Schopenhauer in cinque piccole lezioni

Schopenhauer in cinque piccole lezioni
di SOSSIO GIAMETTA
Contro lo spirito, la natura; contro la divinizzazione del mondo, la diabolicizzazione del mondo;
dopo il noumeno e fenomeno, la volontà e rappresentazione, dopo il razionalismo, l’irrazionalismo:
queste le svolte impresse alla storia della filosofia occidentale da Schopenhauer, filosofo, moralista
e artista, come approdo finale del processo negativo innescato dal decline and fall del
cristianesimo, su cui rimbalzerà l’affermazione tragica di Nietzsche, la sua fondazione della
religione laica.
1. Natura vs. spirito
Il filosofo impara dalla vita e non dai libri. Ma per capire bene un filosofo bisogna vedere a quale
filosofo reagisce. L’ha detto Bergson, e non ha detto una cosa peregrina: ogni filosofo pensa in
reazione a un altro pensatore. Ai filosofi si applica la legge che uno dei primi filosofi greci,
Anassimandro, applica a tutti gli enti: essi sono commessi alla fine, “secondo l’ordine del tempo”,
per una legge di giustizia. Cioè perché, con l’unilateralità che ciascuno rappresenta e non può non
rappresentare, infrangono l’unità, la compattezza, l’integrità, l’universalità della vita. È come il
reato che, con la sua sporgente unilateralità, sfonda l’ordine giuridico. Il filosofo successivo è la
correzione e l’incremento, per contrasto e integrazione, del filosofo precedente, in corrispondenza
della successione delle epoche, che i filosofi sempre rappresentano e che sono, come ha detto
Platone, le facce cangianti dell’eternità.
A chi reagisce Schopenhauer? Schopenhauer reagisce a Hegel. In parte, vedremo, anche a Kant (per
integrazione), ma soprattutto a Hegel (per contrasto). Giorgio Colli, grande schopenhaueriano, dice
che il dieci per cento dell’opera di Schopenhauer è fatto di insulti a Hegel. Ma tutti questi insulti
non pesano quanto pesa quello che secondo noi è il vero insulto alla filosofia di Hegel: la filosofia
stessa di Schopenhauer, quella da lui fatta in gioventù, serenamente e non per insultare Hegel.
Hegel aveva fatto l’ultimo grandioso tentativo di divinizzare il mondo, con l’aiuto del nostro sesto
senso, il senso storico. Schopenhauer sconsacrò il mondo, diabolicizzò la natura, come aveva già
fatto Aristotele, ma in modo più concentrato, potente, totale e dettagliato di Aristotele. La filosofia
di Hegel e quella idealistica in genere, cioè anche di Fichte e Schelling, fino al suo tardo seguace
Benedetto Croce, è una filosofia dello Spirito, dell’Idea, della razionalità, del soggetto, dell’attività,
della libertà, dei valori; dunque per impianto è una filosofia della positività, una filosofia
ottimistica. In essa non c’è veramente spazio per la natura. Per la natura, anzi, c’è noncuranza e
disprezzo. Il cielo stellato è un cielo con la lebbra, cioè le stelle sono la lebbra del cielo. La natura
stessa non è niente di essenziale, è un concetto artificiale, una costruzione umana.
Per evitare il dualismo di spirito e natura, di soggetto e oggetto, si scioglie la natura in spirito,
l’oggetto in soggetto; la natura si identifica “col pratico processo dei desideri, degli appetiti, delle
cupidità, e delle congiunte commozioni, dei piaceri e dei dolori” del soggetto, ossia con la sua vita
passionale, coi suoi stimoli e impulsi, con le sue soddisfazioni e insoddisfazioni risorgenti, con la
“sua varia e molteplice commozione, che è ciò che si fa materia della intuizione e della fantasia e,
attraverso essa, della riflessione e del pensiero”, come dice Croce. Ma in tal modo si salta, con la
natura, il male della natura: i terremoti e i maremoti, gli tsunami, le siccità, le carestie, le epidemie,
le inondazioni, gli incendi, gli uragani e la struttura piramidale degli esseri, dove quelli che stanno
sopra, armati di zanne, artigli, veleno o armi da fuoco, si nutrono di quelli che stanno sotto, salvo
eccezioni in contrario; per non parlare dei mali umani, che sono pur sempre mali della natura: le
ingiustizie, i delitti, le guerre e le stragi, dimostratesi finora ineliminabili, e il destino di dolore,
vecchiaia, malattia e morte, che incombe su noi tutti.
