La prima guerra mondiale 1 Le origini del conflitto Tensioni e alleanze tra le potenze europee Al Congresso di Berlino del 1978 cominciarono a delinearsi alcune delle alleanze che caratterizzeranno la prima guerra mondiale: la Germania di Bismarck, timorosa di un eccessivo rafforzamento russo18 nei Balcani, si avvicinò alle posizioni dell’Austria-Ungheria e stipulò con essa un’alleanza difensiva. Nel 1875 la Russia, desiderosa di espandersi nella penisola balcanica, era intervenuta contro l’impero ottomano, a difesa della Serbia e del Montenegro, che a loro volta sostenevano i contadini cristiani della Bosnia e dell’Erzegovina nella loro ribellione contro i grandi proprietari terrieri musulmani. Dopo la vittoria russa, con la pace di Santo Stefano nel 1878, fu creato il vasto Stato di Bulgaria (comprendente gran parte dei territori europei sotto dominazione ottomana), che sarebbe dovuto essere subalterno alla Russia, ma che rimase invece autonomo (e fu ridimensionato) per l’opposizione di Inghilterra e Austria-Ungheria, le quali minacciarono di muovere guerra alla Russia. La crisi fu pacificata nell’estate del 1878 con il Congresso di Berlino: fu promosso dall'Austria e accettato dalle altre potenze europee per rettificare il trattato di Pace di Santo Stefano. Il Congresso ridimensionò e divise la nascente Bulgaria, satellite della Russia, e stabilì l’amministrazione austriaca della Bosnia. Confermò invece l’indipendenza della Romania, della Serbia e del Montenegro. La Germania, che fece da mediatrice, per aver scongiurato la grave crisi fra la Russia e l’Austria aumentò il suo prestigio ma incrinò i suoi rapporti con la Russia che non fu soddisfatta dei negoziati. La Turchia, pur perdendo estesi territori, limitò i danni rispetto alla Pace di Santo Stefano. Il cancelliere tedesco Bismarck, timoroso di un eccessivo rafforzamento russo, sostenne le posizioni dell’Austria-Ungheria e dell’Inghilterra e stipulò nel 1879 un’alleanza difensiva con l’Impero asburgico (che durerà fino al novembre 1918). L’Italia si avvicina agli Imperi centrali L’Italia aveva mire espansionistiche nel Nordafrica e cercò senza successo di ostacolare l’occupazione da parte della Francia della Tunisia, che avvenne nel 1881 (giustificata dai francesi come ricompensa per i vantaggi ottenuti da Inghilterra e Austria-Ungheria a Berlino). Risultò evidente la posizione di isolamento dell’Italia (che aveva raggiunto l’unità da poco tempo), la quale decise quindi di avvicinarsi all’Impero tedesco, principale avversario della Francia (vedi guerra franco-prussiana 1870-71 e questione dell’AlsaziaLorena). Nel 1882 nacque, con carattere puramente difensivo, la Triplice Alleanza tra Austria-Ungheria, Italia e Germania. Il sistema delle alleanze e il piano Schlieffen La Triplice Alleanza aveva come avversario principale la Francia: la Germania era in tensione con la Francia a seguito della conquista dell’Alsazia-Lorena19 (nel 1871); l’Italia ne temeva l’ulteriore espansione nel Mediterraneo. Stipulando la Triplice Alleanza l’Italia di fatto rimandava l’annessione di Trento e Trieste, cioè il completamento della propria unità nazionale: la questione delle terre irredente appariva secondaria rispetto alla necessità di contenere l’imperialismo francese nel mediterraneo. La Francia trovò un sostegno contro la Germania nella Russia, con cui stipulò un’alleanza difensiva nel 1892. Sebbene i due paesi erano notevolmente diversi (la Francia era una repubblica parlamentare, fiera del proprio passato illuminista e rivoluzionario, mentre l’Impero zarista era una monarchia assoluta e dispotica) per l’alleanza avevano premuto soprattutto i banchieri francesi, che avevano fornito alla Russia notevoli capitali, indispensabili per l’ammodernamento e l’industrializzazione del paese. La Germania si trovò di fronte alla prospettiva di una guerra su due fronti: a occidente con la Francia e a oriente con la Russia. Per risolvere questa grave situazione il generale Alfred von Schlieffen elaborò un piano 18 Nel 1875 la Russia, desiderosa di espandersi nella penisola balcanica, era intervenuta contro l’impero ottomano, a difesa della Serbia e del Montenegro, che a loro volta sostenevano i contadini cristiani della Bosnia e dell’Erzegovina nella loro ribellione contro i grandi proprietari terrieri musulmani. Dopo la vittoria russa, con la pace di Santo Stefano nel 1878, fu creato il vasto Stato di Bulgaria (comprendente gran parte dei territori europei sotto dominazione ottomana), che sarebbe dovuto essere subalterno alla Russia, ma che rimase invece autonomo (e fu ridimensionato) per l’opposizione di Inghilterra e Austria-Ungheria, le quali minacciarono di muovere guerra alla Russia. La crisi fu pacificata nell’estate del 1878 con il Congresso di Berlino 19 L’Alsazia e la Lorena si trovano nella regione del Reno. Nel 1871, la Germania se ne impossessò dopo la vittora sulla Francia. Dal momento che queste due terre per circa ottant’anni sono state il simbolo dell’ostilità franco-tedesca e della divisione politica dell’Europa, proprio Strasburgo, capoluogo dell’Alsazia, venne scelta nel 1949 come sede per il Parlamento dell’Unione Europea. strategico particolarmente ingegnoso: il suo ragionamento partiva dalla constatazione che, mentre le ferrovie tedesche erano modernissime ed efficienti, il sistema di trasporti russo era ancora carente, quindi prima che tutte le forze russe potessero essere portate al fronte contro la Germania, sarebbe passato un intervallo di tempo che l’Impero tedesco avrebbe potuto sfruttare per concentrare tutte le proprie energie a ovest contro la Francia. Per sconfiggere la Francia in tempi brevi era necessaria una mossa a sorpresa: Von Schlieffen propose che l’esercito tedesco disponesse piccoli contingenti sul fronte russo e in Alsazia-Lorena, mentre la massa d’urto dell’esercito germanico avrebbe puntato direttamente su Parigi da nord, dopo aver attraversato il Belgio. Dal momento che quest’ultimo paese era neutrale, i francesi sarebbero stati colti alla sprovvista e la guerra sul fronte occidentale si sarebbe conclusa nel giro di poco, a quel punto grazie all’efficientissimo sistema ferroviario del Reich, tutto l’esercito germanico avrebbe potuto essere trasferito verso est, per fronteggiare e sconfiggere i russi. La flotta da guerra tedesca Il punto debole del piano Schlieffen era il previsto attraversamento del Belgio, che avrebbe provocato l’immediata reazione della Gran Bretagna. Per attuarlo quindi la Germania avrebbe dovuto mantenere buone relazioni con l’Inghilterra (proseguendo sulla linea del Congresso di Berlino del 1878), invece per volontà dell’Imperatore Guglielmo II, la Germania condusse una politica ostile alla Gran Bretagna. Il principale motivo di attrito fu la flotta di navi da guerra di cui la Germania cominciò a dotarsi, a partire dal 1898. Alla sfida tedesca l’Inghilterra rispose nel 1906 iniziando la costruzione di una serie di corazzate di nuovissima concezione chiamate Dreadnoughts (in seguito anche la Germania