Sottotesto Ecco perché chi gioca in Borsa pare proprio uno stratega militare ANTONIO GNOLI e sole guerre giuste sono quelle che si vincono. Si può riassumere così il pensiero strategico di John Boyd: pilota di caccia in Corea, cultore de L’arte della guerra di Sun Tzu, considerato da alcuni il più importante stratega militare del ventesimo secolo, la cui originalità è in parte legata al superamento del pensiero di Von Clausewitz (Il libro su Boyd di Frans Osinga, appena pubblicato da Editrice Goriziana, ne è un’eccellente dimostrazione). Boyd (19271997) scrisse pochissimo, la sua visione del mondo è riassunta in qualche scarna paginetta dove utilizza i risultati della L quantistica, le teorie del caos, e anticipa certe intuizioni del post-moderno. Pensava che gli americani avessero perso nel Vietnam perché la più grande potenza del mondo aveva trascurato di curare i meccanismi della mente (propri e dell’avversario). Che la neuroscienza abbia in seguito cercato una strada privilegiata in ambito militare lo dimostra anche il recentissimo Mind Wars di Jonathan Moreno. Ma sulle “guerre mentali” Boyd fu un antesignano. Le sue teorie - il ciclo ooda (acronimo di osservazioneorientamento-decisione-azione) - sono state recepite e messe in pratica nell’ambito finanziario. I testi sul management, e quelli di economia aziendale e finanziaria si rifanno spesso alle sue tesi e al modo di affrontare euforia e panico. In questi anni di finanza triste la velocità è un requisito fondamentale. I giochi di borsa (vendere o comprare), l’informazione su cosa farà l’avversario (mettersi nel suo ciclo decisionale), somigliano a certi duelli aerei immaginati da Boyd. Nel combattimento in aria il tempo della decisione è più rapido del pensiero. Non è vero che non siamo in guerra. Solo che oggi è combattuta con altri mezzi. © RIPRODUZIONE RISERVATA La storia La logica di Port-Royal quella sfida creativa per costruire un’opera Fu pubblicata, come sintesi di un metodo, da Arnauld e Nicole E diventò, dal Seicento, il testo base delle scuole gianseniste PIERGIORGIO ODIFREDDI e c’era un luogo, nel Seicento, dove la logica sicuramente non stava di casa, e anzi sembrava essere stata rigorosamente e ufficialmente bandita, quello era il monastero di Port-Royal. A confermarlo basterebbero le vicende personali e le opere letterarie legate al nome di Pascal, che di quel luogo fu il più noto frequentatore, e il più illustre fiancheggiatore. È dunque singolare che, nel campo scientifico, il monastero sia passato alla storia per quella che viene comunemente chiamata la Logica di Port-Royal, anche se in origine si intitolava La logica, o l’arte di pensare. La pubblicarono anonima nel 1662, esattamente trecentocinquant’anni fa, Antoine Arnauld e Pierre Nicole, due degli intellettuali più in vista del convento. E rappresenta una sorta di lavoro “collettivo” che servì alle generazioni future. Tanto Arnauld era focoso e impulsivo (nel 1643 aveva scritto il primo pamphlet giansenista, La comunione frequente fatto di serrate dimostrazioni logiche in stile quasi matematico) quanto Nicole era pacato e riflessivo. Del giansenismo, pensava che fosse un’eresia immaginaria, su cui si era fatto troppo rumore per nulla. Tornando alla Logica di PortRoyal, le storie personali dei loro autori lasciano prevedere che il suo stile sia un po’ pretesco, ma il suo approccio non è scolastico. Anzi, nelle intenzioni teoriche, l’opera si schiera dalla parte dei moderni. Anche se, nello sviluppo pratico, si tiene alla larga dall’induzione, e dunque dal metodo scientifico e sperimentale, concentrandosi completamente sulla deduzione, e in particolare sul metodo geometrico e cartesiano. L’influsso di Cartesio è evidente, nel bene e nel male. Il bene, sta nell’aver capito che i sillogismi erano solo una parte della logica: la più arida, sterile e scolastica. Il male, nell’aver sottovalutato l’importanza e la fecondità del formalismo, a favore dell’intuizione e delle “idee chiare e distinte”. La Logica di Port-Royal si situa dunque a metà del guado che dalla logica filosofica di Aristotele condurrà a quella matematica di Leibniz, Boole, Frege e Russell. Ispirandosi alle anticipazioni di Pascal, e dei suoi due misconosciuti trattati Lo spirito geometrico e L’arte di persuadere, Arnauld e Nicole enunciano otto regole metodologiche, che mantengono ancor oggi inalterato il loro valore. Esse mostrano come il metodo logico consista nel «definire chiaramente i termini di cui ci si deve servire, postulare assiomi evidenti per provare le affermazioni, e sostituire mentalmente S nelle dimostrazioni le definizioni al posto dei termini definiti». Come già il titolo originario lasciava presagire, lo scopo della Logica di Port-Royalè ambizioso: si propone infatti di studiare non le regole della grammatica, o gli stratagemmi della dialettica, ma nientemeno che Le leggi del pensiero. Si tratta, cioè, dello stesso programma che intraprenderà George Boole nel 1854, fin dal titolo del suo omonimo capolavoro, ma con un approccio algebrico che gli permetterà di aprire le porte alla logica moderna. Arnauld e Nicole si fermarono fuori della soglia, invece, e nelle quattro parti della loro opera si limitarono a discutere le «quattro operazioni principali dello spirito: concepire, giudicare, ragionare e ordinare». Più che forzare a rigorose dimostrazioni di tipo algebrico o geometrico, le loro ricette permettevano dunque ancora di cucinare pseudodimostrazioni filosofiche: come quelle scodellate da Spinoza nella sua Ethica, che rimase «ordine geometrico demonstrata» solo nelle pie intenzioni dell’autore. Un elemento di vera novità, comunque, la Logica di PortRoyal riuscì a introdurlo, ed è la distinzione fra le “intensioni” e le “estensioni” dei concetti: cioè, fra comeessi sono enunciati, e ciò che essi esprimono. Si tratta della stessa distinzione fra “senso” e “significato” che Gottlob Frege riprenderà nel 1892, nel suo omonimo e classico articolo Senso e denotazione. Effettivamente, Port-Royal era il luogo più adatto per scoprire questa distinzione. Infatti, il monastero fu l’epicentro di un’interminabile disputa sulla grazia che non aveva nessun significato oggettivo, benché avesse molto senso soggettivo per i gesuiti e i giansenisti. Essa generò innumerevoli discussioni, piene forse di buone intenzioni, e certo di cattive “intensioni”, ma tutte prive di qualunque “estensione”. Era anche per educare a queste vuote dispute, oltre che per divertire il giovane duca di Chevreuse, che la Logica di Port-Royal fu scritta. Essa venne adottata come testo nelle “piccole scuole” gianseniste, che costituirono comunque un interessante esperimento d’avanguardia educativa. Le classi erano ridotte a una mezza dozzina di studenti, l’emulazione fra di essi era bandita, il silenzio veniva privilegiato al gioco, gli indisciplinati erano espulsi senza punizioni e il ragionamento era esaltato. Il fatto che, dopo tre secoli e mezzo, queste proposte allora avveniristiche suonino oggi anacronistiche, la dice lunga sulla direzione in cui sono rotolate l’educazione e la scuola, dalle vette di Pascal a oggi. © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale