Orientarsi dopo l’11 settembre: dalla «instabilità semantica» alla genealogia della politica. Alcune note su Carl Schmitt Maurizio Guerri «Tutto questo, e ciò che era stato e ciò che seguì si svolse in un tal viluppo di rapidità, che passato, presente e futuro parvero un attimo solo».1 1. Se volessimo rispondere in modo estremamente sintetico alla domanda quale è l’esigenza fondamentale espressa da Jacques Derrida nel dialogo con Giovanna Borradori, potremmo dire che l’idea fondamentale del filosofo francese è che l’evento dell’11 settembre richiede una risposta filosofica radicale. Tale risposta apre però immediatamente a ulteriori interrogativi: che cosa significa essere radicali, dare risposte filosofiche radicali? E ancora, è possibile nell’accelerando del terrore e della sua spettacolarizzazione trovare la serenità per articolare ancora qualche parola sensata? Nel suo intervento Derrida sostiene che è possibile e necessaria una risposta filosofica che «rimetta in questione, nei fondamenti, i presupposti concettuali più essenziali del discorso filosofico».2 E questo, spiega ancora Derrida significherebbe risvegliarsi dal «sonno dogmatico»,3 ovvero da quel complessivo adagiarsi del pensiero che fa sì che i filosofi si lascino trascinare nell’uso di luoghi comuni che sono sfruttati incessantemente dal giornalismo e dalle amministrazioni governative e che danno sempre e comunque per implicito e scontanto il significato di «guerra» e «pace», di «democrazia» e «terrorismo». Ma per Derrida se vogliamo cercare di comprendere l’evento dell’11 settembre dobbiamo abbandonare la tranquillizzante e diffusissima convinzione che in queste parole vi sia qualcosa di scontato. Alcune minoritarie ma assai significative voci nel dibattito che è seguito all’11 settembre hanno evidenziato, per esempio, che il significato della parola «terrorismo», come quello di tante altre «nozioni giuridiche di importanza cruciale» è poco chiaro, ma che nonostante in tali nozioni molto vi sia molto di «oscuro, dogmatico o pre-critico», ciò «non impedisce ai poteri cosiddetti legittimi di servirsene quando sembra loro opportuno».4 Dare una risposta radicale in senso filosofico davanti a Ground Zero significa in prima istanza risvegliarsi da questo sonno dogmatico, da questa pseudofilosofia da un lato presa continuamente dagli specialismi e persa nel funzionamento della macchina burocratica, dall’altra politicamente inattiva, in ogni caso appiattita sui luoghi comuni dell’informazione e dell’amministrazione dei mercati e delle genti, fino al punto di diventare ininfluente e insignificante anche per chi la pratica. Il tentativo di Derrida è quello di fare un passo indietro e risalire alla domanda: che cosa significano parole come «guerra» e «pace», «democrazia» e «terrorismo»? In che misura tali nozioni rappresentano l’una la contrapposizione dell’altra? È proprio vero che là dove regna la pace non si dà la guerra e che l’eliminazione del terrorismo passa per la diffusione planetaria della democrazia? 1 H. Melville, Benito Cereno, tr. it. di C. Pavese, Einaudi, Torino 1940-1994, p. 89. J. Derrida, Autoimmunità, suicidi reali e simbolici, in G. Borradori (a c. di), Filosofia del terrore. Dialoghi con Jürgen Habermas e Jacques Derrida, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 108. 3 Ibid. 4 Ivi, p. 111. 2 Uno dei modi attraverso cui è possibile affrontare questo compito è confrontarsi con una riflessione che inizi da quella che Derrida definisce una «lettura critica»5 di Carl Schmitt. Derrida intende il termine critica in modo etimologico, riferendosi al suo senso di decisione: in un’epoca di «instabilità semantica», di «irriducibile sconvolgimento della frontiera tra i concetti, di indecisione dello stesso concetto di confine»,6 ovvero in un epoca caratterizzata dalla oscurità delle nozioni occidentali di diritto e politica, bisogna tornare a decidere filosoficamente che cosa diritto e politica sono. Ma questo è possibile solo cercando di capire a quali azioni le parole del diritto e della politica si rapportino operativamente, ricostruendo il senso effettivo del discorso giuridico e politico. Quello che è un breve accenno di Derrida al pensiero di Carl Schmitt si rivela gravido di conseguenze per il ragionamento del filosofo francese: possiamo ritrovare un senso nella confusione concettuale o addirittura nella strumentalizzazione ideologica che caratterizzano il discorso giuridico e politico del nostro tempo rivolgendoci criticamente al pensiero di Carl Schmitt. L’eredità teorica di Schmitt, dunque, come una sorta di bussola che permette al filosofo che naviga nelle tumultuose acque della globalizzazione di provare a riorientarsi. Bisogna allora cercare di seguire la preziosa indicazione di Derrida e provare a comprendere come il pensiero di Schmitt debba essere assunto, come sia possibile confrontarsi in modo attivo e fertile con la sua filosofia per poter avvicinarci a una comprensione di quelle parole, «guerra» e «pace», «democrazia» e «terrorismo», così spesso utilizzate e il cui senso ci appare sempre più poco chiaro, ambiguo, oscuro. Attraverso questo tipo di confronto con il pensiero di Carl Schmitt è possibile andare con Schmitt, oltre Schmitt. Questa decisione di andare oltre si rende necessaria – lascia intendere Derrida – perché l’attacco alle Twin towers così come il war on terrorism dichiarato dal presidente Bush non corrisponde in senso stretto a nessuna delle forme di conduzione della guerra descritte da Schmitt. Eppure nonostante ciò il pensiero di Schmitt è considerato come un punto di partenza imprescindibile per chiunque cerchi quella che Derrida chiama una «rifondazione del giuridicopolitico» e «attraverso di essa» una più generale «mutazione concettuale, semantica, lessicale e retorica allo stesso tempo».7 Nel confronto a distanza con Jürgen Habermas appare chiaro, del resto, che per Derrida la filosofia non può essere, come per il filosofo francofortese, semplice strumento neutrale e obiettivo mediante cui l’uomo può intervenire in modo terapeutico sulla malattia dell’Occidente, bensì la filosofia stessa non può che portare sul proprio volto i segni di quella patologia da cui la modernità occidentale sarebbe afflitta. Anzi è proprio da qui che occorre iniziare. 2. Carl Schmitt (1888-1985) studiò alle università di Strasburgo, e Monaco (dove fu allievo di Max Weber) e insegnò a Greifswald, Bonn e Berlino. Attivo politicamente negli ambienti reazionari della Germania weimariana, accrebbe il proprio prestigio politico e accademico durante il nazionalsocialismo dal quale ricevette incarichi ufficiali fino ad arrivare a essere il costituzionalista più importante e influente. Ebbe intensi contatti con Ernst Jünger e Martin Heidegger. Alla fine della Seconda guerra fu arrestato dalle truppe di occupazione alleate, venne incarcerato per tredici mesi tra il 1945 e il 1946 e nuovamente arrestato nel 1947. Nel corso del secondo arresto fu processato a Norimberga e costretto a difendersi dall’infamante accusa di crimini di guerra dalle 5 Ibid. Ivi, p. 113. 7 Ibid 6 quali fu infine assolto.8 Dal 1947 si ritirò in quella che Schmitt amava definire la «sicurezza del silenzio» nel piccolo villaggio natale dedito alla quiete degli studi. Chiunque volesse cercare un ripensamento di carattere autobiografico da parte di Carl Schmitt sul proprio rapporto con il nazionalsocialismo non troverà nulla; le parole scritte nella cella tra il 1945 e il 1947 sono una pietra tombale posta sulla questione: Uno studioso che osserva dalla visuale storica vede se stesso entro la cornice e tra i flutti delle forze e delle potenze storiche, Chiesa, Stato, partito, classe, professione e generazione. Un giurista che ha educato se stesso e molti altri all’oggettività, evita gli egotismi psicologici. La propensione alle confessioni e alle professioni di fede letterarie mi è un po’ interdetta da brutti esempi quali Jean-Jacques Rousseau e il povero August Strindberg. Come esperto di diritto costituzionale, ho tuttavia in costitutionalibus un compagno di destino assai interessante che in tema di confessioni personali e di professioni di fede ha fatto cose stupefacenti, parlo del protagonista della dottrina liberale, Benjamin Constant. [...] Ma nemmeno il suo esempio potrebbe indurmi a confessioni letterarie. Chi vuole confessarsi, esca e vada dal parroco.9 Uno dei rari accenni di carattere autobiografico che ancora Schmitt si concede dopo la caduta del nazismo è quello in cui il giurista tedesco paragona la propria condizione durante il regime hitleriano a quella di Benito Cereno di Melville:10 un capitano in ostaggio dei passeggeri della propria nave, costretto a fingere per aver salva la vita. Un’affermazione che apre a enormi interrogativi: in che modo e fino a che punto è colpevole colui che obbedisce agli ordini di un dittatore? In che senso Schmitt fu ostaggio del regime? Almeno qualche breve considerazione si rende necessaria: diventare docente di diritto a Berlino e presidente dell’Associazione dei giuristi tedeschi nello Stato nazionalsocialista, significa probabilmente qualcosa di più che aver semplicemente eseguito degli ordini e aver cercato di assecondare il regime per aver salva la vita. Forse più che essersi trovato nella situazione dell’ostaggio, Schmitt come tanti altri intellettuali tedeschi tentò tragicamente di cavalcare la tigre nazionalsocialista contribuendo in modo attivo alla costruzione e al funzionamento della più terrificante macchina statale di morte che l’Occidente moderno abbia prodotto. Il rapporto o la collusione di filosofi e scrittori con i regimi dittatoriali desta sempre interrogativi di grande rilevanza e del resto almeno dai tempi del viaggio di Platone alla corte di Dionisio II di Siracusa la filosofia deve costantemente confrontarsi con il potere politico, al punto che storicamente il senso della dottrina di un filosofo non può non prendere forma anche in una particolare azione politica. Ripercorrendo la vicenda di Schmitt non possiamo che riformulare gli inquietanti interrogativi che da sempre toccano il rapporto tra la teoria filosofica e le decisioni politiche del suo autore: in che misura un grande pensiero può essere messo in discussione in seguito alla adesione del suo autore a un regime dittatoriale? Fino a che punto l’adesione più o meno convinta e spontanea a un movimento come il nazionalsocialismo da parte di un grande 8 Sono ora disponibili i testi degli interrogatori condotti da Robert Kempner e le autodifese di Schmitt: C. Schmitt, Risposte a Norimberga, a c. di H. Quaritsch, tr. it. di F. Ferraresi, Laterza, Roma-Bari 2006. 