I PENSATORI DELLA CRISI E LE CRITICHE DELLA MODERNITA’: Per pensatori della crisi si intendono quei filosofi, letterati e politologi, vicino al totalitarismo di destra, la cui ideologia non è più la razionalità umana ma l’accettazione del dominio e della violenza attraverso l’eroismo o la decisione. Questi autori delegittimano tutte le tradizioni del pensiero politico occidentale. Un tema centrale nell’analisi del domino era stato quello della Tecnica. Qui, per tecnica, si intende Tecnocrazia, ossia una ipotetica forma di governo in cui le decisioni politiche vengono prese da "tecnici", cioè da esperti di materie tecnicoscientifiche o più in generale studiosi di campi specifici, quali professori, scienziati, ingegneri, economisti, giuristi, sociologi. Il significato letterale è "governo dei tecnici": i Professori al governo sfruttano l’ignoranza delle masse per governare liberamente e senza il consenso del popolo. Molti studiosi facenti parte della Scuola di Francoforte, infatti, si erano accorti che la tecnica nel 20esimo secolo assume un’esistenza autonoma, ovvero cessa di essere uno Strumento per diventare invece un Fine in sé, che impone le proprie logiche coercitive alla società. La Tecnica è la manifestazione più piena del dominio, più radicale dell’economia; assume quindi il comando politico nelle società borghesi. Soprattutto dopo la prima guerra mondiale, una buona parte della cultura filosofica e politica si consegna al pessimismo: è quell’atteggiamento indicato come “critica ella civiltà”, in cui si afferma che la civiltà moderna ha irrimediabilmente perduto le speranze e le finalità umanistiche che ‘avevano contraddistinta fino dalla nascita. Tale perdita è dovuta proprio alla ragione e alla tecnica. Quest’ultima dimostra che la borghesia moderna non è costruttrice ma distruttrice, che la scienza non rende l’uomo potente ma al contrario lo rende schiavo di essa, che il socialismo non è la soluzione del problema. L’individualismo moderno ha prodotto una società massificata e spersonalizzata. La grande industrializzazione ha aperto la strada a potenze tecnico-politiche impersonali che dominano la società e privano anche l’intellettuale della sua libertà. RIVOLUZIONE CONSERVATRICE: Il periodo in cui molti intellettuali espressero il loro disagio e la loro critica della modernità è detto Rivoluzione conservatrice, ed è collocabile tra le due guerre in Germania. La rivoluzione consiste nel rifiuto dei valori moderni (uguaglianza, ragione, libertà) e nell’accettazione degli esiti tecnici della modernità a fini di eroismo individuale e di potenza nazionale: una manifestazione estrema di bisogni intellettuali e politici, che trovò riscontro solo col nazismo. Si tratta di una galassia di pensatori accomunati da non poche esperienze intellettuali, biografiche e politiche: l’influenza imponente di Nietzsche, la partecipazione alla guerra mondiale e la relativa umiliazione scaturita dal trattato di Versailles, il disprezzo per il socialismo. Tutti questi elementi indicavano l’attesa di un rivolgimento capace di aprire un’era nuova, l’età del Terzo impero, la rivincita e il rinnovamento della nazione e dei suoi membri tramite l’esperienza eroica della guerra, l’apertura di un destino imperiale per la Germania. Il termine Tecnica assumeva ora un connotato positivo, in quanto era intesa come manifestazione e strumento della volontà di potenza. JÜNGER: Ernst Jünger (1895 – 1998) è uno dei più importanti autori della rivoluzione conservatrice e va oltre l’ambito tedesco. Nelle due opere più importanti del periodo fra le due guerre (La mobilitazione totale, L’Operaio) Jünger si confronta con l’esperienza della Grande guerra e con le sue conseguenze: le precedenti guerre ottocentesche coinvolgevano solo parzialmente la società ed erano ancora gestite dallo Stato, dalla tecnica. La grande guerra invece cambia radicalmente volto, poiché in essa i rapporti gerarchici e gli ambiti tradizionali vengono sconvolti: nel primo conflitto mondiale, infatti, si incontrano la tecnica, la guerra e il progresso, in modo nuovo. Il Progresso porta le masse sulla scena della storia; la Guerra poi le sottopone tutte alla dura disciplina del combattimento e le consuma nei grandi macelli delle battaglie di trincea; la Tecnica, infine, ha un ruolo bellico decisivo, dato