prima guerra mondiale - Blog di filosofiapertutti

La prima guerra mondiale
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Le origini del conflitto
Tensioni e alleanze tra le potenze europee
Al Congresso di Berlino del 1978 cominciarono a delinearsi alcune delle alleanze che caratterizzeranno la
prima guerra mondiale: la Germania di Bismarck, timorosa di un eccessivo rafforzamento russo18 nei Balcani, si
avvicinò alle posizioni dell’Austria-Ungheria e stipulò con essa un’alleanza difensiva.
Nel 1875 la Russia, desiderosa di espandersi nella penisola balcanica, era intervenuta contro l’impero ottomano,
a difesa della Serbia e del Montenegro, che a loro volta sostenevano i contadini cristiani della Bosnia e
dell’Erzegovina nella loro ribellione contro i grandi proprietari terrieri musulmani. Dopo la vittoria russa, con la
pace di Santo Stefano nel 1878, fu creato il vasto Stato di Bulgaria (comprendente gran parte dei territori
europei sotto dominazione ottomana), che sarebbe dovuto essere subalterno alla Russia, ma che rimase invece
autonomo (e fu ridimensionato) per l’opposizione di Inghilterra e Austria-Ungheria, le quali minacciarono di
muovere guerra alla Russia. La crisi fu pacificata nell’estate del 1878 con il Congresso di Berlino: fu
promosso dall'Austria e accettato dalle altre potenze europee per rettificare il trattato di Pace di Santo Stefano.
Il Congresso ridimensionò e divise la nascente Bulgaria, satellite della Russia, e stabilì l’amministrazione
austriaca della Bosnia. Confermò invece l’indipendenza della Romania, della Serbia e del Montenegro. La
Germania, che fece da mediatrice, per aver scongiurato la grave crisi fra la Russia e l’Austria aumentò il suo
prestigio ma incrinò i suoi rapporti con la Russia che non fu soddisfatta dei negoziati. La Turchia, pur perdendo
estesi territori, limitò i danni rispetto alla Pace di Santo Stefano. Il cancelliere tedesco Bismarck, timoroso di
un eccessivo rafforzamento russo, sostenne le posizioni dell’Austria-Ungheria e dell’Inghilterra e stipulò nel
1879 un’alleanza difensiva con l’Impero asburgico (che durerà fino al novembre 1918).
L’Italia si avvicina agli Imperi centrali
L’Italia aveva mire espansionistiche nel Nordafrica e cercò senza successo di ostacolare l’occupazione da
parte della Francia della Tunisia, che avvenne nel 1881 (giustificata dai francesi come ricompensa per i
vantaggi ottenuti da Inghilterra e Austria-Ungheria a Berlino). Risultò evidente la posizione di isolamento
dell’Italia (che aveva raggiunto l’unità da poco tempo), la quale decise quindi di avvicinarsi all’Impero
tedesco, principale avversario della Francia (vedi guerra franco-prussiana 1870-71 e questione dell’AlsaziaLorena). Nel 1882 nacque, con carattere puramente difensivo, la Triplice Alleanza tra Austria-Ungheria, Italia
e Germania.
Il sistema delle alleanze e il piano Schlieffen
La Triplice Alleanza aveva come avversario principale la Francia: la Germania era in tensione con la
Francia a seguito della conquista dell’Alsazia-Lorena19 (nel 1871); l’Italia ne temeva l’ulteriore
espansione nel Mediterraneo. Stipulando la Triplice Alleanza l’Italia di fatto rimandava l’annessione di
Trento e Trieste, cioè il completamento della propria unità nazionale: la questione delle terre irredente appariva
secondaria rispetto alla necessità di contenere l’imperialismo francese nel mediterraneo.
La Francia trovò un sostegno contro la Germania nella Russia, con cui stipulò un’alleanza difensiva nel
1892. Sebbene i due paesi erano notevolmente diversi (la Francia era una repubblica parlamentare, fiera del
proprio passato illuminista e rivoluzionario, mentre l’Impero zarista era una monarchia assoluta e dispotica) per
l’alleanza avevano premuto soprattutto i banchieri francesi, che avevano fornito alla Russia notevoli capitali,
indispensabili per l’ammodernamento e l’industrializzazione del paese.
La Germania si trovò di fronte alla prospettiva di una guerra su due fronti: a occidente con la Francia e a
oriente con la Russia. Per risolvere questa grave situazione il generale Alfred von Schlieffen elaborò un piano
18 Nel 1875 la Russia, desiderosa di espandersi nella penisola balcanica, era intervenuta contro l’impero ottomano, a difesa della
Serbia e del Montenegro, che a loro volta sostenevano i contadini cristiani della Bosnia e dell’Erzegovina nella loro ribellione
contro i grandi proprietari terrieri musulmani. Dopo la vittoria russa, con la pace di Santo Stefano nel 1878, fu creato il vasto Stato
di Bulgaria (comprendente gran parte dei territori europei sotto dominazione ottomana), che sarebbe dovuto essere subalterno alla
Russia, ma che rimase invece autonomo (e fu ridimensionato) per l’opposizione di Inghilterra e Austria-Ungheria, le quali
minacciarono di muovere guerra alla Russia. La crisi fu pacificata nell’estate del 1878 con il Congresso di Berlino
19 L’Alsazia e la Lorena si trovano nella regione del Reno. Nel 1871, la Germania se ne impossessò dopo la vittora sulla Francia.
Dal momento che queste due terre per circa ottant’anni sono state il simbolo dell’ostilità franco-tedesca e della divisione politica
dell’Europa, proprio Strasburgo, capoluogo dell’Alsazia, venne scelta nel 1949 come sede per il Parlamento dell’Unione Europea.
strategico particolarmente ingegnoso: il suo ragionamento partiva dalla constatazione che, mentre le ferrovie
tedesche erano modernissime ed efficienti, il sistema di trasporti russo era ancora carente, quindi prima che
tutte le forze russe potessero essere portate al fronte contro la Germania, sarebbe passato un intervallo di tempo
che l’Impero tedesco avrebbe potuto sfruttare per concentrare tutte le proprie energie a ovest contro la Francia.
Per sconfiggere la Francia in tempi brevi era necessaria una mossa a sorpresa: Von Schlieffen propose che
l’esercito tedesco disponesse piccoli contingenti sul fronte russo e in Alsazia-Lorena, mentre la massa
d’urto dell’esercito germanico avrebbe puntato direttamente su Parigi da nord, dopo aver attraversato il
Belgio. Dal momento che quest’ultimo paese era neutrale, i francesi sarebbero stati colti alla sprovvista e la
guerra sul fronte occidentale si sarebbe conclusa nel giro di poco, a quel punto grazie all’efficientissimo sistema
ferroviario del Reich, tutto l’esercito germanico avrebbe potuto essere trasferito verso est, per fronteggiare e
sconfiggere i russi.
La flotta da guerra tedesca
Il punto debole del piano Schlieffen era il previsto attraversamento del Belgio, che avrebbe provocato
l’immediata reazione della Gran Bretagna. Per attuarlo quindi la Germania avrebbe dovuto mantenere
buone relazioni con l’Inghilterra (proseguendo sulla linea del Congresso di Berlino del 1878), invece per
volontà dell’Imperatore Guglielmo II, la Germania condusse una politica ostile alla Gran Bretagna. Il
principale motivo di attrito fu la flotta di navi da guerra di cui la Germania cominciò a dotarsi, a partire dal
1898. Alla sfida tedesca l’Inghilterra rispose nel 1906 iniziando la costruzione di una serie di corazzate di
nuovissima concezione chiamate Dreadnoughts (in seguito anche la Germania iniziò a costruirle).