iniziò a costruirle). Il risultato fu il progressivo avvicinamento dell’Inghilterra ai nemici della Germania. Nel 1904 Francia e Gran Bretagna strinsero l’Intesa cordiale, nel 1907 l’Inghilterra raggiunse un accordo con la Russia (per queste tre potenze il vero nemico era ora la Germania). La politica di potenza tedesca Il capitalismo tedesco in realtà era diviso sul riarmo navale. Grandi gruppi industriali (come quelli legati alla produzione dell’acciaio) ricavavano profitti eccezionali dalla costruzione della flotta; ma altri, come Walther Rathenau, dirigente dell’AEG, il complesso industriale più potente a livello mondiale nel campo della produzione dell’energia elettrica, erano contrari perché avrebbe portate ad uno scontro con la Gran Bretagna. Le motivazione economiche del riarmo comunque non erano quelle prevalenti: all’inizio del Novecento la possibilità di conquistare colonie si era praticamente esaurita e ciò obbligava alla ricerca di altre manifestazioni di potenza e prestigio; la flotta da guerra era letta come un mezzo capace di mostrare al mondo la forza e la grandezza della nazione tedesca. Secondo il Ministro per la Marina tedesco, Alfred von Tirpitz, il vero artefice del programma di riarmo navale, bisognava dissuadere la Gran Bretagna dalla tentazione di intervenire contro l’Impero tedesco: la flotta doveva servire come arma di pressione per convincere l’Inghilterra a scendere a patti con la grande potenza tedesca. La polveriera balcanica Il regno di Serbia aveva ottenuto la definitiva indipendenza al Congresso di Berlino e desiderava allargare i propri confini: sperava di giungere alla costruzione di un vasto stato nazionale che comprendesse tutti i popoli jugoslavi (slavi del Sud), compresi anche gli sloveni, i croati e i bosniaci, che si trovavano sotto dominazione dell’Austria-Ungheria. Nel 1902 Italia e Francia si accordarono per la spartizione del Nordafrica: in caso di occupazione francese del Marocco (che avvenne nel 1911), l’Italia avrebbe potuto conquistare la Libia (1911-12). Ciò rendeva ormai superati i motivi antifrancesi che tenevano l’Italia nella Triplice Alleanza. Approfittando della guerra italo-turca nel 1912 la Serbia, alleatasi con Grecia, Montenegro e Bulgaria, intervenne contro l’Impero ottomano nella prima delle due guerre balcaniche20, obbligandolo alla cessione di parte della Macedonia. Austria-Ungheria e Italia però negarono alla Serbia l’accesso al mare, e istituirono il piccolo stato dell’Albania. Nel 1913 i rapporti tra Serbia e Austria-Ungheria si fecero sempre più tesi: mentre Belgrado aspirava a cancellare lo stato albanese e a liberare i territori slavi sotto dominio austriaco, a Vienna si diffondeva l’idea di infliggere una dura lezione al regno di Serbia. 20 Nella seconda guerra balcanica del 1913, la Bulgaria attaccò la Serbia, ma venne duramente sconfitta 2 La dinamica del conflitto L’attentato di Sarajevo Il 28 giugno a Sarajevo (capitale Bosnia-Erzegovina), un terrorista serbo-bosniaco di 19 anni, Gavrilo Princip, uccise a colpi di pistola l’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo, erede al trono austroungarico; dietro il gesto omicida c’era una vera cospirazione preparata da un gruppo nazionalista chiamato “Giovane Bosnia”, collegato a sua volta all’associazione nazionalista serba “Unione o Morte”, fondata dal colonnello Dragutin Dimitrevic, capo dei servizi segreti dell’esercito serbo. Il governo austriaco imputò la responsabilità dell’omicidio interamente allo stato serbo. I governanti austro-ungarici sapevano bene che in caso di conflitto la Serbia sarebbe stata sostenuta dalla Russia e che si sarebbe arrivati ad una guerra estesa a tutte le potenze europee, per questo consultarono dapprima il governo tedesco che, forte del piano Schlieffen, assicurò il suo appoggio. Il governo di Vienna consegnò a quello di Belgrado il suo ultimatum il 23 luglio, contenente pesanti richieste: la Serbia avrebbe dovuto vietare ogni forma di propaganda antiaustriaca, licenziare i funzionari e ufficiali che avessero manifestato posizioni nazionalistiche, e soprattutto avrebbe dovuto istituire una commissione d’inchiesta sull’assassinio con la partecipazione di delegati austriaci. Fu solo quest’ultimo punto che la Serbia non accolse, perché avrebbe significato una pesante limitazione della sua sovranità nazionale. Così il 28 luglio l’Austria-Ungheria dichiarò guerra alla Serbia. L’invasione del Belgio Tutti pensavano che la guerra sarebbe stata breve e affermavano di agire per legittima difesa. Per la Germania i tempi di decisione, legati al piano Schlieffen, erano strettissimi. Dopo che la Russia ebbe schierato le proprie truppe al confine con l’Austria-Ungheria e con la Germania, il 31 luglio il governo tedesco inviò un ultimatum a quello russo, intimando di sospendere le operazioni, e di fronte al silenzio dei russi il 1° agosto l’Impero tedesco entrò ufficialmente in guerra con la Russia e conseguentemente (2 agosto) con la Francia sua alleata. Il 2 agosto la Germania intimò al Belgio di lasciar passare le sue truppe sul suo territorio, ciò provocò la reazione della Gran Bretagna e il 4 agosto, dopo che i primi reparti tedeschi avevano violato la frontiera del Belgio, l’Inghilterra dichiarò guerra all’Impero germanico. L’invasione tedesca del Belgio fu brutale e spietata, con uccisioni di massa, rappresaglie e saccheggi. La fine della guerra di movimento Il piano Schlieffen prevedeva una rapida vittoria tedesca sul fronte occidentale, ma le truppe germaniche dopo un mese di marce e scontri erano stremate; inoltre una parte dell’esercito dislocato in Belgio dovette essere spostato su altri fronti (in Alsazia contro i francesi e in Prussia Orientale contro i russi, dove i tedeschi ottennero una grande vittoria a Tannenberg che provocò ai russi perdite elevatissime). L’attacco decisivo a Parigi non riuscì a concretizzarsi: le armate tedesche si fermarono a 40 km da Parigi; il 5 settembre nella regione del fiume Marna i francesi e gli inglesi passarono al contrattacco e cancellarono per sempre le speranze di una rapida vittoria tedesca sul fronte occidentale (si scontrarono più di un milione di tedeschi contro più di un milione di francesi e inglesi; tale mobilitazione di uomini fu possibile grazie alle moderne ferrovie). Nell’ottobre 1914 il conflitto si trasformò in guerra di posizione: i due eserciti si attestarono lungo una linea che percorreva longitudinalmente l’intera Francia (dal Mare del Nord fino al confine con la Svizzera) denominata fronte occidentale e composta materialmente di due file di trincee (di 765 km) che correvano in parallelo e separate da uno spazio denominato “terra di nessuno”, largo dai 200 ai 1000 metri. La guerra di trincea Dall’autunno 1914 per quattro anni il fronte occidentale, nonostante le enormi perdite umane, non subì alcun cambiamento significativo: la capacità difensiva, infatti, di ogni esercito era infinitamente superiore alla sua capacità di attacco, ciò provocò una situazione di stallo. I soldati che prendevano d’assalto la trincea nemica venivano falcidiati dai colpi di mitragliatrice (altre armi micidiali usate erano i cannoni di grosso calibro). Inoltre, le trincee erano protette dal filo spinato che bloccava l’impeto dell’assalto. Neanche l’utilizzo di nuove armi come il gas (impiegato per la prima volta dai tedeschi nei pressi della città belga di Ypres nel 1915) spezzò lo stallo21. 