Arthur Schopenhauer Nella Prefazione alla seconda edizione della sua opera principale, Il mondo come volontà e rappresentazione, Schopenhauer dichiara: «Non ai miei contemporanei, non ai miei compatrioti, ma all’umanità io consegno la mia opera ormai compiuta, persuaso che non sarà per essa senza valore: anche se questo valore, qual è solitamente il destino del bene in ogni genere, verrà riconosciuto con ritardo. Soltanto infatti per l’umanità e non per la generazione che passa frettolosa e immersa nel suo effimero sogno, è potuto accadere che la mia mente, quasi contro il mio volere, abbia di continuo atteso per tutta una lunga vita al suo lavoro (...). Se così non fosse, andrebbe perduta la vivificante prospettiva della posterità, indispensabile corroborante per chiunque si sia proposta un’alta meta». Al di là del tono superbo della dichiarazione di un filosofo che umile non era, è qui interessante constatare l’intenzione di Schopenhauer di parlare ai posteri nonostante la sua sfiducia nel futuro, se c’è da dar credito a quel passo degli Aforismi sulla saggezza della vita in cui Schopenhauer dice, proprio in apertura: «I saggi di tutti i tempi hanno in genere sempre detto le stesse cose, e gli sciocchi di tutti i tempi, cioè la stragrande maggioranza, hanno sempre fatto le stesse cose, cioè il contrario. Così del resto sarà anche in avvenire. Dice infatti Voltaire: “Lasceremo questo mondo così stupido e insignificante proprio come l’abbiamo trovato arrivandoci”. (Parerga e paralipomena, I, p. 424). Dunque l’uomo è impotente sul mondo e ancor più lo è il filosofo, non perché non è ascoltato dagli ((sciocchi che sono la stragrande maggioranza», ma perché se la sua verità fosse ascoltata la vita sarebbe impossibile. Vita e verità non possono coesistere. Questo è l’annuncio di Schopenhauer che così toglie la maschera alla filosofia dell’Occidente per aprire l’epoca della disillusione. A raccogliere il messaggio di Schopenhauer sono stati, nella posterità, Nietzsche, Freud e Horkheimer che, in direzioni diverse, hanno téntato di risolvere il nodo drammatico messo in evidenza dalla sua filosofia a cui i tre riconoscono onestamente il loro debito. Scrive infatti Horkheimer: «Il mio primo contatto con la filosofia lo debbo all’opera di Schopenhauer; il rapporto con la dottrina di Hegel e Marx, la volontà di comprendere e modificare la realtà sociale non hanno, nonostante il contrasto politico, cancellato l’esperienza che ho tratto dalla sua filosofia» (Teoria critica, p. XI). Dal canto suo Nietzsche, che a Schopenhauer ha dedicato la terza Considerazione inattuale che ha per titolo Schopenhauer come educatore, scrive: «Io sono uno di quei lettori di Schopenhauer che, dopo averne letto la prima pagina, sanno con certezza che le leggeranno tutte e ascolteranno ogni parola che egli abbia mai detto». Per Nietzsche, infatti, Schopenhauer appartiene a «quei grandi vincitori, i quali, giacché hanno pensato le cose più profonde, (...) si muovono e vivono realmente, e non a quel modo di maschere sinistre nel quale solitamente gli uomini vivono». Ma il riconoscimento più esplicito è forse quello di Freud che vede in Schopenhauer il precursore della psicoanalisi. In un breve articolo del 1917 che ha per titolo Una difficoltà della psicoanalisi, Freud scrive: «Probabilmente pochissimi uomini hanno compreso che ammettere l’esistenza di processi psichici inconsci significa compiere un passo denso di conseguenze per la scienza e per la vita. Affrettiamoci comunque ad aggiungere che un tale passo la psicoanalisi non l’ha compiuto per prima. Molti filosofi possono essere citati come precursori, e sopra tutti Schopenhauer, la cui “volontà” inconscia può essere equiparata alle pulsioni psichiche di cui parla la psicoanalisi. Si tratta del resto dello stesso pensatore che, con enfasi indimenticabile, ha anche rammentato agli uomini l’importanza misconosciuta delle loro aspirazioni sessuali. La psicoanalisi ha quest’unico vantaggio: che non si limita ad affermare astrattamente i due principi, tanto penosi per il narcisismo, dell’importanza della sessualità e dell’inconsapevolezza della vita psichica, ma li dimostra mediante un materiale che riguarda personalmente ogni singolo individuo, costringendolo a prendere posizione di fronte a questi problemi. Ma appunto per questo essa attira su di sé quell’avversione e quelle resistenze che di fronte al gran nome del filosofo non osavano manifestarsi». La posterità, a cui Schopenhauer aveva indirizzato la sua opera, non è stata prodiga solo di riconoscimenti, ma anche di attacchi di cui, forse, il più tagliente è quello di Croce che nella Filosofia della pratica così si esprime:«Chi può resistere alla filosofica trivialità degli Aforismi sulla saggezza della vita di Arturo Schopenhauer? Franca la spesa di aprire un libro per apprendervi che i beni si dividono in personali, di ricchezza e di immaginazione o riputazione; e che i primi (la buona salute o il temperamento gaio) hanno preminenza sugli altri? Non si impara di più, con maggior rapidità ed efficacia da proverbi sul genere di quello:“Uomo allegro,- Dio l’aiuta”?». Con questo intervento Croce rinnova la polemica che aveva opposto Schopenhauer alla filosofia idealistica e, in particolare, a Hegel che, nei Parerga e paralipomena (I, pp. 141-142), Schopenhauer così descrive: «Hegel, uomo che perseguiva, e per di più senza successo, degli scopi politici, spacciato in tutto e per tutto come un grande filosofo, un ciarlatano piatto, privo di spirito, nauseante, disgustoso, ignorante, il quale con una sfrontatezza e un’assurdità senza pari, scarabocchiò tutto quello che dai suoi seguaci mercenari fu strombazzato come sapienza immortale (e tale infatti venne considerato dagli sciocchi), facendo nascere un coro unanime di ammirazione, quale mai era stato inteso prima. Il vasto influsso spirituale, estorto da un siffatto uomo, ha avuto come conseguenza la corruzione intellettuale di tutta una generazione erudita. Gli ammiratori di quella pseudo-filosofia vanno incontro al disprezzo della posterità». Al di là dell’insulto, l’accenno, che ritorna, alla posterità lascia intendere che Schopenhauer non fa giudicare la sua filosofia dal suo tempo, ma da quel tempo futuro che avrà la possibilità di rendersi conto che la verità assoluta, alla cui ricerca s’è sempre mossa la filosofia da Platone a Hegel, è in realtà la rappresentazione che l’uomo s’è dato per trovare una ragione sufficiente per vivere. Noi, infatti, non siamo gli autori della nostra vita, ma siamo vissuti, senza senso e senza scopo, da quella più universale volontà di vita che, dal mondo vegetale, attraverso quello animale, fino al mondo umano, non vuole altro che la propria riproduzione. Riflettendo su questa intuizione di Schopenhauer, la posterità, nelle figure di Nietzsche, di Freud e di Horkheimer, ha parlato di tragico, di inconscio e di ragione strumentale con cui la volontà di vita, nella sua assoluta irrazionalità, tesse la rete dell’inganno per gli individui che pensano di realizzare quei fini che in realtà sono solo i mezzi con cui la specie si conserva. Per smascherare questo inganno, Schopenhauer ripercorre la storia del pensiero occidentale la cui filosofia ha potuto prodursi come discorso veritativo solo rimuovendo il corpo e la cieca pulsionalità che lo abita. Ciò che ne è nato non è la verità del mondo, come la filosofia ha sempre preteso di enunciare, ma la rappresentazione che l’anima s’è fatta del mondo, dopo essersi separata dal corpo e dalla sua pulsionalità. Come frutto di una rimozione, la verità dell’anima è dunque un inganno e, nei Frammenti sulla storia della filosofia, Schopenhauer ne narra l’origine e la storia. Schopenhauer e la filosofia dell’Occidente La nozione di verità, di cui da sempre si occupa la filosofia, ha un atto di nascita, e uno sviluppo storico, che per Schopenhauer è intimamente connesso al concetto di anima, le cui variazioni di significato nel corso della storia decidono il senso che di volta in volta viene ad assumere la parola “verità”. Seguire questo sviluppo è essenziale per chi intende smascherare la pretesa validità atemporale di ciò che si è costituito temporalmente, e soprattutto per chi, come Schopenhauer, oppone al risolvimento hegeliano della storia nell’idea il dissolvimento dell’idea nella sua storia. Ora, nei Frammenti sulla storia della filosofia, Schopenhauer coglie in Platone non solo l’atto di nascita della verità, ma l’intima connessione tra il carattere assoluto della verità e il carattere immortale dell’anima. Evidenziare questa connessione è essenziale perché le sorti dell’anima nel corso della storia si riveleranno decisive per le sorti della verità. Scrive Schopenhauer: «In Platone troviamo in qualche modo l’origine di una falsa dianoiologia, che si introduce con una segreta intenzione metafisica, tendendo ad una psicologia razionale ed alla connessa dottrina dell’immortalità. La medesima si è più tardi rivelata una dottrina ingannevole dalla vita tenacissima, prolungando la sua esistenza attraverso tutta la filosofia antica, medioevale e moderna sino a che Kant, lo stritolatore, la colpì infine al capo. La dottrina di cui intendo parlare è il razionalismo della teoria della conoscenza con intenzione finale metafisica. Essa, brevemente, può così riassumersi. La parte conoscitiva in noi è una sostanza immateriale, fondamentalmente diversa dal corpo, chiamata anima: il corpo per contro è un impedimento alla conoscenza. Ogni conoscenza ottenuta quindi attraverso la mediazione del corpo è ingannevole: l’unica vera, giusta e sicura è quella libera e lontana da ogni sensibilità (e quindi da ogni intuizione), in altre parole il pensiero puro, cioè l’operare unicamente con concetti astratti. Tutto ciò è compiuto dall’anima con i suoi propri mezzi: la situazione migliore si verificherà dunque quando essa si sarà separata dal corpo, e noi saremo morti. Cose di questo genere sono dunque messe dalla dianoiologia a disposizione della psicologia razionale, a vantaggio della sua dottrina dell’immortalità. Questa dottrina, quale la riassumo ora, si trova espressa in forma dettagliata e chiara nel capitolo 10 del Pedone» (Parerga, L p.72). In realtà in Platone si intrecciano due tradizioni: una legata ai riti misterici, a cui Platone era stato iniziato in Egitto da Sechenuf, e di cui parla con linguaggio mitologico nel Fedro e nel Convito che sono i dialoghi dedicati alla divina follia, all’Eros, ad Apollo e Dioniso, al caos e al cosmo, all’origine degli dei e degli uomini. E questa l’anima della tradizione orfica commista alla tradizione sciamanica e alla nascente medicina della scuola di Cos che, nella sua pratica terapeutica, aveva accolto la tradizione di Asclepio, che curava nel sonno tramite il sogno. E l’anima dei lirici e dei primi tragici che ad Eleusi la rappresentavano in drama. Ma a quest’anima, che oggi potremmo dire di natura psicologica, Platone affianca quell’anima, propriamente filosofica, che è la capacità di astrarre dalla molteplicità del sensibile per potersi esprimere nell’unità dell’idea. Dove infatti non c’è unità, non c’è sapere. Non c’è sapere quando parlo dell’acqua del fiume, dell’acqua del mare, dell’acqua dello stagno, ma quando colgo ciò che queste acque hanno in comune: oggi diremmo H20, Platone diceva l’essenza dell’acqua o idea. Queste idee sono in “cielo” perché in terra non è dato vedere l’essenza dell’acqua del fiume, del mare, dello stagno. Il sapere veritativo allora nasce solo se l’anima distoglie lo sguardo dalla dispersione in cui giacciono le cose sensibili per volgerlo a quell’espressione della loro unità che è l’essenza o idea. Di ciò che è irriducibile ad unità, come ad esempio i nostri corpi, non c’è sapere, e dove non c’è sapere c’è follia: la «follia del corpo» dice Platone nel Fedone (67 a). Una volta separata dal corpo, l’anima, come luogo della verità, incomincia a pensarsi per sé e a guadagnare quell’autosufficienza che costituirà uno dei filoni determinanti dell’antropologia occidentale dove l’uomo, pensato come anima, si sviluppa sotto il segno dell’interiorità, e dove la felicità non coincide più con la fruizione della propria corporeità nel tempo, ma è spostata alla fine della vita terrena in un logos eterno, trascendente e soprattutto indifferente rispetto al fluire della storia. L’uomo, che in Omero era aperto al mondo attraverso i piaceri, i