Il risultato fu il progressivo avvicinamento dell’Inghilterra ai nemici della Germania. Nel 1904 Francia e
Gran Bretagna strinsero l’Intesa cordiale, nel 1907 l’Inghilterra raggiunse un accordo con la Russia (per
queste tre potenze il vero nemico era ora la Germania).
La politica di potenza tedesca
Il capitalismo tedesco in realtà era diviso sul riarmo navale. Grandi gruppi industriali (come quelli legati
alla produzione dell’acciaio) ricavavano profitti eccezionali dalla costruzione della flotta; ma altri, come
Walther Rathenau, dirigente dell’AEG, il complesso industriale più potente a livello mondiale nel campo della
produzione dell’energia elettrica, erano contrari perché avrebbe portate ad uno scontro con la Gran Bretagna.
Le motivazione economiche del riarmo comunque non erano quelle prevalenti: all’inizio del Novecento la
possibilità di conquistare colonie si era praticamente esaurita e ciò obbligava alla ricerca di altre
manifestazioni di potenza e prestigio; la flotta da guerra era letta come un mezzo capace di mostrare al mondo
la forza e la grandezza della nazione tedesca. Secondo il Ministro per la Marina tedesco, Alfred von Tirpitz, il
vero artefice del programma di riarmo navale, bisognava dissuadere la Gran Bretagna dalla tentazione di
intervenire contro l’Impero tedesco: la flotta doveva servire come arma di pressione per convincere
l’Inghilterra a scendere a patti con la grande potenza tedesca.
La polveriera balcanica
Il regno di Serbia aveva ottenuto la definitiva indipendenza al Congresso di Berlino e desiderava allargare i
propri confini: sperava di giungere alla costruzione di un vasto stato nazionale che comprendesse tutti i
popoli jugoslavi (slavi del Sud), compresi anche gli sloveni, i croati e i bosniaci, che si trovavano sotto
dominazione dell’Austria-Ungheria.
Nel 1902 Italia e Francia si accordarono per la spartizione del Nordafrica: in caso di occupazione francese
del Marocco (che avvenne nel 1911), l’Italia avrebbe potuto conquistare la Libia (1911-12). Ciò rendeva
ormai superati i motivi antifrancesi che tenevano l’Italia nella Triplice Alleanza.
Approfittando della guerra italo-turca nel 1912 la Serbia, alleatasi con Grecia, Montenegro e Bulgaria,
intervenne contro l’Impero ottomano nella prima delle due guerre balcaniche20, obbligandolo alla cessione
di parte della Macedonia. Austria-Ungheria e Italia però negarono alla Serbia l’accesso al mare, e
istituirono il piccolo stato dell’Albania. Nel 1913 i rapporti tra Serbia e Austria-Ungheria si fecero
sempre più tesi: mentre Belgrado aspirava a cancellare lo stato albanese e a liberare i territori slavi sotto
dominio austriaco, a Vienna si diffondeva l’idea di infliggere una dura lezione al regno di Serbia.
20 Nella seconda guerra balcanica del 1913, la Bulgaria attaccò la Serbia, ma venne duramente sconfitta
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La dinamica del conflitto
L’attentato di Sarajevo
Il 28 giugno a Sarajevo (capitale Bosnia-Erzegovina), un terrorista serbo-bosniaco di 19 anni, Gavrilo
Princip, uccise a colpi di pistola l’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo, erede al trono austroungarico; dietro il gesto omicida c’era una vera cospirazione preparata da un gruppo nazionalista chiamato
“Giovane Bosnia”, collegato a sua volta all’associazione nazionalista serba “Unione o Morte”, fondata dal
colonnello Dragutin Dimitrevic, capo dei servizi segreti dell’esercito serbo. Il governo austriaco imputò la
responsabilità dell’omicidio interamente allo stato serbo. I governanti austro-ungarici sapevano bene che in
caso di conflitto la Serbia sarebbe stata sostenuta dalla Russia e che si sarebbe arrivati ad una guerra estesa a
tutte le potenze europee, per questo consultarono dapprima il governo tedesco che, forte del piano Schlieffen,
assicurò il suo appoggio.
Il governo di Vienna consegnò a quello di Belgrado il suo ultimatum il 23 luglio, contenente pesanti richieste:
la Serbia avrebbe dovuto vietare ogni forma di propaganda antiaustriaca, licenziare i funzionari e ufficiali
che avessero manifestato posizioni nazionalistiche, e soprattutto avrebbe dovuto istituire una commissione
d’inchiesta sull’assassinio con la partecipazione di delegati austriaci. Fu solo quest’ultimo punto che la
Serbia non accolse, perché avrebbe significato una pesante limitazione della sua sovranità nazionale. Così il 28
luglio l’Austria-Ungheria dichiarò guerra alla Serbia.
L’invasione del Belgio
Tutti pensavano che la guerra sarebbe stata breve e affermavano di agire per legittima difesa.
Per la Germania i tempi di decisione, legati al piano Schlieffen, erano strettissimi. Dopo che la Russia ebbe
schierato le proprie truppe al confine con l’Austria-Ungheria e con la Germania, il 31 luglio il governo tedesco
inviò un ultimatum a quello russo, intimando di sospendere le operazioni, e di fronte al silenzio dei russi il 1°
agosto l’Impero tedesco entrò ufficialmente in guerra con la Russia e conseguentemente (2 agosto) con la
Francia sua alleata. Il 2 agosto la Germania intimò al Belgio di lasciar passare le sue truppe sul suo
territorio, ciò provocò la reazione della Gran Bretagna e il 4 agosto, dopo che i primi reparti tedeschi
avevano violato la frontiera del Belgio, l’Inghilterra dichiarò guerra all’Impero germanico.
L’invasione tedesca del Belgio fu brutale e spietata, con uccisioni di massa, rappresaglie e saccheggi.
La fine della guerra di movimento
Il piano Schlieffen prevedeva una rapida vittoria tedesca sul fronte occidentale, ma le truppe germaniche
dopo un mese di marce e scontri erano stremate; inoltre una parte dell’esercito dislocato in Belgio dovette
essere spostato su altri fronti (in Alsazia contro i francesi e in Prussia Orientale contro i russi, dove i tedeschi
ottennero una grande vittoria a Tannenberg che provocò ai russi perdite elevatissime). L’attacco decisivo a
Parigi non riuscì a concretizzarsi: le armate tedesche si fermarono a 40 km da Parigi; il 5 settembre nella
regione del fiume Marna i francesi e gli inglesi passarono al contrattacco e cancellarono per sempre le
speranze di una rapida vittoria tedesca sul fronte occidentale (si scontrarono più di un milione di tedeschi
contro più di un milione di francesi e inglesi; tale mobilitazione di uomini fu possibile grazie alle moderne
ferrovie). Nell’ottobre 1914 il conflitto si trasformò in guerra di posizione: i due eserciti si attestarono lungo
una linea che percorreva longitudinalmente l’intera Francia (dal Mare del Nord fino al confine con la Svizzera)
denominata fronte occidentale e composta materialmente di due file di trincee (di 765 km) che correvano in
parallelo e separate da uno spazio denominato “terra di nessuno”, largo dai 200 ai 1000 metri.