21 L’impiego del gas non era semplice, perché se il vento non spirava nella direzione giusta poteva ritorcersi contro chi lo lanciava. Ben presto poi gli eserciti si dotarono di rudimentali ma efficaci maschere antigas. Le battaglie di Verdun (offensiva tedesca) e della Somme (offensiava inglese) del 1916 Quelle di Verdun (offensiva tedesca bloccata dai francesi) e della Somme (offensiva inglese bloccata dai tedeschi) nel 1916 furono le due battaglie più lunghe e sanguinose del conflitto. A Verdun morirono circa 300 000 soldati, sulla Somme 650 000, senza nessun mutamento della situazione strategica. A Verdun fu sperimentato per la prima volta il lanciafiamme e sulla Somme furono impiegati i primi rudimentali carri armati (tanks). Una guerra di logoramento Dopo che la prospettiva di una soluzione rapida del conflitto emerse chiaramente che la vittoria sarebbe stata ottenuta da chi fosse stato capace di resistere più a lungo, continuando a mettere in campo risorse umane e materiali indispensabili per continuare a combattere. Il numero dei soldati che presero parte al conflitto fu enorme (più di 65 milioni), così come dei morti (quasi 9 milioni), dei feriti (più di 21 milioni), dei dispersi e prigionieri (quasi 8 milioni). Per tali numeri, impensabili in qualsiasi guerra precedente, il conflitto fu detto “Grande guerra”. Il protrarsi della guerra rese importantissima la capacità di gestire le risorse e di produrle. A partire dall’estate 1914, la marina britannica istituì un rigido blocco navale per impedire le importazioni tedesche di materie prime necessarie per la produzione bellica (come il rame e il nitrato di potassio dal Cile per la fabbricazione di esplosivi). Per far fronte a tale situazione la Germania cercò di riorganizzare la propria economia con una rigorosa pianificazione (che decretò la fine del modello liberista), il cui principale fautore fu l’industriale Walther Rathenau. La guerra totale La soluzione alla carenza di nitrato di potassio fu trovata facendo ricorso alle recenti scoperte dell’industria chimica (ricavare azoto dall’atmosfera), più difficile fu reperire generi alimentari, che in Germania scarseggiavano (nell’inverno 1916-17 molti furono costretti a nutrirsi quasi esclusivamente di rape). I tedeschi giocarono la carta della guerra navale, scontrandosi con la flotta britannica al largo della costa dello Jutland, senza riuscire però a forzare il blocco. Preso atto dell’impossibilità di contrastare la marina inglese, la Germania intraprese la guerra sottomarina, che fu la più efficace risposta al blocco navale britannico. I sommergibili affondavano sistematicamente qualsiasi nave, civile e militare, che solcassero l’Atlantico e il Mare del Nord: l’obiettivo era quello di arrestare l’afflusso di materie prime e derrate alimentari dirette in Inghilterra. La macchina militare bellica inglese corse il rischio di incepparsi per mancanza di alimenti e materie prime, ma la situazione migliorò in seguito all’adozione del sistema dei convogli: le navi mercantili iniziarono ad attraversare l’Atlantico in gruppo, ben protette dalla marina da guerra. Il fallimento dell’offensiva sottomarina può essere considerato una delle principali cause della sconfitta tedesca. La guerra fu totale in quanto non faceva più differenza fra civili e militari, perché la distruzione dell’apparato produttivo del nemico è importante quanto una vittoria sul campo 22. Il crollo della Russia e l’intervento degli Stati Uniti (1917) L’avanzata germanica sul fronte orientale, a differenza di quello occidentale, era inarrestabile (nell’agosto 1915 Varsavia era stata occupata). All’inizio del 1917 l’esercito zarista si era sgretolato e i disertori erano un milione e mezzo. Nelle città russe il costo della vita era cresciuto del 700%, mancavano i più elementari generi di prima necessità (pane, legna, carbone), per cui la gente soffriva pesantemente la fame e il freddo. Tale drammatica situazione provocò la cauta dello zar (15 marzo 1917) e poi (6 novembre) la rivoluzione dei comunisti guidati da Vladimir Lenin. Il 3 marzo 1918 il nuovo governo comunista firmò coi tedeschi la pace di Brest-Litovsk. Il trattato era quanto mai oneroso per la Russia (pesanti amputazioni territoriali, fra cui l’intera Ucraina che sarebbe dovuta diventare stato autonomo satellite della Germania). Lenin accettò tutte le condizioni consapevole che il popolo russo era stanco di combattere e avrebbe appoggiato solo un governo che lo avesse portato fuori dal conflitto. Per la Germania la sconfitta della Russia significò la fine della guerra su due fronti e la possibilità di rovesciare tutto il proprio esercito a occidente; tale situazione favorevole per la Germania però fu vanificata dall’entrata in guerra degli Stati Uniti contro l’Impero tedesco il 6 aprile 1917. I sottomarini tedeschi non riuscirono a bloccare l’afflusso di uomini e merci provenienti dalla gigantesca produttività dei cantieri 22 Questo aspetto sarà portato a livelli più drammatici durante la seconda guerra mondiale: è vero che nel 1914-18 Londra fu attaccata dai dirigibili Zeppelin e dagli aerei bimotori Gotha, però i danni non furono paragonabili a quelli dei massicci bombardamenti degli anni 1940-45. americani, che riuscivano a varare nuove navi in quantità molto maggiore rispetto alla capacità distruttiva dei sommergibili tedeschi. Significato storico dell’intervento americano L’8 gennaio 1918 il presidente americano Thomas Woodrow Wilson in un messaggio al Congresso enunciò in 14 punti gli obiettivi politici che l’America si proponeva di ottenere dalla vittoria. Wilson presentava gli Stati Uniti come i garanti della libera navigazione sui mari (che la guerra sottomarina aveva reso impossibile)23. Inoltre Wilson poneva il principio di nazionalità come criterio di soluzioni dei principali problemi europei (ciò avrebbe significato la restituzione dell’Alsazia-Lorena alla Francia, la nascita di uno stato polacco indipendente e la dissoluzione dell’Impero Austro-Ungarico). Per quanto riguarda la Russia comunista, Wilson si dimostrò conciliante, sostenendo che dove essere lasciata ad essa l’opportunità di determinare in piena indipendenza le linee del proprio sviluppo politico e nazionale. Infine Wilson propose l’istituzione di una Società Generale delle Nazioni, ovvero un organismo internazionale con lo scopo di risolvere i contrasti e garantire l’indipendenza politica e territoriale di tutti gli stati (in modo da scongiurare in futuro guerre come quella appena conclusa). Gli Stati Uniti, con la partecipazione alla guerra e con il discorso di Wilson, uscivano dal loro tradizionale