9 C. Schmitt, Ex Captivitate Salus, tr. it. di C. Mainoldi, Adelphi, Milano 1987, pp. 78-79. 10 Carl Schmitt paragona la propria condizione a quella di Benito Cereno già nel 1941, come è testimoniato dal diario di Ernst Jünger: «Parigi, 18 ottobre 1941. [...] Conversazione su una delle controversie scientifico-letterarie della nostra epoca. Carl Schmitt si paragonò al capitano bianco dominato da schiavi negri del Benito Cereno di Melville, e citò poi il detto: Non possum scribere contra eum qui potest me proscribere». (E. Jünger, Irradiazioni. Diario 1941-1945, tr. it. di H. Furst, Guanda, Parma 1993, p. 44). Per la ricostruzione del rapporto tra Jünger e Schmitt è fondamentale il carteggio: E. Jünger, C. Schmitt, Briefwechsel. 1930-1983, hrsg. H. Kiesel, Klett-Cotta, Stoccarda 1999. filosofo o giurista può essere considerato come un semplice errore di valutazione che non inficia il valore stesso della sua dottrina? Non è questa la sede per affrontare esaurientemente tale questione cui tuttavia occorreva necessariamente almeno fare cenno, perché come ha osservato Carlo Sini a proposito del coinvolgimento di Heidegger nella politica nazionalsocialista «pensieri elevati che conducono a errori abissali non debbono essere messi esclusivamente sul conto delle circostanze dell’umana fallibilità, ma debbono invece venire essi stessi almeno sospettati di una loro fatale influenza su quegli errori».11 Un fatto importante e altrettanto degno di essere considerato, al pari dell’innegabile rapporto tra Schmitt e il nazismo è l’ampia e profonda influenza del pensiero schmittiano su tanti autori molto spesso legati a una azione politica radicalmente differente; basti ricordare solo qualche nome: Walter Benjamin, Alexandre Kojève, Leo Strauss, Jakob Taubes, Michel Foucault oltre che Jacques Derrida (si pensi, per esempio, a un testo come Politiques de l’amitié).12 Ancora oggi gli scritti di Carl Schmitt sono sicuramente uno dei punti di riferimento teorico fondamentale sia per la teoria del diritto internazionale che per la filosofia politica in generale. Ma per quale ragione Schmitt è così importante e in che modo la sua rilevanza nella filosofia politica, per certi versi, come mostra la riflessione di Derrida, tende ad accrescersi? Per quale motivo Derrida si riferisce a Schmitt come a una possibilità per il pensiero filosofico oggi, perché Derrida si rivolge agli scritti del giurista tedesco come all’inizio di un riorientamento del pensiero nel suo complesso? Per molti aspetti Schmitt incarna per la filosofia politica e per il diritto contemporaneo qualcosa di analogo a ciò che Nietzsche ha rappresentato per il pensiero filosofico nel suo complesso a partire dalla fine del XIX secolo. Come Nietzsche introduce una prospettiva genealogica volta a decostruire le superstiziose ideologie morali, così Schmitt introduce nell’ambito dei concetti politici del liberalismo e nella dottrina del diritto una prospettiva genealogica tale da arrivare a mostrare effettivamente (ovvero operativamente) come tali concetti sono sorti, in che modo esercitano il loro potere e come necessariamente sono giunti o giungeranno al loro tramonto. Per usare una immagine nietzschiana potremmo dire che la filosofia politica di Carl Schmitt rappresenta l’«acido nitrico» dei valori politici del liberalismo: a contatto con esso la loro funzione ideologica si disvela, il valore di quei valori si dissolve e ciò che ne rimane è la loro genealogia, la nuda struttura attraverso cui hanno potuto esercitare il loro potere. 3. Schmitt, dunque, sarebbe importante per Derrida e per noi oggi proprio in quanto genealogista del diritto e della politica liberale. Occorre pertanto fare un minimo di chiarezza intorno al significato della parola genealogia e dobbiamo allora rivolgerci necessariamente al pensiero di Friedrich Nietzsche. Nietzsche, come è noto, scrive le cristalline dissertazioni di cui si compone Zur Genealogie der Moral in poche settimane nell’estate del 1887. Il tema in oggetto è appunto la genealogia della morale. Si tratta essenzialmente di mettere a fuoco la seguente domanda: come emergono 11 C. Sini, Prefazione, in H. Ott, Martin Heidegger: sentieri biografici, tr. it. di F. Cassinari, SugarCo, Milano 1988, pp. IV-V. Per affrontare il complesso rapporto di Heidegger con il nazismo è fondamentale il testo che raccoglie scritti, interviste di Heidegger e riflessioni di filosofi e scrittori sul tema: M. Heidegger, Risposta. A colloquio con Martin Heidegger, Guida, Napoli 1992. 12 Cfr. J. Deridda, Politiche dell’amicizia, tr. it. di G. Chiurazzi, Cortina, Milano 1995, soprattutto pp. 103-200. Un importante accenno alla distinzione schmittiana «amico-nemico» in J. Derrida, Donare la morte, tr. it. di L. Berta, Jaca Book, Milano 2002, pp. 132 e sgg. Alcune fondamentali considerazioni sul rapporto tra Deridda e Schmitt in C. Galli, Genealogia della politca. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, Il Mulino, Bologna 1996, pp. 751 e sgg. (entstehen) nella storia del pensiero occidentale i concetti morali e, soprattutto, una volta che sono sorti come arrivano a imporsi come valori? Nietzsche affronta questa domanda ricostruendo la storia in senso genealogico delle parole «buono/malvagio», «colpa e cattiva coscienza» e «ideali ascetici» che rappresentano rispettivamente i temi delle tre dissertazioni di cui si compone Genealogia della morale. Che cosa scopre Nietzsche? Scopre qualcosa di inquietante per la filosofia occidentale, ovvero che se noi guardiamo in profondità strappando il velo ideologico dei valori morali, se noi non diamo per scontato ciò che solitamente affidiamo al senso comune ovvero alla superstizione e al pregiudizio, scopriamo che tutto ciò che il pensiero occidentale considera da sempre come sacro, puro, limpido, ideale, in breve ciò che che si considera «valore morale» è in realtà profano, impuro, torbido e concreto. Soprattutto i valori morali non sono, o meglio il loro essere non consiste nient’altro che nel loro divenire. Dunque non divenire contro essere, ma essere ovvero divenire. Se i valori sono in quanto divengono allora comprendere l’essenza dei valori consiste nel comprendere la loro storia. In questo senso possiamo dire che il vero come il buono sono relativi e in particolare sono una finzione (nel senso etimologico di «plasmazione») umana. Se vogliamo capire che cosa i valori morali sono, il che per Nietzsche equivale a comprendere come i valori operano (wirken), dobbiamo accostarci a essi «in senso extramorale». Questo significa in primo luogo non stare ad ascoltare le favole che essi ci raccontano – in primo luogo il loro auto-rappresentarsi come assoluti –, ma ricostruire la loro storia per noi, attraverso il loro operare, mediante il modo secondo cui hanno dato – e in alcuni casi continuano a dare – forma al mondo. La ricerca di Nietzsche, in breve, risponde a una «nuova esigenza»: Enunciamola questa nuova esigenza: abbiamo bisogno di una critica dei valori morali di cominciare a porre una buona volta in questione il valore stesso di questi valori – e a tale scopo è necessaria una conoscenza delle condizioni e delle circostanze in cui sono attecchiti, poste le quali si sono andati sviluppando e modificando [...], non essendo esistita fino a oggi una tale conoscenza e non essendo stata neppure soltanto desiderata. Si è preso il valore di questi «valori» come dato, come risultante di fatto, come trascendente ogni messa in questione [...].13 Per Nietzsche non è più tempo per gli uomini di continuare a credere alla rappresentazione che i valori danno di sé stessi, come se fossero verbo divino, principi trascendenti ogni messa in questione. In Zur Genealogie der Moral Nietzsche si getta in una ricerca genealogica che lo porta a dissodare il terreno della morale per portare alla luce le radici di quei concetti che si impongono come valori. E quali sono queste radici? Nella formazione dei valori morali non è in gioco alcun principio ideale e nemmeno materiale il che significa che non esistono concetti o ideali eterni a cui la morale si ispiri, e nemmeno l’utilità 13 F. Nietzsche, Genealogia della morale. Uno scritto polemico, tr. it. di F. Masini, Adelphi, Milano 1968-1984, pp. 8-9. Della vastissima letteratura secondaria su Nietzsche mi limito a segnalare gli studi fondamentali a cui si è fatto maggior riferimento nel presente saggio: F. Moiso, Morfologia e filosofia, in Annuario filosofico, 8, 1992, Mursia, Milano 1992; S. Natoli, Nietzsche e la «Dialettica del tragico», in Id. Ermeneutica e genealogia. Filosofia e metodo in Nietzsche, Heidegger, Foucault, Feltrinelli, Milano 1988; Id., Nietzsche retore e filosofo, in Teatro filosofico; Gli scenari del sapere tra linguaggio e storia, Feltrinelli, Milano 1991; A. Orsucci, Genealogia della morale. Introduzione alla lettura, Carocci, Roma 2001. darwinianamente intesa può essere sensatamente assunto come un principio che domina nello sviluppo dei valori morali. Ma se né un principio ideale né un principio materiale possono essere considerati come l’origine (Ursprung) dei valori morali, come questi valori morali sono sorti? Nietzsche osserva che l’emergenza (Entstehung)14 delle nozioni di bene e male coincide con la storia di un gruppo di uomini che si auto-definisce «buono», che decide di definirsi tale in base a una determinata superiorità di potenza, estendendo l’esercizio di questa potenza ad ambiti sempre più ampi della vita. Buono è colui che esercita e riconosce la propria potenza e quella dei propri simili e che conseguentemente definisce il diverso, il nemico come «malvagio» con la conseguente fondazione dell’idea di male. Una particolare e contingente forma di potenza – nel caso specifico esaminato da Nietzsche la preminenza in ambito bellico – si traduce in potere politico che a sua volta si ipostatizza in superiorità spirituale fino alla creazione dell’ideale morale in sé. Dietro l’emergenza dei valori morali c’è dunque l’esercizio di potere in uno specifico ambito che viene usato retoricamente fino a imporsi come valore ideale, nel caso che interessa a Nietzsche come valore morale in sé: Sono stati [...] gli stessi «buoni» vale a dire i nobili, i potenti, gli uomini di condizione superiore e di elevato sentire ad aver avvertito e determinato se stessi e le loro azioni come buoni, cioè di prim’ordine, e in contrasto a tutto quanto è ignobile e d’ignobile sentire, volgare e plebeo.15 Esemplare a questo proposito è la ricostruzione nietzschiana del termine latino bonus (da ricollegare a bellum) che viene fatto derivare dall’arcaico duonus che è collegato a sua volta da duellum. Il senso originario di bonus è da ricondurre alla auto-designazione della casta eroicocavalleresca: bonus è l’«uomo della disputa della disunione, come guerriero».16 Bonus è il modo in cui la stirpe dei signori e dei conquistatori guerrieri decide di riconoscersi e di definirsi, perché esercita la propria forza e il proprio potere distinguendosi dal malus. In sintesi: la storia del valore del bene può essere originariamente fatta risalire all’equazione 17 «buono=nobile=potente=bello=felice=caro agli dei». La bontà morale, la nobiltà non sono niente altro che la trasformazione in senso ideale dell’esercizio pratico della potenza in ambito bellico, la quale poi si amplia attraverso l’azione politica e si consolida idealmente mediante l’istituzione del valore morale. La nascita di un valore morale è dunque da ricondurre a un contingente rapporto di forza che viene retoricamente utilizzato come valore assoluto, come valore in sé fino all’occultamento dell’Entstehung effettiva del concetto. La storia dei valori morali è dunque quanto di più concreto ci si possa immaginare: Nietzsche, si è visto, parla esplicitamente della «bontà morale» come della «trasformazione in senso ideale dell’esercizio pratico della potenza in ambito bellico». La metabasis eis allo genos che permette all’esercizio pratico della potenza bellica di arrivare a istituirsi come valore assoluto è una creazione retorica, dunque un fatto di carattere linguistico che si innesta su un azione amplificandone e 14 Particolarmente attento a queste scelte linguistiche di Nietzsche nella Genealogia della morale è Michel Foucault nello studio Nietzsche, la genealogia, la storia, in Id., Microfisica del potere. Interventi politici, tr. it. G. Procacci e P. Pasquino, Einaudi, Torino 1977, pp. 30 e sgg. 15 F. Nietzsche, Genealogia della morale, cit., p. 15 16 Ivi, p. 19 17 Ivi, p. 23. mutandone il senso. Nell’emergenza dei concetti morali il linguaggio non è semplice strumento di comunicazione, supporto materiale per contenuti spirituali prodotti altrove, bensì il linguaggio deve essere concepito come la carne stessa dei valori, al tempo stesso anima e corpo dei valori. La separazione dell’«io sono buono» dal «tu sei malvagio» (quello che Nietzsche chiama il Pathos der Distanz) e i successivi passaggi retorici di questa distinzione fino all’istituzione del valore assoluto, accade e si trasforma sempre all’interno della lingua. L’imporsi dei concetti morali in quanto valori è un evento di carattere linguistico, una questione di metamorfosi delle parole. Il pathos della nobiltà e della distanza [...] il perdurante e dominante sentimento fondamentale e totale di una superiore schiatta egemonica in rapporto a una schiatta inferiore, a un «sotto» – è questa l’origine dell’opposizione tra «buono» e «cattivo». (Il diritto signorile di imporre nomi si estende così lontano che ci si potrebbe permettere di concepire l’origine stessa del linguaggio come un’estrinsecazione di potenza da parte di coloro che esercitano il dominio: costoro dicono «questo è questo», costoro impongono con una parola il suggello definitivo a ogni cosa e a ogni evento e in tal modo, per così dire, se ne appropriano).18 Dunque, per noi oggi, parlare sensatamente di valori morali significa parlare della genesi dei valori morali, la quale a sua volta è un episodio della storia della lingua. L’«imporre nomi» è infatti il gesto originario del linguaggio e la nascita di un linguaggio è l’«estrinsecazione di potenza» da parte di chi si trova nella condizione di esercitare il dominio. I valori morali sono costitutivamente azioni linguistiche, ma la lingua a sua volta non risponde in alcun modo a criteri logici, non mira alla Verità, né tanto meno risponde a universali ideali morali, perché è la lingua che crea le verità e le morali attraverso il diritto di coniare nomi e di stabilire funzioni e ordinamenti la cui emergenza e la cui storia effettiva è in primo luogo da ricondurre sempre a una storia di tipo linguistico: la lingua, dunque, è più antica della morale. A questo punto appare chiaro che chiunque intenda comprendere la wirkliche Historie (da tradurre come la «storia effettiva», ma anche come «storia operativa», wirklich rimanda tanto a Wirkung «effetto» quanto a Werk «opera») dei valori morali dovrà seguirne la metamorfosi all’interno della lingua, perché i valori morali non sono altro che parole su cui si è impresso il senso delle forme storiche attraverso l’esercizio di contingenti rapporti di forza i quali sono stati cancellati o meglio sono stati retoricamente assunti come valori assoluti e dunque di di essi si è occultata l’emergenza concreta. Per Nietzsche la lingua, anzi, meglio, le diverse lingue non sono niente altro che la modalità diveniente eppure sempre conclusa attraverso cui gli uomini danno forma al mondo, e in cui, dunque, si esprime effettivamente il tipo di rapporto che esiste tra l’uomo e le cose, come si desume da un passo di Su verità e menzogna in senso extramorale: Le diverse lingue, poste l’una accanto all’altra, mostrano che nelle parole non ha mai importanza la verità, né un’espressione adeguata. In caso contrario non esisterebbero infatti così tante lingue. La «cosa in sé» (la verità pura e priva di conseguenze consisterebbe appunto in ciò) è d’altronde del tutto inafferrabile per colui che costruisce il linguaggio, e non è affatto degna per lui di essere ricercata. Egli designa soltanto le relazioni delle cose con gli uomini e ricorre all’aiuto delle più ardite metafore per esprimere tali relazioni. Uno stimolo nervoso, trasferito anzitutto in un’immagine: prima metafora. L’immagine è poi plasmata in 18 Ivi, p. 15. Una ripresa dell’«imporre nomi» come gesto iniziale del linguaggio in O. Spengler, L’uomo e la tecnica. Contributo a una filosofia della vita, tr. it. di G. Gurisatti, Guanda, Parma 1992, pp. 57 e sgg. un suono: seconda metafora. Ogni volta si ha un cambiamento completo della sfera, un passaggio a una sfera del tutto differente e nuova.19 Non la verità, non l’adaequatio intellectus et rei sono ciò che domina teleologicamente il processo linguistico. La lingua è poiesis retorica che esprime «le relazioni delle cose con gli uomini». Questo passaggio da una metafora all’altra, questo continuo processo di traduzione da una sfera della vita all’altra è ciò che accade anche nella formazione dei concetti morali. Per i valori morali vale ciò che Nietzsche scrive a proposito di ogni tipo di verità in rapporto alla sua origine linguistica: Il trascurare ciò che vi è di individuale e di reale ci fornisce il concetto, allo stesso modo che ci fornisce la forma, mentre la natura non conosce invece nessuna forma e nessun concetto e quindi neppure alcun genere, ma soltanto una X, per noi inattingibile e indefinibile. [...] Che cos’è dunque la verità? Un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane che sono state potenziate poeticamente e retoricamente, che sono state trasferite e abbellite, e che dopo un lungo uso sembrano a un popolo solide, canoniche, vincolanti: le verità sono illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria, sono metafore che si sono logorate e hanno perduto ogni forza sensibile, sono monete la cui immagine si è consumata e che vengono prese in considerazione soltanto come metallo, non più come monete.20 Ogni tipo di verità ha una propria storia particolare, nasce come figura retorica volta ad esprimere una particolare relazione umana che attraverso un potenziamento poetico finisce per essere assunta come Verità solida e vincolante di cui si è resa irriconoscibile la natura poetica, immaginifica, illusoria. Compito del genealogista è quello di risalire alla emergenza (Entstehung) della illusione, cercare di riconoscere sul metallo della moneta le tracce dell’immagine che vi era stata impressa, ormai divenuta pressoché irriconoscibile. A proposito della prospettiva genealogica nietzschiana Salvatore Natoli ha scritto: «Da un punto di vista genealogico, non è tanto l’adeguazione tra la forma ideale e il supposto riferimento reale a dare conto della verità, ma la verità coincide con il campo di effettualità dell’idea stessa».21 Quindi la verità genealogica non mira all’«accertamento storico di una genesi», bensì tenta di ricostruire la «genesi del punto di vista che vuole accertare».22 Qui sta la differenza tra la storiografia classica e il metodo genealogico: la storiografia mira a una rappresentazione adeguata di una supposta realtà, arretrando nel passato alla ricerca dell’origine (Ursprung), del reale inizio. Comprendere genealogicamente significa descrivere le modalità attraverso cui una determinata idea è stata storicamente efficace. Perché la prospettiva genealogica sia possibile è necessario che lo sguardo dell’osservatore appartenga a quella fase di una Kultur denominata da Nietzsche Zeitalter des Vergleichens l’«età del confronto»23 in cui tutto appare «divenuto» e ogni forma, staccata dalla tradizione vivente 19 F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, in Id. La filosofia nell’epoca tragica dei Greci e scritti 1870-1873, tr. it. di G. Colli, Adelphi, Milano 1973-1991, p. 231. 20 Ivi, p. 233. 21 S. Natoli, Nietzsche retore e filosofo, in Id., Teatro filosofico. Gli scenari del sapere tra linguaggio e storia, Feltrinelli, Milano 1991, p. 102. 22 Ivi, p. 103. 