A questa filosofia dello Spirito si oppone la filosofia di Schopenhauer. Essa è la filosofia della
natura, dell’irrazionale, dell’oggetto, della passività, della necessità, della servitù, del fatalismo,
della negatività, che sono tanta parte della vita, una parte ben maggiore della parte positiva, libera e
attiva; dunque per impianto è una filosofia pessimistica. È una filosofia disantropomorfizzata
quanto quella di Hegel era antropomorfizzata, una filosofia in sostanza umanistica.
2. Il progresso su Kant
La filosofia idealistica aveva mosso dalla constatazione dell’illegittimità del dedurre la cosa in sé a
partire dal fenomeno, secondo la legge di causalità che è una legge del principio di ragione, cioè
soggettiva. In tal modo si pensavano infatti due piani di realtà, mentre ce n’era sempre uno solo,
quello del fenomeno. Ma nel fenomeno essa inserì, per così dire, lo spirito. Schopenhauer fece il
cammino inverso. Tornò a Kant, per poi “saltare” da Kant verso la sua grande innovazione, la
volontà di vivere (Wille zum Leben). Reculer pour mieux sauter, arretrare per saltare meglio, aveva
detto Leibniz. Ossia per inserire il fenomeno nella Volontà di vivere, concepita come essenza del
mondo.
Per Kant il fenomeno era la sola cosa conoscibile. Il noumeno era un concetto limite, era quello che
non era il fenomeno, era la cosa in sé a cui non abbiamo accesso, mentre il fenomeno è la cosa in
noi a cui abbiamo accesso. Schopenhauer ascrive a grande merito di Kant l’aver distinto il
fenomeno dalla cosa in sé, ma afferma che il fenomeno è una mera apparenza, a cui non
corrisponde nessuna realtà. “Il mondo”, dice, “è la mia rappresentazione”. Ma la rappresentazione è
fondata dal noumeno, dalla Volontà di vivere, e questa è conoscibile immediatamente nella nostra
coscienza. Kant concepiva come l’a priori dell’esperienza lo spazio, il tempo e la causalità,
costituenti il principium individuationis, che nell’esperienza separa gli oggetti. Schopenhauer,
invece, concepisce come l’a priori dell’esperienza la rappresentazione, intesa quale unità
inscindibile di soggetto e oggetto (“nessun oggetto senza soggetto”). Come tale essa precede anche
lo spazio, il tempo e la causalità, che si dànno entro la rappresentazione stessa. La rappresentazione
diventa così la forma universale di ogni esperienza possibile.
Prima si pensava che, avendo le capacità intellettive necessarie, si potesse conoscere tutto. Da Kant
in poi si può conoscere solo ciò che ricade sotto il principio di ragione, il quale inquadra la
conoscenza in spazio, tempo e causalità. La conoscenza diventa, per così dire, la forma della
bottiglia che l’acqua (la realtà) assume entrando nella “bottiglia” della nostra mente. Fino a Kant,
dice Schopenhauer, la filosofia è stata tutta una lunga scolastica, in cui si credeva che la legge di
causalità, che governa i fenomeni, e il principio di ragione, che li spiega, fossero leggi valide in
assoluto, aeternae veritates. Per di più si ammetteva la tutela della religione sulla filosofia. Ma poi
si è visto che il principio di ragione “non è prima di tutte le cose, e il mondo non è solo in
conseguenza e in conformità di esso” (Schopenhauer).