isolazionismo, anche se a dir il vero, negli anni successivi persero ben preso interesse per le vicende europee, tanto che nel 1919 gli USA non entrarono a far parte della Società delle Nazioni, quando venne effettivamente istituita dalle potenze vincitrici. È importante notare che la prima guerra mondiale fu vinta da francesi e inglesi solo con l’aiuto americano, questo tuttavia non significò la perdita della centralità della politica dell’Europa e la sua dipendenza militare dagli USA (gli USA invece avranno un peso preponderante in Europa dopo la fine della seconda guerra mondiale, in contrapposizione alla Russia sovietica). La fine del conflitto Il 21 marzo 1918 l’esercito tedesco iniziò una grande offensiva che nelle intenzioni dei generali Hindenburg e Ludendorff avrebbe dovuto sfondare il fronte occidentale. I tedeschi riuscirono effettivamente a sfondare il fronte in alcuni punti e a giungere nuovamente a minacciare Parigi, tuttavia dopo quattro mesi l’offensiva si concluse con un insuccesso, anche grazie all’uso massiccio di aeroplani e carri armati da parte di inglesi, francesi e americani24. Nel settembre 1918 la Germania non era più in grado di opporre resistenza, anche se le autorità non si decidevano a intavolare trattative di pace (consapevoli che sarebbe stata chiesta una resa senza condizioni). In novembre la situazione precipitò con una serie di ammutinamenti e manifestazioni di protesta: il 3 novembre 3 000 marinai della base navale di Kiel sul Baltico; lo stesso giorno l’Impero austro-ungarico si arrese; nei giorni seguenti si unirono ai ribelli 20 000 soldati della guarnigione di Kiel e i marinai dei porti di Lubecca e Amburgo. Le rivolte di Monaco (7 novembre) e Berlino (9 novembre) provocarono l’abdicazione del Kaiser Guglielmo II (che fuggì in Olanda) e la proclamazione della Repubblica. L’11 novembre 1918 la Germania firmò l’armistizio con le potenze alleate. La prima guerra mondiale era ufficialmente terminata dopo aver provocato la morte di almeno 10 milioni di soldati oltre a 4 milioni di civili morti per effetto diretto delle azioni belliche. A questo tragico bilancio si deve aggiungere la micidiale epidemia di influenza chiamata spagnola, che provocò la morte, in tutto il mondo, di oltre 20 milioni di persone (la sola l’India contò 12 milioni di morti). 3 La guerra vissuta L’euforia collettiva del 1914 Nell’estate del 1914 in tutti gli stati d’Europa lo scoppio delle ostilità venne accolto con euforia ed entusiasmo, tutti convinti che la guerra sarebbe durata poco e avrebbe portato al trionfo della propria nazione. Anche i partiti socialisti dei vari paesi, nonostante l’opposizione della Seconda Internazionale, finirono per appoggiare la scelta dei rispettivi governi, dimenticando il principio marxista della solidarietà dei proletari di tutto il mondo e accettando di identificarsi con la difesa della singola patria (l’idea di nazione prevalse su quella di classe). La comunità nazionale Nel giorno della dichiarazione di guerra, il kaiser Guglielmo II coniò uno slogan: “Non vedo più partiti. 23 Il 7 maggio 1915 l’affondamento del transatlantico Lusitania comportò la morte di 1198 persone, 128 delle quali erano cittadini americani 24 Tali scontri lasciarono intravedere le tecniche di combattimento che caratterizzeranno la seconda guerra mondiale 63 Vedo solo tedeschi”. Agli occhi dei tedeschi in quel momento storico le differenze sociali e politiche, prodotte dalla società industriale, parvero irrilevanti. Si compì un miracolo emotivo che suscitò un rinnovato senso della comunità nazionale, intesa come una realtà omogenea chiamata ad un comune destino. Questo entusiasmo patriottico e l’atmosfera di spiritualità nazionale confluirono successivamente nel modello nazista (liturgie di masse, fine del parlamentarismo, principio dell’obbedienza incondizionata al Führer). La fuga dalla modernità La moderna società industriale non è solo stratificata in classi, ma anche produttrice di nuovi tipi di rapporti umani: l’individuo immerso nella massa (nelle strade, stazioni, fabbriche, condomini, ecc.) in realtà è solo e vive tale isolamento con angoscia e dolore. In Germania nacque il Movimento giovanile, un fenomeno che investì la gioventù borghese alla fine dell’Ottocento, come forma di protesta nei confronti dell’impersonale società urbana costruita dagli adulti. Questi giovani si dedicavano ad escursioni e gite che li portavano a diretto contatto con la natura. All’interno di questi gruppi nacque il concetto di Führer: nei gruppi emergeva un leader, il quale pur sempre un pari, si distingueva per il suo carisma, per le sue qualità morali e fisiche, meritandosi l’unanime ammirazione e obbedienza, espressa con il saluto “heil” accompagnato dal braccio teso verso l’alto. Col tempo il movimento assunse un carattere sempre più nazionalistico. Il Movimento giovanile fu un fenomeno d’élite, mentre l’entusiasmo del 1914 coinvolse un numero elevatissimo di tedeschi, alla ricerca di nuove forme di aggregazione capaci di sconfiggere l’isolamento urbano. Molte persone, aderendo alla guerra, si percepirono parte di una comunità, si identificarono con la nazione, vincendo l’angoscia dell’isolamento. Per lo stesso motivo milioni di tedeschi avrebbero successivamente aderito al Partito nazista. La disillusione dei soldati Al momento della dichiarazione di guerra, i ragazzi che avevano aderito al Movimento giovanile si arruolarono in massa. Ottantamila di questi volontari caddero nella battaglia di Langemarck (nelle Fiandre), nel novembre 1914, falciati dalle mitragliatrici inglesi. La stessa disillusione sopraggiunse per i volontari inglesi. Nel loro immaginario la morte per la patria era qualcosa di glorioso e eroico (vedi poesia Wilfred Owen), ma in realtà si trovarono di fronte ad una morte industriale, di massa. Morire sventrati da una granata non aveva nulla di eroico, crolla così l’illusione della guerra romantica. Rivolte e ammutinamenti Man mano che la guerra di logoramento continuava, il malcontento divenne sempre più acuto fra i soldati al fronte e fra la popolazione. Gruppi minoritari, staccatisi dai vari Partiti socialisti dei diversi paesi, si riunirono a congresso in Svizzera a Zimmerwald (settembre 1915) e a Khienthal (aprile 1916), ma i loro appelli di pace che rilanciavano il tradizionale internazionalismo proletario restò inascoltato. Nel 1917 la situazione degenerò e si verificarono ammutinamenti di massa sia tra le truppe tedesche che tra quelle francesi (il comando francese però riuscì a recuperare l’obbedienza delle truppe con interventi tesi a migliorare le condizioni di vita dei soldati al fronte). Lenin in Russia riuscì a legare il comunismo al rifiuto della guerra e ciò si ripercosse anche su altri paesi, come la Germania, in cui i movimenti nazionalisti addossarono ai socialisti la responsabilità della sconfitta e tale retorica sarà poi ripresa da Hitler, secondo il quale la guerra era stata persa per il cedimento del fronte interno che aveva pugnalato alle spalle l’esercito ancora imbattuto. 