che la guerra dipende dalla produzione industriale. La tecnica è quindi finalizzata alla guerra. L’OPERAIO: La produzione, voluta dalla tecnica, è strettamente collegata alla distruzione. La tecnica, secondo Jünger, domina anche il tempo apparentemente di pace, che è seguito alla fine dei combattimenti: si apre l’epoca in cui la pace è solo preparazione della guerra. Jünger scopre che il lavoro (degli operai) è sempre più l’elemento caratteristico della nuova epoca, aperta dalla mobilitazione totale: il lavoro a cui si riferisce l’autore, però, è l’attività tecnica di un Tipo, non di un individuo: è l’attività dell’Operaio, il Milite del Lavoro, il tipo umano adatto a servirsi adeguatamente della tecnica e del suo potenziale distruttivo. In ogni caso, dagli anni 40 in poi, quel mondo di Operai è, per Jünger, il nostro mondo quotidiano, per quanto possa essere crudele e uniforme, spersonalizzante e antiumano, massificato e meccanico. Ma non è detto che siccome va riconosciuto, esso debba essere anche accettato: anzi, ad esso qualcuno si oppone. Jünger, in un testo del 1951, “il passaggio al bosco”, elabora così la figura del Ribelle, che non lotta con la violenza contro l’Operaio e contro l’epoca della tecnica, ma vi si sottrae con una personale resistenza, preferendo il pericolo alla schiavitù, e affermando la propria libertà contro la costrizione dei tecnici. Il “bosco”, contrapposto alla città, è per l’autore la dimensione della libertà del cosiddetto “Anarca”, colui che non ha bisogno di legge e di comando perché è legge a se stesso. Il Ribelle, insomma, è colui che si assume il rischio dell’azione personale e libera, in antitesi alla coercizione della tecnica. Ovunque, quindi, è possibile fare resistenza alla tecnica. HEIDEGGER: Martin Heidegger (1889 – 1976) critica l’ottimismo a proposito del superamento del nichilismo (Jünger). Secondo la sua concezione, non è possibile pensare alcun superamento del nichilismo della tecnica per mezzo dell’”oltrepassamento da parte dell’essere”, ma è possibile solo lasciando che il nichilismo passi da sé, svanisca col tempo. il nichilismo della tecnica è, quindi, secondo Heidegger, incurabile, in quanto deriva dalla volontà di potenza tipica dell’uomo occidentale. Questa volontà di potenza consiste nel rapporto impositivo del soggetto verso l’oggetto: la civiltà e la filosofia occidentali hanno verso l’Essere un atteggiamento strumentale. Ciò che si scopre con la Tecnica è che l’uomo può essere utilizzato, sfruttato, per mezzo dell’imposizione. L’unica salvezza, secondo Heidegger, proviene da un evento non umano, da un Dio, poiché la ragione umana è ormai tramontata. Questa critica radicale della ragione umana impone come conseguenza la mancanza di senso del mondo e della condizione dell’uomo: l’uomo ormai era consapevole che il proprio destino era inevitabilmente la morte, e ciò ha comportato una lotta continua durante il corso della storia. Questo modo di concepire l’agire come aperto al rischio, portò Heidegger ad aderire al nazismo. Il nazismo era per lui un modo per risvegliare la Germania. CARL SCHMITT: Giurista e teorico politico, Carl Schmitt nasce nel 1888, ed ha idee ben diverse da Jünger e Heidegger. Schmitt è critico del liberalismo, e non crede che l’origine della politica sia nell’individuo o nello Stato. Secondo il suo pensiero, la Politica va oltre l’individuo e la sua ragione, va oltre il diritto: la politica non è libertà, dunque, ma destino, decisione incontrastabile. L’ordine politico può esistere solo se conserva al proprio interno il disordine, la violenza, da cui ha avuto origine. Egli critica l’incapacità dei romantici di stabilire un rapporto efficace tra la realtà oggettiva e la propria razionalità sentimentale. La ragione a cui egli invece fa positivo riferimento è la Chiesa cattolica, con la sua razionalità. Questa riesce a far coesistere sotto la propria autorità aspetti del reale anche in contraddizione fra di loro (complexio oppositorum). Mentre la chiesa realizza questa rappresentanza dall’alto, la Modernità cerca di costruire l’ordine politico attraverso la rappresentanza di singoli dotati di interessi particolari, ma fallisce. Schmitt, comunque, non crede che solo la Chiesa cattolica sappia fare politica in modo efficacie. Anche la politica moderna in effetti è stata