desideri, le passioni e i dolori del corpo, con Platone si ritira dal mondo per rivolgersi alla propria anima che diventa ad un tempo il luogo della verità contro l’inganno dei sensi e il luogo dell’identità dell’Io contro la forza dissolvente delle passioni. Scrive infatti Platone: «Coloro che amano il sapere, sanno bene che la filosofia, prendendo a educare l’anima, si adopera per liberarla dal corpo (...) e la esorta a raccogliersi e a restringersi tutta sola in se stessa e a non fidare in nient’altro che in se stessa, qualunque sia l’essere che ella voglia da se medesima penetrare nella sua essenza immutabile» (Pedone, 83 a-b). Non essendoci verità che nell’anima, l’anima deve star sola con se stessa; l’ascesi che ne scaturisce, e che, come vedremo, sarà un motivo fondamentale nella filosofia di Schopenhauer, è un rivolgersi alla propria interiorità per guadagnare in profondità. La profondità è il massimamente distante dal mondo e il massimamente vicino alla verità. Tra mondo e verità corre ormai l’abisso, lo stesso che corre tra verità e felicità, nel senso che diventa possibile una vita ospitata dalla verità, ma senza felicità e una felicità senza vita, ossia nell’altro mondo. Questo motivo platonico sarà ripreso dalla religione cristiana che, come luogo eminente della cultura dell’anima, diventa base dell’elaborazione dell’antropologia occidentale. Quando la tradizione agostiniana dice che amare mundum non est cognoscere Deum, o che in interiore ho-mine habitat veritas, ribadisce il nesso platonico interiorità = verità, ma soprattutto prepara il senso della filosofia moderna che, da Cartesio a Schopenhauer, non fa che dire: il mondo è una rappresentazione dell’anima. Che altro significa cogito ergo sum se non che nell’interiorità del pensiero sono da ricercare le leggi per la comprensione del mondo? A Schopenhauer non sfugge questo passaggio e perciò scrive: «Cartesio è considerato a buon diritto il padre della filosofia, anzitutto ed in generale perché ha avviato la ragione a reggersi sulle proprie gambe» (Parerga, I, p.l9). La continuità con Platone sta nel principio che la verità è nell’interiorità dell’anima, nella ragione che si regge solo “sulle proprie gambe”; la differenza è che Platone riteneva che le idee o essenze ultime delle cose, che l’anima rinveniva restando sola con se stessa, riproducevano l’oggettività dell’essere stesso, mentre Cartesio, pur ribadendo che tutto ciò che esiste, esiste solo come affezione dell’anima, ritiene che le idee, che il cogito trova in se stesso, non ci danno l’oggettività del mondo, ma la sua rappresentazione soggettiva che solo la certezza di un Dio non ingannevole rende identica alla situazione oggettiva. Cartesio, scrive Schopenhauer, «fu tutto preso dalla verità che noi siamo prima di ogni altra cosa limitati dalla nostra propria coscienza e che il mondo ci è dato soltanto come rap presentazione: con il famoso “dubito, cogito ergo sum” egli volle porre in rilievo l’unica certezza della coscienza soggettiva, in contrasto alla problematicità di tutto il resto, ed esprimere la grande verità che l’unica cosa realmente e incondizionatamente data è l’autocoscienza. A rigore, il suo celebre principio equivale al mio punto di partenza: “il mondo è la mia rappresentazione”. L’unica differenza sta nel fatto che egli pone in rilievo l’immediatezza del soggetto, ed io la mediatezza dell’oggetto. Le due proposizioni esprimono la medesima cosa da due lati, sono il rovescio l’una dell’altra. (...) Certamente da allora si è ripetuta innumerevoli volte la sua frase, avendo soltanto sentore della sua importanza, e non avendo una chiara comprensione del suo vero senso e del suo scopo. Egli dunque scoprì l’abisso che separa il soggettivo, o ideale, dall’oggettivo, o reale, ed espresse questa sua tesi nel dubbio sull’esistenza del mondo esterno: senonché con il suo misero espediente per uscirne — affermando cioè che il buon Dio non ci vorrà certo ingannare — egli mostrò quanto fosse profondo e difficile a risolversi il problema. Nel frattempo, attraverso di lui, questo scrupolo era entrato nella filosofia e doveva continuare ad agire come elemento perturbatore, sino a che non fosse definitivamente eliminato» (Parerga, I, pp. 20-21). Dall’anima di Platone al cogito di Cartesio il sapere e la verità si esprimono nel regime dell’interiorità the risolve il mondo in una sua rappresentazione. L’anima diventa legislativa, detta cioè le leggi della rappresentazione del mondo. In proposito Kant è chiarissimo. Nella Prefazione alla seconda edizione della Critica della Ragion pura (1787) scrive che Galilei e Torricelli «compresero che la ragione vede solo ciò che lei stessa produce secondo il proprio disegno, e che, con principi dei suoi giudizi secondo leggi immutabili, deve essa entrare innanzi e costringere la natura a rispondere alle sue domande: e non lasciarsi guidare da lei, per dir così con le redini, perché altrimenti le nostre osservazioni, fatte a caso e senza un disegno prestabilito, non metterebbero capo a una legge necessaria, che pure la ragione cerca e di cui ha bisogno. E necessario dunque che la ragione si presenti alla natura avendo in una mano i principi, secondo i quali soltanto è possibile che fenomeni concordanti abbiano valore di legge, e nell’altra l’esperimento, che essa ha immaginato secondo questi principi: per venire bensì istruita da lei, ma non in qualità di scolaro che stia a sentire tutto ciò che piaccia al maestro, sebbene di giudice, che costringa i testimoni a rispondere alle domande che egli loro rivolge». La funzione legislativa della ragione moderna ribadisce il motivo platonico secondo cui è l’anima, “tutta raccolta in se stessa”, a dire com’è il mondo, è l’interiorità a fornire il principio d’ordine dell’esteriorità che, fuori da questo ordine, nel suo in sé, rimane inconoscibile. L’inconoscibilità del noumeno kantiano, della “cosa in sé”, cioè al di là delle categorie con cui il pensiero se la rappresenta, è per Schopenhauer la conferma che da Platone a Kant, quindi per tutto l’arco della storia d’Occidente, il mondo è una rappresentazione dell’anima, e l’anima è la rappresentazione del mondo. Il mondo come rappresentazione L’opera