L`euforia collettiva del 1914

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La prima guerra mondiale
Le origini del conflitto
Tensioni e alleanze tra le potenze europee
Al Congresso di Berlino del 1978 cominciarono a delinearsi alcune delle alleanze che caratterizzeranno la prima
guerra mondiale: la Germania di Bismarck, timorosa di un eccessivo rafforzamento russo1 nei Balcani, si avvicinò
alle posizioni dell’Austria-Ungheria e stipulò con essa un’alleanza difensiva.
Nel 1875 la Russia, desiderosa di espandersi nella penisola balcanica, era intervenuta contro l’impero ottomano, a
difesa della Serbia e del Montenegro, che a loro volta sostenevano i contadini cristiani della Bosnia e
dell’Erzegovina nella loro ribellione contro i grandi proprietari terrieri musulmani. Dopo la vittoria russa, con la
pace di Santo Stefano nel 1878, fu creato il vasto Stato di Bulgaria (comprendente gran parte dei territori
europei sotto dominazione ottomana), che sarebbe dovuto essere subalterno alla Russia, ma che rimase invece
autonomo (e fu ridimensionato) per l’opposizione di Inghilterra e Austria-Ungheria, le quali minacciarono di
muovere guerra alla Russia. La crisi fu pacificata nell’estate del 1878 con il Congresso di Berlino: fu promosso
dall'Austria e accettato dalle altre potenze europee per rettificare il trattato di Pace di Santo Stefano. Il Congresso
ridimensionò e divise la nascente Bulgaria, satellite della Russia, e stabilì l’amministrazione austriaca della Bosnia.
Confermò invece l’indipendenza della Romania, della Serbia e del Montenegro. La Germania, che fece da
mediatrice, per aver scongiurato la grave crisi fra la Russia e l’Austria aumentò il suo prestigio ma incrinò i suoi
rapporti con la Russia che non fu soddisfatta dei negoziati. La Turchia, pur perdendo estesi territori, limitò i danni
rispetto alla Pace di Santo Stefano. Il cancelliere tedesco Bismarck, timoroso di un eccessivo rafforzamento russo,
sostenne le posizioni dell’Austria-Ungheria e dell’Inghilterra e stipulò nel 1879 un’alleanza difensiva con l’Impero
asburgico (che durerà fino al novembre 1918).
L’Italia si avvicina agli Imperi centrali
L’Italia aveva mire espansionistiche nel Nordafrica e cercò senza successo di ostacolare l’occupazione da parte
della Francia della Tunisia, che avvenne nel 1881 (giustificata dai francesi come ricompensa per i vantaggi
ottenuti da Inghilterra e Austria-Ungheria a Berlino). Risultò evidente la posizione di isolamento dell’Italia (che
aveva raggiunto l’unità da poco tempo), la quale decise quindi di avvicinarsi all’Impero tedesco, principale
avversario della Francia (vedi guerra franco-prussiana 1870-71 e questione dell’Alsazia-Lorena). Nel 1882 nacque,
con carattere puramente difensivo, la Triplice Alleanza tra Austria-Ungheria, Italia e Germania.
Il sistema delle alleanze e il piano Schlieffen
La Triplice Alleanza aveva come avversario principale la Francia: la Germania era in tensione con la Francia a
seguito della conquista dell’Alsazia-Lorena2 (nel 1871); l’Italia ne temeva l’ulteriore espansione nel
Mediterraneo. Stipulando la Triplice Alleanza l’Italia di fatto rimandava l’annessione di Trento e Trieste, cioè il
completamento della propria unità nazionale: la questione delle terre irredente appariva secondaria rispetto alla
necessità di contenere l’imperialismo francese nel mediterraneo.
La Francia trovò un sostegno contro la Germania nella Russia, con cui stipulò un’alleanza difensiva nel 1892.
Sebbene i due paesi erano notevolmente diversi (la Francia era una repubblica parlamentare, fiera del proprio
passato illuminista e rivoluzionario, mentre l’Impero zarista era una monarchia assoluta e dispotica) per l’alleanza
1
Nel 1875 la Russia, desiderosa di espandersi nella penisola balcanica, era intervenuta contro l’impero ottomano, a difesa
della Serbia e del Montenegro, che a loro volta sostenevano i contadini cristiani della Bosnia e dell’Erzegovina nella loro
ribellione contro i grandi proprietari terrieri musulmani. Dopo la vittoria russa, con la pace di Santo Stefano nel 1878, fu
creato il vasto Stato di Bulgaria (comprendente gran parte dei territori europei sotto dominazione ottomana), che sarebbe
dovuto essere subalterno alla Russia, ma che rimase invece autonomo (e fu ridimensionato) per l’opposizione di Inghilterra e
Austria-Ungheria, le quali minacciarono di muovere guerra alla Russia. La crisi fu pacificata nell’estate del 1878 con il
Congresso di Berlino
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L’Alsazia e la Lorena si trovano nella regione del Reno. Nel 1871, la Germania se ne impossessò dopo la vittora sulla Francia.
Dal momento che queste due terre per circa ottant’anni sono state il simbolo dell’ostilità franco-tedesca e della divisione
politica dell’Europa, proprio Strasburgo, capoluogo dell’Alsazia, venne scelta nel 1949 come sede per il Parlamento
dell’Unione Europea.
1
avevano premuto soprattutto i banchieri francesi, che avevano fornito alla Russia notevoli capitali, indispensabili
per l’ammodernamento e l’industrializzazione del paese.