La guerra di trincea
Dall’autunno 1914 per quattro anni il fronte occidentale, nonostante le enormi perdite umane, non subì
alcun cambiamento significativo: la capacità difensiva, infatti, di ogni esercito era infinitamente
superiore alla sua capacità di attacco, ciò provocò una situazione di stallo. I soldati che prendevano
d’assalto la trincea nemica venivano falcidiati dai colpi di mitragliatrice (altre armi micidiali usate erano i
cannoni di grosso calibro). Inoltre, le trincee erano protette dal filo spinato che bloccava l’impeto dell’assalto.
Neanche l’utilizzo di nuove armi come il gas (impiegato per la prima volta dai tedeschi nei pressi della città
belga di Ypres nel 1915) spezzò lo stallo21.
21 L’impiego del gas non era semplice, perché se il vento non spirava nella direzione giusta poteva ritorcersi contro chi lo lanciava.
Ben presto poi gli eserciti si dotarono di rudimentali ma efficaci maschere antigas.
Le battaglie di Verdun (offensiva tedesca) e della Somme (offensiava inglese) del 1916
Quelle di Verdun (offensiva tedesca bloccata dai francesi) e della Somme (offensiva inglese bloccata dai
tedeschi) nel 1916 furono le due battaglie più lunghe e sanguinose del conflitto. A Verdun morirono circa
300 000 soldati, sulla Somme 650 000, senza nessun mutamento della situazione strategica. A Verdun fu
sperimentato per la prima volta il lanciafiamme e sulla Somme furono impiegati i primi rudimentali carri
armati (tanks).
Una guerra di logoramento
Dopo che la prospettiva di una soluzione rapida del conflitto emerse chiaramente che la vittoria sarebbe
stata ottenuta da chi fosse stato capace di resistere più a lungo, continuando a mettere in campo risorse
umane e materiali indispensabili per continuare a combattere.
Il numero dei soldati che presero parte al conflitto fu enorme (più di 65 milioni), così come dei morti (quasi 9
milioni), dei feriti (più di 21 milioni), dei dispersi e prigionieri (quasi 8 milioni). Per tali numeri, impensabili in
qualsiasi guerra precedente, il conflitto fu detto “Grande guerra”.
Il protrarsi della guerra rese importantissima la capacità di gestire le risorse e di produrle. A partire
dall’estate 1914, la marina britannica istituì un rigido blocco navale per impedire le importazioni
tedesche di materie prime necessarie per la produzione bellica (come il rame e il nitrato di potassio dal Cile
per la fabbricazione di esplosivi). Per far fronte a tale situazione la Germania cercò di riorganizzare la
propria economia con una rigorosa pianificazione (che decretò la fine del modello liberista), il cui principale
fautore fu l’industriale Walther Rathenau.
La guerra totale
La soluzione alla carenza di nitrato di potassio fu trovata facendo ricorso alle recenti scoperte dell’industria
chimica (ricavare azoto dall’atmosfera), più difficile fu reperire generi alimentari, che in Germania
scarseggiavano (nell’inverno 1916-17 molti furono costretti a nutrirsi quasi esclusivamente di rape).
I tedeschi giocarono la carta della guerra navale, scontrandosi con la flotta britannica al largo della costa
dello Jutland, senza riuscire però a forzare il blocco. Preso atto dell’impossibilità di contrastare la marina
inglese, la Germania intraprese la guerra sottomarina, che fu la più efficace risposta al blocco navale
britannico. I sommergibili affondavano sistematicamente qualsiasi nave, civile e militare, che solcassero
l’Atlantico e il Mare del Nord: l’obiettivo era quello di arrestare l’afflusso di materie prime e derrate
alimentari dirette in Inghilterra. La macchina militare bellica inglese corse il rischio di incepparsi per
mancanza di alimenti e materie prime, ma la situazione migliorò in seguito all’adozione del sistema dei
convogli: le navi mercantili iniziarono ad attraversare l’Atlantico in gruppo, ben protette dalla marina da
guerra. Il fallimento dell’offensiva sottomarina può essere considerato una delle principali cause della
sconfitta tedesca.
La guerra fu totale in quanto non faceva più differenza fra civili e militari, perché la distruzione
dell’apparato produttivo del nemico è importante quanto una vittoria sul campo 22.
Il crollo della Russia e l’intervento degli Stati Uniti (1917)
L’avanzata germanica sul fronte orientale, a differenza di quello occidentale, era inarrestabile (nell’agosto
1915 Varsavia era stata occupata). All’inizio del 1917 l’esercito zarista si era sgretolato e i disertori erano un
milione e mezzo. Nelle città russe il costo della vita era cresciuto del 700%, mancavano i più elementari generi
di prima necessità (pane, legna, carbone), per cui la gente soffriva pesantemente la fame e il freddo. Tale
drammatica situazione provocò la cauta dello zar (15 marzo 1917) e poi (6 novembre) la rivoluzione dei
comunisti guidati da Vladimir Lenin. Il 3 marzo 1918 il nuovo governo comunista firmò coi tedeschi la pace
di Brest-Litovsk. Il trattato era quanto mai oneroso per la Russia (pesanti amputazioni territoriali, fra cui
l’intera Ucraina che sarebbe dovuta diventare stato autonomo satellite della Germania). Lenin accettò tutte le
condizioni consapevole che il popolo russo era stanco di combattere e avrebbe appoggiato solo un governo che
lo avesse portato fuori dal conflitto.
Per la Germania la sconfitta della Russia significò la fine della guerra su due fronti e la possibilità di
rovesciare tutto il proprio esercito a occidente; tale situazione favorevole per la Germania però fu vanificata
dall’entrata in guerra degli Stati Uniti contro l’Impero tedesco il 6 aprile 1917. I sottomarini tedeschi non
riuscirono a bloccare l’afflusso di uomini e merci provenienti dalla gigantesca produttività dei cantieri
22 Questo aspetto sarà portato a livelli più drammatici durante la seconda guerra mondiale: è vero che nel 1914-18 Londra fu
attaccata dai dirigibili Zeppelin e dagli aerei bimotori Gotha, però i danni non furono paragonabili a quelli dei massicci
bombardamenti degli anni 1940-45.
americani, che riuscivano a varare nuove navi in quantità molto maggiore rispetto alla capacità distruttiva dei
sommergibili tedeschi.
Significato storico dell’intervento americano
L’8 gennaio 1918 il presidente americano Thomas Woodrow Wilson in un messaggio al Congresso enunciò
in 14 punti gli obiettivi politici che l’America si proponeva di ottenere dalla vittoria. Wilson presentava gli
Stati Uniti come i garanti della libera navigazione sui mari (che la guerra sottomarina aveva reso
impossibile)23. Inoltre Wilson poneva il principio di nazionalità come criterio di soluzioni dei principali
problemi europei (ciò avrebbe significato la restituzione dell’Alsazia-Lorena alla Francia, la nascita di uno
stato polacco indipendente e la dissoluzione dell’Impero Austro-Ungarico). Per quanto riguarda la Russia
comunista, Wilson si dimostrò conciliante, sostenendo che dove essere lasciata ad essa l’opportunità di
determinare in piena indipendenza le linee del proprio sviluppo politico e nazionale. Infine Wilson
propose l’istituzione di una Società Generale delle Nazioni, ovvero un organismo internazionale con lo
scopo di risolvere i contrasti e garantire l’indipendenza politica e territoriale di tutti gli stati (in modo da
scongiurare in futuro guerre come quella appena conclusa).
