Studium Generale Marcianum Istituto di scienze religiose “S. Lorenzo Giustiniani” a.a. 2011-2012 Corso FILOSOFIA DELLA RELIGIONE Prof. Marco Da Ponte sintesi dell’enciclica FIDES ET RATIO 1 1. Il quadro generale É opportuno premettere che la FR si riferisce ad un contesto storico in cui spiccano le condizioni patologiche tanto della ragione quanto della fede: della ragione che, «curvata su se stessa»1 ha perso il suo obiettivo e la sua funzione; della fede che si trova depotenziata in sentimentalismo2 e fideismo3, in fondamentalismo - «biblicismo»4 - oppure in sociologismo a causa di un'eccessiva condiscendenza verso le scienze umane5. Inoltre essa ha una finalità pastorale piuttosto che dogmatica: vuole presentare il problema ai cristiani, principalmente a chi ha responsabilità ecclesiale, pastorale, teologica e catechistica, per richiamare il valore della filosofia per i credenti6. Il Papa sottolinea che "pensare la fede" non è un impegno facoltativo né un compito specifico di alcuni soggetti particolari, per esempio i teologi; riguarda invece ogni cristiano ed è indispensabile per una fede adulta. A questo proposito è significativo il risalto dato alla sentenza di sant’Agostino: «la fede non pensata è nulla»7. Coerentemente con questo scopo, il baricentro di tutta l'enciclica è teologico: la Rivelazione si manifesta nell'incarnazione, perciò il rapporto fede/ragione è inscritto nella logica dell'incarnazione e dell'ingresso della rivelazione nella storia dell'uomo. Questo chiarisce perché‚ l’enciclica trovi uno dei suoi punti cruciali nella precisazione di quali siano le «esigenze irrinunciabili»8 che la Parola di Dio rivendica di fronte alla filosofia. Sul piano pastorale, la FR propone due sfide simmetriche: da una parte l'inculturazione della fede e dall'altra l'evangelizzazione della cultura. 2. L’introduzione FR si apre con una metafora: «La fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verità»9. Questa metafora fornisce il senso del rapporto fede/ragione secondo la prospettiva di Giovanni Paolo II: ambedue hanno bisogno una dell'altra; nessuna è autosufficiente rispetto al compito di innalzarsi alla contemplazione della verità. Subito dopo appare chiaro che è la filosofia ad essere considerata, in quest'enciclica, l'espressione principale della ragione e, in conformità alla tradizione sia occidentale sia orientale, essa viene intesa principalmente come ricerca del senso dell'esistenza umana: è un bisogno fondamentale che l'uomo ha sempre riconosciuto. Rispetto a questa ricerca, Giovanni Paolo II - rifacendosi al famoso esordio della costituzione apostolica Gaudium et spes - afferma che la Chiesa partecipa a questo sforzo comune dell'umanità: ne è coinvolta direttamente perché‚ sa che «ogni verità raggiunta è solo una tappa verso quella piena verità che si manifesterà nella rivelazione ultima di Dio»10. La citazione di san Paolo - «Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente» 1 FR 5. Cfr. FR 48. 3 Cfr. FR 55. 4 Ivi. 5 Cfr. FR 69. 6 Si noti l'appello a rivalutarne lo studio nei luoghi di formazione: seminari e corsi di teologia; cfr. FR 105. 7 FR 79. 8 L’espressione compare nel titolo della prima sezione del Cap. VII della FR. 9 FR incipit. 10 FR 2. 2 2 (1Cor 13,12) - viene a sottolineare che anche la Chiesa è in cammino, "pellegrina" verso una conoscenza perfetta di Dio che ora non le è ancora permessa. Si delineano così, fin dai primi paragrafi, le due prospettive della riflessione che verrà sviluppata lungo il testo dell’enciclica: la dimensione storica e quella escatologica, quest’ultima introdotta a chiarire che ogni discorso possibile sulla verità va sempre iscritto nella logica del "già e non ancora" che fornisce il valore autentico dell'esistenza umana secondo il messaggio evangelico. Ciò significa che, per il credente, l’approccio alla verità va sempre sottomesso alla condizione della creaturalità, che caratterizza l’uomo nel suo insieme e, quindi, anche i suoi strumenti conoscitivi, ossia la ragione. È un problema che anche la filosofia affronta, quando riflette sulle capacità della ragione conseguenti alla sua essenziale finitezza. Una manifestazione evidente di tale finitezza è nell'epoca moderna, il fatto che la ragione, impegnata nell'indagare sull'uomo, sul soggetto, si sia «curvata su se stessa»11, rendendo perciò autoreferenziale quello che doveva essere invece il suo compito critico. È palese, qui, il riferimento alle conseguenze della filosofia kantiana, ossia al soggettivismo e al relativismo che, secondo la FR, diventano contrassegni tipici dell'epoca moderna e hanno condotto la filosofia «alle sabbie mobili di un generale scetticismo»12, in cui sembra del tutto abbandonato l’interesse per la verità. Di fronte a questo esito, Giovanni Paolo II sollecita la filosofia a riprendere la sua ricerca, riaffermando «la necessità della riflessione sulla verità»13, seguendo una direzione che la conduca verso ciò che oltrepassa i suoi limiti, vale a dire in una direzione metafisica. Uno dei temi ricorrenti dell’enciclica, infatti, è il richiamo alla necessità di rivalutare la metafisica, sia pure intesa quale esigenza del pensiero e non come «una scuola filosofica specifica o una particolare corrente storica»14: compiere il passaggio «dal fenomeno al fondamento»15 è l'appello che viene rivolto alla filosofia, in nome di quella sua vocazione originaria, che oggi sembra perduta. 3. Il primo capitolo: i fondamenti teologici A mio parere, il primo capitolo – dal titolo: La rivelazione della sapienza di Dio - è il punto centrale dell'enciclica, perché è qui che vengono chiariti i motivi fondamentalmente teologici che impostano il problema. Esso consiste in un breve ma denso trattato di teologia dell’incarnazione, basato su un solido apparato di documentazione biblica, da cui si può desumere il motivo fondamentale che ne giustifica la presenza in un documento destinato a trattare un tema non esplicitamente dogmatico. Il riferimento alla teologia dell’incarnazione serve a precisare, infatti, che le due dimensioni - storica ed escatologica - in cui va inserito il problema, non riguardano solo la verità in quanto oggetto della ricerca della ragione, ma anche - e forse ancora di più - la verità della Rivelazione cui si affida la fede. Il Nuovo Testamento presenta Gesù come rivelatore del Padre e sancisce, quindi, che la Rivelazione cristiana si concentra nella figura dell’uomo Gesù che è il Cristo Figlio di Dio. In questo modo, la Rivelazione «si inserisce nel tempo e nella storia»16, attraverso l'incarnazione: la verità divina si presenta agli uomini nell'uomo Gesù, non solo nelle parole 11 FR 5. Ivi. 13 FR 6. 14 FR 83. 15 Ivi. 16 FR 11. 