La Germania si trovò di fronte alla prospettiva di una guerra su due fronti: a occidente con la Francia e a oriente
con la Russia. Per risolvere questa grave situazione il generale Alfred von Schlieffen elaborò un piano strategico
particolarmente ingegnoso: il suo ragionamento partiva dalla constatazione che, mentre le ferrovie tedesche
erano modernissime ed efficienti, il sistema di trasporti russo era ancora carente, quindi prima che tutte le forze
russe potessero essere portate al fronte contro la Germania, sarebbe passato un intervallo di tempo che l’Impero
tedesco avrebbe potuto sfruttare per concentrare tutte le proprie energie a ovest contro la Francia. Per
sconfiggere la Francia in tempi brevi era necessaria una mossa a sorpresa: Von Schlieffen propose che l’esercito
tedesco disponesse piccoli contingenti sul fronte russo e in Alsazia-Lorena, mentre la massa d’urto dell’esercito
germanico avrebbe puntato direttamente su Parigi da nord, dopo aver attraversato il Belgio. Dal momento che
quest’ultimo paese era neutrale, i francesi sarebbero stati colti alla sprovvista e la guerra sul fronte occidentale si
sarebbe conclusa nel giro di poco, a quel punto grazie all’efficientissimo sistema ferroviario del Reich, tutto
l’esercito germanico avrebbe potuto essere trasferito verso est, per fronteggiare e sconfiggere i russi.
La flotta da guerra tedesca
Il punto debole del piano Schlieffen era il previsto attraversamento del Belgio, che avrebbe provocato
l’immediata reazione della Gran Bretagna. Per attuarlo quindi la Germania avrebbe dovuto mantenere buone
relazioni con l’Inghilterra (proseguendo sulla linea del Congresso di Berlino del 1878), invece per volontà
dell’Imperatore Guglielmo II, la Germania condusse una politica ostile alla Gran Bretagna. Il principale motivo di
attrito fu la flotta di navi da guerra di cui la Germania cominciò a dotarsi, a partire dal 1898. Alla sfida tedesca
l’Inghilterra rispose nel 1906 iniziando la costruzione di una serie di corazzate di nuovissima concezione chiamate
Dreadnoughts (in seguito anche la Germania iniziò a costruirle).
Il risultato fu il progressivo avvicinamento dell’Inghilterra ai nemici della Germania. Nel 1904 Francia e Gran
Bretagna strinsero l’Intesa cordiale, nel 1907 l’Inghilterra raggiunse un accordo con la Russia (per queste tre
potenze il vero nemico era ora la Germania).
La politica di potenza tedesca
Il capitalismo tedesco in realtà era diviso sul riarmo navale. Grandi gruppi industriali (come quelli legati alla
produzione dell’acciaio) ricavavano profitti eccezionali dalla costruzione della flotta; ma altri, come Walther
Rathenau, dirigente dell’AEG, il complesso industriale più potente a livello mondiale nel campo della produzione
dell’energia elettrica, erano contrari perché avrebbe portate ad uno scontro con la Gran Bretagna.
Le motivazione economiche del riarmo comunque non erano quelle prevalenti: all’inizio del Novecento la
possibilità di conquistare colonie si era praticamente esaurita e ciò obbligava alla ricerca di altre manifestazioni di
potenza e prestigio; la flotta da guerra era letta come un mezzo capace di mostrare al mondo la forza e la
grandezza della nazione tedesca. Secondo il Ministro per la Marina tedesco, Alfred von Tirpitz, il vero artefice del
programma di riarmo navale, bisognava dissuadere la Gran Bretagna dalla tentazione di intervenire contro
l’Impero tedesco: la flotta doveva servire come arma di pressione per convincere l’Inghilterra a scendere a patti
con la grande potenza tedesca.
La polveriera balcanica
Il regno di Serbia aveva ottenuto la definitiva indipendenza al Congresso di Berlino e desiderava allargare i propri
confini: sperava di giungere alla costruzione di un vasto stato nazionale che comprendesse tutti i popoli
jugoslavi (slavi del Sud), compresi anche gli sloveni, i croati e i bosniaci, che si trovavano sotto dominazione
dell’Austria-Ungheria.
Nel 1902 Italia e Francia si accordarono per la spartizione del Nordafrica: in caso di occupazione francese del
Marocco (che avvenne nel 1911), l’Italia avrebbe potuto conquistare la Libia (1911-12). Ciò rendeva ormai
superati i motivi antifrancesi che tenevano l’Italia nella Triplice Alleanza.
Approfittando della guerra italo-turca nel 1912 la Serbia, alleatasi con Grecia, Montenegro e Bulgaria, intervenne
contro l’Impero ottomano nella prima delle due guerre balcaniche3, obbligandolo alla cessione di parte della
Macedonia. Austria-Ungheria e Italia però negarono alla Serbia l’accesso al mare, e istituirono il piccolo stato
dell’Albania. Nel 1913 i rapporti tra Serbia e Austria-Ungheria si fecero sempre più tesi: mentre Belgrado
aspirava a cancellare lo stato albanese e a liberare i territori slavi sotto dominio austriaco, a Vienna si diffondeva
l’idea di infliggere una dura lezione al regno di Serbia.
3
Nella seconda guerra balcanica del 1913, la Bulgaria attaccò la Serbia, ma venne duramente sconfitta
2
La dinamica del conflitto
L’attentato di Sarajevo
Il 28 giugno a Sarajevo (capitale Bosnia-Erzegovina), un terrorista serbo-bosniaco di 19 anni, Gavrilo Princip,
uccise a colpi di pistola l’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo, erede al trono austro-ungarico; dietro il
gesto omicida c’era una vera cospirazione preparata da un gruppo nazionalista chiamato “Giovane Bosnia”,
collegato a sua volta all’associazione nazionalista serba “Unione o Morte”, fondata dal colonnello Dragutin
Dimitrevic, capo dei servizi segreti dell’esercito serbo. Il governo austriaco imputò la responsabilità
dell’omicidio interamente allo stato serbo. I governanti austro-ungarici sapevano bene che in caso di conflitto la
Serbia sarebbe stata sostenuta dalla Russia e che si sarebbe arrivati ad una guerra estesa a tutte le potenze
europee, per questo consultarono dapprima il governo tedesco che, forte del piano Schlieffen, assicurò il suo
appoggio.
