G. Neri Capitolo 32 Diagnosi prenatale di malattia genetica Cenni Storici Storicamente, la data di inizio della diagnostica genetica prenatale può essere fatta risalire agli anni Cinquanta del Novecento quando, attraverso lo studio della cromatina di Barr in cellule amniotiche, fu possibile stabilire correttamente il sesso del feto in gravidanze a rischio di malattie legate al cromosoma X. Nel 1966, venne dimostrata la possibilità di compiere un’analisi cromosomica su cellule amniotiche e, nel 1968, venne riportata per la prima volta una diagnosi prenatale di trisomia 21. In rapida successione furono in seguito riportati esempi di diagnosi prenatale di malattie metaboliche, basati sullo studio di attività enzimatiche in cellule amniotiche, e di difetti di chiusura del tubo neurale, basati sulla misurazione dei livelli di α-fetoproteina (α-FP) nel liquido amniotico. Grazie a questi progressi, la diagnosi prenatale di malattia genetica si è affermata come procedura diagnostica di routine ormai da più di un trentennio e continua a essere ancora oggi in fase di espansione, sia per un sensibile aumento della domanda sia per le nuove possibilità di indagine consentite dai progressi della genetica molecolare e dalle sempre più sofisticate tecniche di ecografia morfologica. Va in particolare sottolineato che la scoperta a ritmo incalzante di geni malattia ha ampliato enormemente, e continua ad ampliare, il numero di malattie genetiche diagnosticabili prenatalmente. Importanti progressi sono stati fatti anche riguardo la precocità con cui è possibile fare tale diagnosi, con l’introduzione della tecnica di biopsia dei villi coriali e, più recentemente, con il perfezionamento di metodiche per la diagnosi preimpianto. Sono inoltre in atto da alcuni anni ricerche intese a isolare cellule e/o DNA fetale dal sangue materno. Quando queste tecniche, di cui si dirà qualcosa più avanti, saranno perfezionate fino a poter essere inserite nell’uso clinico corrente, si può prevedere che la diagnosi prenatale ne verrà rivoluzionata, in quanto, da procedimento invasivo limitato a gravidanze selezionate, qual è oggi, diventerà rapidamente di impiego comune in tutte le gravidanze. Definizione La diagnosi prenatale di malattia genetica può essere definita, in termini generali, come un procedimento finalizzato all’accertamento dell’eventuale presenza nel feto o nell’embrione ch032_NERI_0465_0476.indd 465 (nel caso della diagnosi preimpianto) di una condizione patologica geneticamente determinata. La diagnosi prenatale sul feto si esegue, di norma, nel primo o secondo trimestre di gestazione mediante analisi citogenetica, biochimica o molecolare su cellule fetali ottenute attraverso villocentesi, amniocentesi o cordocentesi, o sul liquido amniotico privato della sua componente cellulare. Quanto alla diagnosi preimpianto, che verrà trattata brevemente a parte, si esegue su 1 o 2 blastomeri prelevati da embrioni risultanti da fecondazione in vitro, prima del loro impianto in utero. Prima di procedere a un’analisi dettagliata del contenuto di questa definizione, conviene ricordare che il termine diagnosi prenatale può essere inteso anche più estensivamente, includendovi, da un lato, le indagini ecografiche e, dall’altro, i test predittivi non invasivi. Queste indagini non sono di stretta pertinenza del genetista, tuttavia meritano una breve descrizione, in quanto possono essere componenti importanti della consulenza genetica prenatale. Diagnosi Ecografica E Test Predittivi Diagnosi ecografica Una trattazione esauriente, se non esaustiva, della diagnosi prenatale ecografica richiederebbe un capitolo a parte, mentre qui se ne faranno soltanto brevi ed essenziali cenni. L’ecografia ostetrica è di gran lunga la più diffusa fra le tecniche non invasive di monitoraggio della gravidanza e, proprio per la sua grande diffusione, rischia talvolta di essere applicata in maniera superficiale o incompleta, con conseguente possibilità di errore diagnostico. Per evitare questi errori e il contenzioso medico-legale che spesso ne deriva, è bene specificare che esistono diversi livelli di ecografia ostetrica, da quella più semplice e precoce, volta a rilevare semplicemente i principali parametri dello sviluppo fetale, quali la lunghezza e l’attività cardiaca, fino a quella più complessa, la cosiddetta ecografia morfologica, che si esegue in uno stadio più avanzato della gestazione e che permette di visualizzare molti dettagli anatomici del feto e quindi eventuali anomalie. Un ulteriore sviluppo è rappresentato dall’ecografia tridi- 07/02/14 15.53 466 Parte II • La genetica nella pratica clinica a. a. b. b. FIG. 32.1 (a) Ecografia fetale tridimensionale nel terzo trimestre di gravidanza. (b) Aumento della translucenza nucale (frecce) in un feto con sindrome di Down. (Per gentile concessione del Prof. G. Noia.) mensionale (Fig. 32.1a). Va tuttavia ricordato che fin dal primo trimestre l’ecografia ostetrica permette di rilevare aspetti morfologici di grande importanza per la diagnostica prenatale, quale, per esempio, l’aumento della translucenza nucale, indicatore di rischio aumentato che il feto sia affetto da sindrome di Down (Fig. 32.1b). Test predittivi I dati ecografici possono anche combinarsi con quelli biochimici del siero materno per andare a comporre i cosiddetti test predittivi non invasivi. Questi test predittivi sono nati diversi anni fa dall’osservazione casuale che bassi livelli di α-FP nel siero materno si correlano positivamente con la probabilità che il feto sia affetto da sindrome di Down o da altre patologie cromosomiche. Da allora, il test è stato notevolmente potenziato grazie a diversi accorgimenti, fino a raggiungere un elevato valore predittivo. Oltre all’α-FP vengono usualmente presi in considerazione i seguenti analiti del siero materno: gonadotropina corionica (hCG), subunità β dell’hCG (β-hCG), estriolo non coniugato (uE3), inibina A e plasma proteina A associata alla gravidanza (PAPP-A). In generale, i livelli di hCG, β-hCG e inibina A tendono a essere aumentati se il feto ha la sindrome di Down, mentre quelli di α-FP, uE3 e PAPP-A tendono a essere diminuiti. I valori ottenuti vanno tuttavia rigorosamente interpretati sulla base di una corretta stima dell’età gestazionale, in quanto i livelli normali degli analiti esaminati variano