12 3 da lui dette ma anche nella sua vicenda; quindi, assume il linguaggio e i problemi degli uomini, in una parola la cultura. Si delinea così il primo lato della questione: la Rivelazione si presenta necessariamente in forma mediata, attraverso la mediazione delle strutture culturali, linguistiche e concettuali, perciò il credente - la Chiesa - non ha accesso immediato alla verità ultima, ma la ritrova solo attraverso dei segni; per questo la Rivelazione si apre in un «orizzonte sacramentale»17, l’unico che «permette di cogliere la profondità del mistero»18. Anche così, in ogni caso, rimane sempre un’eccedenza della verità che si rivela rispetto ai segni che la rivelano; quest’eccedenza è tematizzata in special modo nel vangelo di Giovanni, dove, da una parte sono definiti segni i miracoli operati da Gesù e si insiste con diverse formule linguistiche a sottolineare che Gesù rivela Dio Padre, mentre dall’altra ci viene detto che, nonostante queste manifestazioni, gli uomini rimangono incapaci di cogliere la verità profonda che sta dietro quei segni e quelle manifestazioni19. Ma così si delinea anche l'altro lato: anche la Chiesa tende alla verità - che dunque considera come un obiettivo non ancora raggiunto -; ma lo fa accettando di percorrere il cammino della storia, in cui la verità può mostrarsi solo in forma parziale o nascosta. Di più, essa sa che perfino la rivelazione «permane carica di mistero»20, cosicché, come i Dodici, essa si trova di fronte ad una verità che rimane comunque da ricercare sempre più in profondità. Su questo tema, Giovanni Paolo II si espone con delle affermazioni che delineano il problema in termini tali da lasciar trasparire la drammaticità di una tensione che può persino risultare sconcertante per la coscienza del credente, perché impedisce di interpretare la fede come una rassicurante culla di certezze: «Con tutta la sua vita Gesù rivela il volto del Padre [...] eppure, la conoscenza che noi abbiamo di tale volto è sempre segnata dalla frammentarietà e dal limite del nostro comprendere. [...] La conoscenza di fede, insomma, non annulla il mistero; solo lo rende più evidente e lo manifesta come fatto essenziale per la vita dell'uomo»21. Il rapporto alla rivelazione avviene sempre attraverso la mediazione di segni, che rinviano ad una verità più profonda non ancora disvelata, perché mai del tutto disvelabile. Per non lasciarsi frastornare da questa tensione fino a cadere nell’incredulità, la fede deve essere alimentata dalla tensione escatologica che, d'altra parte, ricordandole che la verità piena non si darà mai in questo tempo, le può evitare l'illusione di trasformarsi in un "sapere assoluto". Queste considerazioni permettono di chiarire i veri motivi che rendono necessario il rapporto tra fede e ragione, che sono propriamente teologici: da un lato, infatti, la fede si trova nella necessità di incarnarsi in strutture culturali storiche, e deve, perciò, dialogare con la filosofia come "compagna di strada" nella ricerca della verità; dall’altro, si tratta di riconoscere che entrambe rivolgono lo sguardo verso il mistero e all'interno del mistero, confessando però che, quanto più entrambe vi si addentrano, tanto più il mistero lascia trasparire di sé solo segni, cenni, parole, e si rivela perciò come "trascendente" - del resto non è forse questo il senso più autentico della parola stessa "verità" (alètheia) che richiama insieme tanto l'apertura quanto il nascondimento - proprio come re-velatio? Il senso complessivo che questo capitolo teologico ha rispetto all’economia argomentativa della FR è, secondo la lettura che ho qui proposto, quello di chiarire che il rapporto della fede con la filosofia non è meramente strumentale (come se si trattasse di 17 FR 13. Ivi. 19 Le citazioni possibili sono numerose; a puro titolo d’esempio: da una parte il detto «Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14, 9), oppure la risposta data nella pericope dell’arresto al Gestsemani «Sono io!» (Gv 18, 5 ss.); dall’altra «I suoi non l’hanno accolto» (Gv 1, 11), oppure l’incredulità di Tommaso (Gv 20, 24-29). Uno dei temi più sconcertanti, peraltro comune a tutti quattro i vangeli, è che nemmeno i Dodici sono riusciti ad oltrepassare del tutto la cortina del "segno". 20 FR 13. 21 Ivi. 18 4 assumere un veicolo efficace per un messaggio in sé già composto e completo) ma essenziale perché‚ in mancanza di tale rapporto, la fede perderebbe la possibilità di diventare linguaggio e quindi di essere comunicata, perché le verrebbe a mancare una fondamentale mediazione culturale, quella dell’esperienza che si pone esplicitamente l’obiettivo della ricerca della verità. Senza il dialogo con la filosofia, la fede perderebbe la possibilità di proporsi come annuncio di verità in termini comprensibili al linguaggio che la nostra cultura ha elaborato per parlarne. 4. Il secondo e il terzo capitolo: l’implicazione reciproca di fede e ragione Il secondo e il terzo capitolo - i cui titoli credo ut intelligam e intelligo ut credam richiamano le espressioni con le quali nella tradizione cristiana è stato affrontato il problema indicano i due lati del problema che, ritenuti spesso nel passato inconciliabili, sono in realtà indissolubilmente legati; più avanti Giovanni Paolo II indicherà con il termine «circolarità»22 una nuova formula per riassumere i termini della questione. Innanzi tutto si ricorda che il legame tra conoscenza di fede e conoscenza di ragione è affermato anche all'interno della Scrittura, dove è presente nella tradizione sapienziale dell'Antico Testamento, che attribuisce a ciascuna un suo spazio di realizzazione23. Infatti, la Scrittura ammette la conoscibilità razionale di Dio, sia pure "per analogia": è la cosiddetta "teologia naturale", delineata già nel libro della Sapienza e poi ripresa anche da Paolo nella lettera ai Romani, in cui è descritta in termini che si avvicinano molto a ciò che, con linguaggio filosofico, potrebbe essere definita «capacità metafisica dell’uomo»24. Ma è proprio Paolo a ricordarci anche i limiti di tale ricerca: prima di tutto è destinata all'insuccesso non tanto dall'insufficienza dello strumento razionale, quanto dal peccato che altera la volontà; in secondo luogo, la pretesa della filosofia di possedere la verità sotto la forma di un sapere incontrovertibile, che richiede una verità lineare esente da contraddizione una verità "intellettualistica" - viene sconfitta dalla croce di Cristo, dal Dio crocifisso, che sfida con la sua assurdità tutte le logiche della ragione. La FR propone qui un’interessante interpretazione della pericope paolina di 1Cor 1 e del tema della “follia” della croce: «La sapienza della Croce […] supera ogni limite culturale che le si voglia imporre e obbliga ad aprirsi all’universalità della verità di cui è portatrice»25. Ne consegue che, paradossalmente, proprio perché la Croce costituisce una sfida alla ragione filosofica, essa può anche rappresentare la fonte per una “critica della filosofia”, che ha una valenza profondamente filosofica, appunto in quanto critica: «La filosofia […] aiutata dalla fede può aprirsi ad accogliere nella “follia” della Croce la genuina critica a quanti si illudono di possedere la verità, imbrigliandola nelle secche di un loro sistema»26. Nel terzo capitolo la FR propone un affresco del cammino di ricerca della verità che accomuna tutta l’umanità, riconoscendo un'equivalenza tra ciò che la fede chiama "nostalgia di Dio" presente in tutti gli uomini - come è ricordato nelle preghiere liturgiche del Venerdì 22 FR 73. Cfr. FR 16-17; il testo dell’enciclica contiene parecchie citazioni, soprattutto dai libri del Siracide, dei Proverbi e della Sapienza. 