Il governo di Vienna consegnò a quello di Belgrado il suo ultimatum il 23 luglio, contenente pesanti richieste: la
Serbia avrebbe dovuto vietare ogni forma di propaganda antiaustriaca, licenziare i funzionari e ufficiali che
avessero manifestato posizioni nazionalistiche, e soprattutto avrebbe dovuto istituire una commissione
d’inchiesta sull’assassinio con la partecipazione di delegati austriaci. Fu solo quest’ultimo punto che la Serbia
non accolse, perché avrebbe significato una pesante limitazione della sua sovranità nazionale. Così il 28 luglio
l’Austria-Ungheria dichiarò guerra alla Serbia.
L’invasione del Belgio
Tutti pensavano che la guerra sarebbe stata breve e affermavano di agire per legittima difesa.
Per la Germania i tempi di decisione, legati al piano Schlieffen, erano strettissimi. Dopo che la Russia ebbe
schierato le proprie truppe al confine con l’Austria-Ungheria e con la Germania, il 31 luglio il governo tedesco
inviò un ultimatum a quello russo, intimando di sospendere le operazioni, e di fronte al silenzio dei russi il 1°
agosto l’Impero tedesco entrò ufficialmente in guerra con la Russia e conseguentemente (2 agosto) con la
Francia sua alleata. Il 2 agosto la Germania intimò al Belgio di lasciar passare le sue truppe sul suo territorio, ciò
provocò la reazione della Gran Bretagna e il 4 agosto, dopo che i primi reparti tedeschi avevano violato la
frontiera del Belgio, l’Inghilterra dichiarò guerra all’Impero germanico.
L’invasione tedesca del Belgio fu brutale e spietata, con uccisioni di massa, rappresaglie e saccheggi.
La fine della guerra di movimento
Il piano Schlieffen prevedeva una rapida vittoria tedesca sul fronte occidentale, ma le truppe germaniche dopo
un mese di marce e scontri erano stremate; inoltre una parte dell’esercito dislocato in Belgio dovette essere
spostato su altri fronti (in Alsazia contro i francesi e in Prussia Orientale contro i russi, dove i tedeschi ottennero
una grande vittoria a Tannenberg che provocò ai russi perdite elevatissime). L’attacco decisivo a Parigi non riuscì
a concretizzarsi: le armate tedesche si fermarono a 40 km da Parigi; il 5 settembre nella regione del fiume Marna
i francesi e gli inglesi passarono al contrattacco e cancellarono per sempre le speranze di una rapida vittoria
tedesca sul fronte occidentale (si scontrarono più di un milione di tedeschi contro più di un milione di francesi e
inglesi; tale mobilitazione di uomini fu possibile grazie alle moderne ferrovie). Nell’ottobre 1914 il conflitto si
trasformò in guerra di posizione: i due eserciti si attestarono lungo una linea che percorreva longitudinalmente
l’intera Francia (dal Mare del Nord fino al confine con la Svizzera) denominata fronte occidentale e composta
materialmente di due file di trincee (di 765 km) che correvano in parallelo e separate da uno spazio denominato
“terra di nessuno”, largo dai 200 ai 1000 metri.
La guerra di trincea
Dall’autunno 1914 per quattro anni il fronte occidentale, nonostante le enormi perdite umane, non subì alcun
cambiamento significativo: la capacità difensiva, infatti, di ogni esercito era infinitamente superiore alla sua
capacità di attacco, ciò provocò una situazione di stallo. I soldati che prendevano d’assalto la trincea nemica
venivano falcidiati dai colpi di mitragliatrice (altre armi micidiali usate erano i cannoni di grosso calibro). Inoltre, le
trincee erano protette dal filo spinato che bloccava l’impeto dell’assalto. Neanche l’utilizzo di nuove armi come il
gas (impiegato per la prima volta dai tedeschi nei pressi della città belga di Ypres nel 1915) spezzò lo stallo4.
4
L’impiego del gas non era semplice, perché se il vento non spirava nella direzione giusta poteva ritorcersi contro chi lo
lanciava. Ben presto poi gli eserciti si dotarono di rudimentali ma efficaci maschere antigas.
3
Le battaglie di Verdun (offensiva tedesca) e della Somme (offensiava inglese) del 1916
Quelle di Verdun (offensiva tedesca bloccata dai francesi) e della Somme (offensiva inglese bloccata dai
tedeschi) nel 1916 furono le due battaglie più lunghe e sanguinose del conflitto. A Verdun morirono circa 300
000 soldati, sulla Somme 650 000, senza nessun mutamento della situazione strategica. A Verdun fu sperimentato
per la prima volta il lanciafiamme e sulla Somme furono impiegati i primi rudimentali carri armati (tanks).
Una guerra di logoramento
Dopo che la prospettiva di una soluzione rapida del conflitto emerse chiaramente che la vittoria sarebbe stata
ottenuta da chi fosse stato capace di resistere più a lungo, continuando a mettere in campo risorse umane e
materiali indispensabili per continuare a combattere.
Il numero dei soldati che presero parte al conflitto fu enorme (più di 65 milioni), così come dei morti (quasi 9
milioni), dei feriti (più di 21 milioni), dei dispersi e prigionieri (quasi 8 milioni). Per tali numeri, impensabili in
qualsiasi guerra precedente, il conflitto fu detto “Grande guerra”.
Il protrarsi della guerra rese importantissima la capacità di gestire le risorse e di produrle. A partire dall’estate
1914, la marina britannica istituì un rigido blocco navale per impedire le importazioni tedesche di materie
prime necessarie per la produzione bellica (come il rame e il nitrato di potassio dal Cile per la fabbricazione di
esplosivi). Per far fronte a tale situazione la Germania cercò di riorganizzare la propria economia con una
rigorosa pianificazione (che decretò la fine del modello liberista), il cui principale fautore fu l’industriale Walther
Rathenau.