considerevolmente in funzione dell’epoca gestazionale. I valori di concentrazione degli analiti nel siero materno possono anche essere valutati individualmente come predittori di sindrome di Down, ma, generalmente, vengono usati in varie combinazioni. Per rendere fruibili i risultati di queste analisi, è necessario stabilire una precisa correlazione fra essi e il rischio che il feto sia affetto da una patologia cromosomica. Si parte da un rischio a priori, generalmente dipendente dall’età materna, e lo si corregge in più o in meno a seconda della concentrazione degli analiti nel siero materno. Per esempio, per una gestante di 25 anni, il cui rischio a priori di avere un bambino con sindrome di Down è pari a 1:1.500, il risultato del test predittivo potrebbe innalzare tale rischio a 1:100. Viceversa, per una gestante di 40 anni, il cui rischio a priori è di 1:100, il ch032_NERI_0465_0476.indd 466 risultato del test predittivo potrebbe ridurre questo rischio a 1:500. Una volta stabilite queste griglie, si potrà poi decidere arbitrariamente quale sia il livello di rischio che giustifichi il ricorso alla diagnosi prenatale invasiva. Generalmente, il cut-off viene posto intorno a un valore di rischio di 1:2001:250, che corrisponde grosso modo a quello (a priori) di una gestante di 35 anni. A titolo di esempio ci si riferirà brevemente soltanto ai test combinati maggiormente in uso, e cioè il bi-test del primo trimestre e il tri-test del secondo trimestre di gestazione. A 10 settimane di gestazione si esegue il bi-test, che combina PAPP-A e β-HCG, e ha una detection rate (potere di riconoscimento) della sindrome di Down intorno al 63%, includendo, tuttavia, un 5% di falsi positivi. La detection rate arriva quasi al 90% se al bi-test è associata la valutazione ecografica della translucenza nucale. Il tri-test (α-FP, β-hCG e uE3), eseguito nell’intervallo fra le 14 e le 18 settimane di gestazione, ha una detection rate più bassa, del 66% circa, sempre includendo un 5% di falsi positivi. Il valore dei test predittivi è indubbiamente quello di fornire un altro parametro di valutazione del rischio di avere un bambino con sindrome di Down, oltre quello tradizionale dell’età materna. Non si dimentichi che circa i 2/3 di bambini Down nascono da madri “giovani”, considerato che queste hanno in assoluto un numero di figli molto più alto rispetto alle madri “anziane”. Si ricordi anche, però, che i test predittivi vanno eseguiti con la massima accuratezza, in quanto piccole variazioni dei risultati possono comportare grandi differenze nella loro interpretazione, e che, soprattutto, debbono essere accompagnati da una consulenza esplicativa del loro significato, per evitare che probabilità e rischio diventino certezze, in positivo o in negativo, nella percezione di chi li riceve. Indicazioni Alla Diagnosi Prenatale La diagnosi prenatale di malattia genetica viene eseguita per libera scelta della gestante, purché ricorrano due condizioni: • la malattia che si intende diagnosticare deve essere identificabile in utero mediante un test specifico; • devono sussistere fattori di rischio genetico per la gravidanza di entità tale da giustificare un test prenatale invasivo, non privo di rischi per la gravidanza stessa. 07/02/14 15.53 Capitolo 32 • Diagnosi prenatale di malattia genetica La prima condizione è alquanto ovvia, essendo perfettamente inutile porsi il problema della diagnosi prenatale di una malattia genetica di cui non è nota la causa. La seconda condizione è più opinabile, in quanto contiene qualche elemento di arbitrarietà. È comunemente accettato che un rischio di patologia genetica fetale dello 0,5-1% giustifichi il ricorso alla diagnosi prenatale. Tale rischio si realizza, per esempio, rispetto alle patologie cromosomiche, quando la gestante ha 35 anni, e questo è il motivo per il quale presso i centri pubblici di diagnostica prenatale non si accettano richieste di gestanti di età inferiore ai 35 anni, fatte salve altre indicazioni. Questo avviene in osservanza di una precisa direttiva a suo tempo emanata dal Ministero della Salute, direttiva che però non è vincolante per i centri privati, che non solo accettano richieste di diagnosi prenatale da parte di gestanti di qualsiasi età, ma offrono, in aggiunta alla diagnosi citogenetica, un pacchetto di altre diagnosi (per esempio, distrofia muscolare di Duchenne, fibrosi cistica, sindrome del cromosoma X fragile), benché la gestante non sia a rischio per tali patologie, o meglio non sia esposta a un rischio superiore a quello della popolazione generale. Questo fa sì che la diagnosi prenatale si stia largamente diffondendo a gravidanze per le quali non sussistono rischi genetici particolari e per la cui esecuzione non vi sono specifiche indicazioni. Le indicazioni canoniche alla diagnosi prenatale sono quelle elencate di seguito: • età materna avanzata (≥35 anni). Il rischio per queste gestanti di avere un figlio affetto da patologia cromosomica varia all’incirca tra lo 0,5 e il 5%, in relazione all’età; • precedente figlio con patologia cromosomica. Il rischio di ricorrenza della stessa o di un’altra patologia cromosomica in successivi figli è empiricamente stimato intorno all’1%, sempre che a questo non si sommi anche il rischio per età materna avanzata; • presenza in uno dei genitori di un riarrangiamento cromosomico bilanciato, come una traslocazione robertsoniana o una traslocazione reciproca. Benché il rischio per queste coppie di avere un figlio portatore di uno sbilanciamento cromosomico, risultante da una sfavorevole segregazione meiotica dei cromosomi traslocati, sia sicuramente aumentato, non è tuttavia facile da quantificare. Nel caso di traslocazione robertsoniana 14;21, che predispone ad avere un figlio con trisomia 21, il rischio è del 2% circa, se il portatore della traslocazione è il padre, e del 10-15%, se portatrice è la madre. Nel caso, invece, di una traslocazione reciproca, è necessario fare una valutazione caso per caso. In media, il rischio di un neonato con sbilanciamento cromosomico dovrebbe essere intorno al 5%. Si consideri, comunque, che il rischio empiricamente osservato è sempre largamente inferiore a quello teoricamente atteso, perché la maggior parte dei feti con sbilanciamento cromosomico va incontro ad aborto spontaneo (Capitolo 15); • genitori portatori di