principale di Schopenhauer — Il mondo come volontà e rappresentazione — inizia così: «“Il mondo è una mia rappresentazione”:ecco una verità valida per ogni essere vivente e pensante, benché l’uomo possa soltanto venirne a coscienza astratta e riflessa. E quando l’uomo sia venuto di fatto a tale coscienza, lo spirito filosofico è entrato in lui. Allora, egli sa con chiara certezza di non conoscere né il sole né la terra, ma soltanto un occhio che vede un sole, e una mano che sente il contatto d’una terra; egli sa che il mondo circostante non esiste se non come rappresentazione, cioè sempre e soltanto in relazione con un altro essere, con il percipiente, con lui medesimo. Se c’è una verità che si può affermare a priori, è proprio questa; essa infatti esprime la forma di ogni esperienza possibile ed immaginabile: la quale forma è più universale di tutte le altre, e cioè del tempo, dello spazio e della causalità, perché tutte queste implicano già la prima» . Se il mondo è una mia rappresentazione, il criterio di verità sarà da rintracciare nel regime della mente. Per questo Cartesio scrive un Discorso sul metodo e le Regulae ad directionem ingenii; per questo Kant, nella Critica della Ragion pura, prende in esame le condizioni della pensabilità in generale e le elenca dopo averle distinte in intuizioni e categorie; per questo Schopenhauer indaga Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente per descrivere la legislazione con cui l’intelletto costruisce la rappresentazione del mondo. «Non è vero —scrive infatti Schopenhauer — che il mondo, già bell’e pronto, debba semplicemente entrare nella testa attraverso i sensi e le porte dei loro organi. I sensi, infatti, non forniscono che la materia prima, che l’intelletto, per mezzo delle semplici forme date, cioè spazio, tempo e causalità, elabora immediatamente nell’intuizione oggettiva di un mondo di corpi regolati da leggi. La nostra intuizione quotidiana empirica è dunque un’intuizione intellettuale». Che significa tutto questo? Significa che conoscere continua ad essere, come aveva detto Platone, un evento dell’anima che si raccoglie in se stessa, ma mentre per Platone raccogliersi significava ritirarsi dal mondo e dal corpo, quindi passare dall’esteriorità all’interiorità, con Cartesio — e da Cartesio in poi — il mondo e il corpo, in quanto rappresentazioni dell’anima, sono inclusi e contenuti nell’anima, che in tal modo diventa il limite estremo, l’assoluta esteriorità rispetto ai corpi e agli eventi del mondo che essa include. Se infatti il mondo, come dice Schopenhauer, «non è lì bell’e pronto per entrare nella nostra testa», ma è «posto dalle leggi dell’intelletto» e, in quanto così posto, è saputo, allora è l’anima a creare il mondo come noi lo conosciamo, e il mondo è il suo sogno. «Tratteremo dunque — scrive Schopenhauer —l’universo come pura rappresentazione, come oggetto per il soggetto; e, al pari di ogni altro oggetto reale, considereremo anche il nostro corpo, unico nostro mezzo per l’intuizione del mondo, soltanto dal punto di vista della conoscibilità, rispetto alla quale non è che rappresentazione» (Il mondo, § 6). Quando l’anima era un’interiorità che si ritirava dal mondo, era possibile distinguere lo stato di veglia, proprio della condizione filosofica in grado di raggiungere con l’anima l’essenza delle cose, dallo stato di sogno in cui giacevano quanti, fidandosi solo dei sensi corporei, non erano in grado di sollevarsi dal mondo delle apparenze sensibili. E, nella Repubblica (476 c), proprio alla metafora del sogno ricorre Platone per distinguere i filosofi «che sono in condizione di veglia» dai filodoxoi «che vivono come in un sogno, perché confondono l’apparenza con la realtà». Ma ora, con l’esteriorizzazione dell’interiorità dell’anima, non c’è più un mondo che sia esterno all’anima, e quindi non c’è più una realtà rispetto a cui poter distinguere la condizione di veglia dalla condizione di sogno. I]ipotesi kantiana secondo cui «il rapporto delle rappresentazioni fra loro secondo la legge della causalità distingue la vita dal sogno» non persuade Schopenhauer perché anche i singoli elementi del sogno si connettono secondo il principio di ragione in tutte le sue forme, e questa connessione non si rompe che tra la vita e il sogno o tra un sogno e l’altro. Quindi la risposta di Kant non ammette che quest’unica interpretazione: il sogno lungo (la vita) ha in sé una connessione costante secondo il principio di ragione, però non la possiede con i sogni brevi, nonostante ciascuno di essi abbia in sé la stessa connessione: in questo modo è dunque rotto il ponte tra i sogni delle due classi, e tale è appunto il carattere che li distingue (...). I sogni si distinguono dunque dalla vita reale in quanto non rientrano nella continuità dell’esperienza che ininterrottamente vi circola: e tale differenza è ben indicata dal risveglio. Ma se questa connessione dell’esperienza appartiene già, come sua forma, alla vita reale, anche il sogno possiede la sua connessione. Se per giudicare le cose noi ci poniamo in un punto di vista estraneo e alla vita e al sogno, nella loro essenza noi non riusciamo a trovare un carattere distintivo netto, e allora dobbiamo concordare con i poeti che la vita non è che un lungo sogno» (Il mondo, § 6). Questa concessione «poetica» abolisce quell’antica distinzione tra desti e dormienti che la filosofia ha inaugurato fin dal suo primo sorgere, quando, con Eraclito, avvertiva: «Non bisogna agire e parlare come nel sonno» (fr. 10); e ancora: «i desti hanno un mondo in comune, mentre nel sonno ognuno si apparta in un mondo privato» (fr. 12). La filosofia nasce per superare questi mondi privati e porre le basi di un discorso comune (koinòn), perciò Eraclito può dire: «Si deve seguire ciò che è comune. Ma benché comune sia questo Logos che io insegno, i molti vivono come se avessero un proprio pensiero privato» (fr. 5). Proseguendo sulla via indicata da Eraclito, Platone formula i codici grammaticali e gli statuti logici del discorso comune o, come lo chiama Platone, epistemico. Il discorso, infatti, nelle mani dei sacerdoti, dei poeti, dei retori, dei sofisti, corre il rischio della sovrabbondanza, dell’ambiguità, dell’equivoco