64 Moudlo 2b: L’Italia dal 1914 al 1918 1 Il problema dell’intervento La scelta della neutralità Allo scoppio della guerra l’Italia era legata alla Germania e all’Austria-Ungheria per mezzo della Triplice Alleanza. Il capo di Stato Maggiore dell’esercito, generale Luigi Cadorna, sollecitava l’entrata in guerra a fianco delle truppe tedesche e austriache, ma il governo, presieduto dal liberale conservatore Antonio Salandra, decise che l’Italia sarebbe rimasta neutrale, in quanto la Triplice Alleanza era un trattato puramente difensivo e secondo il giudizio di Salandra non si era verificata una vera e propria aggressione nei confronti dei due Imperi alleati con l’Italia. Le ragioni di questa scelta erano legate alla constatazione dell’esaurimento delle ragioni che avevano portato l’Italia a firmare la Triplice Alleanza, ovvero il desiderio di frenare l’espansionismo francese nel Mediterraneo. Inoltre l’Austria-Ungheria non aveva alcuna intenzione di cedere Trento e Trieste all’Italia. I sostenitori della neutralità Invece di un grande movimento di solidarietà nazionale, la prospettiva della guerra generò in Italia un vasto dibattito e una violenta frattura dell’opinione pubblica, divisa tra interventisti e neutralisti. Il più autorevole dei neutralisti era Giovanni Giolitti, il quale aveva intuito che il conflitto sarebbe stato lungo ed estenuante e pensava che l’Italia avrebbe avuto maggiori vantaggi sfruttando la propria posizione di neutralità. Anche la Chiesa pensava fosse opportuno restare fuori dal conflitto, sia per ragioni di natura morale, in quanto il conflitto si stava rivelando un enorme massacro (papa Benedetto XV lo definì la guerra una “inutile strage”), sia per ragioni politiche, l’intervento italiano contro l’Austria-Ungheria avrebbe potuto contribuire alla sconfitta dell’unica grande potenza dichiaratamente cattolica. A favore della neutralità si schierarono anche i socialisti, poiché pensavano che la guerra mondiale altro non fosse che la continuazione della volontà imperialista degli stati di strappare con la forza ai rivali nuove regioni e che il proletariato non avrebbe ottenuto alcun beneficio da questa guerra, tutta a vantaggio dei capitalisti. Tuttavia, i socialisti italiani si limitarono a una opposizione verbale alla guerra, espressa dal motto “né aderire né sabotare”. Gli interventisti di sinistra Tra i favorevoli all’intervento vi erano innanzitutto gli intellettuali democratici, tra cui Gaetano Salvemini e Cesare Battisti (che sarebbe stato poi impiccato dagli austriaci nel 1916), eredi della tradizione mazziniana e risorgimentale, secondo cui la guerra rappresentava un “nuovo Risorgimento”, ovvero l’occasione per liberare Trento e Trieste e completare l’unificazione nazionale. Poi tra gli interventisti spiccarono i sindacalisti rivoluzionari, i quali, ispirati dalle teorie del filosofo francese George Sorel, vedevano nella guerra e nel suo inevitabile carico di morte, miseria e disordine sociale la condizione ideale per dare avvio alla rivoluzione proletaria. Su posizioni simili si schierò anche Benito Mussolini, che il 15 novembre 1914 fondò un nuovo giornale, “Il Popolo d’Italia”, proprio per sostenere la propaganda a favore dell’intervento. Benché il giornale riportasse come sottotitolo la dicitura “quotidiano socialista”, esso fu finanziato da numerosi gruppi di industriali, favorevoli al coinvolgimento del paese in guerra, e probabilmente anche dall’ambasciata francese. I nazionalisti I più accesi sostenitori dell’intervento furono i nazionalisti; il movimento era stato fondato da Enrico Corradini nel 1903 e aveva nella rivista “Il Regno” il principale mezzo di diffusione delle proprie idee. Corradini strumentalizzò la terminologia marxista per sostenere idee nazionaliste: riteneva che vi fossero nel mondo “Nazioni borghesi”, ovvero quelle che avevano costruito già da tempo i propri imperi e si erano arricchite, e “Nazioni proletarie”, ovvero quelle, fra cui l’Italia, che erano ancora alla ricerca di una propria affermazione politico-militare e di un impero coloniale. Le nazioni ricche, secondo Corradini, soffocavano quelle proletarie, destinate tuttavia ad emergere e a prendere il posto delle ormai declinanti potenze borghesi. Per favorire questo processo però era necessario schiacciare “l’ignobile socialismo”, che conduceva la nazione verso la guerra civile, esortando i proletari a combattere contro i borghesi. Inoltre, Corradini era nemico della democrazia e del parlamentarismo e riteneva che il potere dovesse essere 65 esercitato in modo autoritario da una élite ristretta, capace di individuare gli obiettivi della politica nazionale e di perseguirli con mano ferma. Gli intellettuali Le posizioni antidemocratiche e nazionaliste di Corradini trovarono numerosi consensi fra gli intellettuali, primo fra tutti Gabriele D’Annunzio. Nel più famoso dei suoi romanzi, Il piacere (1889), D’annunzio, influenzato anche dalla versione distorta della filosofia del superuomo di Nietzsche, criticava “il grigio diluvio democratico” dei suoi tempi, che non lasciva più spazio all’eroe e all’uomo eccezionale, schiacciato dalle masse25. Da una nuova generazione di intellettuali la guerra venne vista come evento affascinante e avvincente per eccellenza. Giovanni Papini, nel 1913 sulla rivista Lacerba, celebrò la guerra come uno strumento liberatore, capace di spazzar via dalla Terra l’umanità in esubero, le ottuse masse che soffocavano il genio. In termini simili Filippo Tommaso Marinetti definì la guerra la “sola igiene del mondo”. Marinetti diede vita nel 1909 al movimento artistico del Futurismo, preoccupato di adeguare l’arte alla realtà moderna, al XX secolo, visto come tempo della velocità. 2 L’Italia in guerra Il Patto di Londra Nella primavera del 1915 gli interventisti intensificarono la propaganda a favore della guerra e organizzarono numerose manifestazioni dei massa, in cui fu determinante il contributo coreografico di D’Annunzio. Alcuni di quei raduni rappresentarono l’avvio del nuovo modo di gestire la leadership politica, anticipando le liturgie di masse del periodo fascista. Il leader non era più una figura separata dal popolo, ma colui che sapeva emozionarlo. Chi partecipava al raduno era colpito dalle musiche, dai colori, dal contesto, ancor prima che dalle parole dell’oratore. Il risultato era una profonda carica emotiva, capace di travolgere ogni obiezione di tipo razionale. Il 26 aprile 1915, il governo italiano firmò il Patto di Londra, con cui si impegnava ad entrare in guerra entro un mese, a fianco di Francia, Gran Bretagna e Russia, contro Austria-Ungheria e Germania. L’accordo prevedeva, dopo la vittoria, che all’Italia sarebbero state assegnate Trento e Trieste, l’Alto Adige, l’Istria, la Dalmazia26 e una parte delle colonie tedesche. Il Patto per essere esecutivo doveva essere ratificato dal Parlamento, la cui maggioranza era però su posizioni neutraliste, simili a quelle di Giolitti. Tale atteggiamento suscitò la collera degli