capace di produrre forme e ordini razionali concreti, di realizzare il sistema delle norme giuridiche, quando ha saputo riconoscere che l’origine dell’ordine politico è nell’assenza di ordine razionale, ossia che l’origine di ciò che è normale è nell’Eccezione. SOVRANITA’ DECISIONISTICA: Schmitt aveva distinto (nel suo libro sulla Dittatura, ne 1921) la Dittatura commissaria (che sospende un ordinamento per un periodo di tempo prestabilito) dalla Dittatura sovrana, ossia la decisione di un’autorità concreta e personale di creare un ordinamento razionale a partire dalla più radicale assenza di ordine. Egli sottolinea quindi che la politica non è un calcolo razionale, ma un Atto creativo, che fa nascere l’ordine dal nulla, dal caos iniziale. Quell’atto creativo è la Decisione: la Sovranità decisionistica, in quanto sa confrontarsi con l’eccezione, è per Schmitt l’unico modo per creare ordine politico nella modernità. Il giurista si scaglia anche contro la Tecnica, affermando che si tratta della più alta espressione della ricerca di ordine razionale, e quindi è palesemente del tutto incapace di affrontare il conflitto, di creare ordine: essendo a disposizione di tutte le forze politiche, la Tecnica ne moltiplica la potenza, ma non sa produrre una forma. LO STATO: Schmitt afferma che lo Stato è inadeguato davanti al compito che storicamente aveva assolto, cioè di garantire l’ordine. In realtà, ha perduto quel monopolio della politica, causando la nascita delle rivoluzioni. Non è un caso che il giurista aderisce al nazismo, come risposta alla crisi dello Stato di quegli anni. Il concetto di Stato presuppone quello di Politico, il quale compito consiste nel riconoscere e distinguere l’Amico e il Nemico. Nel concetto di Nemico è prevista la possibilità reale della lotta, del conflitto armato, dell’uccisione fisica: è il nemico pubblico, quello che il nazismo adotterà come uno dei princìpi della sua ideologia. L’ordine viene creato dal conflitto e attraverso il conflitto, e viene conservato attraverso una continua vigilanza rivolta a escludere il potenziale nemico interno. L’ordine politico si mantiene solo se non neutralizza ma completamente il Politico: per Schmitt, lo Stato deve essere anche parziale e capace di polemica contro il nemico interno. Così, pace e guerra, cittadino e nemico, non si escludo ma anzi coesistono. COSTITUZIONE: Schmitt preferisce parlare di Costituzione piuttosto che di Stato. La Costituzione è un’unità politica concreta di un popolo, che nasce dalla decisione di un potere costituente. Deve quindi esistere un soggetto politico dotato di volontà; nel caso della democrazia questo soggetto è il popolo. La legittimità di fondo di una costituzione, inoltre, sta in una decisione fondamentale di tipo polemico. La Costituzione di Weimar, in particolare è per Schmitt il frutto di una vera decisione politica del popolo tedesco, decisione che fu polemica contro un nemico, il collettivismo socialista che si instaurava in Urss. La costituzione di Weimar è quindi orientata in senso antibolscevico. Ma lo Stato, in crisi a causa di una “guerra civile” tra partiti, sindacati, imprenditori, esercito, si rivela paralizzato: per questo Schmitt suggerisce di prendere misure per evitare che vadano al potere i partiti antisistema (nazisti e comunisti), ai quali non si devono concedere ciance politiche uguali a quelle degli altri partiti, affidando l’attività legislativa al presidente del Reich, eletto direttamente dal popolo (secondo la Costituzione). Si tratta esattamente della Dittatura commissaria di cui si è parlato in precedenza, con la quale il Presidente può salvare lo Stato e tutelare la democrazia, scavalcando il Parlamento percorso da conflitti da ogni parte e impossibilitato a governare. Questa formula è quella che Schmitt chiama “Stato totale per energia”, un misto di democrazia e autoritarismo. La strategia che Schmitt suggerì fallì, Hitler prese il potere e il giurista aderì al Partito Nazista (tra l’incredulità generale). Non a caso fu ricompensato con la cattedra di diritto pubblico a Berlino. Nei primi anni del regime, il giurista tentò una giustificazione politica del nazismo, identificandolo come l’Ordine concreto. Per ordine concreto si intende una struttura composta da contesti diversi in cui si articola il corpo della