e insieme dell’inconcludenza; Platone, con la sua magistrale e gigantesca costruzione che punta all’unità del molteplice, lo sottrae a questo rischio e lo instaura come «scientifico». Le «idee» di Platone sono la prima grande macchina con cui la ragione si organizza, guadagna certezza di sé, e, nel suo esercizio, si autocertifica. La prima forma di autocertificazione è l’esclusione della follia. Folli sono tutti quei discorsi che non danno ragione alle regole della ragione, la cui capacità di dominio si trasforma dapprima in rappresentazione di un ordine necessario e, col suo progressivo estendersi, in rappresentazione dell’ordine come tale. Platone era convinto che quest’ordine, che l’anima aveva scoperto, corrispondesse all’ordine effettivo delle cose, e perciò chi perveniva a quest’ordine (il filosofo) era desto rispetto ai molti (i filodoxoi) che, non pervenendovi, erano simili ai dormienti. Ma quando Cartesio avverte che l’ordine dell’essere è stabilito dal cogito, cioè dal pensiero umano, il mondo diventa una rappresentazione di questo pensiero, e la distinzione tra i desti e i dormienti si capovolge, nel senso che i dormienti sono coloro che ancora non sanno che l’ordine del mondo è l’ordine che la ragione umana ha dato al mondo. Nel suo «in sé» il mondo resta sconosciuto e la ragione umana resta confinata nell’ordine che essa stessa ha dato al mondo, resta confinata quindi nella sua rappresentazione. «Nessuna verità — scrive Schopenhauer — è dunque più certa, più assoluta, più lampante di questa: tutto ciò che esiste per la conoscenza, e cioè il mondo intero, non è altro che l’oggetto in rapporto al soggetto, la percezione per lo spirito percipiente; in una parola: rappresentazione. Questa legge vale naturalmente sia per il presente, sia per tutto il passato e per tutto l’avvenire; per ciò che è a noi lontano come per il vicino; infatti essa vale anche per il tempo e per lo spazio in cui soltanto ogni cosa può essere percepita. Tutto quanto il mondo include o può in- cludere è inevitabilmente dipendente dal soggetto, e non esiste che per il soggetto. Il mondo è rappresentazione» (Il mondo, § 1). La rappresentazione è ordinata da quelle connessioni che il principio di ragione instaura. Conoscere è connettere, è comporre nessi; il fondamento di questa connessione, e quindi della conoscenza, non è nelle cose, come ritenevano gli antichi, ma nel soggetto che le istituisce. E come nella metafora teologica non si dà mondo prima della creazione, così per Schopenhauer non si dà mondo prima della legislazione della ragione che, attraverso le sue leggi (tempo, spazio, causalità, le forme a priori in cui si articola il principio di ragione), crea il mondo che, in quanto accessibile solo attraverso le leggi della ragione, coincide con queste leggi. Se il mondo coincide con le leggi della ragione che l’hanno istituito, l’istituzione non ha in sé alcuna ragione e, come tale, è un atto arbitrario. Alle spalle della ragione e del mondo che si rappresenta c’è allora una volontà assoluta e istitutiva che, venendo prima della ragione, è cieca pulsione: der Wille als blinde Trieb, dice Schopenhauer (Il mondo, § 21). Rispetto alla volontà come cieca pulsione, il soggetto, finora descritto come creatore del mondo, appare solo una misera preda. Così la cieca pulsione infrange il sogno del mondo: «La cosa rappresentata e la sua rappresentazione hanno lo stesso significato, ma sono anche soltanto la cosa rappresentata e non la cosa in se stessa: quest’ultima è sempre volontà, sotto qualsiasi aspetto essa possa apparire nella rappresentazione» (Parerga, I, pag. 41). Il corpo e la cieca pulsione La ragione ha costruito se stessa prima come verità (Platone) e poi come rappresentazione del mondo (Cartesio), percorrendo l’itinerario platonico che, attraverso la separazione dal corpo, ha condotto alla progressiva interiorizzazione dell’anima e alla sua completa autonomia. I testi in proposito sono espliciti: «Sembra ci sia un sentiero che ci porta, mediante il ragionamento, direttamente a questa considerazione, e cioè: fino a quando noi possediamo il corpo e la nostra anima resta invischiata in un male siffatto, noi non raggiungeremo mai in modo adeguato ciò che ardentemente desideriamo, vale a dire la verità [...]. Pertanto, nel tempo in cui siamo, in vita, come sembra, noi ci avvicineremo tanto più al sapere quanto meno avremo relazioni col corpo e comunione con esso, se non nella stretta misura in cui vi sia imprescindibile necessità, e non ci lasceremo contaminare dalla natura del corpo, ma dal corpo ci manterremo puri fino a che Iddio stesso non ci avrà scelto da esso. E così, liberati dalla follia del corpo, come è verosimile, ci troveremo con esseri puri come noi e conosceremo, nella purezza della nostra anima, tutto ciò che è puro: questo io penso è la verità» (Fedone, 66 a). Dal canto suo Cartesio, nelle Meditazioni metafisiche, ribadisce: «Ma che cosa sono io? Una cosa che pensa. E che cos’è una cosa che pensa? E una cosa che dubita, che concepisce, che afferma, che nega, che vuole, che non vuole, che immagina anche, e che sente [...] e siccome ora so che noi non concepiamo i corpi se non per mezzo della facoltà di intendere che è in noi, e non per l’immaginazione, né per i sensi; e che non li concepiamo per il fatto che li vediamo o li tocchiamo, ma solamente per il fatto che li concepiamo per mezzo del pensiero, io conosco evidentemente che non v’è nulla che mi sia più facile a conoscere del mio spirito». Da Platone in poi, quindi per l’intero arco della storia della filosofia, la ragione ha potuto costruire se stessa e ha potuto legiferare, prima in termini di verità, poi in termini di rappresentazione, solo rimuovendo il corpo e risolvendolo in quell’idea di corpo che la ragione, e i saperi da essa promulgati, andavano di volta in volta descrivendo. Negato nel suo in sé, il corpo è divenuto una semplice superficie di scrittura atta a ricevere il testo visibile dell’ordine che la ragione andava dispiegando. Ma sotto quest’ordine l’inseità corporea, come bene aveva visto Platone, continua a costituire la massima obiezione all’autonomia della ragione, lo scoglio contro cuj la sua verità o la