23 F. Nietzsche, Umano troppo umano, tr. it. di S. Giametta, Adelphi, Milano 1965-1979, vol. I, a. 23, p. 32 (tr. it. modificata). diventa riproducibile e comparabile. In questa condizione qualsivoglia fenomeno non è più riconducibile a una radice fissa, a una origine reale: Non vogliono capire che l’uomo è divenuto e che anche la facoltà di conoscere è divenuta; mentre alcuni di loro si fanno addirittura fabbricare, da questa facoltà di conoscere l’intero mondo. [...] Tutta la teologia è basata sul fatto che dell’uomo degli ultimi quattro millenni si parla come di un uomo eterno, al quale tendono naturalmente dalla loro origine tutte le cose del mondo. Ma tutto è divenuto; non ci sono fatti eterni: così come non ci sono verità assolute. Per conseguenza il filosofare storico è d’ora in poi necessario e con esso la virtù della modestia.24 La genealogia è quel particolare sguardo di tipo storico che si impone quando le forme culturali divengono tutte comparabili: ciò rende non più credibile un pensiero che si fondi sulla scissione tra mutevolezza del fenomeno e stabilità della cosa in sé, sull’adaequatio intellectus et rei. Non è più possibile ricondurre le cose alla loro Origine. Michel Foucault in Nietzsche, la genealogia e la storia (1971) mette in evidenza un aspetto fondamentale della prospettiva genealogica: Ponendo il presente all’origine (Ursprung), la metafisica fa credere al lavoro oscuro d’una destinazione che cercherebbe di farsi strada fin dal primo momento. La genenalogia, al contrario, [puntando lo sguardo sulla Entstehung] ristabilisce i diversi sistemi di asservimento: non la potenza anticipatrice d’un senso, ma il gioco casuale delle dominazioni.25 Non un’origine vera, non una «destinazione» di tipo teleologico o escatologico regge il processo storico, ma la vicenda «casuale» della lotta, il gioco dei rapporti di dominazione. Se per la storiografia classica l’origine sta nell’inizio materiale, nel passato oggettivo, per la genealogia l’inizio è spostato nel presente, nel senso che l’atto conoscitivo assume su di sé e prende sul serio fino in fondo la condizione di illimitata riproducibilità e comparabilità dei fenomeni. Ricapitolando, vediamo quali sono gli elementi fondamentali della prospettiva genealogica di Nietzsche: la forma (il valore morale, nel caso considerato da Nietzsche) che subisce metamorfosi e si trasforma è nel suo divenire (essere e divenire coincidono) e in particolare per quanto concerne i concetti di bene e male morale (Gut und Böse) la forma può essere compresa nella Entstehungsgeschichte des Denkens la «storia della emergenza del pensiero»26 e si configura come decisione e interpretazione dello spettro semantico dei termini, come genealogia semantica del linguaggio. In altri termini, dire che cosa bene e male sono, significa essere in grado di dire come queste forme divengono, cioè che cosa significano operativamente: io posso fare ciò ripercorrendo la Begriffs-Verwandlung la «metamorfosi concettuale» che è depositata nel processo di continua deformazione del significato delle parole. Evidentemente non è per noi rilevante la correttezza delle analisi di Nietzsche relative alla storia delle parole Gut e Böse, ma rilevantissimo è il lascito filosofico di questo gesto: è eliminata la contrapposizione apriori aposteriori e forma contenuto; Nietzsche afferma che la storia dei concetti consiste di un puro divenire di configurazioni linguistiche che sono dotate di contenuto e non 24 Ivi, vol. I, a. 2, p. 16. M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, in Id., Microfisica del potere, cit., p. 38. 26 F. Nietzsche, Umano troppo umano, cit., vol. I, a. 16, p. 27 (tr. it. modificata). 25 riconducibili a un Grund ultimo e che esse sono solo comparabili in quanto divenienti. In conclusione le forze che sono in gioco nella storia non obbediscono né a una destinazione di carattere spirituale, né ad una meccanica leggibile scientificamente, ma piuttosto alla casualità del conflitto, con il risultato che la parte vittoriosa sarà portatrice di un sapere che è letteralmente un prendere posizione, l’esercizio di una forma di potere e con ciò un’imposizione di un sistema di valori. 4. Schmitt scopre qualcosa di altrettanto «urtante all’orecchio» – per dirla con le parole di Nietzsche – a proposito della genealogia della politica. Tutte le nozioni del diritto e della politica osservate secondo una prospettiva genealogica non costituiscono dei valori né rinviano a ideali universali, ma appaiono come concetti che emergono sul terreno di contingenti rapporti di forza. Che Schmitt interpreti in modo genealogico le principali nozioni del pensiero politico e giuridico è ben visibile, a partire proprio da uno dei suoi saggi più importanti e noti Der Begriff des “Politischen” (1927).27 In questo scritto tanto sintetico quanto denso e problematico per lo stesso autore – al punto da essere sottoposto a numerose revisioni e riformulazioni fino al 1963 –, la parola politica die Politik viene ricondotta al neutro di un aggettivo politisch. Con ciò Schmitt intende affermare che dietro a ciò che sono le forme storicamente determinate della politica non vi sono sostanze rette da principi razionali o materiali, ma rapporti di forze in continua metamorfosi. Il politico, oltre a questo divenire di storicamente determinati rapporti di forza è nulla. Il politico non è retto da alcuna sostanza razionale o da ragioni di carattere ideale o utilitaristico, ma è qualcosa di contingente e concreto che per essere compreso deve poter venir ricondotto genealogicamente alla propria storia effettuale. Analogamente alla prospetiva genealogica sviluppata in ambito morale da Nietzsche, anche per Schmitt abbiamo bisogno primariamente di interrogarci sulle parole della politica e del diritto, perché in esse sono stratificate le modalità secondo le quali si sono formate e trasformate le idee e i valori della politica e del diritto. La prospettiva genealogica mostra come l’universalità e il fondamento dei concetti della politica e del diritto sono annullati, ridotti a visione particolare, riportati alla loro rispettiva emergenza sul terreno dei concreti rapporti di forza. Nella nuova prefazione del 1963 al Concetto di politico Schmitt osserva che rispetto agli anni in cui il saggio è stato scritto, continua ad aumentare la distanza tra «l’impiego ufficiale dei concetti classici» nel campo del diritto internazionale e la «realtà effettiva» degli scopi e dei metodi verso cui sono rivolti. Uno dei problemi fondamentali, come scrive Schmitt, è che i «nuovi tipi e metodi di guerra contemporanea costringono a una continua riflessione sul fenomeno delle ostilità».28 L’esigenza di condurre questa «continua riflessione intorno al fenomeno delle nuove ostilità» in modo genealogico è comprensibile nella consapevolezza schmittiana della sempre maggiore frattura che si apre tra l’«impiego ufficiale dei concetti classici» della politica e del diritto e i fenomeni che mediante essi sono descritti. Ciò che accade operativamente nella politica a partire dai rapporti tra nazioni quell’ambito della vita dello Stato che era regolamentato dallo jus publicum Europaeum con lo scoppio della Prima guerra mondiale sembra fuoriuscire dalle forme descritte dalle regole del diritto internazionale e diviene incontrollabile e imprevedibile per la dottrina del diritto. 27 Sul complesso rapporto tra Schmitt e Nietzsche si vedano in primo luogo le illuminanti riflessioni di Carlo Galli, Genealogia della politica, cit., pp. 123 e sgg. 28 C. Schmitt, Il concetto di “politico”, in Id., Le categorie del “politico”. Scritti di teoria politica, a c. di G. Miglio e P. Schiera, tr. it. di P. Schiera, Il Mulino, Bologna 1972, p. p. 99. Ma che cos’è il politico per Schmitt? Secondo Schmitt la scienza della politica e la scienza del diritto fondano la definizione della politica su un circolo vizioso: «In generale», scrive Schmitt, «“politico” viene assimilato, in una maniera o nell’altra, a “statale” o quanto meno viene riferito allo Stato. Allora lo Stato appare qualcosa di politico, ma il politico come qualcosa di statale: si tratta manifestamente di un circolo vizioso».29 Le scienze che si occupano della politica tendono a dare per presupposto e scontato «in modo non problematico uno Stato già esistente, nel cui ambito si muovono»30 e a elaborare concetti e definizioni settoriali, senza mai poter porre in questione la nozione di Stato, né tanto meno quella di politico. Tutte le definizioni settoriali rispondono ai problemi del lavoro giuridico, ma non mirano mai «a definizioni generali del “politico”».31 Per Schmitt è possibile «raggiungere una definizione concettuale del “politico” solo mediante la scoperta e la fissazione delle categorie specificamente politiche».32 Per comprendere ciò che è il “politico” bisogna arrivare a «qualche distinzione di fondo alla quale può essere ricondotto tutto l’agire politico in senso specifico».33 Così come, per esempio, «sul piano morale le distinzioni di fondo» sono rappresentate nella coppia «buono cattivo» e sul piano estetico da quelle di «bello e brutto», su quello economico da «utile e dannoso oppure redditizio e non redditizio», sul piano politico la distinzione fondamentale è quella tra Freund (amico) e Feind (nemico): «La specifica distinzione politica alla quale è possibile ricondurre le azioni e i motivi politici, è la distinzione di amico [Freund] e nemico [Feind]. Essa offre una definizione concettuale, cioè un criterio, non una definizione esaustiva o una spiegazione del contenuto».34 Occorre non lasciarsi ingannare dalle intenzione apparentemente essenzialistica di Schmitt. Come ha osservato Carlo Galli, infatti, è importante sottolineare che «attraverso il “politico” Schmitt non vuole determinare l’essenza della politica, dato che [...] nel “politico” c’è piuttosto la scoperta della mancanza di essenza – e quindi di stabilità – di ogni ambito della vita associata».35 E in effetti, continua Galli, è alla modernità che la teorizzazione del “politico” di fatto si riferisce. [...] Proprio il fatto che non ci sia una definizione dell’amico, in Schmitt, e che il punto di partenza dell’argomentazione sia il nemico, significa appunto questo, che nel “politico” si pensano non le gerarchie e i rapporti politici personali premoderni (le “amicizie”) ma la disordinata uguaglianza moderna (l’inimicizia) e la Herrschaft impersonale ma al contempo decisionistica che ne è resa necessaria; insomma, che il “politico” implica la fine della politica “ben fondata” (e in ciò è all’origine del Moderno).36 Che l’intento essenzialistico in Schmitt sia solo apparente lo si può comprendere dalle parole che abbiamo citato in apertura di questo paragrafo: la domanda che cos’è il politico muove dalla consapevolezza della insanbile frattura tra teoria politica e prassi della guerra, dell’abisso che si è aperto tra «impiego ufficiale dei concetti classici» e il «fenomeno delle nuove ostilità». Come in Nietzsche l’Entstehung della conoscenza genealogica in ambito morale è costituito dalla non credibilità per noi oggi della eternità e stabilità dei valori morali imposta dalla illimitata 29 Ivi, p. 102. Ivi, p. 103. 