Gli Stati Uniti, con la partecipazione alla guerra e con il discorso di Wilson, uscivano dal loro tradizionale
isolazionismo, anche se a dir il vero, negli anni successivi persero ben preso interesse per le vicende
europee, tanto che nel 1919 gli USA non entrarono a far parte della Società delle Nazioni, quando venne
effettivamente istituita dalle potenze vincitrici. È importante notare che la prima guerra mondiale fu vinta da
francesi e inglesi solo con l’aiuto americano, questo tuttavia non significò la perdita della centralità della
politica dell’Europa e la sua dipendenza militare dagli USA (gli USA invece avranno un peso preponderante in
Europa dopo la fine della seconda guerra mondiale, in contrapposizione alla Russia sovietica).
La fine del conflitto
Il 21 marzo 1918 l’esercito tedesco iniziò una grande offensiva che nelle intenzioni dei generali Hindenburg
e Ludendorff avrebbe dovuto sfondare il fronte occidentale. I tedeschi riuscirono effettivamente a sfondare il
fronte in alcuni punti e a giungere nuovamente a minacciare Parigi, tuttavia dopo quattro mesi
l’offensiva si concluse con un insuccesso, anche grazie all’uso massiccio di aeroplani e carri armati da parte di
inglesi, francesi e americani24. Nel settembre 1918 la Germania non era più in grado di opporre resistenza,
anche se le autorità non si decidevano a intavolare trattative di pace (consapevoli che sarebbe stata chiesta una
resa senza condizioni). In novembre la situazione precipitò con una serie di ammutinamenti e
manifestazioni di protesta: il 3 novembre 3 000 marinai della base navale di Kiel sul Baltico; lo stesso giorno
l’Impero austro-ungarico si arrese; nei giorni seguenti si unirono ai ribelli 20 000 soldati della guarnigione di
Kiel e i marinai dei porti di Lubecca e Amburgo. Le rivolte di Monaco (7 novembre) e Berlino (9 novembre)
provocarono l’abdicazione del Kaiser Guglielmo II (che fuggì in Olanda) e la proclamazione della
Repubblica. L’11 novembre 1918 la Germania firmò l’armistizio con le potenze alleate.
La prima guerra mondiale era ufficialmente terminata dopo aver provocato la morte di almeno 10 milioni di
soldati oltre a 4 milioni di civili morti per effetto diretto delle azioni belliche. A questo tragico bilancio si deve
aggiungere la micidiale epidemia di influenza chiamata spagnola, che provocò la morte, in tutto il mondo, di
oltre 20 milioni di persone (la sola l’India contò 12 milioni di morti).
3
La guerra vissuta
L’euforia collettiva del 1914
Nell’estate del 1914 in tutti gli stati d’Europa lo scoppio delle ostilità venne accolto con euforia ed
entusiasmo, tutti convinti che la guerra sarebbe durata poco e avrebbe portato al trionfo della propria nazione.
Anche i partiti socialisti dei vari paesi, nonostante l’opposizione della Seconda Internazionale, finirono per
appoggiare la scelta dei rispettivi governi, dimenticando il principio marxista della solidarietà dei proletari di
tutto il mondo e accettando di identificarsi con la difesa della singola patria (l’idea di nazione prevalse su quella
di classe).
La comunità nazionale
Nel giorno della dichiarazione di guerra, il kaiser Guglielmo II coniò uno slogan: “Non vedo più partiti.
23 Il 7 maggio 1915 l’affondamento del transatlantico Lusitania comportò la morte di 1198 persone, 128 delle quali erano cittadini
americani
24 Tali scontri lasciarono intravedere le tecniche di combattimento che caratterizzeranno la seconda guerra mondiale
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Vedo solo tedeschi”. Agli occhi dei tedeschi in quel momento storico le differenze sociali e politiche, prodotte
dalla società industriale, parvero irrilevanti. Si compì un miracolo emotivo che suscitò un rinnovato senso
della comunità nazionale, intesa come una realtà omogenea chiamata ad un comune destino. Questo
entusiasmo patriottico e l’atmosfera di spiritualità nazionale confluirono successivamente nel modello
nazista (liturgie di masse, fine del parlamentarismo, principio dell’obbedienza incondizionata al Führer).
La fuga dalla modernità
La moderna società industriale non è solo stratificata in classi, ma anche produttrice di nuovi tipi di rapporti
umani: l’individuo immerso nella massa (nelle strade, stazioni, fabbriche, condomini, ecc.) in realtà è solo e
vive tale isolamento con angoscia e dolore.
In Germania nacque il Movimento giovanile, un fenomeno che investì la gioventù borghese alla fine
dell’Ottocento, come forma di protesta nei confronti dell’impersonale società urbana costruita dagli adulti.
Questi giovani si dedicavano ad escursioni e gite che li portavano a diretto contatto con la natura. All’interno
di questi gruppi nacque il concetto di Führer: nei gruppi emergeva un leader, il quale pur sempre un pari, si
distingueva per il suo carisma, per le sue qualità morali e fisiche, meritandosi l’unanime ammirazione e
obbedienza, espressa con il saluto “heil” accompagnato dal braccio teso verso l’alto. Col tempo il movimento
assunse un carattere sempre più nazionalistico. Il Movimento giovanile fu un fenomeno d’élite, mentre
l’entusiasmo del 1914 coinvolse un numero elevatissimo di tedeschi, alla ricerca di nuove forme di
aggregazione capaci di sconfiggere l’isolamento urbano. Molte persone, aderendo alla guerra, si
percepirono parte di una comunità, si identificarono con la nazione, vincendo l’angoscia dell’isolamento.
Per lo stesso motivo milioni di tedeschi avrebbero successivamente aderito al Partito nazista.
La disillusione dei soldati
Al momento della dichiarazione di guerra, i ragazzi che avevano aderito al Movimento giovanile si
arruolarono in massa. Ottantamila di questi volontari caddero nella battaglia di Langemarck (nelle
Fiandre), nel novembre 1914, falciati dalle mitragliatrici inglesi. La stessa disillusione sopraggiunse per i
volontari inglesi. Nel loro immaginario la morte per la patria era qualcosa di glorioso e eroico (vedi
poesia Wilfred Owen), ma in realtà si trovarono di fronte ad una morte industriale, di massa. Morire sventrati
da una granata non aveva nulla di eroico, crolla così l’illusione della guerra romantica.
Rivolte e ammutinamenti
Man mano che la guerra di logoramento continuava, il malcontento divenne sempre più acuto fra i soldati al
fronte e fra la popolazione. Gruppi minoritari, staccatisi dai vari Partiti socialisti dei diversi paesi, si
riunirono a congresso in Svizzera a Zimmerwald (settembre 1915) e a Khienthal (aprile 1916), ma i loro
appelli di pace che rilanciavano il tradizionale internazionalismo proletario restò inascoltato.
Nel 1917 la situazione degenerò e si verificarono ammutinamenti di massa sia tra le truppe tedesche che
tra quelle francesi (il comando francese però riuscì a recuperare l’obbedienza delle truppe con interventi tesi a
migliorare le condizioni di vita dei soldati al fronte).
Lenin in Russia riuscì a legare il comunismo al rifiuto della guerra e ciò si ripercosse anche su altri paesi,
come la Germania, in cui i movimenti nazionalisti addossarono ai socialisti la responsabilità della
sconfitta e tale retorica sarà poi ripresa da Hitler, secondo il quale la guerra era stata persa per il cedimento del
fronte interno che aveva pugnalato alle spalle l’esercito ancora imbattuto.