24 FR 22. 25 FR 23. 26 Ivi. La "follia" della croce non sta solo nell'assurdità di un Dio che viene a subire l'assurdo dell'esecuzione capitale nella sua forma più infamante, ma anche nel fatto che la rivelazione di Dio non si difenda dal rifiuto: la verità accetta di essere respinta: «I suoi non l’hanno accolto» (Gv 1, 11). Il dramma del "fallimento" della rivelazione è almeno simmetrico al dramma dell'errore incalcolabile della coscienza umana che, pur in presenza della verità, non l'ha riconosciuta. 23 5 santo - e quella che la filosofia chiama "desiderio di sapere"27 - evidenziato nella famosa sentenza di Aristotele, che viene esplicitamente citata: «Tutti gli uomini desiderano sapere»28. L’equivalenza può essere posta perché si riconosce che si tratta di due esperienze originarie che esprimono entrambe l'esigenza di innalzarsi oltre il contingente per spaziare verso l'infinito. In modo particolare questa esigenza è alimentata dalle domande esistenziali radicali - «Ha un senso la vita? verso dove è diretta?»29 - che hanno condotto da sempre la ricerca filosofica, ma che sono condivise anche dalla coscienza di molti autori biblici: la FR ricorda che esse scandiscono la riflessione contenuta nel libro di Giobbe30. Proprio perché il senso profondo della ricerca della verità è alimentato da queste domande essenzialmente esistenziali, esso non può essere ricondotto solamente nei termini delle codificazioni sistematiche che le singole dottrine ne hanno dato. Sono domande che appartengono alla problematicità strutturale dell'esistenza che ogni uomo è in grado di riconoscere; per questo si può ben affermare che «ogni uomo è filosofo»31. Ma soprattutto, queste domande indicano che cercare la verità è essenziale e costitutivo dell'uomo - non le verità parziali, ma la verità "totale", cioè il senso della vita e della morte - al punto che, secondo Giovanni Paolo II si può definire l'uomo come «colui che cerca la verità»32. È questo un punto particolarmente importante dell’enciclica, per due motivi: prima di tutto, perché con questa definizione dell’uomo si toglie definitivamente il rischio di pensare la filosofia come un ambito culturale ristretto ad una cerchia di studiosi e irrimediabilmente inaccessibile alla gran parte degli uomini; al contrario, con questa affermazione si pone la filosofia al rango delle esperienze fondamentali dell’umanità, in quanto tale condivisa da tutti, sia pure in gradi diversi. In secondo luogo, è da notare il forte radicamento esistenziale attribuito alla filosofia, che consente di dipingerla come una vera e propria “ermeneutica dell’esistenza”33. La ricerca di una risposta a queste domande esistenziali conduce, inevitabilmente, oltre l’immediatezza del dato esperienziale, perché il senso della vita e della morte possono essere ritrovati solo in una verità ultima. Questa tensione al superamento dell’orizzonte immediato dell’esperienza e dell’esistenza è lo spazio in cui i due ordini di conoscenza quello della fede e quello della filosofia - possono collaborare per condurre alla verità nella sua pienezza. Un ulteriore elemento di avvicinamento può essere rinvenuto, secondo la FR, nel fatto che anche la conoscenza razionale non può accontentarsi solo di quanto viene appreso per conoscenza empirica diretta e ha bisogno di alimentarsi anche della “credenza”34, al punto che viene proposto un corollario alla precedente definizione dell’uomo: «L’uomo, essere che cerca la verità, è dunque anche colui che vive di credenza»35. Essa è una forma di conoscenza che si basa sulla «fiducia interpersonale»36, perché si affida alle conoscenze acquisite da altre persone e può perciò presentare una forte analogia con il fatto che la fede si fonda sulla testimonianza37. 27 Cfr. FR 24-25. ARISTOTELE, Metafisica, I, 1, 980 a; cfr. FR 25. 29 FR 26. 30 Cfr. ivi. 31 FR 30. 32 FR 28. 33 Il termine non sarebbe forse coerente con la considerazione piuttosto riduttiva che la FR ha dell’ermeneutica (cfr. FR 84); tuttavia la frequente ricorrenza del termine "esistenza" in relazione alla tematica affrontata in questa parte dell’enciclica, potrebbe essere sufficiente a giustificare l’accostamento. 34 Cfr. FR 31-33. 35 FR 31. 36 FR 32. 37 Naturalmente si potrebbe osservare che questa analogia è solo parziale perché concerne solo l’elemento conoscitivo della fede, ma non comprende né l’aspetto esistenziale né tanto meno l’esperienza di grazia che ne è l’elemento teologale più importante. Del resto, anche l’apprezzamento della funzione conoscitiva della credenza può avere un senso solo in contrapposizione ad una filosofia rigidamente empirista – peraltro in termini 28 6 Questa parte si conclude escludendo qualsiasi conflitto tra le due vie della rivelazione di Dio: quella naturale e quella soprannaturale in Cristo. Trovo significativo che a questo punto venga posta in nota una citazione di Galileo, dalla Lettera a don Benedetto Castelli, in cui viene avanzata proprio questa tesi, e che venga avvicinata alle parole della Gaudium et spes38. 