31 Ivi, p. 105. 32 Ivi, p. 108. 33 Ibid. 34 Ibid. 35 C. Galli, Genealogia della politica, cit., p. 742. 36 Ibid. 30 riproducibilità degli stili, analogamente per Schmitt la genealogia della politica inizia con la consapevolezza della effettiva crisi delle istituzioni giuridiche e dei concetti fondamentali della politica liberale nel loro complesso. Questa crisi si mostra indubbiamente su un piano storicopolitico (l’ordine normativo razionale e trasparente sfocia nella catastrofe della Prima guerra mondiale, la gloriosa via verso il progresso si converte nella distruttività bellica della tecnica moderna, l’illuminata spazialità politica moderna conduce nell’inferno della trincea), ma anche su un piano logico-teorico (la scarsa tenuta o il tracollo delle categorie giuridiche e politiche classiche nel tentativo di razionalizzare ciò che accade nella effettiva esperienza dei rapporti intra-statali e inter-statali). L’atteggiamento di Schmitt dinanzi all’offuscarsi o al cedimento delle istituzioni chiare e distinte dell’Europa (la distinzione tra Stato e società, tra pubblico e privato, tra diritto e politica, tra pace e guerra e la fuoriscita del fenomeno bellico da quella che lo jus publicum Europaeum definiva come guerre en forme) è profondamente diverso da quello di un Hans Kelsen: il giurista austriaco muove, come Schmitt, dalla constatazione della irrisolvibile spaccatura che separa politica statuale e spazialità la quale determina una crisi di sovranità politica; tuttavia tale crisi lungi dal rappresentare il tramonto della politica moderna, segna uno passaggio di carattere evolutivo verso la costruzione di un «universalismo giuridico post-statuale, indifferente allo spazio empirico, che espressamente richiama l’ideale, ora reso “scientifico”, della civitas maxima di Kant».37 Per Schmitt invece, come ha osservato Galli, il politico deve essere pensato come un «lato dell’origine»: in quanto è un “concreto” vuoto di sostanza ma carico di energia eccezionale, il “politico” è l’immediatezza dell’eccezione. E quindi il politico nega originariamente non solo la politica “ben fondata” premoderna, ma anche l’artificio statuale moderno, la mediazione razionale, rispetto alla quale si costituisce come una sorta di “stato di natura” [...] mai pienamente superabile in un ordine artificiale.38 Come si legge in Teoria del partigiano (1963) – che costituisce come recita il sottotitolo una Integrazione al concetto del Politico – il politico «non è l’inimicizia pura e semplice, bensì la distinzione fra amico e nemico, e il presupporre l’amico e il nemico».39 Ovvero: la storia della politica moderna è retta dalla metamorfosi del processo di auto-identificazione di una collettività mediante il conflitto tra amico e nemico. La storia del politico è costituita dalla trasformazione del senso del conflitto amico-nemico su cui si fonda la capacità di una collettività di riconoscersi in quanto tale. In questo senso il politico da una parte non può essere inteso come mero caos distruttivo, «inimicizia» che tutto divora, d’altra parte il formarsi della collettività di «amici» avviene attraverso l’esclusione di ciò che si definiscono come «nemici». L’identità del Noi è fondata sulla esclusione dell’Altro. Il «nemico» deve essere allontanato all’esterno o neutralizzato all’interno della collettività. Quella «“tranquillità, sicurezza e ordine”»40 che sono il «presupposto perché le norme giuridiche possano aver vigore» e su cui dunque poggia la vita «normale»41 di una 37 C. Galli, Spazi politici. L’età moderna e l’età globale, Il Mulino, Bologna 2001, p. 121. Sul rapporto tra spazialità politica e universalismo giuridico post-statuale cfr. soprattutto H. Kelsen, Il problema della sovranità, tr. it. di A. Carrino, Giuffrè, Milano 1989. 38 C. Galli, Genealogia della politica, cit., pp. 743-44. 39 C. Schmitt, Teoria del partigiano. Integrazione al concetto del Politico, Adelphi, Milano 2005, p. 127. 40 C. Schmitt, Il concetto di “politico”, in Id., Le categorie del “politico”, cit., p. 130. 41 Ibid. collettività organizzata in Stato, emerge dal conflitto: il Noi esiste solo in virtù del riconoscimento, della separazione e della esclusione dell’Altro. Come ha osservato Galli, attraverso il politico «Schmitt vuole superare l’identità tautologica del moderno razionalismo politico: il “nemico” in verità è l’Altro in noi, è la nostra stessa esistenza nel suo lato tragico e al contempo energetico; l’Estraneo è il Prossimo, ovvero, per usare le parole di Rilke, “Feindschaft ist uns das Nächste”».42 L’idea liberale di politica, la concezione borghese di sicurezza sono decostruite e destituite di fondamento: l’identità politica esiste solo mediante l’identificazione di un nemico e successivamente alla sua esclusione. Noi ci siamo politicamente perché abbiamo escluso l’Altro. La nostra stessa identità dunque deriva dall’esclusione, poggia continuamente sulla figura di ciò che è stato definito come nemico. L’ordine giuridico-politico (l’amicizia) non viene fondato sul trasparente riferirsi a sé della collettività, ma è una deriva del conflitto. La formazione statale non è originariamente una costruzione astratta, l’esito della Vermittlung razionale e sempre presente a se stessa, ma è costitutivamente emersa dalla concreta decisione e separazione conflittuale fra amico e nemico. La vita normale della collettività statale si basa certo sulla neutralizzazione del conflitto attraverso l’organizzazione e l’ordinamento dello Stato, ma tale neutralizzazione non è mai stata né potrebbe essere assoluta, proprio perché il politico per emergere concretamente deve aprire il conflitto e da esso trarre continuamente energia. Questa condizione di tragicità irrisolvibile su cui la vita del politico si basa è allo stesso tempo il limite della formazione politica statale, ma anche l’unica dimensione possibile della sua esistenza. «L’amicizia – l’ordine – che pure è originariamente prevista da Schmitt a costituire il politico», scrive Galli, «non è dunque il quieto riposare in sé dell’oggettivo riferirsi a sé del soggetto collettivo, ma è percorsa dall’ostilità: amicizia e ostilità sono due modi della medesima immediatezza – dell’eccezione e della contingenza –. E la decisione e l’esclusione, che li uniscono e al contempo li dividono, mostrano come si coappartengono proprio mentre si respingono».43 Dunque l’ordine del diritto non ha bisogno di diritto per essere ciò che è, il che equivale a dire che la universalità dei concetti giuridico-politici vive della contingenza dei rapporti di forza che ne ha decretato la nascita. Un ulteriore elemento tragico su cui il diritto poggia e di cui continuamente si alimenta è individuato da Schmitt nella «sovranità» e nella sua relazione costitutiva con l’«eccezione». Anzi, potremmo dire meglio che parlando della sovranità e dell’eccezione non ci troviamo di fronte a un’altra separazione tragica oltre a quella della esclusione o del conflitto come emergenza del conflitto, perché come ha osservato Giorgio Agamben, l’«eccezione» non è che «una specie dell’esclusione»,44 di quel tipo di conflitto che abbiamo visto segnare l’emergenza del rapporto amico-nemico come gesto iniziale del “politico”. Schmitt nello scritto Politische Theologie, Vier Kapitel zur Lehre der Souveranität (1922-1934) osserva che «una giurisprudenza orientata alle questioni della vita di ogni giorno e degli affari ordinari non ha alcun interesse al concetto di sovranità. Per essa è normale solo ciò che è conoscibile e tutto il resto è “disordine”».45 Il tema centrale del saggio schmittiano è invece proprio la «sovranità», da intendersi secondo la frase con 42 C. Galli, Genealogia della politica, cit., p. 750. La citazione del verso rilkiano è tratta dalla Quarta Elegia (R. M. Rilke, «Quarta Elegia», in Id. Elegie Duinesi, tr. it. di E. De Portu e I. De Portu, Einaudi, Torino 1978, vv. 9-11): «Uns aber, wo wir Eines meinen, ganz, | ist schon des andern Aufwand fühlbar. Feindschaft | ist uns das Nächste». «Ma noi, quando intendiamo una cosa, e null’altro, | l’altro già lo avvertiamo, e sensibilmente. L’inimicizia | ci è prossima più di ogni altra cosa.» (tr. it. modificata). 43 C. Galli, Genealogia della politica, cit., p. 751. 44 G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995-2005, p. 21. 45 C. Schmitt, Teologia politica, in Id., Le categorie del “politico”, cit., p. 38 cui si apre lo scritto: «Sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione [Ausnahmezustand]».46 La questione che Schmitt si pone da un punto di vista giuridico è la seguente: esiste l’istituto giuridico dello «stato d’eccezione» o del «caso d’eccezione» che a differenza di altri casi estremi come la guerra esterna e lo stato d’assedio interno non sono né prevedibili né preventivamente regolamentabili, il che, quando correttamente interpretata, comporta, come scrive Galli, «la sospensione o l’abrogazione dell’ordinamento giuridico, mentre lo Stato come energia politica ovvero come sovranità, continua a sussistere in virtù del proprio “diritto di autoconservazione”».47 La eccezionalità dello stato di eccezione consiste nel fatto che tale stato «è ancora qualcosa di diverso dall’anarchia e dal caos», infatti «dal punto di vista giuridico esiste ancora in esso un ordinamento, anche se non si tratta più di un ordinamento giuridico. L’esistenza dello Stato dimostra qui un’indubbia superiorità sulla validità della norma giuridica».48 Ora tutta la questione è cruciale nel pensiero schmittiano per comprendere l’emergenza stessa dell’ordinamento giuridico e la provenienza dell’autorità statale rimanendo comunque in un ambito «accessibile alla conoscenza giuridica»:49 L’eccezione è ciò che non è riconducibile; essa si sottrae all’ipotesi generale, ma nello stesso tempo rende palese in assoluta purezza un elemento formale specificamente giuridico: la decisione. [...] La norma ha bisogno di una situazione media omogenea. Questa normalità di fatto non è semplicemente un «presupposto esterno» che il giurista può ignorare; essa riguarda invece direttamente la sua efficacia immanente. Non esiste nessuna norma che sia applicabile a un caos. Prima deve essere stabilito l’ordine: solo allora ha un senso l’ordinamento giuridico. Bisogna creare una situazione normale, e sovrano è colui che decide in modo definitivo se questo stato di normalità regna davvero. Ogni diritto è «diritto applicabile a una situazione» Il sovrano crea e garantisce la situazione come un tutto nella sua totalità. Egli ha il monopolio della decisione ultima. In ciò sta l’essenza della sovranità statale, che quindi propriamente non dev’essere definita giuridicamente come monopolio della sanzione o del potere, ma come monopolio della decisione [...]