La guerra totale
La soluzione alla carenza di nitrato di potassio fu trovata facendo ricorso alle recenti scoperte dell’industria
chimica (ricavare azoto dall’atmosfera), più difficile fu reperire generi alimentari, che in Germania scarseggiavano
(nell’inverno 1916-17 molti furono costretti a nutrirsi quasi esclusivamente di rape).
I tedeschi giocarono la carta della guerra navale, scontrandosi con la flotta britannica al largo della costa dello
Jutland, senza riuscire però a forzare il blocco. Preso atto dell’impossibilità di contrastare la marina inglese, la
Germania intraprese la guerra sottomarina, che fu la più efficace risposta al blocco navale britannico. I
sommergibili affondavano sistematicamente qualsiasi nave, civile e militare, che solcassero l’Atlantico e il Mare
del Nord: l’obiettivo era quello di arrestare l’afflusso di materie prime e derrate alimentari dirette in Inghilterra.
La macchina militare bellica inglese corse il rischio di incepparsi per mancanza di alimenti e materie prime, ma la
situazione migliorò in seguito all’adozione del sistema dei convogli: le navi mercantili iniziarono ad attraversare
l’Atlantico in gruppo, ben protette dalla marina da guerra. Il fallimento dell’offensiva sottomarina può essere
considerato una delle principali cause della sconfitta tedesca.
La guerra fu totale in quanto non faceva più differenza fra civili e militari, perché la distruzione dell’apparato
produttivo del nemico è importante quanto una vittoria sul campo5.
Il crollo della Russia e l’intervento degli Stati Uniti (1917)
L’avanzata germanica sul fronte orientale, a differenza di quello occidentale, era inarrestabile (nell’agosto 1915
Varsavia era stata occupata). All’inizio del 1917 l’esercito zarista si era sgretolato e i disertori erano un milione e
mezzo. Nelle città russe il costo della vita era cresciuto del 700%, mancavano i più elementari generi di prima
necessità (pane, legna, carbone), per cui la gente soffriva pesantemente la fame e il freddo. Tale drammatica
situazione provocò la cauta dello zar (15 marzo 1917) e poi (6 novembre) la rivoluzione dei comunisti guidati da
Vladimir Lenin. Il 3 marzo 1918 il nuovo governo comunista firmò coi tedeschi la pace di Brest-Litovsk. Il trattato
era quanto mai oneroso per la Russia (pesanti amputazioni territoriali, fra cui l’intera Ucraina che sarebbe dovuta
diventare stato autonomo satellite della Germania). Lenin accettò tutte le condizioni consapevole che il popolo
russo era stanco di combattere e avrebbe appoggiato solo un governo che lo avesse portato fuori dal conflitto.
Per la Germania la sconfitta della Russia significò la fine della guerra su due fronti e la possibilità di rovesciare
tutto il proprio esercito a occidente; tale situazione favorevole per la Germania però fu vanificata dall’entrata in
guerra degli Stati Uniti contro l’Impero tedesco il 6 aprile 1917. I sottomarini tedeschi non riuscirono a bloccare
l’afflusso di uomini e merci provenienti dalla gigantesca produttività dei cantieri americani, che riuscivano a
varare nuove navi in quantità molto maggiore rispetto alla capacità distruttiva dei sommergibili tedeschi.
5
Questo aspetto sarà portato a livelli più drammatici durante la seconda guerra mondiale: è vero che nel 1914-18 Londra fu
attaccata dai dirigibili Zeppelin e dagli aerei bimotori Gotha, però i danni non furono paragonabili a quelli dei massicci
bombardamenti degli anni 1940-45.
4
Significato storico dell’intervento americano
L’8 gennaio 1918 il presidente americano Thomas Woodrow Wilson in un messaggio al Congresso enunciò in 14
punti gli obiettivi politici che l’America si proponeva di ottenere dalla vittoria. Wilson presentava gli Stati Uniti
come i garanti della libera navigazione sui mari (che la guerra sottomarina aveva reso impossibile)6. Inoltre
Wilson poneva il principio di nazionalità come criterio di soluzioni dei principali problemi europei (ciò avrebbe
significato la restituzione dell’Alsazia-Lorena alla Francia, la nascita di uno stato polacco indipendente e la
dissoluzione dell’Impero Austro-Ungarico). Per quanto riguarda la Russia comunista, Wilson si dimostrò
conciliante, sostenendo che dove essere lasciata ad essa l’opportunità di determinare in piena indipendenza le
linee del proprio sviluppo politico e nazionale. Infine Wilson propose l’istituzione di una Società Generale delle
Nazioni, ovvero un organismo internazionale con lo scopo di risolvere i contrasti e garantire l’indipendenza
politica e territoriale di tutti gli stati (in modo da scongiurare in futuro guerre come quella appena conclusa).
Gli Stati Uniti, con la partecipazione alla guerra e con il discorso di Wilson, uscivano dal loro tradizionale
isolazionismo, anche se a dir il vero, negli anni successivi persero ben preso interesse per le vicende europee,
tanto che nel 1919 gli USA non entrarono a far parte della Società delle Nazioni, quando venne effettivamente
istituita dalle potenze vincitrici. È importante notare che la prima guerra mondiale fu vinta da francesi e inglesi
solo con l’aiuto americano, questo tuttavia non significò la perdita della centralità della politica dell’Europa e la
sua dipendenza militare dagli USA (gli USA invece avranno un peso preponderante in Europa dopo la fine della
seconda guerra mondiale, in contrapposizione alla Russia sovietica).