5. Il quarto capitolo: lo sviluppo storico del problema Con il quarto capitolo – Il rapporto tra la fede e la ragione - si apre una sezione storica, in cui sono ripercorsi i momenti salienti del rapporto, a partire dall'incontro tra cristianesimo e filosofia greca, che l’enciclica ammette non sia stato «immediato né facile»39, tanto da determinare nei pensatori e nei teologi cristiani posizioni anche molto diverse, che hanno fatto maturare un’assunzione critica del pensiero filosofico. In questo processo, di importanza decisiva per il cristianesimo, un ruolo prezioso è stato svolto dai Padri, che si sono rivelati dei «pensatori non ingenui»40, perché‚ da una parte «accolsero in pieno la ragione aperta all'assoluto e in essa innestarono la ricchezza proveniente dalla Rivelazione»41, dall'altra, però, «non ebbero timore di riconoscere tanto gli elementi comuni quanto le diversità che [le filosofie] presentavano rispetto alla Rivelazione»42. Si è trattato, quindi, di un vero processo di inculturazione della fede, che ha realizzato, in questo modo, la dimensione storica, incarnata, della rivelazione. Un altro momento decisivo è rappresentato, come la Chiesa ha sempre riconosciuto, dalla Scolastica. A questo proposito, la FR contiene un’interessante novità rappresentata dall’abbondanza di riferimenti a sant’Anselmo e alla sua dottrina, presentata come un’importante conferma dell’armonia fondamentale della conoscenza filosofia e della conoscenza di fede43; naturalmente non è per niente strano che la figura di questo straordinario pensatore sia apprezzata, ma è da notare che la tradizione cattolica – e soprattutto il Magistero – in precedenza lo aveva trascurato, ricordandolo forse più per la dottrina soteriologica della “soddisfazione vicaria” che per la sua filosofia, alla quale veniva sempre preferita quella di san Tommaso. È chiaro che, anche nella FR, quest’ultima occupa uno spazio di primo piano, perché Tommaso è sempre riproposto «come maestro di pensiero e modello del retto modo di fare teologia»44, e la sua filosofia è considerata come un modello di autentico pensiero realista in quanto «è veramente la filosofia dell’essere e non del semplice apparire»45, tuttavia il Papa ritiene opportuno precisare che non intende riproporre il tomismo come sistema di dottrine, ma solo indicarlo quale modello di metodo46. A sant’Alberto Magno e a san Tommaso è anche strettamente individuali – che appartiene più ad uno stereotipo che non all’effettiva situazione del pensiero contemporaneo. 38 Cfr. FR 34, nota 29. È da notare che si tratta dell’unica citazione di un filosofo moderno che non faccia parte dei “classici” cui si riferisce solitamente il pensiero cristiano; essa completa nella maniera più inequivocabile la riabilitazione del grande scienziato compiuta da Giovanni Paolo II 39 FR 38. 40 FR 41. 41 Ivi. 42 Ivi. 43 FR 42. 44 FR 43. 45 FR 44. 46 Cfr. FR 78. In questo modo resta segnata la distanza che separa FR dai precedenti interventi del Magistero in materia di filosofia, dove era esplicita l’indicazione ad assumere il tomismo come unica dottrina filosofica pienamente compatibile con la dogmatica cattolica. Se poi, di fatto, il messaggio della FR sia rimasto entro quei limiti, è questione che è stata ampiamente discussa dai commentatori. 7 riconosciuto il merito di esser stati «i primi a riconoscere la necessaria autonomia di cui la filosofia e le scienze avevano bisogno»47. In seguito, passata questa felice stagione che ha realizzato una completa armonia tra fede e ragione, a partire dal tardo Medioevo, «la legittima distinzione tra i due saperi si trasformò progressivamente in una nefasta separazione»48, radicalizzatasi nelle filosofie dell'Ottocento. È in questo secolo che, secondo il Papa, il movimento di separazione ha raggiunto «il suo apogeo»49 ed egli ne individua le quattro posizioni più emblematiche: l’idealismo in cui la fede e i suoi contenuti sono stati trasformati «in strutture dialettiche razionalmente concepibili»50, fino a culminare nell’umanesimo ateo; la mentalità positivistica, impostasi nell’ambito della ricerca scientifica, che «non soltanto si è allontanata da ogni riferimento alla visione cristiana del mondo, ma ha anche, e soprattutto, lasciato cadere ogni richiamo alla visione metafisica e morale»51; il nichilismo, che propone una ricerca fine a se stessa «senza speranza né possibilità alcuna di raggiungere la meta della verità»52; infine, altre forme di razionalità che hanno marginalizzato la filosofia, proponendosi come ragione puramente strumentale «al servizio di fini utilitaristici, di fruizione o di potere»53. In questo excursus storico, mi sembrano rilevanti due punti. Per prima cosa il fatto che, nonostante questo quadro decisamente negativo, il Papa riconosce che «anche nella riflessione filosofica di coloro che contribuirono ad allargare la distanza tra fede e ragione si manifestano talvolta germi preziosi di pensiero»54; è un prezioso ritorno della lezione patristica dei "semi del Verbo" ripresa dal Concilio Vaticano II nella Gaudium et spes purtroppo limitato a un accenno che può essere facilmente trascurato da lettori poco attenti. Il secondo punto riveste un’importanza ben più grande; si tratta dell’osservazione che l'esito di questa separazione non ha danneggiato solo la ragione ma anche la fede e dalla lotta nessuna delle due è uscita vincitrice: un giudizio che taglia in radice qualsiasi trionfalismo bigotto. La tesi è chiara e drammatica: «Sia la ragione che la fede si sono impoverite e sono divenute deboli l'una di fronte all'altra. [...] La fede, privata della ragione, ha sottolineato il sentimento e l'esperienza, correndo il rischio di non essere più una proposta universale. É illusorio pensare che la fede, dinanzi a una ragione debole, abbia maggiore incisività»55. In un clima culturale come quello attuale, che vede il ritorno a forme di religiosità mitica o superstiziosa, e di fronte alla diffusione sempre più marcata anche nella Chiesa cattolica di nuove forme di fideismo, il Papa lancia un monito importante che potrebbe riguardare tutti quei movimenti che propongono una versione spontaneistica e sentimentalistica della vita di fede. Questo excursus, delineando il processo attraverso il quale si è sviluppato il problema, e, soprattutto, la conclusione che ne è stata tirata, compone il motivo di ordine storico - dopo quelli di ordine teologico, esposti nel primo capitolo - che fonda l'appello ai credenti affinché recuperino il valore del confronto con la filosofia. 47 FR 45. Ivi. 49 FR 46. 50 Ivi. 51 Ivi. 52 Ivi. 53 FR 47. 54 FR 48. 55 FR 48. 