interventisti27. Il “maggio radioso” Il maggio del 1915 (ribattezzato da D’Annunzio “maggio radioso”) vide in tutte le principali città italiane scontri violenti fra neutralisti e interventisti. Resosi conto di non godere della fiducia della Camera, il 13 maggio Salandra diede le dimissioni, ma il re Vittorio Emanuele III, deciso sostenitore dell’intervento, gli conferì di nuovo l’incarico. A quel punto per i deputati votare di nuovo contro il Patto di Londra avrebbe significato sconfessare l’autorità del Re; pertanto il 20 maggio il Parlamento ratificò la decisione del governo, con il voto contrario dei socialisti, provocando l’ingresso dell’Italia in guerra (24 maggio). Di fatto il Parlamento era stato scavalcato e ciò determinò una sua perdita di prestigio che si ripercosse anche negli anni successivi alla fine del conflitto. Le operazioni militari Il fronte italiano era lungo circa 700 km e le operazioni militari si svolsero contemporaneamente nelle regioni del Trentino e del Carso28. Nel Trentino fu una guerra di montagna. Nella regione dell’altopiano del Carso, che 25 La stessa vita di D’Annunzio fu una continua ricerca di esperienze forti e di emozioni, nel completo disprezzo della morale corrente. Con questo spirito egli partecipò alla guerra mondiale e compì imprese spettacolari, come il siluramento delle navi austriache nel porto di Buccari e un volo su Vienna (1918). Nel 1919 guidò l’occupazione di Fiume e fu un importante punto di riferimento per il nascente movimento fascista, fino a quando Mussolini, preoccupato che il prestigio del poeta potesse oscurare il suo, non lo costrinse all’isolamento sul lago di Garda, nella sua residenza detta Vittoriale, in cui rimase fino alla morte nel 1938. 26 Con il nome Dalmazia si intende la costa orientale dell’Adriatico, abitata prevalentemente da slavi. Attualmente è politicamente suddivisa tra Croazia, Montenegro e Bosnia ed Erzegovina.) 27 In quell’occasione Mussolini scrisse: “Sono sempre più convinto che per la salute dell’Italia bisognerebbe fucilare, dico fucilare, nella schiena, qualche dozzina di deputati e mandare all’ergastolo un paio almeno di ex ministri. Non solo, ma io credo, con fede sempre più profonda, che il Parlamento in Italia sia il bubbono pestifero che avvelena il sangue della Nazione. Occorre estirparlo”. 28 Il Carso è un altopiano che si estende nel nord-est dell'Italia dai piedi delle Alpi Giulie al mare Adriatico (in provincia di Gorizia e di Trieste), attraverso la Slovenia occidentale e l'Istria settentrionale prosegue fino al massiccio delle Alpi Bebie all'estremo nord- 66 separa il fiume Isonzo da Trieste, furono combattute quelle che la storiografia indica come le 12 battaglie dell’Isonzo. Nel maggio 1916 gli austriaci lanciarono la loro spedizione punitiva (Strafexpedition) contro l’Italia, per punirla del voltafaccia, attaccando in forza il Trentino e avanzando per una ventina di chilometri, ma venendo infine fermato. Nell’agosto del 1916 l’Italia prese l’iniziativa e attaccò nella zona del Carso, conquistando Gorizia, ma senza riuscire a proseguire l’offensiva. Le perdite nell’esercito italiano furono pesantissime (solamente nel 1916 118 00 morti e 285 000 feriti) in quanto i comandanti applicavano la tattica dell’assalto frontale, senza badare alle perdite. La disfatta di Caporetto Con il crollo dell’esercito russo, nel 1917, gli austro-ungarici, sostenuti da divisioni scelte dei tedeschi, concentrarono tutte le loro truppe sul fronte italiano e pianificarono una massiccia offensiva sull’Isonzo, all’altezza del villaggio di Caporetto (oggi Kobarid, in Slovenia). Cadorna era stato informato del piano da alcuni disertori, ma non presto fede a quelle notizie, pertanto, quanto il 24 ottobre 1917, quando l’esercito austro-tedesco investì le prime linee con violentissimi bombardamenti, gli italiani furono presi alla sprovvista e il comando non rimase indeciso sul da farsi per alcuni giorni. I tedeschi ottennero così un successo superiore ad ogni loro aspettativa e l’esercito italiano fu costretto, incalzato dai nemici, ad una ritirata disordinata. Solo lungo la linea del fiume Piave fu possibile ricostruire un efficace sistema difensivo. L’episodio più critico fu l’ingorgo di migliaia di soldati sui pochi ponti che permettevano il passaggio del Tagliamento. Le province di Udine, Belluno, Treviso, Vicenza e Venezia furono occupate dagli austro-tedeschi. Circa un milione di persone si trovò sotto l’occupazione militare straniera, mentre 600 000 profughi furono costretti ad abbandonare le loro case. Il regime di occupazione fu estremamente duro (razzie disorganizzate prima e spoliazione sistematica poi, non mancarono violenze sessuali, come in Belgio nel 1914). L’ultimo anno di guerra Dopo Caporetto Cadorna venne esonerato; al suo posto fu nominato il generale Armando Diaz e il governo passò nelle mani di Vittorio Emanuele Orlando, il quale riuscì ad ottenere dagli alleati regolari rifornimenti alimentari e ingenti crediti, con cui fu possibile rilanciare l’economia di guerra italiana e scongiurare che il malcontento fra le masse degenerasse in aperta rivolta. Per diversi mesi il generale Diaz assunse un atteggiamento difensivo, consapevole della situazione di logoramento degli eserciti avversari. Nell’autunno 1918 la situazione di Germania e Austria-Ungheria era disperata. Diaz ordinò il contrattacco il 26 ottobre: nella regione di Vittorio Veneto, le truppe austro-ungariche non riuscirono a resistere e si disgregarono (vi furono numerosi ammutinamenti, soprattutto di soldati slavi e ungheresi). Il 3 novembre l’Austria-Ungheria firmava la resa, che prevedeva per il giorno seguente, il 4 novembre la resa delle ostilità. L’Italia usciva vincitrice dalla guerra, che le era costata 680 000 morti e un milione di feriti di cui la metà mutilati e invalidi. Tuttavia per i nazionalisti ciò che ottenne l’Italia dopo la Conferenza di pace era assolutamente inadeguato, pertanto il clima di scontro non si placò e anzi fu la coltura ideale per la nascita del movimento fascista. 3 Gli italiani in guerra Contadini soldati Dei 4 250 000 soldati italiani inviati al fronte il 45% era di origine contadina e moltissimi erano analfabeti. Fu la guerra ad avvicinare molti di loro alla scrittura, per tenere diari e per scrivere lettere alle famiglie. Questi mezzi di espressione aiutarono molti a scaricare la tensione e a superare il trauma della guerra (scrittura come strumento catartico), fungendo in certi casi come l’equivalente immaginario di quella fuga dalla trincea o di quella ribellione che risultava impossibile a causa della dura repressione dell’autorità militare. L’apparato repressivo delle autorità La corrispondenza dei soldati veniva sottoposta a censura (anche se in realtà solo poche lettere potevano essere effettivamente controllate), per impedire che i soldati esprimessero riserve e critiche nei confronti della guerra e degli ufficiali. ovest della Croazia, estendendosi così nell'Italia, nella Slovenia e nella Croazia. In particolare, il monte Carso è una modesta altura di 456 m, che si trova all'imboccatura della Val Rosandra, in provincia di Trieste. 