una mutazione responsabile di una malattia autosomica recessiva (per esempio, β-talassemia, fibrosi cistica, sindrome di Hurler ecc.) o madre portatrice eterozigote di una mutazione responsabile di una malattia legata al cromosoma X (per esempio, distrofia muscolare di Duchenne, sindrome del cromosoma X fragile, sindrome di Hunter ecc.). In questi casi, il rischio di avere figli affetti ch032_NERI_0465_0476.indd 467 467 dalla specifica condizione genetica di cui i genitori o la madre sono portatori sani è pari al 25%; • genitore portatore di una mutazione causa di malattia dominante. Il rischio per lo zigote di ereditare la mutazione è del 50%. Il rischio di manifestare la corrispondente malattia potrebbe essere inferiore, se quella specifica mutazione ha un difetto di penetranza. Si ricordi, inoltre, che le mutazioni dominanti sono spesso causa di patologie a esordio tardivo e che non comportano ritardo mentale, come per esempio i tumori ereditari della mammella e del colon, il che pone seri problemi circa l’eticità di una diagnosi prenatale per questi casi; • precedente figlio con difetto di chiusura del tubo neurale (anencefalia, encefalocele, spina bifida). Il rischio di ricorrenza in questo caso è del 3% circa, anche se varia a seconda del sesso e dell’etnia, e anche se può essere significativamente abbattuto dall’assunzione di acido folico da parte della madre fin da prima del concepimento. La diagnosi prenatale di difetti di chiusura del tubo neurale si basa sul riscontro di livelli aumentati di α-FP nel liquido amniotico. Questa diagnosi invasiva è tuttavia sempre più spesso surrogata da una diagnosi non invasiva ecografica; • aumento del rischio di sindrome di Down al di sopra di un valore soglia generalmente fissato intorno a 1:250, per effetto della positività di uno o più test predittivi (per esempio, bi-test, tri-test, translucenza nucale); • malformazioni fetali e/o ritardo di crescita intrauterino, rilevati ecograficamente, che comportano un rischio di anomalia genomica, come causa di tali difetti, intorno al 6% secondo stime recenti. Queste indicazioni sono riportate sinteticamente nella Tab. 32.1. Una volta stabilita l’esistenza di una o più di queste indicazioni, le conseguenti analisi possono essere compiute su cellule fetali o placentari prelevate con una qualsiasi delle tecniche illustrate di seguito. Fanno eccezione i casi in cui si voglia analizzare il liquido amniotico vero e proprio e non la sua componente cellulare, per esempio per il dosaggio dell’α-FP, se vi è il sospetto di un difetto di chiusura del tubo neurale, come già accennato, o per il dosaggio di 17-OH-progesterone, in una gravidanza a rischio di sindrome adrenogenitale. In questi casi bisogna ricorrere necessariamente all’amniocentesi. Nei casi, invece, in cui l’indicazione alla diagnosi prenatale venga posta tardivamente, per esempio per il riscontro ecografico di malformazioni fetali, o per verificare la consistenza di un mosaicismo cromosomico precedentemente osservato su cellule amniotiche, si preferisce ricorrere alla funicolocentesi, in quanto l’analisi cromosomica su leucociti è più rapida di quella su amniociti. Tecniche Di Prelievo Di Materiale Fetale Villocentesi La villocentesi è la tecnica che permette il prelievo più precoce di materiale placentare, intorno a 10-11 settimane dalla data 07/02/14 15.53 468 Parte II • La genetica nella pratica clinica Tab. 32.1 Principali indicazioni alla diagnosi prenatale Indicazione Materiale da analizzare Tipo di analisi Età materna ≥35 anni Cellule del trofoblasto o cellule amniotiche Esame cromosomico Precedente figlio con anomalia cromosomica Cellule del trofoblasto o cellule amniotiche Esame cromosomico ed eventualmente FISH o array-CGH Anomalia cromosomica in un genitore Cellule del trofoblasto o cellule amniotiche Esame cromosomico Test predittivo alterato Cellule del trofoblasto o cellule amniotiche Esame cromosomico Diagnosi ecografica di malformazione fetale Cellule amniotiche o linfociti di sangue di cordone Esame cromosomico e array-CGH Malattie mendeliane Cellule del trofoblasto o cellule amniotiche Esame del DNA peratore. Orientativamente si può ritenere che il rischio di perdita fetale dopo villocentesi sia dell’ordine dell’1-2%. Va infine ricordato che è stata segnalata l’esistenza di una correlazione tra villocentesi effettuata prima dell’ottava settimana di gestazione e presenza alla nascita di difetti trasversi degli arti (Fig. 32.2) e, in alcuni casi, ipogenesi oro-mandibolare. Molto verosimilmente questo effetto è da attribuire a necrosi vascolare in un’epoca in cui la morfogenesi fetale si è appena completata. Benché il rischio di queste complicanze sia molto contenuto, è raccomandabile che la villocentesi non venga eseguita prima di 10 settimane di gestazione. Amniocentesi FIG. 32.2 Difetto in riduzione del terzo, quarto e quinto dito della mano sinistra in un neonato la cui madre aveva eseguito una villocentesi alla decima settimana di gestazione. dell’ultima mestruazione. Nota anche come biopsia coriale (CVS, Chorionic Villous Sampling), consiste nel prelievo di villi coriali dal chorion frondosum. Inizialmente, veniva praticata per mezzo di una cannula flessibile introdotta per via transvaginale, mentre oggi si preferisce la via transaddominale, che riduce notevolmente il rischio di complicanze infettive, quali l’amniotite. Il prelievo transaddominale si esegue con un ago rigido introdotto sotto controllo ecografico, munito di una siringa con impugnatura per agoaspirazione. Di norma vengono prelevati dai 20 ai 40 mg di tessuto. Come le altre procedure invasive che verranno illustrate di seguito, la villocentesi può avere delle complicanze quali piccole perdite ematiche, perdita di liquido amniotico, infezioni e, soprattutto, interruzione della gravidanza. La stima del rischio di aborto conseguente a villocentesi è stata oggetto di numerosi studi e di altrettante controversie. Effettivamente, stime inequivocabili non sono facili da ottenere sia perché risulta arduo distinguere fra abortività spontanea e abortività indotta dal trauma della villocentesi, sia perché quest’ultima tende a variare a seconda dell’abilità e dell’esperienza dell’o- ch032_NERI_0465_0476.indd 468 Fra le tecniche di prelievo di materiale fetale l’amniocentesi è di gran lunga la più