48 8 6. Il quinto capitolo: i precedenti interventi del Magistero La sezione successiva - Gli interventi del Magistero in materia filosofica - ripercorre i precedenti interventi del magistero che hanno riguardato il problema del rapporto tra fede e ragione ed è aperta da un'affermazione che, proprio per la sua posizione, acquista una particolare solennità: «La Chiesa non propone una propria filosofia né canonizza una qualsiasi filosofia particolare a scapito di altre»56. É vero che non si tratta di una novità, perché se ne parla già nell'enciclica Humani generis di Pio XII57, ma lo speciale rilievo, con cui è qui introdotta, segnala il valore che le viene attribuito. Del resto, l’affermazione sarà ripetuta anche più avanti, soprattutto per sgombrare il campo dal retaggio tradizionale di considerare il tomismo l'unica dottrina filosofica ammissibile nella Chiesa. Prima di descrivere rapidamente i singoli documenti, il Papa ritiene necessaria una premessa, che fornisce una giustificazione di principio della loro legittimità ed ha anche la funzione di chiarire l'ottica con la quale il magistero ecclesiastico è intervenuto e ritiene ancora di intervenire per valutare le singole dottrine filosofiche: non per difenderne o affermarne una tra esse, ma per esercitare un'azione di discernimento per «reagire in maniera chiara e forte quando tesi filosofiche discutibili minacciano la retta comprensione del dato rivelato»58 e segnalare «quali presupposti e conclusioni filosofiche sarebbero incompatibili con la verità rivelata»59 perché‚ toccano contenuti decisivi. É un'opera di discernimento che Giovanni Paolo II definisce «diaconia alla verità»60 e di cui precisa che «non deve essere inteso primariamente in forma negativa, come se intenzione del magistero fosse di eliminare o ridurre ogni possibile mediazione»61; al contrario, si tratta di un impegno a richiamare la "finitezza" della filosofia, che la Chiesa riconosce perché sa che la ragione umana è «ferita e indebolita dal peccato [cosicché] nessuna forma storica della filosofia può legittimamente pretendere di abbracciare la totalità della verità, né di essere la spiegazione piena dell'essere umano»62. Questo discernimento è stato esercitato dal magistero ecclesiastico nei confronti di posizioni sia filosofiche, sia teologiche: in questo campo, sono stati segnalati già da tempo in modo particolare dal Concilio Vaticano I con la costituzione dogmatica sulla divina rivelazione Dei Filius - gli errori contrapposti del razionalismo e del fideismo. Oggi è soprattutto il clima di sfiducia nella ragione, diffuso anche all’interno della Chiesa e della teologia, a preoccupare il papa, perché esso alimenta quella forma nuova di fideismo che si presenta sotto le spoglie del «biblicismo»63. La funzione “positiva” che il magistero ha attribuito ai suoi interventi risulta evidente, soprattutto, nell’impulso dato al «genuino rinnovamento del pensiero filosofico»64, che ha trovato il suo culmine nel «rinnovamento tomista e neotomista»65. Ma la FR segnala anche altri dati che indicano una ripresa del pensiero filosofico di ispirazione cristiana nel XIX e nel XX secolo: ne viene fornito un breve elenco senza nomi, dal quale è possibile, comunque, ricavare l’identità dei filosofi cui si riferisce. Un primo ritratto delinea «chi organizzò sintesi 56 FR 49. In realtà, in quel caso si tratta soltanto di un cenno che si trova all’interno di un paragrafo il cui senso principale è la condanna del relativismo dogmatico (cfr. Humani generis, 716; EE, 6/639). 58 FR 49. 59 FR 50. 60 L’espressione è contenuta nel titolo della prima sezione del capitolo: Il discernimento del magistero come diaconia alla verità. 61 FR 51. 62 Ivi. 63 FR 55. 64 FR 57. 65 FR 59. 57 9 di così alto profilo che nulla hanno da invidiare ai grandi sistemi dell’idealismo»; qui molti commentatori sono d’accordo nel riconoscere la figura di Rosmini66. Un secondo medaglione presenta «chi pose le basi epistemologiche per una nuova trattazione della fede alla luce di una rinnovata comprensione della coscienza morale». Un terzo descrive «chi produsse una filosofia che, partendo dall’analisi dell’immanenza, apriva il cammino verso il trascendente», espressioni da riferire, a parere di molti67, a Maurice Blondel. Infine, c’è «chi tentò di coniugare le esigenze della fede nell’orizzonte della metodologia fenomenologica»: è lampante che qui ci si riferisce a Edith Stein68. Questa sezione si conclude con il rammarico che «non pochi teologi condividano il disinteresse per lo studio della filosofia»69, spesso accompagnato dal fraintendimento sull’effettivo valore scientifico e filosofico delle scienze umane, che ne hanno usurpato il posto. Di conseguenza, la FR ribadisce il forte interesse che la Chiesa dedica alla filosofia con la riaffermazione del «carattere fondamentale e ineliminabile [dello studio della filosofia] nella struttura degli studi teologici e nella formazione dei candidati al sacerdozio»70. Non si tratta di una valutazione riguardante solo la completezza o l’efficacia del percorso didattico; è in gioco la possibilità stessa del dialogo con il mondo della cultura contemporanea, sullo stato del quale l’enciclica emette un giudizio sorprendentemente severo, che chiama in causa la responsabilità di tutta la Chiesa, mostratasi distratta o poco critica nel discernimento perché disinformata: «La disattenzione nei confronti del pensiero e della cultura moderna […] ha portato alla chiusura ad ogni forma di dialogo o alla indiscriminata accoglienza di ogni filosofia»71. 7. Il sesto capitolo: l’interazione tra teologia e filosofia In questo capitolo vengono precisati gli aspetti della teologia nei quali il rapporto alla filosofia deve essere considerato non solamente strumentale ma del tutto essenziale, perché‚ «imposto in forza della natura stessa della Parola rivelata»72. Anche in questo caso, però parallelamente a quanto precisato nel capitolo precedente riguardo alle dottrine filosofiche particolari - il Papa afferma che non vuole «indicare ai teologi particolari metodologie, cosa che non compete al magistero, [… quanto] piuttosto richiamare alla mente alcuni compiti propri della teologia»73. Riprendendo la distinzione - tradizionale nel pensiero teologico - tra auditus fidei e intellectus fidei, si fa notare che, riguardo al primo aspetto, l’apporto della filosofia alla teologia è funzionale ad affrontare i problemi della struttura della conoscenza e delle varie forme e funzioni del linguaggio, che si incontrano per una corretta comprensione tanto della 66 Cfr. X. TILLIETTE, Il problema della filosofia cristiana, in Per la filosofia. Filosofia e insegnamento, 16 (1999), n. 45, p. 55. 67 Cfr. G. COFFELE, «Fides et ratio» e la filosofia della religione contemporanea. L’esempio di Maurice Blondel (1861-1949), in Fede e ragione. Opposizione, composizione?, a cura di M. MANTOVANI – S. THURUTHIYIL – M. TOSO, Roma 1999, pp. 227- 235; L. MELINA, «Verità sul bene». Razionalità pratica, etica filosofica e teologia morale, in Fede e ragione, cit., p. 215; X. TILLIETTE, Il problema, cit., p. 54; quest’ultimo vi vede, però, forse anche un accenno a Laberthonnière. 68 La fenomenologa, recentemente beatificata, è menzionata, questa volta esplicitamente, anche nell’elenco compreso nel n. 74; per la verità, è l’unica donna nominata, come fa notare Mara Dell’Unto; cfr. M. DELL’UNTO, «Ricerca coraggiosa» (FR, n. 74) della verità: fede e ragione nella vita di studio. Un breve confronto con E. Stein e J. H. Newman, in Fede e ragione, cit., p. 277. 