Da Kant in poi la conoscenza è limitata alle forme a priori, soggettive, dell’intuizione. Il resto
costituisce la “cosa in sé”, il noumeno. Davanti al noumeno Kant si era fermato come davanti a un
castello sprangato. Schopenhauer, invece, trova modo di penetrarvi, per un camminamento segreto:
l’autocoscienza. Dice: del noumeno o volontà di vivere noi abbiamo conoscenza immediata nella
nostra autocoscienza. In realtà anche questa conoscenza che del noumeno o Volontà di vivere
abbiamo nella nostra coscienza è mediata, è mediata dalla forma intuitiva del tempo, dunque è pur
sempre conoscenza fenomenica. In tal modo, però, Schopenhauer aveva comunque aperto una porta
sul noumeno, anche se non proprio la porta del noumeno. Aveva trovato una seconda fonte di
conoscenza, la conoscenza diretta, intima (degli effetti) della Volontà, che integra e completa la
conoscenza indiretta, mediata dalla mente, della rappresentazione. Egli dimostra con una grandiosa
analisi in che modo la volontà di vivere si incarni in tutti gli esseri e muova tutte le cose, in
un’eterna lotta per la soddisfazione di bisogni incessanti, risorgenti di continuo, e per il
raggiungimento di sempre nuovi traguardi, senza avere mai posa: una “bufera infernal che mai non
resta”, dove gli esseri sono allo sbando, alla costante ricerca del necessario per vivere, e a tal fine si
strappano vicendevolmente la materia. Gli uomini risultano stretti in una tenaglia che va dal
bisogno alla noia, dopo la soddisfazione del bisogno, e dalla noia al nuovo bisogno, senza mai poter
raggiungere una meta finale.
Interessante notare come la visione dell’universo della scienza di oggi collimi, a tanta distanza di
tempo, con quella di Schopenhauer. In Più veloce della luce, per esempio, lo scienziato portoghese
João Magueijo paragona l’universo a “una bestia gigantesca” così:
Mi piace pensare all’universo come a un essere organico, qualcosa di vivo. Noi tutti siamo cellule
di questo essere, e spandendo luce tutte le stelle che vediamo nel cielo forniscono il sangue che
fluisce attraverso i suoi immensi cicli. Le forze che governano questo essere unico sono forze
fisiche, proprio come quelle che controllano e compongono gli esseri umani. […] questo universo
irrequieto […] è proprio come certe persone: una belva selvaggia, incivile, indomabile.
Cioè proprio come la Volontà di Schopenhauer: cieca, onnipotente, irrefrenabile.
3. La svolta irrazionale
La visione dell’interiorità che abbiamo nell’autocoscienza è la visione di una Volontà che ci muove
costantemente, nel sonno e nella veglia, e che, come giudichiamo per analogia, muove altresì gli
altri esseri e tutte le cose, anche inorganiche. Il mondo, nel quale l’uomo era considerato un
microcosmo, diventa così un macroantropo, non fatto d’altro che di volontà e rappresentazione. Ciò
dà il titolo al capolavoro di Schopenhauer: Il mondo come volontà e rappresentazione. In esso, egli
dice, si esprime un unico pensiero, che è quello annunciato dal titolo stesso: il mondo è volontà e
rappresentazione. Tutta l’opera, una quercia che si sviluppa da una ghianda, e anche le altre scritte
in seguito, non sono, infatti, che sviluppi di questo pensiero.
La conseguenza dell’ingresso nella filosofia della Volontà di vivere è che prima si riteneva che la
cosa suprema fosse la ragione, e ogni filosofia cominciava dalla ragione: ciò fino agli idealisti, per i
quali la ragione era l’organo del soprasensibile, e in particolare fino a Hegel, che della ragione
celebra un’apoteosi, identificando il reale col razionale. Ma da Schopenhauer in poi ogni filosofia
comincia invece dall’irrazionale. Egli dimostra infatti che l’intelletto non ha autonomia, è al
servizio della volontà: mediando e interpretando i motivi, esso indica che cosa bisogna fare per
procurarsi il necessario per vivere. “La motivazione è solo la causalità vista dall’interno, e l’atto di
volontà conseguente a un motivo è altrettanto necessario del movimento di un corpo conseguente a
una causa, come per esempio il rotolare di una palla in seguito a un colpo ricevuto”.
La strumentalità dell’intelletto, insieme con l’intellettualità dell’intuizione, l’apriorità della causalità
e la negazione del libero arbitrio, è una delle quattro “teorie immortali” che, nell’aforisma 99 della
Gaia scienza, Nietzsche riconosce al suo “unico e grande maestro” Schopenhauer. L’influsso della
filosofia dell’irrazionale si esercita infatti in primo luogo proprio sul seguace ribelle Nietzsche, poi
sulla nuova antropologia filosofica, quindi sulla cosiddetta filosofia della vita e infine
sull’esistenzialismo, ispirando anche fondamentalmente la psicoanalisi (la Volontà diventa
l’Inconscio) e giungendo fino a Marcuse. Perché la separazione e l’approfondimento delle due
sfere, quella razionale e limitata del principio di ragione, e quella irrazionale e illimitata della
Volontà di vivere, sancisce il netto predominio della seconda sulla prima.