praticata. Si esegue di norma alla sedicesima settimana di gestazione, contando dal primo giorno dell’ultima mestruazione. Consiste nel prelievo di 15-20 mL di liquido amniotico mediante una siringa il cui ago viene inserito nella cavità uterina attraverso la parete addominale, sotto controllo ecografico. A differenza della villocentesi, l’amniocentesi permette la raccolta di cellule fetali, e non annessiali, nonché di liquido amniotico, su cui possono essere condotti vari test biochimici (per esempio, la misurazione dell’α-FP) e microbiologici, in caso di sospetta infezione materno-fetale (per esempio, toxoplasmosi, rosolia, infezione da citomegalovirus). Le complicanze dell’amniocentesi, molto rare, possono essere l’amniotite, la perdita di liquido amniotico, il travaglio prematuro, l’emorragia placentare. Queste evenienze sono legate alla traumaticità del prelievo, a insufficiente sterilità ambientale, a eventuali inserzioni multiple dell’ago per inesperienza dell’operatore e possono portare all’aborto in una piccola percentuale di casi, generalmente stimata fra lo 0,5 e l’1%. Cordocentesi La cordocentesi o funicolocentesi consiste nel prelievo di sangue fetale dal cordone ombelicale. Non si esegue generalmente prima della ventesima settimana di gestazione. 07/02/14 15.53 Capitolo 32 • Diagnosi prenatale di malattia genetica La tecnica è sostanzialmente sovrapponibile a quella dell’amniocentesi. Il prelievo viene praticato per via transaddominale, sotto guida ecografica, utilizzando un ago sottile e una piccola siringa eparinata. Di norma viene effettuato dalla vena ombelicale, introducendo l’ago in prossimità della sua inserzione placentare, cioè in un punto in cui il cordone non è fluttuante. Le complicanze della cordocentesi comprendono l’emorragia nel sito della puntura, la bradicardia fetale, la trombosi della vena ombelicale, la formazione di un ematoma nel cordone ombelicale. Il rischio di perdita fetale viene stimato intorno all’1-2%, e molto dipende dall’abilità e dall’esperienza dell’operatore. Inoltre, va ricordato che esiste sempre l’eventualità di una contaminazione del campione di sangue fetale con sangue materno, eventualità che va esclusa sottoponendo il campione prelevato a opportuni controlli di qualità. Analisi Del Materiale Prelevato E Risultati Una volta ottenuto il materiale fetale, lo si esamina con diverse tecniche a seconda delle indicazioni (Fig. 32.3). 469 Analisi citogenetiche (esame cromosomico) L’esame di gran lunga più praticato in diagnostica prenatale è quello cromosomico. Un cariotipo standard con bandeggio G, a un livello di risoluzione di 300-400 bande, viene generalmente considerato adeguato, a meno che non vi siano indicazioni particolari che richiedano accertamenti più approfonditi. Se il materiale prelevato è costituito da villi coriali, l’esame cromosomico può essere praticato direttamente sul materiale appena prelevato, in quanto contiene numerose cellule in divisione spontanea, oppure indirettamente dopo coltura in vitro. Nel caso di cellule amniotiche, queste dovranno essere necessariamente mantenute in coltura per un periodo di 10-12 giorni prima di essere sottoposte ad analisi cromosomica. Nel caso di sangue fetale, la coltura in vitro si limita a un periodo di 48-72 ore. I risultati ottenuti sono di solito di facile interpretazione, siano essi normali, come accade almeno nel 95% dei casi esaminati, oppure patologici. Vi sono tuttavia casi in cui si richiede un particolare impegno interpretativo e/o la necessità di ricorrere a tecniche analitiche specificamente indicate per il caso in esame. Estrazione del DNA Prelievo Coltura in vitro 3 2 1 7 8 13 14 15 19 20 6 5 4 9 10 16 21 22 Analisi del cariotipo 11 12 17 X 18 Y Analisi del DNA FIG. 32.3 Rappresentazione schematica dell’intera procedura di diagnosi prenatale, che include il prelievo di materiale fetale, la coltura delle cellule fetali e le successive analisi citogenetiche o molecolari. ch032_NERI_0465_0476.indd 469 07/02/14 15.53 470 Parte II • La genetica nella pratica clinica Casi particolari Un riscontro relativamente comune è quello del mosaicismo cromosomico, ossia della contemporanea presenza nella stessa coltura di cellule con diverso cariotipo. Il mosaicismo può essere reale, oppure può essere un artefatto insorto durante la coltura in vitro (pseudomosaicismo). Vi sono criteri di laboratorio per distinguere un caso dall’altro. Lo pseudomosaicismo, quando accertato, viene considerato privo di conseguenze, mentre il mosaicismo vero può avere conseguenze fenotipiche, peraltro difficili da prevedere nella loro entità. In questi casi, è possibile ottenere ulteriori informazioni dall’esame di un secondo tessuto fetale, per esempio il sangue del cordone ombelicale. L’interpretazione del mosaicismo può presentare particolari difficoltà quando viene riscontrato all’esame dei villi coriali, in quanto potrebbe rappresentare un mosaicismo confinato alla placenta, senza interessamento del feto. Infatti, benché feto e annessi derivino dallo stesso zigote, possono stabilirsi fra loro delle differenze cariotipiche dopo la separazione della linea degli annessi da quella dell’embrione proprio. Queste differenze, conseguenti a errori post-zigotici (mitotici) nella segregazione dei cromosomi, sono ben documentate da studi approfonditi condotti su placente. Paradigmatico è il caso dello zigote portatore di trisomia del cromosoma 15 (da non disgiunzione meiotica in uno dei genitori), che persiste nella placenta mentre scompare nell’embrione per perdita di uno dei tre cromosomi 15 (salvataggio dell’embrione). In un tale caso un’analisi citogenetica sui villi coriali (placenta) metterebbe in evidenza una trisomia 15 (completa o a mosaico), mentre un successivo esame delle cellule amniotiche (feto) dimostrerebbe la presenza di un cariotipo normale. Tale riscontro, mentre comprova l’avvenuto salvataggio dell’embrione, non esaurisce tuttavia il caso, in quanto la perdita di uno dei tre cromosomi 15 originariamente presenti nello zigote potrebbe aver generato nel feto una disomia uniparentale. Si supponga, per esempio, che l’originaria trisomia 15 sia da non disgiunzione materna: in tal caso, se il salvataggio dell’embrione avviene in seguito a perdita del cromosoma 15 paterno, si verrà a determinare una disomia uniparentale materna per il