La fine del conflitto
Il 21 marzo 1918 l’esercito tedesco iniziò una grande offensiva che nelle intenzioni dei generali Hindenburg e
Ludendorff avrebbe dovuto sfondare il fronte occidentale. I tedeschi riuscirono effettivamente a sfondare il
fronte in alcuni punti e a giungere nuovamente a minacciare Parigi, tuttavia dopo quattro mesi l’offensiva si
concluse con un insuccesso, anche grazie all’uso massiccio di aeroplani e carri armati da parte di inglesi, francesi e
americani7. Nel settembre 1918 la Germania non era più in grado di opporre resistenza, anche se le autorità non
si decidevano a intavolare trattative di pace (consapevoli che sarebbe stata chiesta una resa senza condizioni). In
novembre la situazione precipitò con una serie di ammutinamenti e manifestazioni di protesta: il 3 novembre 3
000 marinai della base navale di Kiel sul Baltico; lo stesso giorno l’Impero austro-ungarico si arrese; nei giorni
seguenti si unirono ai ribelli 20 000 soldati della guarnigione di Kiel e i marinai dei porti di Lubecca e Amburgo. Le
rivolte di Monaco (7 novembre) e Berlino (9 novembre) provocarono l’abdicazione del Kaiser Guglielmo II (che
fuggì in Olanda) e la proclamazione della Repubblica. L’11 novembre 1918 la Germania firmò l’armistizio con le
potenze alleate.
La prima guerra mondiale era ufficialmente terminata dopo aver provocato la morte di almeno 10 milioni di
soldati oltre a 4 milioni di civili morti per effetto diretto delle azioni belliche. A questo tragico bilancio si deve
aggiungere la micidiale epidemia di influenza chiamata spagnola, che provocò la morte, in tutto il mondo, di oltre
20 milioni di persone (la sola l’India contò 12 milioni di morti).
La guerra vissuta
L’euforia collettiva del 1914
Nell’estate del 1914 in tutti gli stati d’Europa lo scoppio delle ostilità venne accolto con euforia ed entusiasmo,
tutti convinti che la guerra sarebbe durata poco e avrebbe portato al trionfo della propria nazione. Anche i partiti
socialisti dei vari paesi, nonostante l’opposizione della Seconda Internazionale, finirono per appoggiare la scelta
dei rispettivi governi, dimenticando il principio marxista della solidarietà dei proletari di tutto il mondo e
accettando di identificarsi con la difesa della singola patria (l’idea di nazione prevalse su quella di classe).
La comunità nazionale
Nel giorno della dichiarazione di guerra, il kaiser Guglielmo II coniò uno slogan: “Non vedo più partiti. Vedo solo
tedeschi”. Agli occhi dei tedeschi in quel momento storico le differenze sociali e politiche, prodotte dalla società
industriale, parvero irrilevanti. Si compì un miracolo emotivo che suscitò un rinnovato senso della comunità
nazionale, intesa come una realtà omogenea chiamata ad un comune destino. Questo entusiasmo patriottico e
6
Il 7 maggio 1915 l’affondamento del transatlantico Lusitania comportò la morte di 1198 persone, 128 delle quali erano
cittadini americani
7
Tali scontri lasciarono intravedere le tecniche di combattimento che caratterizzeranno la seconda guerra mondiale
5
l’atmosfera di spiritualità nazionale confluirono successivamente nel modello nazista (liturgie di masse, fine del
parlamentarismo, principio dell’obbedienza incondizionata al Führer).
La fuga dalla modernità
La moderna società industriale non è solo stratificata in classi, ma anche produttrice di nuovi tipi di rapporti
umani: l’individuo immerso nella massa (nelle strade, stazioni, fabbriche, condomini, ecc.) in realtà è solo e vive
tale isolamento con angoscia e dolore.
In Germania nacque il Movimento giovanile, un fenomeno che investì la gioventù borghese alla fine
dell’Ottocento, come forma di protesta nei confronti dell’impersonale società urbana costruita dagli adulti.
Questi giovani si dedicavano ad escursioni e gite che li portavano a diretto contatto con la natura. All’interno di
questi gruppi nacque il concetto di Führer: nei gruppi emergeva un leader, il quale pur sempre un pari, si
distingueva per il suo carisma, per le sue qualità morali e fisiche, meritandosi l’unanime ammirazione e
obbedienza, espressa con il saluto “heil” accompagnato dal braccio teso verso l’alto. Col tempo il movimento
assunse un carattere sempre più nazionalistico. Il Movimento giovanile fu un fenomeno d’élite, mentre
l’entusiasmo del 1914 coinvolse un numero elevatissimo di tedeschi, alla ricerca di nuove forme di
aggregazione capaci di sconfiggere l’isolamento urbano. Molte persone, aderendo alla guerra, si percepirono
parte di una comunità, si identificarono con la nazione, vincendo l’angoscia dell’isolamento. Per lo stesso
motivo milioni di tedeschi avrebbero successivamente aderito al Partito nazista.
La disillusione dei soldati
Al momento della dichiarazione di guerra, i ragazzi che avevano aderito al Movimento giovanile si arruolarono
in massa. Ottantamila di questi volontari caddero nella battaglia di Langemarck (nelle Fiandre), nel novembre
1914, falciati dalle mitragliatrici inglesi. La stessa disillusione sopraggiunse per i volontari inglesi. Nel loro
immaginario la morte per la patria era qualcosa di glorioso e eroico (vedi poesia Wilfred Owen), ma in realtà si
trovarono di fronte ad una morte industriale, di massa. Morire sventrati da una granata non aveva nulla di
eroico, crolla così l’illusione della guerra romantica.
Rivolte e ammutinamenti
Man mano che la guerra di logoramento continuava, il malcontento divenne sempre più acuto fra i soldati al
fronte e fra la popolazione. Gruppi minoritari, staccatisi dai vari Partiti socialisti dei diversi paesi, si riunirono a
congresso in Svizzera a Zimmerwald (settembre 1915) e a Khienthal (aprile 1916), ma i loro appelli di pace che
rilanciavano il tradizionale internazionalismo proletario restò inascoltato.