69 FR 61. 70 FR 62. 71 Ivi. 72 FR 64. 73 Ivi, corsivo mio. 10 Bibbia quanto della tradizione ecclesiale, la quale si è espressa in forme di pensiero mutuate da una determinata tradizione filosofica, che il teologo, perciò, deve conoscere per poterne ricostruire e comprendere con esattezza il significato74. Riguardo al secondo aspetto, l'intellectus fidei richiede che questa venga espressa in concetti formulati in modo critico e universalmente comunicabile, per cui l'apporto della filosofia è indispensabile alle diverse branche della teologia. Alla teologia dogmatica, che deve essere in grado di articolare il senso universale del mistero di Dio «sia in maniera narrativa, sia, soprattutto, in forma argomentativa»75, la filosofia sarà utile per chiarire i presupposti logici e concettuali del linguaggio con cui articolare il suo discorso sul mistero di Dio e il rapporto tra Dio e l'uomo. La teologia fondamentale sarà necessariamente condotta a dialogare con la filosofia per «mostrare come, alla luce della conoscenza per fede emergano alcune verità che la ragione già coglie nel suo autonomo cammino di ricerca»76, cosicché la ragione sia condotta a «riconoscere l’esistenza di una via realmente propedeutica alla fede»77. Infine, la teologia morale, per poter applicare alle circostanze particolari della vita individuale e sociale i principi generali desumibili dal Nuovo Testamento, ha bisogno della mediazione dei concetti dell’etica filosofica78. Siamo rinviati di nuovo, quindi, al problema delle mediazioni culturali della fede ossia all'inculturazione del Vangelo79, più avvertito oggi per una maggiore sensibilità maturata nell'incontro con le grandi culture non europee, ma sempre presente nella storia del cristianesimo fin dalle origini: in effetti, la prima diffusione del Vangelo è stata un processo d’inculturazione, com’è testimoniato dal racconto degli Atti (At 2, 7-11). Questo problema non riguarda però solo la parte missionaria della vita della Chiesa, ma tutti i cristiani, perché il modo in cui essi vivono la fede «è anch'esso permeato dalla cultura dell'ambiente circostante e contribuisce, a sua volta, a modellarne progressivamente le caratteristiche»80. Anche rispetto a questo, il mistero della rivelazione mette in luce la finitezza di tali mediazioni culturali e mostra, nello stesso tempo, la propria eccedenza rispetto ad ognuna di esse, cosicché, quantunque la fede debba necessariamente manifestarsi in una cultura, nessuna cultura «può mai diventare criterio di giudizio e ancor meno criterio ultimo di verità nei confronti della rivelazione di Dio»81. La questione assume un rilievo decisivo quando si deve attuare l’inculturazione in contesti di civiltà diversi da quella occidentale, perché le mediazioni culturali di cui la Chiesa ha fatto uso finora per l’evangelizzazione sono tutte debitrici del patrimonio filosofico grecolatino. Recentemente il problema è stato sollevato dai teologi indiani e proprio a questi il Papa risponde, invitandoli ad un’opera di discernimento che si lasci guidare da tre criteri desumibili dalla dichiarazione conciliare Nostra aetate: il primo è quello dell’universalità dello spirito umano, che esprime esigenze fondamentali identiche nelle culture più diverse; il secondo ricorda che, anche quando incontra altre civiltà, la Chiesa «non può lasciarsi alle spalle ciò che ha acquisito dell’inculturazione nel pensiero greco-latino»82; il terzo mette in guardia dal non «confondere la legittima rivendicazione della specificità e dell’originalità del pensiero indiano con l’idea che una tradizione culturale debba rinchiudersi nella sua differenza e affermarsi nella sua opposizione alle altre»83. 74 Cfr. FR 65. FR 66. 76 FR 67. 77 Ivi. Sotto queste parole, mi sembra riconoscibile la figura “classica” dei preambula fidei che sono ancora riproposti, sebbene l’espressione non sia mai usata nel testo dell’enciclica. 78 FR 68. 79 Cfr. FR 70-72. 80 FR 71. 81 FR 71. 82 FR 72. 83 Ivi. 75 11 Queste ultime considerazioni confermano, secondo la FR, che «il rapporto […] tra la teologia e la filosofia sarà all’insegna della circolarità»84, come hanno in realtà documentato con la loro attività filosofica non solo i Padri e i dottori medioevali, ma anche pensatori dell’epoca moderna e contemporanea; il testo dell’enciclica propone qui un breve elenco a titolo esemplificativo, che contiene nomi interessanti appartenenti tanto all’ambito occidentale che a quello orientale: John Hernry Newman, Antonio Rosmini, Jacques Maritain, Étienne Gilson, Edith Stein, Vladimir S. Solov’ëv, Pavel A. Florenskij, Pëtr J. Caadaev, Vladimir N. Lossky85. Il capitolo prosegue esaminando i tre stati che caratterizzano la filosofia nei suoi rapporti con la fede. Per primo si esamina quello in cui la filosofia è totalmente indipendente dalla Rivelazione: è la situazione che si è storicamente concretizzata nelle epoche precedenti alla nascita di Cristo e nelle regioni del mondo non ancora raggiunte dal Vangelo. In queste situazioni è da riconoscere «la legittima aspirazione [della filosofia] ad essere un’impresa autonoma, che procede cioè secondo le leggi sue proprie, avvalendosi delle sole forze della ragione»86: dopo quest’affermazione, il Papa ammette che la filosofia, in quanto tale, è animata da un’aspirazione all’autonomia che «va sostenuta e rafforzata»87 purché non arrivi fino alla separatezza, ossia a rivendicare «una autosufficienza del pensiero che si rivela chiaramente illegittima»88. Il secondo stato è rappresentato dalla filosofia cristiana, che non va intesa, però, come «una filosofia ufficiale della Chiesa»89, bensì come «un filosofare cristiano, una speculazione filosofica concepita in unione vitale con la fede [… riconoscibile in] tutti quegli importanti sviluppi del pensiero filosofico che non si sarebbero realizzati senza l’apporto, diretto o indiretto, della fede cristiana»90, quali la problematica del male, l’identità personale di Dio, la domanda sul senso della vita o la domanda metafisica radicale: «Perché vi è qualcosa?»91. Su questo la FR conclude che «senza questo influsso stimolante della parola di Dio, buona parte della filosofia moderna e contemporanea non esisterebbe»92. Infine, la filosofa può essere chiamata in causa direttamente dalla teologia, secondo quella figura che fin dall’età patristica è stata denominata ancilla theologiae. Il tema è ancora attuale, sebbene l’espressione sia «oggi difficilmente utilizzabile in forza dei principi a cui si è fatto cenno»93, perché la teologia ha bisogno della filosofia come interlocutrice per verificare l’intelligibilità e l’universalità dei suoi asserti, funzione per assolvere la quale non è necessario che questa le sia subordinata. La FR puntualizza che anche in questo terzo stato la filosofia può mantenere la sua autonomia94. 