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Moudlo 2b: L’Italia dal 1914 al 1918
1
Il problema dell’intervento
La scelta della neutralità
Allo scoppio della guerra l’Italia era legata alla Germania e all’Austria-Ungheria per mezzo della Triplice
Alleanza. Il capo di Stato Maggiore dell’esercito, generale Luigi Cadorna, sollecitava l’entrata in guerra a
fianco delle truppe tedesche e austriache, ma il governo, presieduto dal liberale conservatore Antonio
Salandra, decise che l’Italia sarebbe rimasta neutrale, in quanto la Triplice Alleanza era un trattato
puramente difensivo e secondo il giudizio di Salandra non si era verificata una vera e propria aggressione nei
confronti dei due Imperi alleati con l’Italia. Le ragioni di questa scelta erano legate alla constatazione
dell’esaurimento delle ragioni che avevano portato l’Italia a firmare la Triplice Alleanza, ovvero il
desiderio di frenare l’espansionismo francese nel Mediterraneo. Inoltre l’Austria-Ungheria non aveva alcuna
intenzione di cedere Trento e Trieste all’Italia.
I sostenitori della neutralità
Invece di un grande movimento di solidarietà nazionale, la prospettiva della guerra generò in Italia un vasto
dibattito e una violenta frattura dell’opinione pubblica, divisa tra interventisti e neutralisti.
Il più autorevole dei neutralisti era Giovanni Giolitti, il quale aveva intuito che il conflitto sarebbe stato
lungo ed estenuante e pensava che l’Italia avrebbe avuto maggiori vantaggi sfruttando la propria posizione
di neutralità.
Anche la Chiesa pensava fosse opportuno restare fuori dal conflitto, sia per ragioni di natura morale, in
quanto il conflitto si stava rivelando un enorme massacro (papa Benedetto XV lo definì la guerra una “inutile
strage”), sia per ragioni politiche, l’intervento italiano contro l’Austria-Ungheria avrebbe potuto contribuire
alla sconfitta dell’unica grande potenza dichiaratamente cattolica.
A favore della neutralità si schierarono anche i socialisti, poiché pensavano che la guerra mondiale altro non
fosse che la continuazione della volontà imperialista degli stati di strappare con la forza ai rivali nuove
regioni e che il proletariato non avrebbe ottenuto alcun beneficio da questa guerra, tutta a vantaggio dei
capitalisti. Tuttavia, i socialisti italiani si limitarono a una opposizione verbale alla guerra, espressa dal motto
“né aderire né sabotare”.
Gli interventisti di sinistra
Tra i favorevoli all’intervento vi erano innanzitutto gli intellettuali democratici, tra cui Gaetano Salvemini e
Cesare Battisti (che sarebbe stato poi impiccato dagli austriaci nel 1916), eredi della tradizione mazziniana e
risorgimentale, secondo cui la guerra rappresentava un “nuovo Risorgimento”, ovvero l’occasione per
liberare Trento e Trieste e completare l’unificazione nazionale.
Poi tra gli interventisti spiccarono i sindacalisti rivoluzionari, i quali, ispirati dalle teorie del filosofo francese
George Sorel, vedevano nella guerra e nel suo inevitabile carico di morte, miseria e disordine sociale la
condizione ideale per dare avvio alla rivoluzione proletaria. Su posizioni simili si schierò anche Benito
Mussolini, che il 15 novembre 1914 fondò un nuovo giornale, “Il Popolo d’Italia”, proprio per sostenere la
propaganda a favore dell’intervento. Benché il giornale riportasse come sottotitolo la dicitura “quotidiano
socialista”, esso fu finanziato da numerosi gruppi di industriali, favorevoli al coinvolgimento del paese in
guerra, e probabilmente anche dall’ambasciata francese.
I nazionalisti
I più accesi sostenitori dell’intervento furono i nazionalisti; il movimento era stato fondato da Enrico
Corradini nel 1903 e aveva nella rivista “Il Regno” il principale mezzo di diffusione delle proprie idee.
Corradini strumentalizzò la terminologia marxista per sostenere idee nazionaliste: riteneva che vi fossero nel
mondo “Nazioni borghesi”, ovvero quelle che avevano costruito già da tempo i propri imperi e si erano
arricchite, e “Nazioni proletarie”, ovvero quelle, fra cui l’Italia, che erano ancora alla ricerca di una
propria affermazione politico-militare e di un impero coloniale. Le nazioni ricche, secondo Corradini,
soffocavano quelle proletarie, destinate tuttavia ad emergere e a prendere il posto delle ormai declinanti
potenze borghesi. Per favorire questo processo però era necessario schiacciare “l’ignobile socialismo”, che
conduceva la nazione verso la guerra civile, esortando i proletari a combattere contro i borghesi. Inoltre,
Corradini era nemico della democrazia e del parlamentarismo e riteneva che il potere dovesse essere
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esercitato in modo autoritario da una élite ristretta, capace di individuare gli obiettivi della politica nazionale
e di perseguirli con mano ferma.
Gli intellettuali
Le posizioni antidemocratiche e nazionaliste di Corradini trovarono numerosi consensi fra gli
intellettuali, primo fra tutti Gabriele D’Annunzio. Nel più famoso dei suoi romanzi, Il piacere (1889),
D’annunzio, influenzato anche dalla versione distorta della filosofia del superuomo di Nietzsche, criticava “il
grigio diluvio democratico” dei suoi tempi, che non lasciva più spazio all’eroe e all’uomo eccezionale,
schiacciato dalle masse25.
Da una nuova generazione di intellettuali la guerra venne vista come evento affascinante e avvincente per
eccellenza. Giovanni Papini, nel 1913 sulla rivista Lacerba, celebrò la guerra come uno strumento
liberatore, capace di spazzar via dalla Terra l’umanità in esubero, le ottuse masse che soffocavano il
genio. In termini simili Filippo Tommaso Marinetti definì la guerra la “sola igiene del mondo”. Marinetti
diede vita nel 1909 al movimento artistico del Futurismo, preoccupato di adeguare l’arte alla realtà moderna, al
XX secolo, visto come tempo della velocità.
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L’Italia in guerra
Il Patto di Londra
Nella primavera del 1915 gli interventisti intensificarono la propaganda a favore della guerra e
organizzarono numerose manifestazioni dei massa, in cui fu determinante il contributo coreografico di
D’Annunzio. Alcuni di quei raduni rappresentarono l’avvio del nuovo modo di gestire la leadership politica,
anticipando le liturgie di masse del periodo fascista. Il leader non era più una figura separata dal popolo, ma
colui che sapeva emozionarlo. Chi partecipava al raduno era colpito dalle musiche, dai colori, dal contesto,
ancor prima che dalle parole dell’oratore. Il risultato era una profonda carica emotiva, capace di travolgere ogni
obiezione di tipo razionale.
Il 26 aprile 1915, il governo italiano firmò il Patto di Londra, con cui si impegnava ad entrare in guerra
entro un mese, a fianco di Francia, Gran Bretagna e Russia, contro Austria-Ungheria e Germania.
L’accordo prevedeva, dopo la vittoria, che all’Italia sarebbero state assegnate Trento e Trieste, l’Alto
Adige, l’Istria, la Dalmazia26 e una parte delle colonie tedesche.