nazione; l’uguaglianza dei cittadini è sostituita dall’omogeneità razziale; sopra tutti vi è il Fuhrer, giudice supremo della Germania, in grado di agire al di là di ogni norma per il bene del popolo. IL NOMOS: Schmitt ricostruire la storica politica delle relazioni internazionali attraverso la contrapposizione di potenze terrestri, capaci di organizzare ordini stabili, Stati o Imperi che non conosco limiti e confini e che guardano al mondo come una Tabula rasa da percorrere in nome della libertà. La teoria del “Nomos” (descritta nel suo libro del 1950 “Il nomos della terra nel diritto internazionale dello jus publicum europaeum) definisce il rapporto fra Politica e Diritto. Il Diritto è un’unità di ordinamento e di localizzazione, ciò significa che l’origine del diritto è il modo con cui l’ordinamento si rapporta alla terra e allo spazio. Nomos, per Schmitt, significa quindi “Processo fondamentale di suddivisione dello spazio”. Gli ordinamenti hanno origine dal proprio nomos, ossia da una specifica divisione e partizione della terra: gli ordinamenti quindi non nascono dal contratto o dalla decisione, bensì dalla conquista del territorio e dalla sua suddivisione. Per “Jus publicum europaeum” Schmitt intende l’ordine giuridico internazionale che costituisce la piena età moderna. Mentre avviene la partizione del mondo (Nomos), in Europa si stabilizza un ordine fondato sul reciproco riconoscimento degli Stati sovrani (e dei propri confini) tra di loro. Reciproco riconoscimento significa guerra limitata. L’Ordine mondiale moderno crolla, per Schmitt, quando alla fine del XIX secolo le potenze extraeuropee (soprattutto Stati Uniti) iniziano a pretendere il principio che tutti i popoli, anche non civilizzati, possono avere uno Stato e che tutti gli Stati sono uguali fra loro davanti al Diritto internazionale (indifferenziato). Il giurista però fa una netta distinzione tra spazio terrestre e spazio marittimo. Se la guerra terrestre è limitata da confini ben precisi, in mare questo non è possibile. La guerra marittima è quindi illimitata per definizione, e lo è ancora di più quella aerea. Il prevalere di una spazialità marittima fa venir meno l’idea che la guerra sia un atto di sovranità e non un crimine, e fa quindi nascere la criminalizzazione della guerra d’aggressione, e la ritorsione contro di essa attraverso nuove “guerre giuste”, veri atti di polizia internazionale che sono in realtà atti di ostilità assoluta, cioè non limitata, diretti verso un nemico che è un criminale. Così, diventando Unità, il mondo si è disorientato, perdendo il proprio ordine spaziale. Ciò segnerebbe la fine della politica, la scomparsa del rapporto amico/nemico. STRAUSS: Leo Strauss (1899 – 1973) ruota attorno a due problemi: il rapporto tra Filosofia e Religione, e quale delle due è Realizzabile in politica. La sua risposta alla prima domanda è che filosofia e religione sono due ambiti ben distinti, inconciliabili, non sovrapponibili: per Strauss, la verità religiosa è diversa da quella filosofica. La risposta alla seconda domanda, invece, è che nessuna delle due verità (filosofia e religione) è realizzabile in politica, dunque nessuna delle due deve governare la politica in modo diretto. Entrambe, comunque, hanno la pretesa di realizzare e di governare un “ottimo Stato”. Già Platone aveva dimostrato (nella ‘Repubblica’) che l’ottimo Stato vive solo nelle parole, e non può vivere nella realtà, perché per instaurarlo si richiede agli uomini un’impossibile repressione della loro natura individualistica e bellicosa. L’unica cosa che può fare il filosofo in politica è insegnare ai politici e ai cittadini le virtù morali, grazie alle quali gli uomini e la città si orientano al Bene: ciò significa demandare al popolo la capacità di conoscere i princìpi del bene e del male, l’equilibrio, formula che Strauss identifica con l’espressione “Diritto naturale antico”. Per Strauss, era inevitabile che questa filosofia politica moderna soggettiva (da egli tanto criticata) conoscesse una rapida decadenza, in quanto svincolata da ogni stabile oggettività. L’ultimo passaggio di questo tragitto di decadenza è il Nichilismo (che compare in Nietzsche, Weber, Schmitt), ossia l'assenza di una finalità ultima che orienti il corso della vita; e di conseguenza è una posizione filosofica basata