Nel 1917 la situazione degenerò e si verificarono ammutinamenti di massa sia tra le truppe tedesche che tra
quelle francesi (il comando francese però riuscì a recuperare l’obbedienza delle truppe con interventi tesi a
migliorare le condizioni di vita dei soldati al fronte).
Lenin in Russia riuscì a legare il comunismo al rifiuto della guerra e ciò si ripercosse anche su altri paesi, come la
Germania, in cui i movimenti nazionalisti addossarono ai socialisti la responsabilità della sconfitta e tale
retorica sarà poi ripresa da Hitler, secondo il quale la guerra era stata persa per il cedimento del fronte interno
che aveva pugnalato alle spalle l’esercito ancora imbattuto.
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L’Italia dal 1914 al 1918
Il problema dell’intervento
La scelta della neutralità
Allo scoppio della guerra l’Italia era legata alla Germania e all’Austria-Ungheria per mezzo della Triplice Alleanza.
Il capo di Stato Maggiore dell’esercito, generale Luigi Cadorna, sollecitava l’entrata in guerra a fianco delle
truppe tedesche e austriache, ma il governo, presieduto dal liberale conservatore Antonio Salandra, decise che
l’Italia sarebbe rimasta neutrale, in quanto la Triplice Alleanza era un trattato puramente difensivo e secondo il
giudizio di Salandra non si era verificata una vera e propria aggressione nei confronti dei due Imperi alleati con
l’Italia. Le ragioni di questa scelta erano legate alla constatazione dell’esaurimento delle ragioni che avevano
portato l’Italia a firmare la Triplice Alleanza, ovvero il desiderio di frenare l’espansionismo francese nel
Mediterraneo. Inoltre l’Austria-Ungheria non aveva alcuna intenzione di cedere Trento e Trieste all’Italia.
I sostenitori della neutralità
Invece di un grande movimento di solidarietà nazionale, la prospettiva della guerra generò in Italia un vasto
dibattito e una violenta frattura dell’opinione pubblica, divisa tra interventisti e neutralisti.
Il più autorevole dei neutralisti era Giovanni Giolitti, il quale aveva intuito che il conflitto sarebbe stato lungo ed
estenuante e pensava che l’Italia avrebbe avuto maggiori vantaggi sfruttando la propria posizione di neutralità.
Anche la Chiesa pensava fosse opportuno restare fuori dal conflitto, sia per ragioni di natura morale, in quanto il
conflitto si stava rivelando un enorme massacro (papa Benedetto XV lo definì la guerra una “inutile strage”), sia
per ragioni politiche, l’intervento italiano contro l’Austria-Ungheria avrebbe potuto contribuire alla sconfitta
dell’unica grande potenza dichiaratamente cattolica.
A favore della neutralità si schierarono anche i socialisti, poiché pensavano che la guerra mondiale altro non
fosse che la continuazione della volontà imperialista degli stati di strappare con la forza ai rivali nuove regioni e
che il proletariato non avrebbe ottenuto alcun beneficio da questa guerra, tutta a vantaggio dei capitalisti.
Tuttavia, i socialisti italiani si limitarono a una opposizione verbale alla guerra, espressa dal motto “né aderire né
sabotare”.
Gli interventisti di sinistra
Tra i favorevoli all’intervento vi erano innanzitutto gli intellettuali democratici, tra cui Gaetano Salvemini e
Cesare Battisti (che sarebbe stato poi impiccato dagli austriaci nel 1916), eredi della tradizione mazziniana e
risorgimentale, secondo cui la guerra rappresentava un “nuovo Risorgimento”, ovvero l’occasione per liberare
Trento e Trieste e completare l’unificazione nazionale.
Poi tra gli interventisti spiccarono i sindacalisti rivoluzionari, i quali, ispirati dalle teorie del filosofo francese
George Sorel, vedevano nella guerra e nel suo inevitabile carico di morte, miseria e disordine sociale la
condizione ideale per dare avvio alla rivoluzione proletaria. Su posizioni simili si schierò anche Benito Mussolini,
che il 15 novembre 1914 fondò un nuovo giornale, “Il Popolo d’Italia”, proprio per sostenere la propaganda a
favore dell’intervento. Benché il giornale riportasse come sottotitolo la dicitura “quotidiano socialista”, esso fu
finanziato da numerosi gruppi di industriali, favorevoli al coinvolgimento del paese in guerra, e probabilmente
anche dall’ambasciata francese.
I nazionalisti
I più accesi sostenitori dell’intervento furono i nazionalisti; il movimento era stato fondato da Enrico Corradini
nel 1903 e aveva nella rivista “Il Regno” il principale mezzo di diffusione delle proprie idee. Corradini
strumentalizzò la terminologia marxista per sostenere idee nazionaliste: riteneva che vi fossero nel mondo
“Nazioni borghesi”, ovvero quelle che avevano costruito già da tempo i propri imperi e si erano arricchite, e
“Nazioni proletarie”, ovvero quelle, fra cui l’Italia, che erano ancora alla ricerca di una propria affermazione
politico-militare e di un impero coloniale. Le nazioni ricche, secondo Corradini, soffocavano quelle proletarie,
destinate tuttavia ad emergere e a prendere il posto delle ormai declinanti potenze borghesi. Per favorire questo
processo però era necessario schiacciare “l’ignobile socialismo”, che conduceva la nazione verso la guerra civile,
esortando i proletari a combattere contro i borghesi. Inoltre, Corradini era nemico della democrazia e del
parlamentarismo e riteneva che il potere dovesse essere esercitato in modo autoritario da una élite ristretta,
capace di individuare gli obiettivi della politica nazionale e di perseguirli con mano ferma.