La visione per quanto mediata della sfera irrazionale, alla quale il soggetto stesso appartiene
essendo, come tutta la Volontà, fuori dalle forme dello spazio e del tempo (sì, anche il tuo Io, caro
lettore, è fuori dello spazio e del tempo!), è cosa che fa girare la testa. Spazio e tempo spariscono e
con essi il calcolo, la quantità, ossia la scienza, che è quantificazione. Milioni di anni o un battito di
ciglia diventano in natura la stessa cosa, come pure un’immensa stella e un acaro. Per quanto
sterminato, lo stesso universo, il quale come ogni cosa che esiste è soggetto al nascere e al perire,
non può essere pensato, pur nella sua immensità, se non come qualcosa di finito entro qualcosa di
infinito. E questo qualcosa di infinito, noi non potremo mai coglierlo, anzi fa saltare tutti i
parametri umani. È come guardare il sole: ci acceca. Alla fine del nostro assalto al cielo non resta
dunque che confusione e frustrazione, nonostante tutti i più accurati studi di scienziati e filosofi.
Essi infatti hanno senso sempre e solo entro i limiti dell’esperienza.
Contro questo limite cozzò già la filosofia di Giordano Bruno, che su questa via si era spinta più
avanti di ogni altra. La sua disidentificazione dell’universo da Dio deriva appunto da questo: da un
lato un’immensità che è comunque concepibile ordinatamente; dall’altro un’infinità che è
inconcepibile e semina disordine nella mente umana. Per questo il sogno degli scienziati di una
teoria unitaria dei fenomeni dell’universo è destinato a non essere mai realizzato.
Al di fuori del fenomeno e al di là dei limiti umani, Schopenhauer fa intravedere una realtà
sconosciuta e senza conoscenza, raccapricciante, un oceano di energia, “al quale si deve […]
attribuire un’esistenza assolutamente oggettiva, non condizionata dal nostro intelletto”. Giacché
“noi urtiamo dappertutto col nostro intelletto […] contro problemi irrisolvibili, come contro le
pareti del nostro carcere”. Domande come: Perché esistiamo? Perché esiste il mondo? Quale ne è
stato l’inizio? Quale ne sarà la fine? Perché le cose sono come sono? Perché esiste il male? Qual è il
senso della vita e del tutto?” sono domande a cui non potremo mai rispondere. Perché postulano
risposte trascendenti, ossia non pensabili mediante le forme e funzioni dell’intelletto. Questo può
rispondere solo alle domande che hanno a che fare con lo spazio e il tempo, il sopra e il sotto, il
prima e il dopo, la causa e l’effetto.
L’espressione “Volontà di vivere” come motore e corpo dell’universo, è stata molto criticata.
Anzitutto perché è modellata, come dice Schopenhauer, sulla volontà umana, che secondo lui è
nell’uomo il fenomeno più chiaro e perfetto, mentre essa, poiché investe tutto l’universo, di cui
l’uomo è piccolissima parte, è la forza che spesso si contrappone irresistibilmente proprio alla
volontà umana, alla volontà cosciente che sceglie e decide. Poi perché, secondo Nietzsche, la
Volontà non è che una metafora poetica. Nietzsche tuttavia apprezza l’invenzione di questa
espressione perché, dice, ci consente di chiamare con un nome ciò che non ha nome. E in effetti
dietro la Volontà di vivere ci può essere un’altra cosa, a cui si può dare un altro nome, e dietro
ancora un’altra, e così all’infinito. Ma l’infinito, l’abbiamo detto, fa saltare la nostra mente e ci
paralizza; toglie al nostro pensiero ogni valore definitivo. Perché avviene ciò? Avviene perché
Schopenhauer ha colto giustamente gli effetti di questo mostro titanico che governa l’universo e noi
in esso, ma l’ha inteso come causa. Ora, ammesso che una “causa” ci debba sempre essere, quando
si parla di effetti, in questo caso la causa è irraggiungibile, è la natura che ama nascondersi, che si
svela e si nasconde, è la natura naturans dietro la natura naturata.