67 Nel periodo tra il 1915 e il 1918 vennero chiamati alle armi circa 5 200 00 italiani, di questi 870 000 furono oggetto di denuncia all’autorità militare. Tra i denunciati il gruppo maggiore era quello dei renitenti alla chiamata (470 000), di questi circa 370 000 erano emigranti residenti all’estero. Autolesionismo e follia Tra i soldati si diffuse la pratica dell’autolesionismo, come mezzo per essere ritirati dal fronte. Le autorità militari repressero con durezza tale comportamento, così come la diserzione e i tentativi di consegnarsi al nemico. Il massimo del rigore era applicato agli episodi di ammutinamento e aperta ribellione; nei casi in cui non si trovava il diretto responsabile veniva perfino applicata la decimazione, che consisteva nel fucilare un certo numero di soldati, estratti a sorte dl gruppo nel quale si erano manifestati i disordini. Solo dopo la disfatta di Caporetto si cercò di dare maggior sostegno morale alle truppe, puntando più sulla propaganda che su una spietata disciplina. Tra i soldati cominciarono a girare dei giornali di trincea, costituiti soprattutto di immagini e vignette, per un pubblico in gran parte semi-analfabeta. Questi fogli possono essere considerati il primo tentativo in Italia di un giornale di massa a grande diffusione. Né la ferrea disciplina, né la propaganda impedirono a 40000 soldati di impazzire dopo una più o meno lunga permanenza al fronte. I medici di allora, impreparati rispetto al fenomeno della follia di guerra, spesso la scambiarono per simulazione, alla stregua dell’autolesionismo; in realtà si trattava di un fenomeno psichico ben preciso, interpretabile come meccanismo estremo di autodifesa messo in atto automaticamente dalla mente per fuggire gli orrori della guerra. 68 Modulo 3: Il comunismo in Russia L’arretratezza della Russia In campo politico l’Impero russo era ancora fermo alla monarchia assoluta, guidata dallo zar, che governava in modo autocratico (senza limitazioni), scavalcando sistematicamente la Duma (il parlamento russo istituito nel 1905 con soli poteri di controllo). Dal punto di vista economico, l’attività prevalente in Russia era l’agricoltura, che tuttavia versava in condizioni di arretratezza. La rivoluzione del febbraio 1917 A causa del prolungarsi del conflitto mondiale, la già fragile economia russa crollò definitivamente. La popolazione era ridotta alla fame e al freddo. Per questa ragione, a partire dal febbraio 1917 vi furono diverse manifestazioni di protesta (specialmente a Pietrogrado), che portarono all’abdicazione dello zar e alla nascita di un governo provvisorio, espresso dalla Duma. I Soviet Oltre al governo provvisorio si formò un altro centro di potere: i Soviet (consigli), che erano organi di autogoverno eletti nelle fabbriche e nei reggimenti. Ogni fabbrica e reggimento eleggeva un certo numero di delegati, che poi concorrevano a formare il soviet cittadino. Si era pertanto venuta a creare una situazione di dualismo di poteri: all’autorità ufficiale del governo provvisorio, si contrapponeva quella, non meno reale, dei soviet. Lenin e le tesi di aprile Grazie agli sconvolgimenti politici della rivoluzione di febbraio, il 3 aprile 1917, Lenin, capo della corrente bolscevica29 del partito socialdemocratico russo, poté tornare in patria. Appena giunto a Pietrogrado tenne alcuni discorsi, condensati poi in un breve documento noto come tesi d’aprile, in cui affermava: 1) la necessità di stipulare una pace separata con la Germania (al contrario, il governo provvisorio si era impegnato con le potenze dell’Intesa a non uscire dal conflitto); 2) che fossero ormai maturi i tempi per una rivoluzione socialista (nonostante la Russia fosse un paese ancora arretrato dal punto di vista industriale e privo di una vera classe di capitalisti, tuttavia, secondo Lenin, la guerra mondiale imperialista e i conseguenti sconvolgimenti, avrebbe portato alla rivoluzione, non solo la Russia, ma tutti i paesi dell’Europa industrializzata); 3) che occorreva risolvere il dualismo di poteri in modo che tutta l’autorità passasse nelle mani del proletariato. Alla linea dei menscevichi che, in nome del marxismo ortodosso, proponevano il sostegno al governo affinché la fase borghese della storia russa potesse consolidarsi, Lenin opponeva le due parole d’ordine: “pace immediata” e “tutto il potere ai soviet”. La rivoluzione di ottobre Nel settembre 1917 i bolscevichi ottennero la maggioranza all’interno dei soviet di Pietrogrado e Mosca e riuscirono a controllare il Congresso Panrusso dei soviet (grazie al contributo dato per sventare un tentativo di colpo di stato in agosto). A Pietrogrado, la notte del 25 ottobre 1917 (7 novembre), reparti armati bolscevichi assaltarono il Palazzo d’Inverno, sede del governo, e arrestarono numerosi ministri. Il giorno dopo il Congresso Panrusso dei soviet ratificò il colpo di stato, assunse il potere, emanò i primi decreti rivoluzionari e fu deciso di convocare un’Assemblea Costituente. Lenin, preoccupato di avere l’appoggio dei contadini, fece emanare il decreto sulla terra: “Ogni proprietà privata è abolita immediatamente e senza compenso”. Tutti i terreni diventavano proprietà nazionale ed erano messi a disposizione di tutti i contadini che desiderassero coltivarli. Erano vietati l’acquisto, la vendita e l’affitto dei terreni, nonché l’utilizzo di manodopera salariata. Nei mesi successivi furono nazionalizzate le banche e decretato il controllo operaio su tutte le imprese commerciali e industriali. In tal modo, venivano gettate le basi per la costruzione del socialismo. 29 Menscevichi e bolscevichi. Il Partito socialdemocratico russo, di ispirazione marxista e membro della Seconda Internazionale, era diviso in due correnti: quella minoritaria, detta menscevica, e quella maggioritaria, detta bolscevica. I menscevichi propendevano per un partito ramificato, di massa, ed erano fedeli alla concezione ortodossa del marxismo secondo cui non si può passare direttamente dall’assolutismo e dal feudalesimo al socialismo, pertanto essi appoggiavano il governo provvisorio con lo scopo di stabilizzare la fase borghese, rimandando ad un tempo futuro l’instaurazione del socialismo. I Bolscevichi, invece, erano favorevoli a un partito elitario, gestito da pochi dirigenti, rivoluzionari di professione, e ritenevano maturi i tempi per una rivoluzione socialista. 