. Il caso d’eccezione rende palese nel modo più chiaro l’essenza dell’autorità statale.50 Schmitt afferma che lo stato d’eccezione in virtù della propria eccezionalità mostra l’emergenza della «situazione normale». Infatti sovrano è colui che in base a un determinato ordinamento giuridico ha il potere di dichiarare lo stato d’eccezione e di sospendere il normale funzionamento dell’ordinamento giuridico; in questo senso, scrive Schmitt, il sovrano «sta al di fuori dell’ordinamento giuridico e tuttavia appartiene a esso, perché spetta a lui decidere se la costituzione in toto possa essere sospesa»51 L’emergere della sovranità sta dunque nella decisione sul caso eccezionale. Ma questo significa che nel suo complesso l’ordinamento è a completa disposizione di chi decide al punto che il sovrano non è semplicemente il rappresentante superiore di un ordinamento, ma il suo stesso creatore. La forma giuridica e l’ordine giuridico sono creati da chi detiene la sovranità, ovvero da chi decide sul caso d’eccezione: dunque l’ordine trae vita dal disordine, la norma generale è generata dall’eccezione. Non solo: questo «agire abissale» – come è 46 Ivi, p. 33. C. Galli, Genealogia della politica, cit., p. 335. 48 C. Schmitt, Teologia politica, in Id. Le categorie del “politico”, cit., p. 39. 49 Ibid. 50 Ivi, pp. 39-40. 51 Ivi, p. 34. 47 stato definito da Galli – del creatore (del sovrano), non si dà solo inizialmente, ma «anzi il disordine e l’eccezione restano, all’interno dell’ordine, come potenzialità sempre presenti».52 Anzi: «il permanere indeterminante del disordine e della contingenza – della crisi – all’interno dell’ordine esige e rende necessaria la sovranità che è quindi la funzione attraverso la quale un ordine contingente si determina e si autointerpreta».53 L’ordine è un sistema razionale e ordinato, ma che poggia continuamente sull’assenza di razionalità e di ordine, tragicamente esposto all’eccezione, al Nulla della propria emergenza. La sovranità in quanto eccezione alimenta di continuo la macchina razionale del diritto, pur non avendo alcun fondamento razionale. Agamben ha osservato che spesso nel pensiero contemporaneo è stato osservato come l’ordinamento giuridico-politico «abbia la struttura di una inclusione di ciò che è, insieme, respinto fuori».54 A tal proposito Agamben ricorda alcuni passi esemplari di Deleuze di Blanchot e di Foucault.55 Ma tuttavia bisogna sottolineare la peculiarità della struttura della sovranità nella lettura schmittiana: Ciò che è fuori viene qui incluso non semplicemente attraverso un’interdizione o internamento, ma sospendendo la validità dell’ordinamento, lasciando cioè, che esso si ritiri dall’eccezione, l’abbandoni. Non è l’eccezione che si sottrae alla regola, ma la regola che, sospendendosi, dà luogo all’eccezione e soltanto in questo modo si costituisce come regola, mantenendosi in relazione con quella. Il particolare “vigore” della legge consiste in questa capacità di mantenersi in relazione con una esteriorità. Chiamiamo relazione di eccezione questa forma estrema della relazione che include qualcosa unicamente attraverso la sua esclusione».56 Non solo l’emergere della legge ma lo stesso normale vigore della legge, il suo regolare funzionamento dipende dalla sospensione della legge interna alla legge stessa, sospensione che è sempre operativa attraverso quel peculiare tipo di relazione che è la relazione di eccezione. In questo senso l’eccezione sovrana è, scrive Agamben la localizzazione (Ortung) fondamentale, che non si limita a distinguere ciò che è dentro e ciò che è fuori, la situazione normale e il caos, ma traccia fra di essi una soglia (lo stato di eccezione) a partire dal quale interno ed esterno entrano in quelle complesse relazioni topologiche che rendono possibile la validità dell’ordinamento. L’ordinamento dello spazio, in cui consiste per Schmitt, il Nomos sovrano, non è pertanto, solo «presa della terra» (Landnahme), fissazione di un ordine giuridico (Ordnung) e territoriale (Ortung), ma innanzitutto «presa del fuori», eccezione (Ausnahme).57 L’ordine politico emerge dal conflitto e pur neutralizzandolo lo conserva in sé tanto che il gesto sovrano per eccellenza non consiste nel creare le norme finalizzate alla pace e all’ordine, ma nel sospendere quello stesso sistema normativo, con una decisione che svela come la presenza dell’eccezione (ovvero dell’anormalità e del conflitto) sia interna e connaturata all’ordine stesso. La politica e il diritto non sono mai razionale esclusione del conflitto, sia la politica che il diritto dal 52 C. Galli, Genealogia della politica, cit., p. 339 Ibid. 54 G. Agamben, Homo sacer, cit., p. 22 55 Cfr. ivi, pp. 22 e sgg. 56 G. Agamben, Homo sacer, cit., p. 22 57 Ivi, p. 23. 53 conflitto sorgono e del conflitto vivono. La politica nel suo complesso non è solo ordine e norma in funzione della pace, ma anzi fin dall’inizio emerge come atto conflittuale, quale coappartenersi inscindibile di pace e guerra. È la perenne possibilità del conflitto che con la sua decisione il sovrano (sia esso un singolo o una collettività) di volta in volta rende attuale sia all’esterno dell’ordine statale che all’interno. Ora credo si possa almeno iniziare a comprendere per quale ragione il pensiero di Schmitt rappresenti per Derrida un momento di riflessione decisivo e ineludibile per il suo pensiero e per chiunque intenda interrogarsi oggi sulla questione della guerra: il conflitto e la guerra non sono errori o malattie che insidiano dall’esterno l’illuminata e pacifica costruzione politica del mondo occidentale, ma sono contenuti fin dall’inizio all’interno di ogni ordinamento politico e giuridico. In particolare Schmitt cerca di mostrare come la moderna neutralizzazione politico-giuridica della guerra sia sempre stata parziale e incompleta e che non possa che essere così. La patologia che affligge l’Occidente non è una malattia che colpisce dall’esterno la sana costituzione dell’Occidente, ma viene dal suo stesso interno, è un elemento costitutivo della organizzazione giuridico-statale; potremmo dire, semplificando con un paradosso, che è la natura particolare di questa malattia che ha reso possibile per secoli la vita sana dell’Occidente. La crisi che ha colpito l’organizzazione giuridico-politica dell’Occidente e che percorre ora l’intero globo occidentalizzato nel suo complesso è ciò che ha permesso allo stesso Occidente per lungo tempo la sua vita statale illuminata, regolamentata, civile. Ma allora se questa è la genealogia della politica occidentale ha ancora senso parlare della dimensione globale della violenza come di una “patologia”? 5. La storia dello jus publicum Europaeum è la storia concreta della «regolamentazione e una relativizzazione dell’ostilità»58 e «ogni relativizzazione delle ostilità costituisce un grosso progresso in senso umanitario»,59 ma tale progresso dalla Prima guerra mondiale l’Occidente se lo è lasciato alle spalle. Schmitt in Der Nomos der Erde (1950) e in Land und Meer (1942-1954) ricostruisce questo frangente della vita politica moderna mostrando come il sistema degli Stati dello jus publicum Europaeum rese possibile una limitazione della guerra non in virtù di un astratto universalismo razionalistico o di un libero accordo fra i contraenti del “contratto sociale”, ma grazie a concrete condizioni strutturali, a contingenti rapporti di potere, dei quali occore ricordare ora almeno gli elementi più importanti: la scoperta degli spazi liberi delle Americhe e la loro conquista da parte delle potenze coloniali, l’equilibrio fra potenze di terra e mare, fra continente e Inghilterra. Di qui una serie di regolamentazioni (la differenza fra guerra terrestre e marittima, fra guerra in Europa e nelle colonie) che permise al continente europeo la conquista politica del pianeta e la diffusione globale del suo sistema tecnico ed economico. Con estrema chiarezza Schmitt scrive: La comparsa di spazi liberi immensi e la conquista territoriale di un nuovo mondo resero possibile un nuovo diritto internazionale europeo a struttura interstatale. Nell’epoca interstatale del diritto internazionale, che va datata tra il secolo XVI e la fine del XIX, si conseguì un reale progresso: quello di circoscrivere e di limitare la guerra europea. Questo grande successo non può essere spiegato né con le formule della guerra giusta tramandate dal Medioevo, né con concetti di diritto romano. Esso si verificò solo perché si realizzò un nuovo ordinamento spaziale concreto, un equilibrio tra gli Stati territoriali del 58 59 C. Schmitt, Il concetto di politico, in Id. Le categorie del “politico”, cit., p. 92 Ibid. continente europeo in correlazione con l’impero marittimo britannico, avente sullo sfondo immensi spazi liberi. Con lo svilupparsi sul territorio europeo di parecchieformazioni di potere territorialmente compatte e dotate di governo, di amministrazione centrale e di confini stabili, furono trovati i portatori adeguati di un nuovo jus gentium. Grazie al concreto ordinamento spaziale dello Stato territoriale il suolo europeo acquisì uno specifico status di diritto internazionale, valido tanto in se stesso, quanto in rapporto a tutti i territori non europei d’oltremare. Fu così reso possibile per un periodo di tre secoli un diritto internazionale comune non più ecclesiastico o feudale, ma appunto statale. 