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Gli intellettuali
Le posizioni antidemocratiche e nazionaliste di Corradini trovarono numerosi consensi fra gli intellettuali, primo
fra tutti Gabriele D’Annunzio. Nel più famoso dei suoi romanzi, Il piacere (1889), D’annunzio, influenzato anche
dalla versione distorta della filosofia del superuomo di Nietzsche, criticava “il grigio diluvio democratico” dei suoi
tempi, che non lasciva più spazio all’eroe e all’uomo eccezionale, schiacciato dalle masse8.
Da una nuova generazione di intellettuali la guerra venne vista come evento affascinante e avvincente per
eccellenza. Giovanni Papini, nel 1913 sulla rivista Lacerba, celebrò la guerra come uno strumento liberatore,
capace di spazzar via dalla Terra l’umanità in esubero, le ottuse masse che soffocavano il genio. In termini simili
Filippo Tommaso Marinetti definì la guerra la “sola igiene del mondo”. Marinetti diede vita nel 1909 al
movimento artistico del Futurismo, preoccupato di adeguare l’arte alla realtà moderna, al XX secolo, visto come
tempo della velocità.
L’Italia in guerra
Il Patto di Londra
Nella primavera del 1915 gli interventisti intensificarono la propaganda a favore della guerra e organizzarono
numerose manifestazioni dei massa, in cui fu determinante il contributo coreografico di D’Annunzio. Alcuni di
quei raduni rappresentarono l’avvio del nuovo modo di gestire la leadership politica, anticipando le liturgie di
masse del periodo fascista. Il leader non era più una figura separata dal popolo, ma colui che sapeva emozionarlo.
Chi partecipava al raduno era colpito dalle musiche, dai colori, dal contesto, ancor prima che dalle parole
dell’oratore. Il risultato era una profonda carica emotiva, capace di travolgere ogni obiezione di tipo razionale.
Il 26 aprile 1915, il governo italiano firmò il Patto di Londra, con cui si impegnava ad entrare in guerra entro un
mese, a fianco di Francia, Gran Bretagna e Russia, contro Austria-Ungheria e Germania. L’accordo prevedeva,
dopo la vittoria, che all’Italia sarebbero state assegnate Trento e Trieste, l’Alto Adige, l’Istria, la Dalmazia9 e una
parte delle colonie tedesche.
Il Patto per essere esecutivo doveva essere ratificato dal Parlamento, la cui maggioranza era però su posizioni
neutraliste, simili a quelle di Giolitti. Tale atteggiamento suscitò la collera degli interventisti10.
Il “maggio radioso”
Il maggio del 1915 (ribattezzato da D’Annunzio “maggio radioso”) vide in tutte le principali città italiane scontri
violenti fra neutralisti e interventisti.
Resosi conto di non godere della fiducia della Camera, il 13 maggio Salandra diede le dimissioni, ma il re
Vittorio Emanuele III, deciso sostenitore dell’intervento, gli conferì di nuovo l’incarico. A quel punto per i
deputati votare di nuovo contro il Patto di Londra avrebbe significato sconfessare l’autorità del Re; pertanto il
20 maggio il Parlamento ratificò la decisione del governo, con il voto contrario dei socialisti, provocando
l’ingresso dell’Italia in guerra (24 maggio). Di fatto il Parlamento era stato scavalcato e ciò determinò una sua
perdita di prestigio che si ripercosse anche negli anni successivi alla fine del conflitto.
Le operazioni militari
Il fronte italiano era lungo circa 700 km e le operazioni militari si svolsero contemporaneamente nelle regioni del
Trentino e del Carso11. Nel Trentino fu una guerra di montagna. Nella regione dell’altopiano del Carso, che separa
il fiume Isonzo da Trieste, furono combattute quelle che la storiografia indica come le 12 battaglie dell’Isonzo.
8
La stessa vita di D’Annunzio fu una continua ricerca di esperienze forti e di emozioni, nel completo disprezzo della morale
corrente. Con questo spirito egli partecipò alla guerra mondiale e compì imprese spettacolari, come il siluramento delle navi
austriache nel porto di Buccari e un volo su Vienna (1918). Nel 1919 guidò l’occupazione di Fiume e fu un importante punto
di riferimento per il nascente movimento fascista, fino a quando Mussolini, preoccupato che il prestigio del poeta potesse
oscurare il suo, non lo costrinse all’isolamento sul lago di Garda, nella sua residenza detta Vittoriale, in cui rimase fino alla
morte nel 1938.
9
Con il nome Dalmazia si intende la costa orientale dell’Adriatico, abitata prevalentemente da slavi. Attualmente è
politicamente suddivisa tra Croazia, Montenegro e Bosnia ed Erzegovina.)
10
In quell’occasione Mussolini scrisse: “Sono sempre più convinto che per la salute dell’Italia bisognerebbe fucilare, dico
fucilare, nella schiena, qualche dozzina di deputati e mandare all’ergastolo un paio almeno di ex ministri. Non solo, ma io
credo, con fede sempre più profonda, che il Parlamento in Italia sia il bubbono pestifero che avvelena il sangue della Nazione.
Occorre estirparlo”.
8
Nel maggio 1916 gli austriaci lanciarono la loro spedizione punitiva (Strafexpedition) contro l’Italia, per punirla
del voltafaccia, attaccando in forza il Trentino e avanzando per una ventina di chilometri, ma venendo infine
fermato. Nell’agosto del 1916 l’Italia prese l’iniziativa e attaccò nella zona del Carso, conquistando Gorizia, ma
senza riuscire a proseguire l’offensiva. Le perdite nell’esercito italiano furono pesantissime (solamente nel 1916
118 00 morti e 285 000 feriti) in quanto i comandanti applicavano la tattica dell’assalto frontale, senza badare alle
perdite.