Il Patto per essere esecutivo doveva essere ratificato dal Parlamento, la cui maggioranza era però su
posizioni neutraliste, simili a quelle di Giolitti. Tale atteggiamento suscitò la collera degli interventisti27.
Il “maggio radioso”
Il maggio del 1915 (ribattezzato da D’Annunzio “maggio radioso”) vide in tutte le principali città italiane
scontri violenti fra neutralisti e interventisti.
Resosi conto di non godere della fiducia della Camera, il 13 maggio Salandra diede le dimissioni, ma il re
Vittorio Emanuele III, deciso sostenitore dell’intervento, gli conferì di nuovo l’incarico. A quel punto per
i deputati votare di nuovo contro il Patto di Londra avrebbe significato sconfessare l’autorità del Re;
pertanto il 20 maggio il Parlamento ratificò la decisione del governo, con il voto contrario dei socialisti,
provocando l’ingresso dell’Italia in guerra (24 maggio). Di fatto il Parlamento era stato scavalcato e ciò
determinò una sua perdita di prestigio che si ripercosse anche negli anni successivi alla fine del conflitto.
Le operazioni militari
Il fronte italiano era lungo circa 700 km e le operazioni militari si svolsero contemporaneamente nelle regioni
del Trentino e del Carso28. Nel Trentino fu una guerra di montagna. Nella regione dell’altopiano del Carso, che
25 La stessa vita di D’Annunzio fu una continua ricerca di esperienze forti e di emozioni, nel completo disprezzo della morale
corrente. Con questo spirito egli partecipò alla guerra mondiale e compì imprese spettacolari, come il siluramento delle navi
austriache nel porto di Buccari e un volo su Vienna (1918). Nel 1919 guidò l’occupazione di Fiume e fu un importante punto di
riferimento per il nascente movimento fascista, fino a quando Mussolini, preoccupato che il prestigio del poeta potesse oscurare il
suo, non lo costrinse all’isolamento sul lago di Garda, nella sua residenza detta Vittoriale, in cui rimase fino alla morte nel 1938.
26 Con il nome Dalmazia si intende la costa orientale dell’Adriatico, abitata prevalentemente da slavi. Attualmente è politicamente
suddivisa tra Croazia, Montenegro e Bosnia ed Erzegovina.)
27 In quell’occasione Mussolini scrisse: “Sono sempre più convinto che per la salute dell’Italia bisognerebbe fucilare, dico fucilare,
nella schiena, qualche dozzina di deputati e mandare all’ergastolo un paio almeno di ex ministri. Non solo, ma io credo, con fede
sempre più profonda, che il Parlamento in Italia sia il bubbono pestifero che avvelena il sangue della Nazione. Occorre estirparlo”.
28 Il Carso è un altopiano che si estende nel nord-est dell'Italia dai piedi delle Alpi Giulie al mare Adriatico (in provincia di Gorizia e
di Trieste), attraverso la Slovenia occidentale e l'Istria settentrionale prosegue fino al massiccio delle Alpi Bebie all'estremo nord-
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separa il fiume Isonzo da Trieste, furono combattute quelle che la storiografia indica come le 12 battaglie
dell’Isonzo.
Nel maggio 1916 gli austriaci lanciarono la loro spedizione punitiva (Strafexpedition) contro l’Italia, per
punirla del voltafaccia, attaccando in forza il Trentino e avanzando per una ventina di chilometri, ma venendo
infine fermato. Nell’agosto del 1916 l’Italia prese l’iniziativa e attaccò nella zona del Carso, conquistando
Gorizia, ma senza riuscire a proseguire l’offensiva. Le perdite nell’esercito italiano furono pesantissime
(solamente nel 1916 118 00 morti e 285 000 feriti) in quanto i comandanti applicavano la tattica dell’assalto
frontale, senza badare alle perdite.
La disfatta di Caporetto
Con il crollo dell’esercito russo, nel 1917, gli austro-ungarici, sostenuti da divisioni scelte dei tedeschi,
concentrarono tutte le loro truppe sul fronte italiano e pianificarono una massiccia offensiva sull’Isonzo,
all’altezza del villaggio di Caporetto (oggi Kobarid, in Slovenia). Cadorna era stato informato del piano da
alcuni disertori, ma non presto fede a quelle notizie, pertanto, quanto il 24 ottobre 1917, quando l’esercito
austro-tedesco investì le prime linee con violentissimi bombardamenti, gli italiani furono presi alla
sprovvista e il comando non rimase indeciso sul da farsi per alcuni giorni. I tedeschi ottennero così un successo
superiore ad ogni loro aspettativa e l’esercito italiano fu costretto, incalzato dai nemici, ad una ritirata
disordinata. Solo lungo la linea del fiume Piave fu possibile ricostruire un efficace sistema difensivo.
L’episodio più critico fu l’ingorgo di migliaia di soldati sui pochi ponti che permettevano il passaggio del
Tagliamento.
Le province di Udine, Belluno, Treviso, Vicenza e Venezia furono occupate dagli austro-tedeschi. Circa un
milione di persone si trovò sotto l’occupazione militare straniera, mentre 600 000 profughi furono costretti ad
abbandonare le loro case. Il regime di occupazione fu estremamente duro (razzie disorganizzate prima e
spoliazione sistematica poi, non mancarono violenze sessuali, come in Belgio nel 1914).
L’ultimo anno di guerra
Dopo Caporetto Cadorna venne esonerato; al suo posto fu nominato il generale Armando Diaz e il governo
passò nelle mani di Vittorio Emanuele Orlando, il quale riuscì ad ottenere dagli alleati regolari
rifornimenti alimentari e ingenti crediti, con cui fu possibile rilanciare l’economia di guerra italiana e
scongiurare che il malcontento fra le masse degenerasse in aperta rivolta. Per diversi mesi il generale Diaz
assunse un atteggiamento difensivo, consapevole della situazione di logoramento degli eserciti avversari.
Nell’autunno 1918 la situazione di Germania e Austria-Ungheria era disperata. Diaz ordinò il
contrattacco il 26 ottobre: nella regione di Vittorio Veneto, le truppe austro-ungariche non riuscirono a
resistere e si disgregarono (vi furono numerosi ammutinamenti, soprattutto di soldati slavi e ungheresi). Il 3
novembre l’Austria-Ungheria firmava la resa, che prevedeva per il giorno seguente, il 4 novembre la resa
delle ostilità.
L’Italia usciva vincitrice dalla guerra, che le era costata 680 000 morti e un milione di feriti di cui la metà
mutilati e invalidi. Tuttavia per i nazionalisti ciò che ottenne l’Italia dopo la Conferenza di pace era
assolutamente inadeguato, pertanto il clima di scontro non si placò e anzi fu la coltura ideale per la nascita del
movimento fascista.
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Gli italiani in guerra
Contadini soldati
Dei 4 250 000 soldati italiani inviati al fronte il 45% era di origine contadina e moltissimi erano analfabeti.
Fu la guerra ad avvicinare molti di loro alla scrittura, per tenere diari e per scrivere lettere alle famiglie. Questi
mezzi di espressione aiutarono molti a scaricare la tensione e a superare il trauma della guerra (scrittura come
strumento catartico), fungendo in certi casi come l’equivalente immaginario di quella fuga dalla trincea o di
quella ribellione che risultava impossibile a causa della dura repressione dell’autorità militare.
