Presentazione
Questo libro di Anderson Teixeira merita di essere letto e
discusso sia per l’indiscutibile attualità dei problemi che affronta, sia
per le interessanti proposte che avanza, sia infine per le questioni che
solleva e che, inevitabilmente, restano aperte.
I problemi che affronta riguardano le relazioni politiche
internazionali, la funzione del diritto e delle istituzioni internazionali e
sovranazionali, in particolare, il tema delle condizioni politicogiuridiche per la realizzazione di un ordine mondiale che superi
l’attuale disordine globale. Gli autori ai quali Anderson Teixeira si
ispira nell’affrontare questi temi sono in particolare due: Hedley Bull
e Carl Schmitt. Da una celebre opera del primo – The Anarchical
Society – Teixeira eredita un atteggiamento che non è esagerato dire
“anti-cosmopolitico”. Si tratta del rifiuto dell’idea kantiana e neokantiana, sviluppata dai cosiddetti Western globalists, secondo la
quale la pace e la giustizia nei rapporti internazionali si potrà ottenere
soltanto quando sarà stata abolita la sovranità degli Stati nazionali. La
pace e la giustizia internazionale trionferanno quando la totalità del
potere politico (e quindi anche militare) sarà concentrato in un unico
organo sovranazionale: una sorta di Governo mondiale avente a
disposizione una polizia internazionale e una Corte penale
internazionale.
Bull ha energicamente respinto questa filosofia
cosmopolita rivendicando la funzione degli Stati nazionali e della loro
sovranità e denunciando i gravi pericoli che la concentrazione del
potere internazionale nelle mani di una sorta di “Stato mondiale”
avrebbe comportato: anzitutto il problema del pluralismo dei popoli,
delle loro tradizioni e delle loro culture. L’appiattimento del potere
internazionale nella mani di un direttorio di potentissimi burocrati
mondiali avrebbe inevitabilmente messo a repentaglio la
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differenziazione sociale e funzionale e la complessità del mondo. Bull
proponeva in alternativa l’idea di un “ordine politico minimo”,
rispettoso delle diversità, non concentrato di fatto in Occidente,
impegnato a ridurre la violenza e lo spargimento del sangue nei
rapporti internazionali senza però coltivare l’illusione di una pace
stabile e universale oltre alla giustizia distributiva, allo sviluppo
economico, al contenimento della crescita demografica etc. Insomma:
una visione realistica e liberaldemocratica delle relazioni
internazionali, non moralistica e idealistica.
L’altro autore al quale Teixeira si ispira è Carl Schmitt. Di
questo celeberrimo e contestato teorico della politica e del diritto
Teixeria condivide la polemica nei confronti dell’universalismo
umanitario – sostenuto anzitutto da Hans Kelsen, di cui Schmitt è un
critico molto severo – e la proposta di un ordine internazionale
fondato non sul cosmopolitismo ma su un “pluriversalismo” costituito
da una molteplicità di “Grandi spazi”, e cioè di aree continentali o sub
continentali caratterizzate da una propria autonomia culturale e
politica. “Chi dice ‘umanità’ cerca di ingannarti” è la famosa massima
che Schmitt propone già nel 1927 in Begriff des Politischen per
esprimere la sua diffidenza nei confronti dell’idea di uno “Stato
mondiale” che comprenda tutta l’umanità, annulli il “pluriverso”
(Pluriversum) dei popoli e degli Stati e sopprima la dimensione stessa
del “politico”. E a maggior ragione Schmitt si oppone al tentativo di
una grande potenza – l’ovvio riferimento è agli Stati Uniti – di
presentare le proprie guerre come guerre condotte in nome e a
vantaggio dell’intera umanità. Se uno Stato combatte il suo nemico in
nome dell’umanità, sostiene Schmitt, la guerra che conduce non è una
guerra dell’umanità. Quello Stato cerca semplicemente di
impadronirsi di un concetto universale per potersi identificare con
esso a spese del nemico. Monopolizzare questo concetto nel corso di
una guerra significa tentare di negare al nemico ogni qualità umana,
dichiararlo hors-la-loi e hors-l’humanité, in modo da poter usare nei
suoi confronti metodi spietati sino all’estrema disumanità. In questo
senso, il termine “umanità” – il riferimento agli Stati Uniti è anche qui
ovvio – è uno slogan etico-umanitario particolarmente idoneo alle
espansioni imperialistiche.
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Sono queste le premesse filosofico-politiche che inducono
Schmitt ad avanzare negli ultimi paragrafi del suo opus magnum, Der
Nomos der Erde, una severa denuncia del bellicismo imperialistico
degli Stati Uniti. Egli formula l’ipotesi che sotto la retorica umanitaria
dell’universalismo wilsoniano si celasse, oltre alla logica
espansionistica del capitalismo industriale e commerciale, il progetto
di una egemonia mondiale che avrebbe inevitabilmente portato ad una
guerra globale “umanitaria”, condotta con armi di distruzione di massa
sempre più sofisticate e micidiali. Schmitt aveva colto lucidamente sin
dai suoi scritti degli anni trenta la dimensione planetaria e poliedrica
del progetto egemonico statunitense. In Der Nomos der Erde egli si
mostra convinto che la superpotenza americana si stava imponendo
come un impero globale soprattutto perché disponeva di un potenziale
bellico soverchiante. E la supremazia militare la poneva al di sopra del
diritto internazionale, compreso lo jus belli, attribuendole il potere di
interpretarne le norme secondo le proprie convenienze, o di ignorarle
del tutto.