69 La dittatura del proletariato Lenin, nello scritto Stato e rivoluzione del 1917, ispirandosi al concetto di dittatura del proletariato di Marx ed Engels, riteneva che il proletariato dovesse conquistare lo stato, solo così sarebbe stato possibile respingere gli assalti della borghesia. Solo una volta che il proletariato avesse conquistato il potere si sarebbe potuto attuare il socialismo per poi passare finalmente alla società senza classi, in cui lo stesso stato si sarebbe dissolto. La dittatura del partito Tra la fine del 1917 e l’inizio del 1918 la dittatura del proletariato si trasformò in dittatura del partito: venne istituita la CEKA (Commissione straordinaria per la lotta contro la controrivoluzione e il sabotaggio), e fu attuato il cosiddetto Terrore rosso, che portò all’uccisione di molti nemici politici e capitalisti. Inoltre, nonostante alle elezioni (le prime a suffragio universale in Russia) i bolscevichi furono sconfitti dai social-rivoluzionari (che, a dispetto del nome, erano schierati su posizioni moderate), Lenin non lasciò il potere (fece disperdere l’assemblea dopo la prima riunione, sostenendo che il popolo fosse ancora condizionato dall’ideologia della classe dominante e che solo la linea politica dei bolscevichi poteva essere considerata rispondente agli interessi del proletariato). La guerra civile Uno dei motivi per cui il partito di Lenin aumentò i suoi consensi fu la decisione di giungere al più presto possibile ad una pace separata con la Germania. Il 3 marzo 1918, infatti, fu stipulato il trattato di BrestLitovsk: esso era quanto mai oneroso per la Russia, che perdeva molti importanti territori (fra i quali l’Ucraina), ma Lenin lo accettò ugualmente per poter avere quella tranquillità senza la quale sarebbe stato impossibile consolidare il nuovo regime. Tuttavia, Lenin dovette affrontare subito un’altra guerra, questa volta civile. Reparti legati allo zar non riconobbero il governo bolscevico ed iniziarono a lottare contro di esso. Alla fine del 1919 l’esercito comunista – la cosiddetta Armata rossa, completamente riorganizzata dal leader bolscevico Lev Trockij – riuscì a sconfiggere gli eserciti controrivoluzionari – la cosiddetta Armata bianca, sostenuta (sostenuta economicamente e militarmente anche da Francia e Inghilterra). Il comunismo di guerra Il problema principale negli anni 1917-1921 fu quello dell’approvvigionamento delle città, in cui si moriva di fame e di freddo. Il governo attuò il cosiddetto comunismo di guerra, cioè organizzò su vasta scala la requisizione dei raccolti. La Nuova Politica Economica Dopo il fallito tentativo di sollevare gli operai polacchi contro il proprio paese e far accogliere la Russia come la liberatrice di tutti i lavoratori, Lenin si rese conto della impossibilità di scatenare nell’immediato una generale rivoluzione europea e che, invece, fosse necessario dedicarsi al rafforzamento interno del regime. Ciò implicava però una svolta nella politica tenuta fino ad ora nei confronti dei contadini, ridotti alla fame a causa delle requisizioni. Nel marzo 1921, mentre le campagne russe soffrivano una micidiale carestia (che provocò la morte di 5 milioni di contadini), venne varata la cosiddetta NEP (Nuova Politica Economica), che lo stesso Lenin definì come una “ritirata” nel cammino verso il socialismo. In pratica, si introduceva di nuovo nelle campagne un’economia di mercato. La NEP favorì soprattutto i contadini che avevano a propria disposizione poderi sufficientemente ampi da poter immettere una parte del raccolto sul mercato. Questi agricoltori si trasformarono di fatto in imprenditori. Dal 1922 la Russia e i territori ad essa sottomessi si federarono in un’unica compagine statale che prese il nome di URSS (Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche). Lo stalinismo Lenin morì il 24 gennaio 1924, all’età di 54 anni. Nel 1927 risultò padrone assoluto del governo della Russia Stalin (Iosif Vissarionovic Dzugasvili), che già dal 1922 ricopriva la carica di segretario del partito. Stalin, in nome della lotto contro il frazionismo (già iniziata da Lenin), proibì ogni discussione interna al partito e arrivò fino a mettere sotto accusa, processare e condannare a morte, alcuni fra i maggiori dirigenti bolscevichi e fautori della rivoluzione, come Trockij, Zinov’ev, Kamenev, Bucharin. In tutti questi processi ci fu un elemento di spettacolarità: l’imputato era costretto ad autoaccusarsi pubblicamente dei peggiori crimini. La repressione, oltre all’ambito politico, coinvolse anche altri settori, come la burocrazia 70 statale e la cultura. Si stima che tra il 1936 e 1939, da 4 a 5 milioni di persone subirono la repressione: quattrocento o cinquecentomila furono fucilati, gli altri spediti nei campi di concentramento per molti anni. L’industrializzazione della Russia L’obiettivo principale di Stalin era quello di giungere in tempi brevi ad un livello di industrializzazione pari a quello degli altri paesi europei. Bisognava però passare da una produzione di beni di consumo all’industria pesante. Per far ciò nel 1929 fu varato il primo piano quinquennale, che prevedeva una rigida pianificazione statale dell’economia e della politica industriale (era l’antitesi del liberismo economico e ricordava quanto accadde in Germania durante la prima guerra mondiale per far fronte al blocco navale inglese). Tale politica economica statalista ottenne in effetti eccezionali risultati (dal 1929 al 1940 la produzione industriale sovietica triplicò). La collettivizzazione delle campagne Nel giro di dieci anni l’URSS divenne la seconda potenza industriale del mondo. I costi umani di tale impresa però vennero pagati soprattutto dai contadini. A partire dai primi mesi del 1928 si fece di nuovo ricorso alle requisizioni forzate, come al tempo del comunismo di guerra. Nel gennaio 1930 Stalin decise di procedere alla liquidazione dei kulaki (contadini benestanti, che si erano arricchiti soprattutto ai tempi della NEP) ed alla collettivizzazione delle campagne. Nel 1931, vennero deportati circa 1800000 individui (bollati come sfruttatori agricoli) in zone periferiche e semidesertiche, ove la maggior parte morì per stenti. Nel contempo, tutti gli altri contadini vennero obbligati a riunirsi in grandi aziende agricole collettive (dette kolchoz), unità produttive di vaste dimensioni, completamente controllate dallo stato. Migliaia furono i contadini che si rifiutarono, ma vennero arrestati e finirono in campo di concentramento. In definitiva, a costo di far partire la fame ai contadini, le città e i grandi centri industriali poterono essere regolarmente riforniti. I campi di lavoro Negli anni Trenta, giunse a piena maturazione anche il sistema dei campi di lavoro sovietici, ovvero strumenti di repressione e di reclusione degli avversari politici. Nel 1929, tutti i campi di concentramento sovietici furono raccolti sotto la sigla GULag e da luoghi deputati al terrore passano a centri finalizzati allo sfruttamento dei prigionieri (ad es. per la costruzione di grandi canali, come quello tra il Mar Baltico e il Mar Bianco, dove lavorarono 120 000 detenuti; o nelle miniere d’oro della Siberia orientale, dove ne lavoravano 138 000). Per la maggior parte dei prigionieri, non si trattava di detenuti politici, ma di individui normali che per qualche ragione, anche banale, si erano posti contro il regime: ad es. per essersi spostati dalle campagne alle città senza permesso, o per aver tenuto per sé una porzione di troppo di raccolto, o per non essere abbastanza zelanti in fabbrica. 71