L’apparato repressivo delle autorità
La corrispondenza dei soldati veniva sottoposta a censura (anche se in realtà solo poche lettere potevano
essere effettivamente controllate), per impedire che i soldati esprimessero riserve e critiche nei confronti della
guerra e degli ufficiali.
ovest della Croazia, estendendosi così nell'Italia, nella Slovenia e nella Croazia.
In particolare, il monte Carso è una modesta altura di 456 m, che si trova all'imboccatura della Val Rosandra, in provincia di Trieste.
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Nel periodo tra il 1915 e il 1918 vennero chiamati alle armi circa 5 200 00 italiani, di questi 870 000 furono
oggetto di denuncia all’autorità militare. Tra i denunciati il gruppo maggiore era quello dei renitenti alla
chiamata (470 000), di questi circa 370 000 erano emigranti residenti all’estero.
Autolesionismo e follia
Tra i soldati si diffuse la pratica dell’autolesionismo, come mezzo per essere ritirati dal fronte. Le autorità
militari repressero con durezza tale comportamento, così come la diserzione e i tentativi di consegnarsi al
nemico. Il massimo del rigore era applicato agli episodi di ammutinamento e aperta ribellione; nei casi in cui
non si trovava il diretto responsabile veniva perfino applicata la decimazione, che consisteva nel fucilare un
certo numero di soldati, estratti a sorte dl gruppo nel quale si erano manifestati i disordini.
Solo dopo la disfatta di Caporetto si cercò di dare maggior sostegno morale alle truppe, puntando più sulla
propaganda che su una spietata disciplina. Tra i soldati cominciarono a girare dei giornali di trincea, costituiti
soprattutto di immagini e vignette, per un pubblico in gran parte semi-analfabeta. Questi fogli possono essere
considerati il primo tentativo in Italia di un giornale di massa a grande diffusione.
Né la ferrea disciplina, né la propaganda impedirono a 40000 soldati di impazzire dopo una più o meno lunga
permanenza al fronte. I medici di allora, impreparati rispetto al fenomeno della follia di guerra, spesso la
scambiarono per simulazione, alla stregua dell’autolesionismo; in realtà si trattava di un fenomeno psichico ben
preciso, interpretabile come meccanismo estremo di autodifesa messo in atto automaticamente dalla mente per
fuggire gli orrori della guerra.
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Modulo 3: Il comunismo in Russia
L’arretratezza della Russia
In campo politico l’Impero russo era ancora fermo alla monarchia assoluta, guidata dallo zar, che governava
in modo autocratico (senza limitazioni), scavalcando sistematicamente la Duma (il parlamento russo istituito
nel 1905 con soli poteri di controllo).
Dal punto di vista economico, l’attività prevalente in Russia era l’agricoltura, che tuttavia versava in
condizioni di arretratezza.
La rivoluzione del febbraio 1917
A causa del prolungarsi del conflitto mondiale, la già fragile economia russa crollò definitivamente. La
popolazione era ridotta alla fame e al freddo. Per questa ragione, a partire dal febbraio 1917 vi furono diverse
manifestazioni di protesta (specialmente a Pietrogrado), che portarono all’abdicazione dello zar e alla
nascita di un governo provvisorio, espresso dalla Duma.
I Soviet
Oltre al governo provvisorio si formò un altro centro di potere: i Soviet (consigli), che erano organi di
autogoverno eletti nelle fabbriche e nei reggimenti. Ogni fabbrica e reggimento eleggeva un certo numero di
delegati, che poi concorrevano a formare il soviet cittadino. Si era pertanto venuta a creare una situazione di
dualismo di poteri: all’autorità ufficiale del governo provvisorio, si contrapponeva quella, non meno reale, dei
soviet.
Lenin e le tesi di aprile
Grazie agli sconvolgimenti politici della rivoluzione di febbraio, il 3 aprile 1917, Lenin, capo della corrente
bolscevica29 del partito socialdemocratico russo, poté tornare in patria. Appena giunto a Pietrogrado tenne
alcuni discorsi, condensati poi in un breve documento noto come tesi d’aprile, in cui affermava: 1) la necessità
di stipulare una pace separata con la Germania (al contrario, il governo provvisorio si era impegnato con le
potenze dell’Intesa a non uscire dal conflitto); 2) che fossero ormai maturi i tempi per una rivoluzione
socialista (nonostante la Russia fosse un paese ancora arretrato dal punto di vista industriale e privo di una vera
classe di capitalisti, tuttavia, secondo Lenin, la guerra mondiale imperialista e i conseguenti sconvolgimenti,
avrebbe portato alla rivoluzione, non solo la Russia, ma tutti i paesi dell’Europa industrializzata); 3) che
occorreva risolvere il dualismo di poteri in modo che tutta l’autorità passasse nelle mani del proletariato. Alla
linea dei menscevichi che, in nome del marxismo ortodosso, proponevano il sostegno al governo affinché la
fase borghese della storia russa potesse consolidarsi, Lenin opponeva le due parole d’ordine: “pace immediata”
e “tutto il potere ai soviet”.
La rivoluzione di ottobre
Nel settembre 1917 i bolscevichi ottennero la maggioranza all’interno dei soviet di Pietrogrado e Mosca e
riuscirono a controllare il Congresso Panrusso dei soviet (grazie al contributo dato per sventare un tentativo di
colpo di stato in agosto). A Pietrogrado, la notte del 25 ottobre 1917 (7 novembre), reparti armati bolscevichi
assaltarono il Palazzo d’Inverno, sede del governo, e arrestarono numerosi ministri. Il giorno dopo il
Congresso Panrusso dei soviet ratificò il colpo di stato, assunse il potere, emanò i primi decreti rivoluzionari
e fu deciso di convocare un’Assemblea Costituente.
Lenin, preoccupato di avere l’appoggio dei contadini, fece emanare il decreto sulla terra: “Ogni proprietà
privata è abolita immediatamente e senza compenso”. Tutti i terreni diventavano proprietà nazionale ed erano
messi a disposizione di tutti i contadini che desiderassero coltivarli. Erano vietati l’acquisto, la vendita e
l’affitto dei terreni, nonché l’utilizzo di manodopera salariata. Nei mesi successivi furono nazionalizzate le
banche e decretato il controllo operaio su tutte le imprese commerciali e industriali.
In tal modo, venivano gettate le basi per la costruzione del socialismo.
29 Menscevichi e bolscevichi. Il Partito socialdemocratico russo, di ispirazione marxista e membro della Seconda Internazionale, era
diviso in due correnti: quella minoritaria, detta menscevica, e quella maggioritaria, detta bolscevica. I menscevichi propendevano
per un partito ramificato, di massa, ed erano fedeli alla concezione ortodossa del marxismo secondo cui non si può passare
direttamente dall’assolutismo e dal feudalesimo al socialismo, pertanto essi appoggiavano il governo provvisorio con lo scopo di
stabilizzare la fase borghese, rimandando ad un tempo futuro l’instaurazione del socialismo. I Bolscevichi, invece, erano
favorevoli a un partito elitario, gestito da pochi dirigenti, rivoluzionari di professione, e ritenevano maturi i tempi per una
rivoluzione socialista.
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La dittatura del proletariato
Lenin, nello scritto Stato e rivoluzione del 1917, ispirandosi al concetto di dittatura del proletariato di Marx ed
Engels, riteneva che il proletariato dovesse conquistare lo stato, solo così sarebbe stato possibile respingere
gli assalti della borghesia. Solo una volta che il proletariato avesse conquistato il potere si sarebbe potuto
attuare il socialismo per poi passare finalmente alla società senza classi, in cui lo stesso stato si sarebbe
dissolto.