Teixeira condivide le tesi centrali di questi due autori anticosmopoliti e anti-universalisti e tuttavia si impegna in un tentativo di
mediazione fra le posizioni globaliste della tradizione kantianokelseniana e il “pluriversalismo” di Bull e di Schmitt. Facendo propria
e rielaborando la nozione schmittiana di “grande spazio” (Grossraum)
egli propone una idea “spazio regionale” sulla base del quale elabora
una prospettiva di “globalismo pluriversalistico”, un evidente
ossimoro che egli tenta di motivare e giustificare. “Spazio regionale”
viene presentato da Teixeira come una entità politica dinamica e
flessibile, non strettamente territoriale, da intendersi come una istanza
intermedia fra gli Stati-nazione e l’ordine sovranazionale. È uno
“spazio” molto lontano dai nazionalismi statali ma che non rifiuta la
possibilità di coesistenza dello Stato-nazione con determinate forme di
istituzioni sovranazionali.
La proposta teorica di Teixeira è sicuramente originale e per
certi versi si avvicina a tesi che circa dieci anni fa io stesso ho
sostenuto, come ad esempio l’idea di un “diritto sovranazionale
minimo” – al quale anche Teixeira fa cenno –, e cioè di un ordine
giuridico internazionale che sia in grado di coordinare i soggetti della
politica internazionale secondo una logica di sussidiarietà normativa
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rispetto alle competenze degli ordinamenti statali. Si sarebbe trattato
di un ordinamento internazionale che avrebbe concesso una quantità
minima di potere propriamente sovranazionale ad organi centralizzati
e avrebbe consentito un ricorso minimo a interventi coercitivi che non
fossero di volta in volta autorizzati dalla comunità internazionale in
base al principio della ‘eguale sovranità’ di tutti i suoi membri.
La mia idea di ‘diritto sovranazionale minimo’ – ispiratami da
The Anarchical Society si Hedley Bull – applicava una logica
federalistica al rapporto fra le competenze normative degli Stati
nazionali e le competenze normative di organi sovranazionali. Questo
diritto avrebbe lasciato un ampio spazio alle funzioni della domestic
jurisdiction, senza pretendere di sostituirla o di soffocarla con
organismi normativi o giudiziari sovranazionali. In altre parole,
l’’ordine politico minimo’ – proprio per restare tale, e cioè ‘minimo’ –
avrebbe dovuto fondarsi su una sorta di ‘regionalizzazione
policentrica’ del diritto internazionale, anziché su una struttura
gerarchica esposta ai rischi del centralismo autocratico e
dell’egemonismo neoimperiale delle grandi potenze.
Da tempo ho messo da parte queste mie tesi, senza tuttavia
rinnegarle del tutto, per una ragione molto semplice: propongono uno
schema dei rapporti internazionali troppo vago, come del resto molto
vaga è anche l’idea schmittiana di Grossraum. È uno schema che
trascura di analizzare il rapporto fra il diritto internazionale con le sue
elevate ambizioni normative, da una parte, e dall’altra, la durissima
realtà dei rapporti economici, politici e militari che oggi dividono il
mondo nel contesto dei processi di globalizzazione. In tempi di global
terrorism e di crescente ricorso delle grandi potenze occidentali – in
primis gli Stati Uniti d’America – alle guerre di aggressione che fanno
strage sotto i nostro occhi di centinaia di migliaia di persone innocenti,
occorrerebbe anzitutto capire se il diritto internazionale può ancora
avere una qualche funzione normativa, e se possono averla le
istituzioni internazionali più o meno globalistiche, come le vorrebbe
Teixeira.
Fenomeni come le guerre di aggressione, il terrorismo
internazionale, la supremazia egemonica degli Stati Uniti, la strage di
innocenti come nel caso recente della tragedia di Gaza, la povertà
estrema di oltre un miliardo di persone e la morte per fame di milioni
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di bambini, il fenomeno altrettanto tragico delle migrazioni
continentali, il disastro ecologico sempre più incombente annunciano
l’avvento di un incontenibile, terroristico disordine internazionale.
Prima di disegnare affascinanti e rassicuranti progetti di un ordine
internazionale basato sul diritto e sulla coesistenza fra le civiltà e le
culture in nome di valori come la democrazia, la libertà, i diritti
umani, dovremmo riuscire a capire come sarà possibile nei prossimi
decenni non dico eliminare la guerra, l’odio, il terrore e lo
spargimento del sangue, ma almeno di ridurre minimamente l’assoluto
disprezzo della vita umana che oggi caratterizza i processi di
globalizzazione e le strategie egemoniche delle grandi potenze. Solo
dopo avrà probabilmente senso ripensare, se non certo alla “pace
perpetua” di Kant, almeno all’idea di una meno grave discriminazione
mondiale fra ricchi e poveri, fra deboli e forti, fra cittadini privilegiati
e migranti disperatamente alla ricerca, al prezzo della vita, di una vita
migliore.
Danilo Zolo
Firenze, ottobre 2009.