sua rappresentazione si infrange. Parlare del corpo significa allora sprigionare la follia, quella follia per contenere la quale Platone aveva dato avvio all’edificio della ragione, costruendolo sulla separazione dell’anima dal corpo. A Schopenhauer non sfugge la mossa platonica e, contro la verità o la rappresentazione del mondo costruita da «una testa d’angelo alata senza corpo», solleva lo spessore della corporeità disgregante l’ordine della ragione. «In realtà — scrive Schopenhauer — sarebbe impossibile trovare il significato di questo, mondo che ci sta dinnanzi come rappresentazione, oppure comprendere il suo passaggio da semplice rappresentazione del soggetto conoscente a qualcosa d’altro e di più, se il filosofo stesso non fosse qualcosa di più che un puro soggetto conoscente (una testa d’angelo alata, senza corpo). Ma il filosofo ha la sua radice nel mondo; ci si trova come individuo, e cioè la sua conoscenza, condizione e fulcro del mondo come rappresentazione, è necessariamente condizionata dal corpo, le cui affezioni, come abbiam fatto vedere, porgono all’intelletto il suo punto di partenza per l’intuizione del mondo medesimo. Per il soggetto puramente conoscitivo il corpo è una rappresentazione come un’altra, un oggetto fra altri oggetti, i suoi movimenti e le sue azioni non sono per lui, sotto questo punto di vista, nulla di diverso dalle modificazioni di qualsiasi altro oggetto intuitivo [...]. Ora le cose non stanno punto così; anzi al contrario: è l’individuo, il soggetto conoscente, quello che dà la parola dell’enigma; e questa si chiama volontà: Questa parola, questa sola, offre al soggetto la chiave della propria esistenza fenomenica; gliene rivela il significato, e gli mostra il meccanismo interiore che anima il suo essere, il suo fare, i suoi movimenti. Al soggetto conoscente che deve la sua individuazione all’identità con il proprio corpo, esso corpo è dato in due maniere affatto diverse: da un lato come rappresentazione intuitiva dell’intelletto, come oggetto fra oggetti, sottostante alle loro leggi; ma insieme, dall’altro lato, è dato come qualcosa di immediatamente conosciuto da ciascuno, e che viene designato col nome di volontà» (Il mondo, § la). L’irruzione della volontà, di cui le pulsioni del corpo sono l’evidente manifestazione, spezza l’«egoismo teorico» in cui si è arroccata la filosofia e contro il quale non c’è un argomento che tenga, ma solo una cura. La ragione, infatti, ha sempre ragione di tutti gli argomenti che nascono nel suo ambito, perché qui vigono le sue regole che regolano appunto l’esclusione del corpo, della volontà e delle pulsioni. Per questo, scrive Schopenhauer, «l’egoismo teorico non si potrà mai confutare con argomenti [...]. Come convinzione seria non potrebbe incontrarsi che in un manicomio, e allora per confutarlo non occorrono più argomenti, ma è necessaria una cura. Non ne terremo dunque più conto» (Il mondo, § 19). Nata dall’esclusione del corpo, la ragione non può ospitare l’obiezione del corpo, e perciò, prosegue Schopenhauer: «Noi che cerchiamo di estendere per mezzo della filosofia i limiti della nostra conoscenza, non riguarderemo l’argomento a noi opposto dall’egoismo teorico se non come un piccolo forte di frontiera; inespugnabile, ma la cui guarnigione non può far mai una sortita, sicché si può passare oltre lasciandocelo alle spalle senza pericolo» (Il mondo, § 19). Passare oltre non significa solo lasciare alle spalle, ma abitare uno spazio che ridefinisce la ragione e il suo altro. In questo spazio la ragione appare come il tentativo di razionalizzare ciò che razionale non è, perché è pura volontà di vita, cieca pulsione a essere, a crescere, a proliferare: «La volontà, così come la troviamo nel nostro intimo, non scaturisce dalla conoscenza, come pretendeva finora la filosofia, e non è della conoscenza una semplice modificazione, una cosa secondaria, dunque, derivata, determinata dal cervello come la conoscenza; la volontà è il prius della conoscenza, il nucleo del nostro essere, è quella forza originaria che crea e conserva il corpo animale, del quale compie tutte le funzioni consapevoli e inconsapevoli: in ciò consiste il primo passo della conoscenza essenziale della mia metafisica» (Il mondo, §23). I passi successivi mostreranno quindi che «la volontà che, nella natura priva di conoscenza, si mostra come forza naturale; un gradino più in alto come forza vitale; nell’uomo e nell’animale, poi, ottiene il nome di volontà» (Parerga, Il, § 63). Con questi rapidi passaggi Schopenhauer riporta il senso dell’essere, a cui la filosofia si è applicata fin dal suo nascere, all’insensatezza del divenire, dove è possibile rintracciare l’antico significato della parola essere che, come physis, non vuol dire verità, ma semplicemente vita che da sé sboccia e scaturisce dispiegandosi nei suoi aspetti multiformi e non preordinati. Sottraendo all’essere il suo sostanziale divenire e immobilizzandolo nei suoi aspetti (éidos), e nelle sue forme, la filosofia ha potuto ordinario con le sue idee e così padroneggiarlo. Ma questo dominio tradisce una volontà; il suo ordine è un ordinamento e la ragione che lo presiede è una semplice razionalizzazione. La verità che la filosofia ha riconosciuto nell’immobilizzazione dell’essere è una maschera che il divenire della vita manda in frantumi. Dunque tra vita e verità non c’è conciliazione, ma solo l’effetto della maschera il cui crollo riapre l’insanabile dissidio che si annoda intorno al soggetto della vita: siamo noi a vivere o siamo vissuti da una vita che ci trascende? La seconda ipotesi è l’abbattimento del soggetto e la riduzione della sua ragione e del suo ordine a illusioni per vivere. La verità che ci anima è, infatti, la verità che noi abbiamo prodotto per difenderci da quella volontà che, come cieca pulsione, ci abita prima dei nostri pensieri e delle nostre illusorie ragioni. Lo spazio di gioco non è «logico», non è tra la verità e l’uomo, ma è«bio-logico» perché si gioca tra la vita, nel senso animale e vegetale della parola, e l’uomo con le sue produzioni di verità, per cui più appropriata delle metafore filosofiche è la metafora di Paolo di Tarso: «Non sei tu che porti la radice, ma