sul non senso di ogni cosa. Fu proprio Nietzsche infatti a svelare che la ragione moderna è una finzione e una follia, destinata a diventare un nulla. VOEGELIN: Eric Voegelin (1901 – 1985) è un giurista tedesco che ha posizioni simili a quelle di Strauss. Anch’egli fece esperienza del totalitarismo nazista, che descrisse nel libro “Le religioni politiche” (1938). Con questo termine egli intendeva quelle civiltà ce non articolano la differenza tra politica e religione, e che anzi legittimano la politica attribuendole significato e valori religiosi. Un esempio di religione politica è niente meno che i nazismo, che intende riprodurre in ambito politico le caratteristiche di una Chiesa militante. Per Voegelin la politica può essere capita solo studiando i Simboli (ideologie, riti) che la identificano. Inoltre, questa porta con sé discendenze antropologiche (derivate dalla filosofia greca antica): ciò significa che un ordine politico non si legittimerà in modo autoritario come espressione della verità divina, ma dovrà passare attraverso la ricerca del consenso e della persuasione. La Storia è per Voegelin il veicolo necessario per la piena realizzazione mondana della Verità: la maggior parte delle ideologie moderne si basano su questo concetto, così come tutti i totalitarismi. Il nome collettivo che il giurista dà a tutti i fenomeni religiosi e politici che nel corso della modernità hanno inteso realizzare la Verità in terra è “Gnosi”: la conoscenza (gnosis) è posseduta da alcuni uomini superiori (tiranni) che rigenerano l’umanità. La storia assume quindi l’aspetto di un conflitto fra Noesi e Gnosi, dove per Noesi si intende la consapevolezza che la politica debba aprirsi alla trascendenza (realtà ulteriore) attraverso la soggettività. HANNAH ARENDT: La posizione di Hannah Arendt (1906 – 1975), filosofa ebreo-tedesca, è parecchio diversa. Ella infatti intende recuperare la Politica intesa come Azione collettiva, eliminando ogni forma di filosofia politica. Lo studio della Arendt si focalizza fin da subito sul totalitarismo: nel 1951 pubblica “Le origini del totalitarismo”, in cui non individua nell’esperienza totalitaria un’origina economica o di classe, ma soltanto politica. La sua critica si estende ad ogni tipo di totalitarismo, da destra a sinistra: è vero che il totalitarismo è opposto rispetto allo Stato, ma è anche vero che ne deriva in qualche modo dalle tradizioni. La Prima parte del suo libro è un analisi dell’antisemitismo, o meglio della vita politica e intellettuale degli ebrei in Europa (es. il caso Dreyfus): gli ebrei furono costretti a perdere la propria identità per essere ritenuti cittadini uguali agli altri, ma ciononostante furono sempre sospettati di essere diversi. Questi sospetti divennero vere e proprie accuse quando la società borghese entrò in crisi e prevalse la classe proletaria. Le masse piccolo borghesi ebbero bisogno di un capro espiatorio a cui dare la colpa della propria decadenza: gli ebrei. La Seconda parte è dedicata all’Imperialismo: l’autrice mostra che alla fine dell’800, lo Stato, gravato da problemi economici interni, scelse la via dell’imperialismo per scaricarle all’esterno, attraverso la conquista di nuovi mercati. Dunque, lo Stato si accorge che per mantenersi in vita deve espandere il proprio potere, acquisendo nuove colonie. Questo dinamismo aumenta a dismisura quando la proiezione imperialistica avviene in Europa, e non verso il mondo extraeuropeo (nasce il concetto di sangue, di razza). Nella Terza parte, la Arendt sostiene che il totalitarismo ha come causa scatenante la prima guerra mondiale e la relativa disintegrazione politica e sociale che essa ha provocato. Le masse si scompongono in individui solitari, privi di legami sociali attivi. Il totalitarismo si pone come princìpi iniziali quelli di organizzare le masse, o meglio riorganizzarle, per mezzo della propaganda. L’illusione dell’onnipotenza da parte dello Stato impone la perpetua mobilitazione delle masse per la distruzione della realtà, la creazione di una nuova. Il regime deve sfruttare un Nemico interno per conservare l’ordine: si tratta di un’individuazione di qualcuno la cui presunta azione di resistenza e sabotaggio impedirebbe il raggiungimento degli obiettivi del regime. Questo nemico va quindi eliminato (attraverso il terrore