cromosoma 15, con conseguente sindrome di Prader-Willi nel feto (Capitolo 16). Un altro evento non raro è il riscontro della presenza di un cromosoma marcatore soprannumerario, di solito di piccole dimensioni. In questi casi la prima cosa da fare è stabilire se il marcatore sia presente anche in uno dei genitori, in quanto ciò costituirebbe una forte evidenza a favore della sua innocuità. Se, viceversa, il marcatore è presente de novo nel feto, deve essere fatto ogni sforzo per determinarne l’origine e la composizione. Da ciò, infatti, dipenderà il giudizio finale sulla sua innocuità o meno. Il bandeggio cromosomico tradizionale non è sufficiente per risolvere questi casi, per cui è necessario fare ricorso a tecniche citogenetico-molecolari tipo FISH, con painting cromosomico e/o fluorescenza sito-specifica (Fig. 32.4). Un caso analogo è rappresentato dall’accertamento prenatale di una traslocazione cromosomica reciproca apparentemente bilanciata. Anche qui, in prima istanza, si dovrà stabilire se il riarrangiamento cromosomico osservato sia stato trasmesso da uno dei genitori, che sarebbe dunque per ch032_NERI_0465_0476.indd 470 definizione un portatore sano, oppure se sia insorto de novo. In questo secondo caso, ben difficilmente si potrà escludere con certezza il rischio che si sia determinato uno sbilanciamento cromosomico criptico, potenzialmente associato a un fenotipo patologico. Questo rischio viene empiricamente valutato intorno al 10%. Di tale entità è infatti il riscontro di traslocazioni cromosomiche de novo apparentemente bilanciate in soggetti con quadri sindromici di disabilità intellettiva e anomalie congenite multiple. Allo studio dei marcatori, specie se molto piccoli, e delle traslocazioni apparentemente bilanciate insorte de novo viene oggi in aiuto la tecnica di analisi genomica array-CGH (Capitolo 5), che permette di identificare delezioni o duplicazioni anche di poche kb. Tali piccoli sbilanciamenti possono essere la causa del fenotipo patologico che talvolta si osserva nei portatori di traslocazioni apparentemente bilanciate. È in corso fra gli esperti un dibattito se sia opportuno o meno introdurre nella diagnostica prenatale la tecnica array-CGH non solo per lo studio di casi particolarmente difficili, ma anche come strumento di impiego routinario. Benché si registrino in proposito opinioni differenti, va tuttavia sottolineato il fatto che la stessa array-CGH può generare risultati di difficile interpretazione in quanto non riconosce soltanto le anomalie patogenetiche, ma anche un alto numero di “varianti” polimorfiche che non hanno alcuna conseguenza sul fenotipo. Al momento, le Società scientifiche, e fra esse la Società Italiana di Genetica Umana (SIGU), ritengono che l’applicazione della tecnica array-CGH in diagnostica prenatale vada riservata, oltre che ai casi sopra esposti, ai casi in cui vi sia evidenza ecografica di anomalie dello sviluppo fetale, come, per esempio, ritardo di accrescimento o presenza di malformazioni. Questi casi particolari andranno, comunque, sempre valutati singolarmente, in quanto la presenza di specifiche malformazioni potrebbe anche indirizzare le indagini prenatali verso la ricerca di mutazioni di singoli geni o di singole regioni cromosomiche. Analisi molecolari (esame del DNA) Queste analisi, specificamente eseguite in gravidanze a rischio di patologie monogeniche a ereditarietà mendeliana, non presentano di norma particolari difficoltà interpretative se la mutazione (o le mutazioni) da accertare è previamente nota. In caso contrario, possono effettivamente insorgere difficoltà di diagnosi. Un caso esemplificativo servirà a chiarire meglio il concetto. A gravidanza già iniziata, una coppia viene a sapere che il nipote della donna, figlio di un fratello, è stato trovato affetto da fibrosi cistica. Le analisi molecolari hanno stabilito che il bambino è omozigote per la mutazione F508del a carico del gene CFTR (Capitolo 29). La coppia esegue le medesime analisi, dalle quali risulta che la donna è eterozigote per la stessa mutazione presente nel nipote. Viceversa, nel marito non si riscontra alcuna mutazione, almeno fra le circa 60 che vengono di norma testate, in quanto più frequenti nella popolazione di riferimento. Ciò riduce notevolmente il rischio che la coppia possa avere un figlio affetto da fibrosi cistica, ma non lo annulla del tutto, in quanto il numero di mutazioni note a carico del gene CFTR è superiore a 1.000 e dunque il 07/02/14 15.53 471 Capitolo 32 • Diagnosi prenatale di malattia genetica a. b. NOR d. c. Bandeggio C FIG. 32.4 Accertamento prenatale di un cromosoma marcatore soprannumerario. Il marcatore, indicato dalla freccia, presenta due regioni NOR-positive alle estremità (a). Si possono riconoscere due centromeri (b). Il painting cromosomico dimostra che il marcatore è derivato dal cromosoma 22 (oltre al marcatore si colorano infatti entrambi i cromosomi 22 normali) (c). Il cromosoma marcatore è ulteriormente caratterizzato con una sonda locus-specifica che dimostra assenza di segnale (d). marito potrebbe essere eterozigote per una mutazione non compresa fra le 60 analizzate. Nel caso in cui la coppia decidesse comunque di fare ricorso alla diagnosi prenatale, si potrebbero configurare due diversi scenari. Potrebbe accadere che il feto non abbia ereditato dalla madre portatrice la mutazione F508del e questo escluderebbe che possa essere affetto da fibrosi cistica. Oppure, il feto potrebbe risultare portatore eterozigote come la madre e ciò comporterebbe un rischio residuo, benché piccolo, che sia affetto da fibrosi cistica, in quanto non si può categoricamente escludere che abbia ereditato dal padre una mutazione sconosciuta e che, quindi, sia un eterozigote composto per due diverse mutazioni. Consulenza Genetica In Diagnostica Prenatale Uno degli aspetti essenziali, e purtroppo talvolta trascurati, della diagnosi prenatale è quello della consulenza genetica, che si può schematicamente suddividere in due momenti, uno che precede e l’altro che segue l’esecuzione della diagnosi. Nella consulenza iniziale il consulente genetista deve: • verificare che la situazione presentata dai richiedenti corrisponda a una patologia diagnosticabile in utero; ch032_NERI_0465_0476.indd 471 • verificare che l’entità del rischio genetico effettivamente