è la radice che porta te» (Lettera ai Romani, 11,18). Comprendiamo a questo punto il titolo dell’opera principale di Schopenhauer: Il mondo come volontà e rappresentazione. La rappresentazione è il mascheramento razionale della volontà. Ciò che appare come ragionevole è semplicemente volontaristico. La ragione è inganno perché fa apparire come ordine deliberatamente conquistato ciò che è semplicemente espressione di un’insopprimibile volontà di vita. Scoprirlo è smascherare la ragione, è retrocedere alle sue spalle, onde scorgervi il fondamento irrazionale che la promuove e che, a inganno avvenuto, ricompare in quelle domande che chiedono il senso dell’agire, dell’operare, del lavorare, del darsi da fare in generale; il senso di quel trovarsi così costituiti come volontà volente che, nel possesso delle cose, esprime la propria volontà di vita. La ragione non cessa mai di offrire «buone ragioni» per vivere, nasconde il tragico sotteso al non-senso della volontà di vita, e così facendo la difende dalla tentazione sempre incombente che ne determi- nerebbe l’estinzione per il riconoscimento avvenuto. Il dolore universale e le vie di liberazione Contro la tesi di Leibniz, che questo è il migliore dei mondi possibili, Schopenhauer afferma recisamente che non solo questo è il peggiore, ma, se appena fosse ancora un poco peggio, non potrebbe esistere. L’ottimismo, dice Schopenhauer ripetendo a suo modo una tesi di Hume, non è che «l’autoelogio ingiustificato del creatore del mondo, cioè della volontà di vita, la quale compiacentemente si specchia nella sua opera» (Il mondo, § 46); ma dal punto di vista dell’individuo la vita non è che una perpetua oscillazione tra il dolore e la noia. Da un lato, infatti, volere significa desiderare, e il desiderio implica l’assenza di ciò che si desidera, quindi il dolore; d’altro lato, se il desiderio dovesse estinguersi, non rimarrebbe che la noia, per cui di sette giorni della settimana sei appartengono alla fatica e al bisogno, il settimo alla noia. «Già nella natura incosciente — scrive Schopenhauer — costatiamo che la sua essenza è una costante aspirazione senza scopo e senza posa; nel bruto e nell’uomo, questa verità si rende manifesta in modo ancor più eloquente. Volere è aspirare, questa è la loro essenza; una sete inestinguibile. Ogni volere si fonda su di un bisogno, su di una mancanza, su di un dolore: quindi è in origine e per essenza votato al dolore. Ma supponiamo per un momento che alla volontà venisse a mancare un oggetto, che una troppo facile soddisfazione venisse a spegnere ogni motivo di desiderio, subito la volontà cadrebbe nel vuoto spaventoso della noia; la sua esistenza, la sua essenza, le diverrebbero un peso insopportabile. Dunque la sua vita oscilla, come un pendolo, fra il dolore e la noia, suoi due costitutivi essenziali. Donde lo stranissimo fatto che gli uomini, dopo ricacciati nell’inferno dolori e supplizi, non trovarono che restasse per il cielo niente all’infuori della noia» (Il mondo, § 57). Dal dolore universale non si esce con il suicidio, perché chi si uccide non nega la volontà di vita, ma solo quella particolare condizione di vita in cui egli si trova. Col suo gesto il suicida esprime proprio il contrario di ciò che vorrebbe esprimere; egli infatti si uccide perché ama la vita e considera intollerabile solo la situazione in cui è venuto a trovarsi. Anche nel suicidio, quindi, ciò che si celebra è l’indistruttibile volontà di vivere. Dal dolore non si esce neppure con un comportamento morale, perché là dove tutto è regolato dalla volontà irrazionale, dove non c’è un «regno dei fini» come riteneva Kant, o un piano predisposto dall’«astuzia della ragione» come pensava Hegel, non c’è agire a cui si possa dare uno scopo o imporre un dovere. Anzi una morale fondata sul «dovere» come voleva Kant sconta già all’interno quella che per Hegel è la sua «miseria», perché non dice ciò che gli uomini fanno, ma ciò che devono fare. La sua «innocenza» tradisce la sua inefficacia, la sua scarsa aderenza alla realtà e alla condotta effettiva dell’uomo. Nell’attacco all’imperativo categorico che prevede il dovere per il dovere, Schopenhauer è con Hegel, ma a Hegel si contrappone violentemente quando si tratta di stabilire la nuova direzione dell’atteggiamento etico. L’etica hegeliana, che pretende di intervenire nella storia «alla sua altezza», appare a Schopenhauer come un nuovo mascheramento dell’effettivo comportamento umano, e la sintesi dialettica un nuovo ritrovato della ragione per mascherare le effettive motivazioni che provengono dai bisogni della natura umana. I bisogni determinano la «ragion pratica» i cui ideali permangono nella misura in cui soddisfano i bisogni; la morale, infatti, non si impone da sé, ma solo se manifestamente o nascostamente soddisfa la relazione motivazione-bisogno che è alla base di ogni agire. Supporre che l’agire possa realizzare la propria soddisfazione significa presupporre la capacità da parte dell’agire di trasformare la struttura metafisica dell’essere, quindi la capacità da parte dell’uomo di disporre della propria «radice». Siccome ciò è impossibile, ogni discorso relativo alla libertà dell’agire e alla razionalità del comportamento etico si giustifica solo nel misconoscimento di questa impossibilità. L’agire non è libero e non ha alcun fine, ma soddisfa solo il bisogno infinito che lo sostanzia e che lo pone in essere sul piano dell’apparenza, dove la ragione interviene, con le sue «ragioni sufficienti», nel tentativo di giustificarlo e di dargli un senso più o meno ultimo. Da questo ingannevole tentativo nascono le morali, gli ideali e i valori che la ragione impone come doveroso realizzare. Dalla comprensione dell’insignificanza dell’agire, dall’aver colto il suo significato strumentale e non finalistico, dalla sua assenza di senso, in quanto mera esecuzione di una necessità, nasce quell’ideale di rinuncia e di ascesi che per Schopenhauer è l’unico in grado di liberare l’uomo dal mondo. La rinuncia non vuole la vita, ovvero quella trama di bisogni e soddisfazioni che la ragione presenta come motivazioni e fini, disinserisce da quell’irrazionalità dell’agire che non ha alcun senso, quindi dall’inganno