digressione nell'esporre la mia storia, in quanto tutti coloro che prima di me
si sono occupati di opere storiche hanno trascurato questo spazio di tempo,
concentrandosi o sull'epoca anteriore alla guerra persiana o propriamente su quest'ultima.
Solo Ellanico, nella sua «Storia dell'Attica» ha toccato di scorcio l'argomento, ma troppo in
breve e senza esattezza cronologica. Nello stesso tempo, si avrà dimostrazione di come si
sia venuta costituendo la signoria d'Atene.
98. Come prima impresa, gli Ateniesi agli ordini di Cimone figlio di Milziade, occuparono
e ridussero in servitù Eione, un possesso persiano sullo Strimone. In seguito
assoggettarono Sciro, isola dell'Egeo dimora dei Dolopi e vi collocarono una loro colonia.
Intrapresero poi una guerra contro i Caristi da soli, senza l'intervento delle altre città
dell'Eubea e dopo un certo tempo vennero a un accordo. Organizzarono una campagna
contro i Nassi, che erano in rivolta, e li piegarono con un assedio, primo esempio di una
città alleata asservita contro i trattati in vigore nella lega, seguita poi via via da altre, in
tempi e circostanze diverse.
99. Tra i numerosi motivi di defezione, primeggiavano il mancato versamento del
«contributo», il rifiuto di consegnare le navi e la renitenza al servizio armato, quando
toccava. Gli Ateniesi procedevano con inflessibilità; perciò le loro pretese pesavano
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intollerabili su gente che, non avvezza e meno disposta a durar fatiche, si vedeva costretta
da un'energia ferrea a subire le privazioni e le miserie di una guerra continua. Anche per
altri e diversi motivi gli Ateniesi esercitavano il comando non più circondati dal consueto
favore. Non partecipavano infatti in parità di condizioni alle campagne: per loro era
immensamente più facile piegare i ribelli. Ma di questo stato di cose si rendevano
responsabili gli alleati stessi: per la loro renitenza al servizio armato, la maggior parte di
essi, per poter restare a casa, si lasciava imporre il pagamento di una somma pari in
valore alle navi non corrisposte. In tal modo cresceva la potenza navale degli Ateniesi, che
vi impegnavano i fondi derivati dalle varie contribuzioni, e gli alleati quando accennavano
a un tentativo di rivolta, si trovavano in guerra senza preparazione né esperienza.
La Grecia all'inizio della guerra del Peloponneso (da Atlante Storico De Agostini, p. 13).
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Su Cimone e l’intervento in aiuto di Sparta (462 a. C.)
102. La guerra contro i rivoltosi chiusi in Itome si trascinava per le lunghe, finché Sparta
decise di chiedere man forte agli alleati tra cui agli Ateniesi, che si presentarono con un
esercito numeroso, agli ordini di Cimone. Il loro aiuto era il più richiesto, poiché avevano
fama di esperti ed abilissimi nelle operazioni di assedio, ma essendosi questo, intorno a
Itome, protratto già a lungo, il loro vanto parve impari alle effettive qualità militari:
altrimenti avrebbero conquistato la rocca d'impeto. Emerse drammaticamente per la prima
volta in occasione di questa campagna l'attrito tra Spartani e Ateniesi. La tenacia della
piazzaforte, imprendibile di slancio e la molesta diffidenza istillata dalla sciolta audacia
del carattere degli Ateniesi e dalla loro sovversiva inclinazione alle novità (mista al netto
sentimento di appartenere a stirpi diverse) suscitavano non lieve inquietudine negli
Spartani. Li tormentava il timore che protraendo l'assedio, il contatto con i ribelli di Itome
ispirasse agli Ateniesi chissà che eversiva e rivoluzionaria macchinazione. Perciò idearono
di rinunciare al loro aiuto, e di contare su tutti gli altri alleati. Naturalmente non
rivelarono il sospetto che li agitava, limitandosi ad osservare che il loro appoggio era
divenuto superfluo. Gli Ateniesi intuirono immediatamente che quello era un puro
pretesto, neppure il più abile, per allontanarli. Certo doveva esser sorto qualche diverso e
non dichiarato motivo di diffidenza nei propri riguardi: ne concepirono una sdegnata
amarezza, convinti nell'intimo di non meritare una offesa tanto bruciante da quelli di
Sparta. Al loro ritorno in Atene seguì l'immediato scioglimento del patto difensivo attuato
con Sparta contro i Persiani, e la creazione di una nuova sfera d'intese politico-militari con
gli Argivi, i nemici più accaniti di Sparta, e contemporaneamente con i Tessali: un blocco
di alleanze sancito da giuramenti comuni.
Su Pericle
Tucidide, La guerra del Peloponneso, libro II
65. *…+ Pericle, molto autorevole per la considerazione che lo circondava e per l'acume
politico e per la condotta limpidamente pura dal minimo dubbio di venalità, dirigeva il
popolo nel rispetto della sua libera volontà. Dominava senza lasciarsi dominare. Poiché le
trasparenti e oneste basi su cui poggiava il suo prestigio gli consentivano di astenersi dagli
artifici tribuni di una eloquenza volta a carpire, con le lusinghe il favore della moltitudine.
La contrastava anzi, talvolta con durezza: tanta era la sua autorità morale. Se ad esempio
avvertiva in loro un agitarsi, un impulso inopportuno all'osare, con il rigore dei suoi
discorsi li riconduceva nei confini di una giudiziosa prudenza, ovvero restituiva loro la
fiducia in se stessi, avvilita da un moto di irrazionale scoramento. Nominalmente, vigeva
la democrazia: ma nella realtà della pratica politica, il governo era saldo nel pugno del
primo cittadino.
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