sussistente sia tale da giustificare il ricorso a una diagnosi prenatale invasiva; • informare in maniera esauriente i richiedenti circa le possibilità e i limiti, i benefici e i rischi di una diagnosi prenatale in modo che essi, resi edotti, possano esprimere un consenso libero e informato all’esecuzione della medesima. Il consenso informato è un atto dovuto, estremamente importante ai fini della tutela sia di coloro che richiedono la diagnosi prenatale, sia degli operatori sanitari che concorrono a eseguirla. Deve pertanto essere espresso in forma scritta utilizzando moduli strutturati nei quali siano indicati, oltre ai nomi dei richiedenti e ai motivi della richiesta, i test genetici che verranno eseguiti, il significato e i limiti dei risultati di tali test, nonché i rischi connessi (abortività, possibilità di ripetizione del prelievo, eventualità di diagnosi dubbia o errata). A garanzia della libertà di scelta dei richiedenti, il consulente genetista dovrà esprimersi, nel fornire tutte le informazioni utili, in maniera non direttiva, pur assicurando ai richiedenti, che talvolta vivono l’esperienza della diagnosi prenatale come un momento di dubbi e angosce, la propria piena solidarietà, ovviamente nei limiti dell’etica professionale e nel rispetto delle proprie convinzioni morali. 07/02/14 15.53 472 Parte II • La genetica nella pratica clinica La consulenza che segue l’esecuzione della diagnosi è, o può essere, altrettanto, se non più importante. Nei casi in cui il risultato sia normale, e fortunatamente sono la maggioranza, la comunicazione ai richiedenti è molto semplice e non necessita di particolari commenti. Nei rari casi in cui venga diagnosticata una patologia fetale curabile, le opzioni terapeutiche dovranno essere illustrate, discusse e pianificate in anticipo (Box 32.1). Se, viceversa, il risultato è patologico e non ci sono cure possibili, il consulente genetista deve impegnarsi a fondo per darne una chiara, esauriente e comprensibile descrizione. Nessuna conoscenza deve essere data per scontata, anche in un caso relativamente “semplice”, come, per esempio, quello di diagnosi prenatale di sindrome di Down. Non tutti, infatti, sanno che cosa sia la sindrome di Down, quali ne siano le principali caratteristiche, quali conseguenze ne derivino. Ancora più complessi da illustrare sono i casi di sindrome di Turner o di sindrome di Klinefelter, che i richiedenti, di regola, non hanno mai sentito nemmeno nominare, sindromi che, generalmente, non comportano disabilità intellettiva, ma causano sterilità, ossia un danno limitato (Capitolo 15). La complessità di queste consulenze deriva, da una parte, dall’oggettiva difficoltà di delineare e descrivere in termini comprensibili il quadro sindromico e, dall’altra, dallo stato emotivo dei richiedenti, che mal si concilia con una valutazione obiettiva delle informazioni ricevute. La più penosa delle circostanze è certamente quella in cui, a fronte di una diagnosi patologica ben caratterizzata sul piano dell’analisi di laboratorio, non si riesce a esprimere una previsione di quelle che potranno essere le conseguenze fenotipiche del difetto genetico riscontrato. Ciò si verifica spesso nel caso dei marcatori cromosomici, che possono risultare ben caratterizzati sul piano citogenetico e molecolare, ma di cui può essere molto difficile, se non impossibile, prevedere le conseguenze quanto al fenotipo clinico (Box 32.2). In questi casi si mette a nudo uno dei grandi limiti della diagnosi prenatale di malattia genetica, quello cioè di essere una diagnosi fatta in virtuale assenza del paziente. Il feto non è visibile, salvo che indirettamente attraverso le immagini ecografiche, non è possibile visitarlo, tanto meno valutarne il grado di intelligenza. Per questo e per altri limiti intrinseci, la diagnosi prenatale è uno strumento diagnostico che va usato da operatori esperti, il cui ruolo è sempre difficile e delicato. Il genetista clinico chiamato in causa tende a considerarsi separato dal processo decisionale che può portare i genitori a interrompere la gravidanza di un feto con un difetto genetico, in quanto la consulenza genetica, come si ricordava prima, è per definizione non direttiva. Ciò non toglie che possa, e debba, manifestare tutta la sua simpatia e solidarietà ai genitori, sulle cui spalle grava il peso di una decisione difficile e drammatica. In ogni caso, il genetista deve ricordare sempre che la sua missione di medico è quella di curare, e possibilmente di guarire, i propri pazienti e che in diagnostica prenatale i pazienti non sono solo i genitori, in particolare la madre, ma anche, e in uguale misura, il feto. È dunque dovere del genetista illustrare ai genitori di un feto affetto tutte le misure che, per quanto non risolutive, possono essere adottate per migliorare le condizioni di vita del piccolo paziente. Diagnosi Genetica Preimpianto Il termine stesso dice che si tratta di una diagnosi di malattia genetica eseguita prima dell’impianto dell’embrione in utero. È un’acquisizione più recente rispetto alla diagnosi prenatale classica e tuttora di uso assai più limitato. È stata resa possibile dallo sviluppo, da un lato, delle tecniche di fecondazione in vitro e, dall’altro, di quelle di PCR e FISH, che consentono di condurre analisi citogenetiche e molecolari anche su singole cellule. Le prime applicazioni furono riservate a coppie a rischio per malattie mendeliane recessive, sia autosomiche (per esempio, fibrosi cistica o β-talassemia) sia legate al cromosoma X (per esempio, distrofia muscolare di Duchenne), il che consentiva di testare non necessariamente l’embrione, ma piuttosto il primo e/o il secondo corpo polare, estratti dall’ovocita postmeiotico. È intuitivo che a un corpo polare contenente la mutazione oggetto della diagnosi debba corrispondere un ovocita che non la contiene (“sano”) e viceversa. È soprattutto l’analisi del secondo corpo polare a essere dirimente, in quanto BOX 32.1 CHE COSA FARE IN PRESENZA DI UNA PATOLOGIA FETALE PER LA QUALE ESISTE UN TRATTAMENTO? Se la diagnosi prenatale porta all’accertamento nel feto di una malattia genetica, i genitori vengono di norma a trovarsi di fronte all’angoscioso e drammatico dilemma se accettare un figlio che avrà qualche forma di disabilità o interrompere volontariamente la gravidanza, come la legge 194 