60 In un altro passo fondamentale del Nomos della Terra che vale la pena citare per intero, Schmitt si sofferma sinteticamente su uno degli aspetti fondamentali della nascita dello jus publicum Europaeum: La separazione di terraferma e mare libero è la caratteristica specifica fondamentale dello jus publicum Europaeum. Questo ordinamento spaziale trae origine essenzialmente non già da conquiste intraeuropee o da mutamenti territoriali, ma dalla conquista europea di un nuovo mondo europeo, connessa alla conquista del mare libero operata dall’Inghilterra. Spazi liberi immensi, apparentemente illimitati resero possibile e ressero il diritto interno dell’ordinamento interstatale europeo. [...] Per il nomos della terra emergono in quest’epoca le seguenti distinzioni e suddivisioni: 1) distinzione tra la superficie della terraferma e quella del mare libero, importante ai fini della distinzione tra guerra terrestre e guerra marittima, a ognuna delle quali corrisponde un proprio concetto di nemico, guerra, preda; 2) entro la superficie della terraferma: distinzione tra il suolo degli Stati europei (territorio statale in senso proprio) e il suolo dei possedimenti d’oltremare (territorio coloniale), importante ai fini della distinzione tra guerra europea e guerra coloniale. La limitazione della guerra ottenuta per la guerra terrestre europea, si riferisce solo alle guerre interstatali condotte sul suolo europeo o su un suolo a esso equiparato.61 L’emergenza dello Stato razionale occidentale non può essere concepita come l’evoluzione diretta della tradizione giuridica romana o delle formule della guerra giusta di tipo medievale. Alla base della costruzione statale moderna sta un «nuovo ordinamento spaziale» che Schmitt definisce esplicitamente «concreto». Lo Stato occidentale a partire dal XVI secolo diventa il nucleo di un nuovo jus gentium in base al quale si decise anche il destino dei grandi spazi americani e del mare. La limitazione della guerra entro i confini europei deriva da questa situazione concreta, e funzionale a questa situazione concreta deve essere visto il nuovo diritto internazionale secondo il quale la guerra non si invoca più justa causa (cioè secondo un principio morale) né si utilizza come strumento divino contro gli eretici e gli infedeli, ma ormai del tutto deteologicizzata come il resto della vita pubblica è dichiarata contro uno justus hostis (dunque, in base a un concetto formale) e condotta secondo regole determinate e condivise tra i contendenti. Nasce la guerre en forme ovvero un modo di condurre la guerra in cui il nemico «cessa di costituire qualcosa che “deve essere annientato”»:62 60 C. Schmitt, Il Nomos della Terra nel diritto internazionale dello «jus publicum Europaeum», tr. it. di E. Castrucci, Adelphi, Milano 1991, p. 163. 61 Ivi, pp. 223-24. 62 Ivi, p. 166. Un ordinamento internazionale che si fonda sulla liquidazione della guerra civile e che limita la guerra trasformandola in un duello europeo tra Stati, si legittima di fatto come ambito di relativa razionalità. L’uguaglianza dei sovrano fa sì che questi siano fra di loro partner bellici equiparati e tiene lontano i metodi della guerra di annientamento.63 Il fatto che la guerra sia stata limitata – si badi bene non in toto, ma esclusivamente sul suolo europeo – entro confini giuridici razionali e condivisi fino ad assumere l’andamento di un duello confinato entro norme limitate e definite a cui tutte le entità statali europee si sentono costrette e onorate a tener fede, permette contemporaneamente di intraprendere guerre brutali nel “nuovo” mondo in quanto terra non ordinata secondo i principi dello Stato moderno. Oltre alla guerra civile anche la guerra coloniale rimane estranea alla regolamentazione dello jus publicum Europaeum. La «relativa razionalità» che ha caratterizzato i rapporti internazionali tra gli Stati europei dal XVI secolo, tramonta alla fine del XIX: le caratteristiche dei conflitti tendono a non rispettare più quelle che per alcuni secoli erano state assunte come norme inviolabili della guerra tra gli Stati: non considerare i prigionieri di guerra come «l’oggetto di una punizione, di una vendetta o di una cattura di ostaggi»,64 trattare la proprietà privata «non più direttamente come bottino di guerra»,65 rispettare le nazioni neutrali e concludere, al termine delle ostilità «trattati di pace con ovvie clausole di amnistia».66 Come all’origine dello jus publicum Europaeum abbiamo visto essere presente un concreto ordinamento spaziale, così il suo tramonto è segnato da una altrettanto concreta «rivoluzione spaziale». Una importanza decisiva nello svuotamento di senso dello jus publicum Europaeum ha ricoperto secondo Schmitt l’ampliamento del teatro di guerra al cielo. Con la nascita del volo meccanico e con l’istituzione della aeronautica oltre alla terra e al mare la guerra conquista un ulteriore elemento, l’aria, con un effetto «rivoluzionario» tale che, come si legge in Land und Meer (1942), è possibile definire l’aeronautica nel complesso come «arma spaziale»: «L’effetto di rivoluzione spaziale che ne deriva, infatti, è particolarmente forte, immediato, manifesto».67 Per Schmitt non si tratta di un mero aumento quantitativo dei luoghi deputati agli scontri armati, quanto piuttosto di una conquista di un nuovo elemento che esprime l’avvenuta trasformazione dell’idea di guerra in quanto tale. In particolare l’ingresso sulla scena del volo aerero militare muta anche l’idea di guerra terrestre e marittima, fino a dissolvere i confini della guerre en forme. La guerra aerea riporta concretamente sulla scena europea l’idea della «guerra di annientamento»: Il bombardamento aereo ha [...] il significato e il fine esclusivo dell’annientamento. La guerra aerea autonoma – che non è una guerra che si aggiunge alle armi e ai metodi della guerra terrestre o marittima finora conosciuta, bensì un tipo di guerra completamente nuovo – si distingue da quei due altri tipi di guerra soprattutto per il fatto che essa non è affatto una guerra di preda, ma una pura guerra di annientamento.68 63 Ibid. Ivi, p. 411 65 Ibid. 66 Ibid. 67 C. Schmitt, Terra e mare. Una riflessione sulla storia del mondo, Adelphi, Milano 2002, p. 107. Su questo tema cfr. anche C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., pp. 417-29. 68 C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., p. 423. 64 Certamente anche la guerra terrestre può essere condotta come guerra di annientamento, ma storicamente l’emergere e l’affermarsi dello jus publicum Europaeum mostra come di fatto la guerra terrestre e l’occupazione bellica siano potute diventare un istituto giuridico del diritto internazionale, al punto che the mutual relation between protection and obedience nella guerra terrestre in forma ha caratterizzato normalmente i rapporti tra l’esercito occupante e la popolazione del territorio occupato : Nella misura in cui l’esercito occupante salvaguarda l’ordine pubblico e protegge la popolazione del territorio occupato, la popolazione è tenuta per parte sua all’obbedienza nei confronti della forza d’occupazione. Risulta qui evidente il nesso immediato tra protezione e obbedienza. Esso poggia su un chiaro legame spaziale che si instaura tra una forza d’occupazione effettivamente presente e la popolazione del territorio occupato. La potenza terrestre occupante può avere programmi e intenzioni diversi: essa può incorporare la terra occupata, annetterla o utilizzarla come materia di scambio o come garanzia; può assimilare oppure sfruttare la popolazione. Sempre, anche quando vengono presi degli ostaggi, rimane configurabile una connessione tra protezione e obbedienza e continua a essere data – almeno all’epoca del diritto internazionale europeo – una qualche relazione positiva sul suolo europeo tra il suolo stesso e i suoi abitanti.69 Questo rapporto tra protezione e obbedienza come anche il «rapporto tra tipo di guerra e preda» sono di principio esclusi nella riorganizzazione spaziale successiva alla nascita della «guerra aerea autonoma»: La guerra aerea autonoma elimina il nesso tra il potere che usa la forza e la popolazione che dalla forza è colpita in grado assai più alto di quanto avvenga nel caso di un blocco nel corso della guerra marittima. Nel bombardamento aereo la mancanza di relazioni tra il belligerante e il territorio, congiuntamente alla popolazione nemica che in esso si trova, diventa assoluta; qui non è rimasta nemmeno più l’ombra della connessione tra protezione e obbedienza. [...] L’aereo arriva volando e getta le sue bombe, oppure attacca scendendo a volo radente e quindi riprende quota: in entrambi i casi adempie alla sua funzione di annientamento e abbandona quindi immediatamente al suo destino (vale a dire: alle sue autorità statali) il territorio bombardato, con le persone e le cose che vi si trovano.70 La guerre mondiali segnano il crollo dell’ordinamento spaziale che aveva reso possibile la regolamentazione della guerra. In particolare l’estensione su scala planetaria della sovranità statale resa possibile dal processo di decolonizzazione iniziato alla fine della Seconda guerra mondiale comporta l’impossibilità di continuare a tenere in forma quel fragile orientamento ordinativo dello spazio mondiale che aveva reso possibile la regolamentazione della guerra e la “pacifica” politica europea europea nel suo complesso. Come ha osservato Galli «che estesasi universalmente, la sovranità dello Stato non sia più in grado di determinare un orientamento ordinativo degli spazi mondiali ma sia solo “tecnica” è dimostrato per Schmitt dal fatto che le forze universalistiche e “marittime” – il liberalismo, l’economia capitalistica, la tecnica – prendono il sopravvento»71 69 Ivi, p. 425 Ivi, pp. 428-29. 71 C. Galli, Spazi politici. L’età moderna e l’età globale, Il Mulino, Bologna 2001, p. 118. 70 annullando tutte quelle separazioni ed esclusioni interno ed esterno, terra europea, mare, colonie, nemico e criminale di cui l’ordinamento politico moderno viveva. 