La disfatta di Caporetto
Con il crollo dell’esercito russo, nel 1917, gli austro-ungarici, sostenuti da divisioni scelte dei tedeschi,
concentrarono tutte le loro truppe sul fronte italiano e pianificarono una massiccia offensiva sull’Isonzo,
all’altezza del villaggio di Caporetto (oggi Kobarid, in Slovenia). Cadorna era stato informato del piano da alcuni
disertori, ma non presto fede a quelle notizie, pertanto, quanto il 24 ottobre 1917, quando l’esercito austrotedesco investì le prime linee con violentissimi bombardamenti, gli italiani furono presi alla sprovvista e il
comando non rimase indeciso sul da farsi per alcuni giorni. I tedeschi ottennero così un successo superiore ad
ogni loro aspettativa e l’esercito italiano fu costretto, incalzato dai nemici, ad una ritirata disordinata. Solo lungo
la linea del fiume Piave fu possibile ricostruire un efficace sistema difensivo. L’episodio più critico fu l’ingorgo di
migliaia di soldati sui pochi ponti che permettevano il passaggio del Tagliamento.
Le province di Udine, Belluno, Treviso, Vicenza e Venezia furono occupate dagli austro-tedeschi. Circa un
milione di persone si trovò sotto l’occupazione militare straniera, mentre 600 000 profughi furono costretti ad
abbandonare le loro case. Il regime di occupazione fu estremamente duro (razzie disorganizzate prima e
spoliazione sistematica poi, non mancarono violenze sessuali, come in Belgio nel 1914).
L’ultimo anno di guerra
Dopo Caporetto Cadorna venne esonerato; al suo posto fu nominato il generale Armando Diaz e il governo
passò nelle mani di Vittorio Emanuele Orlando, il quale riuscì ad ottenere dagli alleati regolari rifornimenti
alimentari e ingenti crediti, con cui fu possibile rilanciare l’economia di guerra italiana e scongiurare che il
malcontento fra le masse degenerasse in aperta rivolta. Per diversi mesi il generale Diaz assunse un
atteggiamento difensivo, consapevole della situazione di logoramento degli eserciti avversari. Nell’autunno 1918
la situazione di Germania e Austria-Ungheria era disperata. Diaz ordinò il contrattacco il 26 ottobre: nella
regione di Vittorio Veneto, le truppe austro-ungariche non riuscirono a resistere e si disgregarono (vi furono
numerosi ammutinamenti, soprattutto di soldati slavi e ungheresi). Il 3 novembre l’Austria-Ungheria firmava la
resa, che prevedeva per il giorno seguente, il 4 novembre la resa delle ostilità.
L’Italia usciva vincitrice dalla guerra, che le era costata 680 000 morti e un milione di feriti di cui la metà mutilati
e invalidi. Tuttavia per i nazionalisti ciò che ottenne l’Italia dopo la Conferenza di pace era assolutamente
inadeguato, pertanto il clima di scontro non si placò e anzi fu la coltura ideale per la nascita del movimento
fascista.
Gli italiani in guerra
Contadini soldati
Dei 4 250 000 soldati italiani inviati al fronte il 45% era di origine contadina e moltissimi erano analfabeti. Fu la
guerra ad avvicinare molti di loro alla scrittura, per tenere diari e per scrivere lettere alle famiglie. Questi mezzi di
espressione aiutarono molti a scaricare la tensione e a superare il trauma della guerra (scrittura come strumento
catartico), fungendo in certi casi come l’equivalente immaginario di quella fuga dalla trincea o di quella ribellione
che risultava impossibile a causa della dura repressione dell’autorità militare.
L’apparato repressivo delle autorità
La corrispondenza dei soldati veniva sottoposta a censura (anche se in realtà solo poche lettere potevano essere
effettivamente controllate), per impedire che i soldati esprimessero riserve e critiche nei confronti della guerra e
degli ufficiali.
11
Il Carso è un altopiano che si estende nel nord-est dell'Italia dai piedi delle Alpi Giulie al mare Adriatico (in provincia di
Gorizia e di Trieste), attraverso la Slovenia occidentale e l'Istria settentrionale prosegue fino al massiccio delle Alpi Bebie
all'estremo nord-ovest della Croazia, estendendosi così nell'Italia, nella Slovenia e nella Croazia.
In particolare, il monte Carso è una modesta altura di 456 m, che si trova all'imboccatura della Val Rosandra, in provincia di
Trieste.
9
Nel periodo tra il 1915 e il 1918 vennero chiamati alle armi circa 5 200 00 italiani, di questi 870 000 furono
oggetto di denuncia all’autorità militare. Tra i denunciati il gruppo maggiore era quello dei renitenti alla
chiamata (470 000), di questi circa 370 000 erano emigranti residenti all’estero.
Autolesionismo e follia
Tra i soldati si diffuse la pratica dell’autolesionismo, come mezzo per essere ritirati dal fronte. Le autorità
militari repressero con durezza tale comportamento, così come la diserzione e i tentativi di consegnarsi al
nemico. Il massimo del rigore era applicato agli episodi di ammutinamento e aperta ribellione; nei casi in cui non
si trovava il diretto responsabile veniva perfino applicata la decimazione, che consisteva nel fucilare un certo
numero di soldati, estratti a sorte dl gruppo nel quale si erano manifestati i disordini.
Solo dopo la disfatta di Caporetto si cercò di dare maggior sostegno morale alle truppe, puntando più sulla
propaganda che su una spietata disciplina. Tra i soldati cominciarono a girare dei giornali di trincea, costituiti
soprattutto di immagini e vignette, per un pubblico in gran parte semi-analfabeta. Questi fogli possono essere
considerati il primo tentativo in Italia di un giornale di massa a grande diffusione.
Né la ferrea disciplina, né la propaganda impedirono a 40000 soldati di impazzire dopo una più o meno lunga
permanenza al fronte. I medici di allora, impreparati rispetto al fenomeno della follia di guerra, spesso la
scambiarono per simulazione, alla stregua dell’autolesionismo; in realtà si trattava di un fenomeno psichico ben
preciso, interpretabile come meccanismo estremo di autodifesa messo in atto automaticamente dalla mente per
fuggire gli orrori della guerra.
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