84 FR 73. Cfr. FR 74. 86 FR 75. 87 Ivi. 88 Ivi. Il tema dell’autonomia della filosofia e di come possa essere effettivamente esercitata, stante l’autorità del Magistero in materia, è stato oggetto di accesa discussione negli interventi seguiti alla pubblicazione dell’enciclica, in special modo da parte di filosofi laici. 89 FR 76. 90 Ivi. 91 Cfr. ivi. 92 Ivi. 93 FR 77. 94 Cfr. ivi. 85 12 8. Il settimo capitolo: le questioni cruciali della nostra epoca L'ultimo capitolo - Esigenze e compiti attuali - ripropone il primato fondamentale della rivelazione già espresso all'inizio dell'enciclica; esso si apre, infatti, con la specificazione delle «esigenze irrinunciabili» che la parola di Dio rivolge alla filosofia, in virtù del fatto che anche la Bibbia contiene una filosofia implicita, perché prospetta il problema del senso dell’esistenza e ne fornisce la risposta indirizzando verso Cristo95. Per questo motivo, di fronte all’attuale «crisi del senso»96 - per risolvere la quale la cultura sembra possedere pochi mezzi, penalizzata com’è dalla frammentarietà del sapere, dallo scetticismo e dal nichilismo – dalla parola di Dio possono venire delle indicazioni risolutive. La prima esigenza è un richiamo affinché la filosofia ritrovi la sua «dimensione sapienziale di ricerca del senso ultimo e globale della vita»97, essendo questo il primo insostituibile passo per superare la "crisi del senso". La seconda esigenza ricorda che tale dimensione sapienziale si realizza in un’autentica conoscenza della verità oggettiva, che impegna la filosofia ad abbandonare fenomenismo e relativismo per sviluppare una vera e propria filosofia dell’essere; è un’esigenza ben presente anche nella Scrittura perché «nei libri sacri, e in particolare nel Nuovo Testamento, si trovano testi e affermazioni di portata propriamente ontologica»98. La terza è quella che le riassume tutte: l'esigenza di «una filosofia di portata autenticamente metafisica»99; non si tratta di assumere una scuola filosofica specifica o una particolare corrente storica, quanto invece di riconoscere l'istanza metafisica del pensiero, che consiste nel compiere il passaggio «dal fenomeno al fondamento»100. La teologia stessa non ne può fare a meno, perché la parola di Dio fa continui riferimenti a ciò che oltrepassa l’esperienza e persino il pensiero dell’uomo, cosicché «la metafisica si pone come mediazione privilegiata nella ricerca teologica»101. Tale istanza metafisica è necessaria, secondo Giovanni Paolo II, anche alla teologia biblica per superare la sterilità di un’ermeneutica che si ferma all’analisi del linguaggio e del testo senza procedere verso l’essenza di ciò che è detto: la parola di Dio è sempre parola in linguaggio umano, ma l'esegesi di questo linguaggio non può limitarsi a «rimandarci da interpretazione a interpretazione»102, perché‚ in questo modo non vi sarebbe alcuna rivelazione di Dio. É necessaria, perciò, un’ermeneutica teologica che conduca a scoprire il significato dei testi nella e per la storia della salvezza. Le condizioni attuali del dibattito filosofico sembrano lasciare poco spazio per una risposta a queste esigenze, per questo il Papa se ne preoccupa e ripete «che l’uomo è capace di giungere a una visione unitaria e organica del sapere»103, cercando di contrastare la settorialità del sapere, oggi dominante. La FR indica anche una possibile via d’uscita nel recupero della tradizione e trova «quanto mai significativo che, nel contesto attuale, alcuni filosofi si 95 Cfr. FR 80. Fr 81. 97 FR 81. 98 FR 82. Penso che quest’ultima affermazione possa suscitare perplessità, stanti le recenti prospettive esegetiche della teologia biblica. 99 FR 83. 100 Ivi. 101 Ivi. 102 FR 84. Queste considerazioni riassumono il senso del documento L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, emanato dalla Pontificia Commissione Biblica nel 1993. 103 FR 85. 96 13 facciano promotori della riscoperta del ruolo determinante della tradizione per una corretta forma di conoscenza»104. Per poter sviluppare la riflessione filosofica in modo da mantenerla in rapporto con quella elaborata nella tradizione cristiana, è necessario «prevenire il pericolo che si nasconde in alcune linee di pensiero, oggi particolarmente diffuse»105, che vengono elencate «per rilevarne gli errori e i conseguenti rischi per l’attività filosofica»106. Per primo viene nominato l’eclettismo107, il cui errore consiste nella mancanza di sistematicità e di storicità; può essere ravvisato anche nell’abuso retorico dei termini filosofici in teologia. Al contrario, lo storicismo nega la validità perenne della verità e stabilisce «la verità di una filosofia sulla base della sua adeguatezza ad un determinato periodo e ad un determinato compito storico»108; ne è derivato, in teologia, il modernismo - del quale, sorprendentemente, la FR riconosce «la giusta preoccupazione di rendere il discorso teologico attuale e assimilabile per il contemporaneo»109, ma ribadisce anche che conduce all’errore di scambiare l’attualità per la verità. Un altro tendenza erronea è rappresentata dallo scientismo, pericoloso soprattutto perché relega «nei confini della mera immaginazione sia la conoscenza religiosa e teologica, sia il sapere etico ed estetico»110, come risulta evidente dalla pratica delle scienze e della tecnologia contemporanee, che tendono a risolvere in problemi praticooperativi tutte le problematiche di ordine etico. Simile al precedente è il pragmatismo, ben visibile nella concezione distorta della democrazia come semplice prevalenza della maggioranza e che «non contempla il riferimento a fondamenti di ordine assiologico e perciò immutabili»111. Infine il nichilismo, che viene qualificato come «l’orizzonte comune a molte filosofie che hanno preso congedo dal senso dell’essere»112 e che consiste sostanzialmente nel «rifiuto di ogni fondamento e nella negazione di ogni verità oggettiva»113; la FR lo inserisce all’interno di un processo che, a partire dall’affermazione del principio d’immanenza, ha sviluppato le diverse correnti irrazionaliste che caratterizzano la filosofia dell’epoca postmoderna, correnti che, comunque, «meritano un’adeguata attenzione»114 soprattutto perché, negando ogni certezza e proponendo di vivere in un orizzonte caratterizzato dalla totale mancanza di senso, tolgono ogni spazio alla fede. Nella seconda parte del capitolo vengono indicati i compiti attuali per la teologia, che sono di ordine ermeneutico piuttosto che sistematico. Prima di tutto essa deve impegnarsi a fare in modo che credere nella possibilità di conoscere una verità universalmente valida non sia minimamente fonte di intolleranza: è necessaria quindi un'ermeneutica della rivelazione in chiave ecumenica115. Lo scopo fondamentale della teologia rimane ancora oggi l’intellectus fidei, e l'oggetto primario dell'intelligenza della fede sarà la kenosi di Dio; perciò si impone come esigenza di fondo e urgente un’attenta analisi dei testi, affrontando la quale si presentano alcuni problemi che possono essere risolti solo attraverso l’apporto della filosofia. 