consente di fare se c’è grave pericolo per la salute della madre, riferendosi in questo caso alla salute psichica, a fronte della prospettiva di avere un figlio disabile. Una terza via, cioè quella di curare efficacemente il feto affetto, è data solo molto raramente. L’esempio che di solito si porta a tale proposito è quello della sindrome adrenogenitale, un disordine dello sviluppo sessuale a ereditarietà autosomica recessiva, dovuto a mutazione del gene CYP21 che codifica l’enzima 21-idrossilasi, inserito nella via biosintetica degli ormoni mineralcorticoidi (aldosterone) e glicocorticoidi (cortisolo). La sua carenza provoca un accumulo di precursori che vengono conver- ch032_NERI_0465_0476.indd 472 titi in testosterone, il cui eccesso è responsabile di virilizzazione se il feto affetto è femmina. La sindrome adrenogenitale viene trattata con cortisonici, che inibiscono l’increzione di ACTH e di conseguenza l’attività steroidogenica del surrene. In caso di gravidanza a rischio, si può anticipare il trattamento cortisonico all’epoca prenatale, procedendo secondo il seguente protocollo: non appena si abbia un test di gravidanza positivo, si dà inizio al trattamento con desametasone (somministrato alla madre). A 10 settimane una villocentesi consentirà di stabilire il sesso del feto: se è maschio, il trattamento viene interrotto, mentre se è femmina il trattamento continua. Intanto si completa l’analisi mutazionale di CYP21: se dimostra che il feto è sano, il trattamento viene sospeso, mentre se è affetto continua, prevenendo così la formazione di genitali esterni ambigui (per una trattazione più ampia vedi Capitolo 31). 07/02/14 15.53 Capitolo 32 • Diagnosi prenatale di malattia genetica 473 BOX 32.2 UN CASO COMPLESSO DI DIAGNOSI PRENATALE C.A. è una signora di 37 anni che richiede una diagnosi citogenetica prenatale a causa della sua età relativamente avanzata. A una consulenza preliminare non emergono elementi anamnestici, né personali né familiari, di particolare significato. La precedente storia gravidica include un aborto spontaneo nel primo trimestre di gestazione e due gravidanze a termine con nascita di figli sani. Viene dunque fissata la data dell’amniocentesi a 16 settimane dall’inizio dell’ultima mestruazione e, in preparazione a essa, la paziente viene invitata a eseguire alcune analisi, fra cui la determinazione del gruppo sanguigno e del fattore Rh, test sierologici per HCV e HIV. Le viene inoltre fornita una prescrizione per l’assunzione di farmaci tocolitici nell’imminenza dell’amniocentesi. Questo primo incontro si conclude con la sottoscrizione da parte della paziente del modulo di consenso informato all’esecuzione dell’amniocentesi e della conseguente diagnosi prenatale. La paziente è dunque informata dell’eventualità che possano emergere problemi nella fase di esecuzione del procedimento diagnostico o in quella di interpretazione dei risultati ottenuti. Fatta l’amniocentesi come programmato e completato l’esame cromosomico standard dopo 12 giorni di coltura delle cellule amniotiche, risulta un cariotipo 47,XX,+mar, in mosaico. Ci si trova dunque in presenza di un piccolo cromosoma marcatore di origine sconosciuta. Entrambi i genitori vengono immediatamente invitati a sottoporsi a un esame cromosomico per accertare se il marcatore del feto sia ereditato da uno dei genitori, il che deporrebbe per la sua innocuità, o sia invece insorto de novo. scongiura errori di interpretazione dei risultati che possono derivare da un crossing-over alla prima meiosi. Anche a causa di questi problemi di interpretazione si va oggi sempre più affermando la tecnica di analisi mutazionale di singoli blastomeri ottenuti mediante microbiopsia da embrioni di 8-12 cellule, ormai sperimentata in alcune migliaia di casi (Fig. 32.5). Dall’esperienza finora raccolta, l’embrione non sembra risentire della biopsia e il suo sviluppo successivo non sembrerebbe differire da quello di embrioni che non hanno subìto questo trattamento, anche se mancano riscontri a lungo termine, relativi a problemi che possano eventualmente presentarsi più tardivamente, nel corso della vita adulta. Si deve, in ogni caso, porre grande attenzione per evitare risultati falsi positivi o falsi negativi, a causa dei limiti della PCR, che in alcuni casi può portare all’amplificazione di un solo allele e non di entrambi (allele dropout) simulando omozigosi, per esempio, dell’allele mutante, mentre in realtà l’embrione è eterozigote sano. Vi sono degli accorgimenti per evitare questi risultati spuri, per esempio ricorrendo a PCR multiplex e all’amplificazione di marcatori fiancheggianti il gene in questione, ma non vi è dubbio che si debba operare con grande cautela e competenza. L’introduzione della tecnica FISH ha consentito l’accertamento di anomalie cromosomiche anche su singole cellule e quindi l’estensione della diagnosi preimpianto anche ad alcune patologie cromosomiche. Le sonde centromeriche consentono di contare nel nucleo interfasico di un singolo ch032_NERI_0465_0476.indd 473 Questo ulteriore accertamento, che si conclude in 4-5 giorni, indica che il cromosoma marcatore è de novo. Se ne deve dunque accertare l’origine e la composizione, sia con diversi metodi di colorazione, quali bandeggio C e NOR, sia soprattutto con tecniche FISH che si avvalgono di specifiche sonde fluorescenti (vedi Fig. 32.4). Il corretto uso di questi strumenti di indagine permette di giungere alla conclusione che il piccolo cromosoma marcatore è un isocromosoma derivato dal cromosoma 22 e consiste precisamente in una doppia copia del braccio corto, del centromero e di parte del braccio lungo. Si è dunque in presenza di una tetrasomia parziale del cromosoma 22, una condizione citogenetica per la prima volta osservata in pazienti con sindrome “cat eye”, una condizione caratterizzata da malformazioni multiple, fra cui imperforazione anale, coloboma dell’iride (occhio di gatto) e disabilità intellettiva (Capitolo 15). Successivamente, l’ampliamento della casistica ha mostrato che la sindrome “cat eye” può manifestarsi anche in forma molto più lieve, fino a sfumare in un fenotipo normale. In conclusione, si può affermare che un caso non facile è stato risolto brillantemente sotto il profilo citogenetico, essendosi ottenuto un risultato chiaro e inequivocabile. Purtroppo, a questa