La dittatura del partito
Tra la fine del 1917 e l’inizio del 1918 la dittatura del proletariato si trasformò in dittatura del partito:
venne istituita la CEKA (Commissione straordinaria per la lotta contro la controrivoluzione e il sabotaggio), e
fu attuato il cosiddetto Terrore rosso, che portò all’uccisione di molti nemici politici e capitalisti.
Inoltre, nonostante alle elezioni (le prime a suffragio universale in Russia) i bolscevichi furono sconfitti dai
social-rivoluzionari (che, a dispetto del nome, erano schierati su posizioni moderate), Lenin non lasciò il potere
(fece disperdere l’assemblea dopo la prima riunione, sostenendo che il popolo fosse ancora condizionato
dall’ideologia della classe dominante e che solo la linea politica dei bolscevichi poteva essere considerata
rispondente agli interessi del proletariato).
La guerra civile
Uno dei motivi per cui il partito di Lenin aumentò i suoi consensi fu la decisione di giungere al più presto
possibile ad una pace separata con la Germania. Il 3 marzo 1918, infatti, fu stipulato il trattato di BrestLitovsk: esso era quanto mai oneroso per la Russia, che perdeva molti importanti territori (fra i quali
l’Ucraina), ma Lenin lo accettò ugualmente per poter avere quella tranquillità senza la quale sarebbe stato
impossibile consolidare il nuovo regime.
Tuttavia, Lenin dovette affrontare subito un’altra guerra, questa volta civile. Reparti legati allo zar non
riconobbero il governo bolscevico ed iniziarono a lottare contro di esso. Alla fine del 1919 l’esercito comunista
– la cosiddetta Armata rossa, completamente riorganizzata dal leader bolscevico Lev Trockij – riuscì a
sconfiggere gli eserciti controrivoluzionari – la cosiddetta Armata bianca, sostenuta (sostenuta
economicamente e militarmente anche da Francia e Inghilterra).
Il comunismo di guerra
Il problema principale negli anni 1917-1921 fu quello dell’approvvigionamento delle città, in cui si moriva
di fame e di freddo. Il governo attuò il cosiddetto comunismo di guerra, cioè organizzò su vasta scala la
requisizione dei raccolti.
La Nuova Politica Economica
Dopo il fallito tentativo di sollevare gli operai polacchi contro il proprio paese e far accogliere la Russia come
la liberatrice di tutti i lavoratori, Lenin si rese conto della impossibilità di scatenare nell’immediato una
generale rivoluzione europea e che, invece, fosse necessario dedicarsi al rafforzamento interno del regime.
Ciò implicava però una svolta nella politica tenuta fino ad ora nei confronti dei contadini, ridotti alla fame
a causa delle requisizioni.
Nel marzo 1921, mentre le campagne russe soffrivano una micidiale carestia (che provocò la morte di 5 milioni
di contadini), venne varata la cosiddetta NEP (Nuova Politica Economica), che lo stesso Lenin definì come una
“ritirata” nel cammino verso il socialismo. In pratica, si introduceva di nuovo nelle campagne un’economia di
mercato. La NEP favorì soprattutto i contadini che avevano a propria disposizione poderi sufficientemente
ampi da poter immettere una parte del raccolto sul mercato. Questi agricoltori si trasformarono di fatto in
imprenditori.
Dal 1922 la Russia e i territori ad essa sottomessi si federarono in un’unica compagine statale che prese il nome
di URSS (Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche).
Lo stalinismo
Lenin morì il 24 gennaio 1924, all’età di 54 anni. Nel 1927 risultò padrone assoluto del governo della Russia
Stalin (Iosif Vissarionovic Dzugasvili), che già dal 1922 ricopriva la carica di segretario del partito.
Stalin, in nome della lotto contro il frazionismo (già iniziata da Lenin), proibì ogni discussione interna al
partito e arrivò fino a mettere sotto accusa, processare e condannare a morte, alcuni fra i maggiori
dirigenti bolscevichi e fautori della rivoluzione, come Trockij, Zinov’ev, Kamenev, Bucharin. In tutti questi
processi ci fu un elemento di spettacolarità: l’imputato era costretto ad autoaccusarsi pubblicamente dei
peggiori crimini. La repressione, oltre all’ambito politico, coinvolse anche altri settori, come la burocrazia
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statale e la cultura. Si stima che tra il 1936 e 1939, da 4 a 5 milioni di persone subirono la
repressione: quattrocento o cinquecentomila furono fucilati, gli altri spediti nei campi di
concentramento per molti anni.
L’industrializzazione della Russia
L’obiettivo principale di Stalin era quello di giungere in tempi brevi ad un livello di
industrializzazione pari a quello degli altri paesi europei. Bisognava però passare da una
produzione di beni di consumo all’industria pesante. Per far ciò nel 1929 fu varato il primo
piano quinquennale, che prevedeva una rigida pianificazione statale dell’economia e della
politica industriale (era l’antitesi del liberismo economico e ricordava quanto accadde in
Germania durante la prima guerra mondiale per far fronte al blocco navale inglese). Tale politica
economica statalista ottenne in effetti eccezionali risultati (dal 1929 al 1940 la produzione
industriale sovietica triplicò).
La collettivizzazione delle campagne
Nel giro di dieci anni l’URSS divenne la seconda potenza industriale del mondo. I costi
umani di tale impresa però vennero pagati soprattutto dai contadini. A partire dai primi mesi del
1928 si fece di nuovo ricorso alle requisizioni forzate, come al tempo del comunismo di guerra.
Nel gennaio 1930 Stalin decise di procedere alla liquidazione dei kulaki (contadini benestanti,
che si erano arricchiti soprattutto ai tempi della NEP) ed alla collettivizzazione delle campagne.
Nel 1931, vennero deportati circa 1800000 individui (bollati come sfruttatori agricoli) in zone
periferiche e semidesertiche, ove la maggior parte morì per stenti. Nel contempo, tutti gli altri
contadini vennero obbligati a riunirsi in grandi aziende agricole collettive (dette kolchoz), unità
produttive di vaste dimensioni, completamente controllate dallo stato. Migliaia furono i contadini
che si rifiutarono, ma vennero arrestati e finirono in campo di concentramento.
In definitiva, a costo di far partire la fame ai contadini, le città e i grandi centri industriali
poterono essere regolarmente riforniti.
I campi di lavoro
Negli anni Trenta, giunse a piena maturazione anche il sistema dei campi di lavoro sovietici,
ovvero strumenti di repressione e di reclusione degli avversari politici. Nel 1929, tutti i campi di
concentramento sovietici furono raccolti sotto la sigla GULag e da luoghi deputati al terrore
passano a centri finalizzati allo sfruttamento dei prigionieri (ad es. per la costruzione di grandi
canali, come quello tra il Mar Baltico e il Mar Bianco, dove lavorarono 120 000 detenuti; o nelle
miniere d’oro della Siberia orientale, dove ne lavoravano 138 000).
Per la maggior parte dei prigionieri, non si trattava di detenuti politici, ma di individui normali
che per qualche ragione, anche banale, si erano posti contro il regime: ad es. per essersi spostati
dalle campagne alle città senza permesso, o per aver tenuto per sé una porzione di troppo di
raccolto, o per non essere abbastanza zelanti in fabbrica.
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