104 Ivi. Come nel corso del quinto capitolo (cfr. FR 59), anche qui non sono fatti i nomi, ma alcuni commentatori vi leggono quelli di Hans Georg Gadamer o di Maurice Blondel (Cfr. R. FISICHELLA, Introduzione, in Fides et ratio. I rapporti tra fede e ragione, Casale Monferrato 1998, p. 37). 105 FR 86. 106 Ivi. 107 Cfr. ivi. 108 FR 87. 109 Ivi. 110 FR 88. 111 FR 89. 112 FR 90. 113 Ivi. 114 FR 91; questo rimane, però, soltanto un invito al lettore, perché la FR non approfondisce l’analisi, che rimane, perciò, un po’ generica. 115 Cfr. FR 92. 14 Subito si presenta, infatti, il problema del rapporto tra il significato e la verità nella Scrittura, che comporta la necessità di «ricercare la verità profonda e genuina che i testi vogliono comunicare, pur nei limiti del linguaggio»116; ciò significa che non è possibile limitarsi a discutere il loro significato puramente storico, ma si deve scoprire il senso che possono avere in relazione alla storia della salvezza. È un’operazione che richiede il contributo dell’analisi filosofica, pertinente per sviluppare l’indagine sul rapporto tra il fatto storico e il suo significato metastorico. Analogo è il problema del nesso tra «l'assolutezza della verità e l'inevitabile condizionamento storico e culturale delle formule che la esprimono»117, che trova il suo punto critico nel rapporto tra il contenuto rivelativo dei dogmi e il linguaggio concettuale usato per esprimerlo; anche questo esige che la teologia assuma una dimensione ermeneutica non semplicemente linguistica, bensì aperta all'istanza metafisica. La FR ritorna, perciò, su un tema già toccato nelle pagine precedenti: la necessità che la teologia sia integrata con una filosofia dell’essere che, pur ricollegandosi con la tradizione, sembra presentare qualche elemento di novità perché propone adesso di intendere l’essere non soltanto attraverso le sue strutture ontologiche e causali, ma anche quelle «comunicative»118. Ciò dovrebbe permettere di evitare molte forme di riduzionismo, di cui vengono citati due esempi: la cosiddetta cristologia “dal basso” e un’ecclesiologia troppo legata al modello delle società civili. Anche nel campo della teologia morale è urgente il recupero della metafisica, per rimediare al disorientamento attuale: è necessario far ricorso a un'etica filosofica che, rifuggendo dal soggettivismo e dall’utilitarismo, «implica e presuppone un'antropologia filosofica e una metafisica del bene»119. Mi sembra particolarmente interessante che questa parte si concluda con l'osservazione che questi compiti coinvolgono anche la catechesi, che «possiede delle implicazioni filosofiche che vanno approfondite alla luce della fede»120; la rilevanza pastorale di questa affermazione mi pare straordinaria, soprattutto per la dignità culturale che attribuisce alla catechesi. Del resto, questo è propriamente uno dei momenti tipici in cui si realizza la mediazione culturale della fede. 9. La conclusione: l’appello a rivalutare la filosofia La FR riassume i termini della questione indicando che il rapporto tra fede e filosofia si muove all’interno di una dinamica circolare, in cui esso da una parte viene giocato nel processo di inculturazione del Vangelo e, dall’altra, rappresenta il fulcro su cui può far leva l’evangelizzazione della cultura. Il pensiero filosofico, infatti, a giudizio del Papa, «è spesso l’unico terreno d’intesa e di dialogo con chi non condivide la nostra fede»121: uno spazio di dialogo che per secoli è rimasto aperto e vivace e che oggi, nonostante il panorama desolante descritto nelle pagine precedenti, il Papa non ritiene, dunque, ancora perduto. A conclusione dell’enciclica, viene lanciato un grande appello, rivolto a diverse categorie di persone, in favore della filosofia. I primi destinatari sono i teologi, esortati a 116 Cfr. FR 94. FR 95. 118 FR 97. Si potrebbe forse vedere in questo accenno, la possibilità di superare un’accezione “sostanzialistica” dell’essere, che va soggetta da tempo a diverse obiezioni, sollevate per lo più sulla base della critica heideggeriana alla cosiddetta “onto-teologia “. 119 FR 98, corsivo mio. Ho voluto mettere in risalto questa espressione perché mostra una straordinaria vicinanza a Platone, cosa non del tutto consueta nella tradizione cattolica, almeno dopo la Scolastica. 120 FR 99. 121 FR 104. 117 15 recuperare ed evidenziare la dimensione metafisica della verità per sviluppare un «dialogo critico ed esigente tanto con il pensiero filosofico contemporaneo quanto con tutta la tradizione filosofica, sia questa in sintonia o invece in contrapposizione con la parola di Dio»122 - comprendendo, in queste ultime parole, un prezioso accenno a sviluppare un’attitudine all’ascolto. L’appello è rivolto, poi, ai responsabili della formazione sacerdotale, affinché curino la preparazione filosofica dei futuri evangelizzatori. Ai filosofi viene raccomandato di «recuperare […] le dimensioni di autentica saggezza e di verità, anche metafisica, del pensiero filosofico»123 e vengono assicurati che la Chiesa guarda «con attenzione e simpatia»124 le loro ricerche, rinnovando l’impegno a rispettare l’autonomia della filosofia. Anche agli scienziati, della cui presenza e attività la FR si era finora occupata poco, vengono espressi ammirazione e incoraggiamento, ma anche l’esortazione a restare in quell’orizzonte sapienziale che permette di condurre la ricerca scientifica verso gli interrogativi che aprono l’accesso al mistero125. Infine, a tutti il Papa chiede di «guardare in profondità all’uomo»126, realizzando così l’attitudine filosofica implicita in ogni essere umano, per scoprire la chiamata all’amore e alla conoscenza di Dio che sono l’attuazione suprema della sua dignità e della sua libertà127. Secondo la spiccata sensibilità mariana che caratterizza la spiritualità di Giovanni Paolo II, le ultime parole dell’enciclica sono un’invocazione a Maria, ricordata con l’appellativo che le avevano attribuito i monaci dell’antichità cristiana - «Mensa intellettuale della fede» - che «in lei vedevano l’immagine coerente della vera filosofia ed erano convinti di dover philosophari in Maria»128. 122 FR 105. FR 106. 124 Ivi. 125 Cfr. ivi. 126 FR 107. 127 Cfr. ivi. 128 FR 108. 123 16