e la violenza). L’esito della nichilistica azione distruttiva del totalitarismo è la creazione di individui sempre più isolati fra di loro, la creazione di morti viventi (gli internati dei lager), e la fabbricazione senza sosta di cadaveri (campi di sterminio). VITA ACTIVA: Nel 1958 la Arendt pubblica Vita activa, un testo volto all’individuazione del modo di riattivare la tradizione nascosta dell’agire politico. Lavorare, Operare, Agire sono le tre parole chiave della sua opera. Con Lavorare intende ciò che caratterizza l’uomo come “animale che lavora”, ossia il produrre per soddisfare la necessità della vita biologica. Con Operare invece si intende ciò che caratterizza l’Uomo artefice, che costruisce degli strumenti per fabbricare il mondo artificiale delle cose, nel quale vivono gli uomini. Con Agire si denota l’unica attività che mette gli uomini a contatto gli uni con gli altri: agire insieme per guadagnarsi la fama e l’immortalità. Queste tre diverse modalità della condizione umana sono sempre presenti, e non si collocano in successione cronologica. Accanto alla Vita activa la Arendt colloca la Vita contemplativa, che riguarda il filosofo che in solitudine contempla l’eternità. POLIS E SOCIETA’ MODERNA: La Arendt nota che nel mondo greco, la Polis (sfera pubblica) è nettamente distinta dall’ambito privato. Nella Polis, infatti, si svolge la vita in comune, sinonimo di Libertà. Il secondo ambito, invece, quello privato, riguarda la Casa, il luogo in cui avviene la produzione per soddisfare la Necessità della vita. La sfera pubblica è caratterizzata dal Potere, che è la potenzialità dell’Agire in comune. L’annientamento della sfera pubblica può avvenire attraverso la Violenza, la costrizione fisica del tiranno, che distrugge il Potere comune della Polis, riducendo la sua pluralità ad unità. Nell’età moderna invece avviene un capovolgimento della struttura sociale. Si verifica l’Alienazione del soggetto dal mondo, il quale risulta sempre più spaesato e privo di un contesto comune. Gli studi, anche grazie alla nuova centralità del soggetto inaugurata da Cartesio, si basano ora sulle scienze matematiche e sulla posizione privilegiata dell’uomo nell’universo. L’uomo, in questa età, conosce solo gli strumenti e le cose che vengono prodotte, destinato a subordinarsi al servizio della Tecnica. È proprio questo il tipo di uomo di cui si nutre il Totalitarismo: incapace di riflettere e giudicare, privo di responsabilità e di azione libera, che crede che l’unica azione possibile sia l’obbedienza agli ordini. IL PENSIERO DELL’IMPOLITICO: Il termine “Impolitico” indica il rifiuto della dimensione del Politico in quanto tale, cioè dell’orizzonte stesso del potere legittimato. Inoltre, rifiuta il rapporto tra filosofia e politica. La filosofa francese Simone Weil (1909 – 1943) dà luogo ad una Critica del potere, espressione di una pulsione di dominio volta a imporre il regno della forza. Il potere burocratico, secondo la Weil, non è altro che l’esigenza di coordinamento del lavoro industriale, in cui l’alienazione del lavoro viene portata all’estremo. Grazie al progresso della tecnica, la funzione amministrativa domina su di una società razionalizzata sul modello della fabbrica. La Weil, secondo il pensiero dell’Impolitico, sottolinea la necessità di non sottomettersi alla forza e di non riconoscerne la pretesa di legittimità. Per lei, oppressione e schiavitù sono sempre state insite nella struttura sociale, e la civiltà occidentale le ha legittimate, essendo state presentate come sistema del diritto, orientato a garantire i diritti dei cittadini. Bisogna sottrarre il diritto alla forza, convertendo quest’ultima in Giustizia, e focalizzare la società verso i reali bisogni dell’essere umano. Solo così lo Spirito di comunità riuscirà a prevalere sull’individualismo. Anche Georges Bataille (1897 – 1962) fa una critica dell’intera politica moderna. Egli sostiene che l’età moderna sia tutta impostata sulla categoria di Utilità. Inoltre, crede che il Sacro sia quel sentimento condiviso di attrazione e timore per un’autorità sovrana che terrorizza e affascina al tempo stesso. Studia inoltre il concetto di Negativo: si tratta di un fenomeno di trasgressione ed eccesso da parte del soggetto che diviene il principio di una filosofia della sovranità individuale.