e dalla volontà di perpetrarlo. Chi non cerca più soddisfazioni è soddisfatto. I nuovi concetti morali vengono quindi dedotti da questo nuovo punto di vista che ai motivi sostituisce i quietivi, alla voluntas la noluntas che si sottrae a ogni azione nel mondo perché torna solo a vantaggio della volontà di vita incurante degli individui. La prima via di liberazione indicata da Schopenhauer è la simpatia, che non costituisce il legame dialettico, intramondano e storico, ma esattamente l’opposto; essa rappresenta infatti il patire insieme (sim-patia, Mit-leid), l’annullamento di qualsiasi interesse per il riconoscimento avvenuto dell’equivalenza del mondo del bisogno e del dolore, dell’impotenza dell’agire, dell’inganno delle ragioni che lo motivano. Una volta conosciuto nella volontà irrazionale l’esse che determina i fenomeni della vita, non si produce più alcun inter-esse. La simpatia non va confusa con l’amore che per Schopenhauer è la più raffinata espressione dell’egoismo e della brama di possesso. La simpatia è piuttosto partecipazione dell’uomo al dolore del mondo, per l’avvenuto riconoscimento dell’identità della propria sorte con la sorte di tutti gli esseri viventi. Il precetto regolativo della simpatia è quello indiano tat tvam asi = ciò sei tu. In ogni essere del mondo, infatti, si rispecchia lo stesso dolore. Partendo dal presupposto che «nessun oggetto della volontà, una volta conseguito, può dare appagamento durevole, che più non muti; ma assomiglia solo all’elemosina che, gettata al mendico, prolunga oggi la sua vita per continuare domani il suo tormento» (Il mondo, § 38), Schopenhauer vede nella contemplazione estetica, in quanto sguardo disinteressato al possesso della cosa, la seconda via di liberazione dal giogo della volontà irrazionale e dalla trama del suo inganno. L’arte, infatti, gioca col mondo; il suo operare non rispetta le regole della ragione, non persegue valori né scopi, rompe la trama, è accadimento senza sequenza. Tra le varie espressioni dell’arte, la più elevata è considerata la tragedia, nella quale meglio si rivela l’intimo dissidio e la lotta della volontà con se stessa. «Il dolore senza nome, l’affanno dell’umanità, il trionfo della perfidia, la schernevole signoria del caso, e il fatale precipizio dei giusti e degli innocenti vengono dalla tragedia presentati in piena luce, e si ha così un significante indizio della natura del mondo e dell’essere» (Il mondo, § 51). Ma la liberazione dell’arte è temporanea e parziale. Più che una via d’uscita dal giogo della volontà di vita è solo un conforto alla vita stessa. La via di liberazione totale è perciò l’ascesi, dove la volontà non afferma più la propria essenza, ma la rinnega: «L’ascesi è l’orrore dell’uomo per l’essere di cui è espressione il suo proprio fenomeno, per la volontà di vivere, per il nocciolo e l’essenza di un mondo riconosciuto pieno di dolore» (Il mondo, § 68). L’asceta cessa di volere la vita e perciò pratica la castità perfetta che libera dalla prima e fondamentale manifestazione della volontà di vita che è l’impulso alla generazione. Per Schopenhauer questo impulso domina tutte le forme dell’amore sessuale che, per quanto elevato possa essere, è sempre sotto la spinta degli interessi e delle esigenze della generazione. La scelta individuale dell’amore non è mai individuale, perché è sempre della specie e nell’interesse della specie che suscita innamoramenti e passioni per la sua continuità e prosperità. In ogni rapporto, anche il più elevato, tra individui di sesso diverso non c’è per Schopenhauer che «la mediazione del genio della specie sull’individuo possibile mediante i due e sulla combinazione delle loro qualità» (Il mondo, § 44). Astenersi da ogni pratica sessuale e più ampiamente da ogni soddisfazione — perché si è riconosciuto che «nulla nel mondo esterno possiede valore» (Sul fondamento della morale, p. 221) — rende perfetto il consumo del mondo che, invece, risorge da ogni parziale consumazione compiuta dalla volontà che di continuo promuove bisogni e soddisfazioni parziali. La continuità del processo indica che ogni consumo puntuale non soddisfa, per cui si rinuncia alla soddisfazione contingente e puntuale per raggiungere la soddisfazione totale, non come calcolo utilitaristico, e quindi come nuovo prodotto della ragione calcolante, ma come oltrepassamento della volontà, in quanto consumo parziale del mondo. L’ascesi è la consumazione totale, come insignificanza del mondo non più inseguito. Il nulla a cui si perviene è nulla per quanti cercano soddisfazioni nel mondo, ma è pienezza per chi rinuncia all’idea di soddisfazione, dopo aver riconosciuto il nulla del mondo e aver rinunciato alla volontà ad esso. Qui è la positività della rinuncia. Per coglierla è necessario un pensiero differente da quello espresso dalla ragione occidentale che ha posto la sua realizzazione nel mondo; è necessario un pensiero che sia in grado di cogliere l’aspetto positivo nella nullificazione del mondo e il valore dell’agire in quell’agire che, consumandolo, lo vanifica. Un simile pensiero è stato chiamato in Oriente avvicinamento al Nirvana. Esso consiste nella radicale rinuncia alle soddisfazioni del mondo, nella padronanza raggiunta nella sua nullificazione, nel disinter-esse che anima chi è giunto al riconoscimento dell’insensatezza del suo esse. «Questo è per noi — scrive Schopenhauer alla conclusione della sua opera — l’unico mezzo per dissipare la lugubre impressione del nulla; di quel nulla che si delinea quale meta finale in uno sfondo di là della santità e della virtù, e che temiamo come i fanciulli temono le tenebre. Meglio così, che non illudere il nostro terrore, come fanno gli indiani, i quali si appagano di miti e di parole vuote di senso, come ad esempio l’assorbimento nel Brahma, o il Nirvana dei buddisti. Lo riconosciamo francamente: per coloro che sono ancora animati dal volere, ciò che resta dopo la totale soppressione della volontà è il vero e assoluto nulla. Ma, viceversa, per coloro in cui la volontà si è convertita e soppressa, questo mondo così reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, questo, propriamente questo, è il nulla» (Il mondo, § 71). Umberto Galimberti