chiarezza non corrisponde una certezza clinica, in quanto il dato citogenetico non consente di fare una prognosi su quello che sarà il fenotipo, se più o meno gravemente affetto, o se non addirittura normale. Il rilievo ecografico potrà apportare qualche ulteriore elemento, ma non sarà mai del tutto dirimente. blastomero i cromosomi le cui alterazioni numeriche possono risultare in aneuploidie compatibili con la vita (cromosomi 13, 18, 21, X e Y) (Fig. 32.6). Ovviamente, questo tipo di analisi non consente di riconoscere mosaicismi già presenti nell’embrione precoce o destinati a insorgere nelle fasi immediatamente successive del suo sviluppo. Inoltre, occorre ricordare che in questa fase iniziale dello sviluppo la proporzione di embrioni aneuploidi è ancora molto elevata, almeno del 50%, visto che il filtro naturale che elimina la maggior parte di tali embrioni opera di norma nella fase di postimpianto. Questo porta a una considerazione circa la diagnosi preimpianto che ha una valenza etica non trascurabile. Mentre viene di norma presentata come un mezzo per evitare il trauma dell’interruzione di gravidanza nel caso di diagnosi prenatale di un feto affetto, la diagnosi preimpianto è di fatto un mezzo di selezione degli embrioni che offre il fianco a potenziali gravi abusi. La dettagliata conoscenza del genoma umano già consente, e ancor più consentirà nel futuro, di selezionare gli embrioni non solo in quanto esenti da mutazioni patogenetiche, ma in quanto portatori di caratteristiche genetiche positive, o almeno considerate tali dai genitori o dalla cultura prevalente. In realtà, abusi di questo genere vengono già oggi praticati, anche se dichiaratamente a fin di bene. È il caso della selezione embrionale per garantire la nascita di un bambino che abbia caratteristiche di istocompatibilità con un fratello affetto da una malattia il cui trattamento richiede una donazione di organi o tessuti. 07/02/14 15.53 474 Parte II • La genetica nella pratica clinica a. b. FIG. 32.6 Nel nucleo di un blastomero la tecnica FISH permette di riconoscere due cromosomi X (segnali verdi) e tre cromosomi 21 (segnali rossi). c. zione all’interno dell’ovulo di un singolo spermatozoo (vedi Fig. 32.5), per evitare che il DNA di spermatozoi in eccesso, rimasti adesi ai blastomeri dopo le prime segmentazioni dello zigote, vada a falsare i risultati. Osservazioni recenti hanno dimostrato che le tecniche di procreazione medicalmente assistita comportano un aumento di rischio di difetti congeniti, limitato ma comunque misurabile. In particolare, è stato segnalato che fra i nati da fecondazione in vitro con la tecnica ICSI vi è maggiore incidenza di sindromi da difetto dell’imprinting genomico, in particolare della sindrome di BeckwithWiedemann e della sindrome di Angelman (Capitolo 16). Al di là di singole situazioni, vale comunque la pena di ricordare che la diagnosi prenatale, quella preimpianto e le connesse tecniche di procreazione medicalmente assistita costituiscono nel loro insieme un’area fortemente problematica sul piano etico, terreno di scontro per controversie anche politiche, nella quale il medico deve sapersi muovere nel rispetto dei principi dell’etica professionale e dell’interesse dei pazienti, nati e non nati. Sviluppi futuri: La diagnosi prenatale non invasiva FIG. 32.5 (a) Fecondazione in vitro mediante ICSI. (b) Embrione di 8 cellule. (c) Biopsia di un blastomero. Un’ultima annotazione, prima di concludere, riguarda possibili rischi connessi alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, necessaria premessa alla diagnosi preimpianto. Se questa riguarda una malattia monogenica, e quindi richiede l’esecuzione di un’analisi mutazionale mediante PCR, è necessario realizzare la fecondazione in vitro con la tecnica ICSI (Intra-Cytoplasmic Sperm Injection), che consiste nell’inie- ch032_NERI_0465_0476.indd 474 È noto dal 1997 che nel sangue di una donna gravida è presente DNA fetale, la cui fonte principale è il trofoblasto, che rilascia nel circolo materno acidi nucleici sotto forma di microparticelle che proteggono il DNA dall’azione delle nucleasi plasmatiche. Negli ultimi anni il DNA fetale circolante nel sangue materno è stato sottoposto a intensa e dettagliata analisi, volta a realizzare diagnosi prenatali non invasive. Un’applicazione ormai consolidata riguarda la diagnosi di gruppo sanguigno Rh. Un feto Rh-positivo in una madre Rh-negativa è a rischio di anemia emolitica e una diagnosi prenatale di gruppo può aiutare a prevenire questa grave complicanza. Se il feto è Rh-positivo, il DNA fetale presente nel sangue materno conterrà le sequenze corrispondenti al gene RHD, che codifica per l’antigene D, 07/02/14 15.53 Capitolo 32 • Diagnosi prenatale di malattia genetica il maggiore determinante del fattore Rh. Queste sequenze, assenti dal DNA materno (Rh-negativo) possono essere amplificate mediante una PCR specifica, che pertanto risulterà diagnostica di un feto Rh-positivo. Questo approccio diagnostico è stato applicato anche per la determinazione del sesso fetale in gravidanze a rischio di patologie X-linked o in caso di riscontro ecografico di genitali ambigui, ed è ragionevole attendersi che possa essere esteso alla ricerca di mutazioni di singoli geni responsabili di malattie mendeliane. Assai più complesso si presenta, al momento, il problema della diagnosi di aneuploidie fetali, in quanto le sequenze di DNA fetale da amplificare sono milioni, e sono sequenze normali, quindi qualitativamente non distinguibili da quelle 475 del DNA materno. Ciononostante una trisomia fetale può essere riconosciuta grazie al fatto che nel DNA plasmatico totale della madre sarà presente un eccesso di sequenze del cromosoma fetale trisomico. Questo eccesso è riconoscibile attraverso l’applicazione di tecniche di sequenziamento di nuova generazione (Capitolo 4), anche se ci si trova ancora in fase di validazione di questa modalità diagnostica, per cui al momento si può parlare al massimo di test genetico non invasivo, che fornisce indicazioni probabilistiche, ma non ancora di una vera e propria diagnosi genetica non invasiva di aneuploidia fetale. Molti studi di validazione dovranno ancora essere compiuti, prima che la diagnosi prenatale non invasiva sia applicabile routinariamente. 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