6. L’esigenza derridiana di rivolgersi a Carl Schmitt è comprensibile nella misura in cui all’interno della dimensione globale della politica e della guerra ci troviamo in una situazione caratterizzata dal «caos concettuale»; siamo finiti in una «zona di turbolenza aleatoria propria del linguaggio pubblico o politico» che impone al pensiero filosofico di «riconoscere le strategie e i rapporti di forza».72 In questo quadro critico della politica in cui il significato di parole come «pace», «guerra», «terrorismo», «democrazia» appare consumato dal senso comune e dagli usi strumentali, Derrida vede una possibilità per il pianeta globalizzato nella «rifondazione, se così la si può chiamare, del giuridico politico» e con essa «una mutazione concettuale, semantica, retorica allo stesso tempo».73 Ma tale rifondazione non può avere inizio se non ritessendo il vocabolario della politica occidentale attraverso una comprensione genealogica – nella direzione di Schmitt appunto – delle modalità mediante le quali l’ordinamento statale moderno si è dissolto nelle trincee della Prima guerra mondiale, producendo un’esplosione sempre più generealizzata e incontrollabile della violenza bellica. La comprensione genealogica risponde all’esigenza di tornare imparare a vedere e a parlare fuori dalle contrapposizioni ideologiche e abbandonando i vuoti stereotipi nel tentativo di dar forma a nuovi concetti. È all’interno di questa cornice che anche l’evento dell’11 settembre deve essere inserito: non tanto evento epocale, punto di svolta, ma fenomeno che con il suo nudo terrore ben visibile e ben comprensibile dagli occhi occidentali, esprime la portata della violenza globale, incontenibile dalle vecchie categorie della politica europea. In questo contesto la schmittiana genealogia della politica, come scrive Galli, non è né una apologia della guerra, né l’affermazione della semplice coincidenza di guerra e politica; è la scoperta che ogni ordine politico è reso possibile da un disordine e sul conflitto che dunque porta in sé fin dalla propria emergenza, come atto costitutivo, della presenza costitutiva della guerra (come possibilità) all’interno della pace, della precarietà delle chiare distinzioni di cui si è nutrita la politica moderna, delle opacità che ineriscono la ragione, della contingenza di ogni ordine, dell’instabilità dello Stato, la cui neutralità è in realtà impossibile, perché nata e orientata da un conflitto mai del tutto giuridificabile.74 Con la fine della guerre en forme la dimensione dell’annientamento diventa coessenziale all’esercizio della guerra stessa. In questo vuoto di dominio sulla guerra, nell’impossibilità di produrre spazio politico e identità attraverso l’azione violenta, lo scenario normale che si prospetta è quello di una diffusione planetaria di conflitti irregolari in cui figure ed eventi irregolari ed eccezionali tendono ad assumere sempre più la funzione normale di scontri regolari. In quello che Alain Joxe definisce come il «caos imperiale»,75 assistiamo alla quotidiana «riduzione degli “altri” a entità politicamente nulla» il che comporta, come ha scritto Alessandro Dal Lago, «la trasformazione della guerra in polizia-pulizia su scala globale in cui non esiste più riconoscimento del nemico».76 Uno dei pericoli più grandi del processo di normalizzazione della guerra funzionale al «sistema-lavoro», della normalità e della quotidianità della violenza che circola incessantemente 72 J. Derrida, Autoimmunità, suicidi reali e simbolici, in G. Borradori (a c. di), Filosofia del terrore. p. 113. Ibid. 74 C. Galli (a c. di), Guerra, Laterza, Roma-Bari 2005, p. XXVI. 75 A. Joxe, L’impero del caos. Guerra e pace nel nuovo disordine mondiale (2002), Sansoni, Milano 2004, p. 33. 76 A. Dal Lago, Polizia globale. Guerra e conflitti dopo l’11 settembre, ombre corte, Verona 2003, pp. 37-38. 73 e in modo sottile e spesso impercettibile viene dalla ideologica criminalizzazione di chi è considerato nemico, dal ridurre il cosiddetto nemico a materiale di scarto da eliminare. Nella ricostruzione del processo che conduce alla dimensione planetaria della guerra, il terrore e l’annientamento appaiono quali elementi essenziali e non come minaccia esterna alla trasformazione della democrazia occidentale in democrazia planetaria.77 In questo senso tutta quella sequela di statiche contrapposizioni tra valori occidentali e fanatismo orientale, tra democrazia dei paesi civilizzati e tirannia dei “popoli fondamentalisti” si presenta come una di quelle forme di consapevole o inconsapevole produzione ideologica del nemico, che denuncia comunque la propria cecità dinanzi alla genealogia della dimensione globale della violenza e dimostra l’assenza di comprensione della portata intrinsecamente imperialistica di quella che Ernst Jünger già negli anni Trenta aveva definito come «democrazia della morte». La costruzione dello spazio planetario si è realizzato e continua a realizzarsi come imposizione dell’uniformità della disciplina della tecnica e del lavoro attraverso la distruzione sistematica di ciò che rimane delle altre forme culturali, ma proprio in questa opera di annullamento dell’altro, la razionalità europea tende a estraniarsi rispetto alla propria provenienza, a occultare la propria radice tragica e conflittuale. Alla democrazia occidentale accade qualcosa di analogo a ciò che secondo Nietzsche78 decretò la morte della tragedia antica: come il dramma tragico svuotato della forza aorgica, divenuto incapace di parlare la lingua straniera di Dioniso non può che rispecchiarsi in se stesso fino ad assumere le sembianze e gli atteggiamenti della «scimmia di Ercole», così l’abbandono, anzi l’annullamento sistematico dell’altro da parte della tirannia dei valori democratici muta l’essenza della democrazia occidentale che è ora, per dirla con Nietzsche, «dialettica sofistica», democrazia «imitata e mascherata» proprio come agli occhi di Nietzsche apparve il dramma euripideo. La portata di questa mutazione è massimamente visibile fissando lo sguardo su quella «logica della forza»79 che emerge nell’esecuzione politica dell’imperativo democratico «rendere l’altro uguale a noi». Come ha scritto in modo lapidario Guido Davide Neri: «Mai come nell’attuale “pedagogia delle bombe” si manifesta la verità del detto che proprio “il medium è il messaggio”.»80 Nell’uso della guerra come via per una cosiddetta “civilizzazione democratica” si svela l’essenza della versione contemporanea della democrazia occidentale, nonché il destino nichilistico del suo progetto. Parlano di noi oggi le immagini con cui si chiude lo scritto di Jünger Die totale Mobilmachung: in quei «luoghi» nei quali «la maschera umanitaria è quasi cancellata» ciò che rimane della «rete» planetaria intrecciata dalla Mobilitazione totale è «un feticismo della macchina mezzo grottesco e mezzo barbarico»,81 lo svanire del «sogno della libertà» stritolato «come nella ferrea morsa di una tenaglia»:82 77 Sul terrorismo come modus operandi che mira non all’eleminazione precisa dei soldati avversari, ma all’annientamento generalizzato del nemico e del suo ambiente e sulla sua nascita nello scenario della guerre en forme tra Stati cfr. P. Sloterdijk, Schäume, Suhrkamp, Francoforte s. M. 2004. Sulla dimensione nichilistica della guerra contemporanea S. Markus, H. Münkler, W. Röcke (a cura di), Schlachtfelder. Codierung von Gewalt in medialen Wandel, Akademie Verlag, Berlino 2003. 78 «Che cosa volevi, empio Euripide, quando cercasti di costringere ancora una volta questo morente a servirti? Morì fra le tue braccia violente, e allora sentisti il bisogno di un mito imitato, mascherato, che come la scimmia di Ercole sapeva ormai soltanto adornarsi con l’antica pompa. E come per te moriva il mito, moriva per te anche il genio della musica: per quanto tu saccheggiassi con avide mani tutti i giardini della musica, anche così giungesti solo a una musica imitata e mascherata. E poiché avevi abbandonato Dioniso, anche Apollo abbandonò te». (F. Nietzsche, La nascita della tragedia (1876), Adelphi, Milano 1972-1977, p. 74. 79 G. D. Neri, Sulla guerra, in Il sensibile, la storia, l’arte, cit. p. 294. 80 Ibid. 81 E. Jünger, La mobilitazione totale, in Id., Foglie e pietre, cit., 134. 82 Ivi, p. 135. «È uno spettacolo grandioso e terribile vedere i movimenti delle masse sempre più omologati, su cui lo spirito del mondo getta la sua rete. Ciascuno di questi movimenti non fa che rendere la presa più stretta e più implacabile, e qui agiscono forme di costrizione che sono più forti della tortura: così forti che l’uomo le saluta con giubilo».83 Sviluppando specialmente la riflessione sulla metamorfosi della guerra di Ernst Jünger e di Carl Schmitt, Carlo Galli osserva che l’essenza della «guerra globale» è quella di «non essere una Terza guerra mondiale» e «di non essere neppure una guerra dei mondi (del mondo islamico contro il mondo cristiano), quanto piuttosto la manifestazione del fatto che la globalizzazione è un mondo di guerra».84 In questo senso la incessante cupa proliferazione di fronti avversi che si delineano sulla base della contrapposizione di ideologie, religioni e valori non dà forma a «identità politiche intese come fattori di ordine politico, ma solo a immagini fantasmatiche in reciproca immediata negazione».85 «La guerra», scrive Jünger nel 1959, «non viene circonfusa dalla luce di un affinato incivilimento che ne segni l’inutilità: essa piuttosto si disgrega, divenendo uno strumento ottuso imprevedibile, e perfino suicida, della politica, un vicolo cieco».86 Proprio nel superamento di questo deserto fantasmatico e ideologico consiste il primo passo per ritessere le trame di un ethos occidentale in grado di essere fedele al senso della propria provenienza culturale e all’altezza della comprensione del destino di quella globalizzazione che nella implicazione mondiale della storia europea ha la propria ragione e che non può certo essere «lasciata alle spalle come un’uniforme dismessa».87 Un ethos che si realizza praticando quella che Jünger ha definito una «nuova scienza», oggi la più fertile e la più felice di tutte, «la dottrina della libertà umana di fronte alle nuove forme che ha assunto la violenza».88 83 Ibid. C. Galli, Guerra globale, cit., p. 55. Su questi temi si vedano anche le riflessioni di A. Dal Lago, Polizia globale. Guerra e conflitti dopo l’11 settembre, cit. e Id. La guerra-mondo, in «Conflitti globali», 1, marzo 2005. Ma cfr. anche: D. Zolo, Chi dice umanità. Guerra, diritto e ordine globale, Einaudi, Torino 2000; S. Palidda, Polizia postmoderna. Etnografia del nuovo controllo sociale, Feltrinelli, Milano 2000; S. Vaccaro, Globalizzazione e diritti umani, Mimesis, Milano 2004; G. Buonaiuti, A. Simoncini (a cura di), La catastrofe e il parassita, Mimesis, Milano 2004; L. Bonanate, La politica internazionale tra terrorismo e guerra, Laterza, Roma-Bari, 2004. 85 C. Galli, Guerra globale, cit., p. 36. 86 E. Jünger, MdT, p. 93. 87 G. D. Neri, L’Europa dal fondo del suo declino, in Id., Il sensibile, la storia, l’arte, cit., p. 271. 88 E. Jünger, Trattato del ribelle, cit., p. 24. 84