4. Filosofo, moralista, artista
Le critiche al termine e al concetto di Volontà sono fondate. Ma se ciò toglie verità, non toglie
efficacia alla teoria della Volontà. Perché essa in pratica funziona, non soltanto, ma permette
addirittura la decifrazione dell’universo, come nessun’altra. A questo riguardo Schopenhauer stesso
si è difeso non con argomentazioni dirette, filosofiche, che in questo caso sono impossibili, ma
basandosi sul buon funzionamento pratico della sua concezione. Vale la pena di riportare le sue
parole:
Quando si trova uno scritto il cui alfabeto è ignoto, se ne tenta l’interpretazione finché non si arriva
a ipotizzare un significato delle lettere per il quale esse formano parole intelligibili e periodi
coerenti. Allora però non rimane alcun dubbio circa l’esattezza della decifrazione, perché non è
possibile che la concordanza e la connessione in cui questa interpretazione mette tutti i segni di
quello scritto, siano meramente accidentali, e che, dando un tutt’altro valore alle lettere, si possano
riconoscere del pari parole e periodi in questa loro disposizione.
Già solo per questa ragione, si può dire che Il mondo come volontà e rappresentazione è il libro di
filosofia più bello, più completo e più profondo. A questa ragione, infatti, che esso consente
nientemeno che la decifrazione del mondo, die Erklärung der Welt, che secondo Schopenhauer è lo
scopo della filosofia, si aggiunge il fatto che in esso convergono, col filosofo, un grande moralista e
un grande artista.
Schopenhauer è conosciuto in generale come filosofo, dunque tra questi tre titoli sembrerebbe non
esserci concorrenza. Ma a ben guardare la concorrenza c’è. Per esempio il moralista in lui, il
realista, l’uomo dei fatti, è certamente pari e non inferiore al filosofo. Del resto, il fatto stesso che
nel giudicare il mondo egli, come filosofo, assuma il punto di vista dell’uomo, diciamo del Candide
voltairiano, come fanno in genere i moralisti, e non quello di Dio o dell’Assoluto, come fanno in
genere i filosofi, e se la prenda poi specialmente con Leibniz e la sua armonia prestabilita (se,
invece di fare il migliore dei mondi possibili, Dio avesse voluto fare un mondo impossibile, dice
l’abate Galiani amato da Nietzsche, allora che bella la vita!), e anche con Spinoza e il suo
panteismo, la dice lunga sulla sua disposizione di moralista.
Secondo Nietzsche egli è addirittura, come moralista, superiore al filosofo, anzi è un moralista e
non un filosofo. Nell’aforisma 33 di Opinioni e sentenze diverse, dopo aver sancito nell’aforisma 5
una fondamentale separazione tra moralisti e filosofi, dice infatti: “Schopenhauer, la cui grande
conoscenza dell’umano e del troppo umano, il cui originario senso dei fatti è stato non poco
pregiudicato dal variegato manto di leopardo della sua metafisica (che bisogna prima togliergli di
dosso per scoprirvi sotto un vero genio moralista)” ecc. Di più non è necessario, mi sembra, per
qualificare Schopenhauer anche come moralista.
Nel Mondo, proprio come moralista, egli dipinge un grande affresco della vita umana, delle virtù e
dei vizi degli uomini, delle loro gioie e pene, dei loro problemi e drammi. Spiega cioè molte cose
che si ritengono ancor oggi inspiegabili. Lo fa con una particolarità che lo rende unico: queste
analisi non restano isolate, come in coloro che sono soltanto moralisti, ma vengono regolarmente
ricondotte ai grandi princìpi filosofici del sistema, i quali a loro volta si irradiano, discendono nelle
vicende umane, sicché il quadro che ne risulta, il saliscendi di filosofia e moralismo
inestricabilmente intrecciati, è qualcosa di grandioso e unico, che nessun altro filosofo offre con la
stessa articolazione, efficacia e pregnanza. Perfino le sue contraddizioni, che i critici non tutti
maligni rilevano nel suo sistema, si spiegano con la sua disposizione e attitudine moralistica. Così le
spiega per esempio Giuseppe Faggin nel finale della sua introduzione all’Etica di Schopenhauer:
in un clima saturo di storicismo panteistico e di mitologia idealistica, a Schopenhauer toccava in
sorte di disincantare l’uomo dalle menzogne della storia sacra dell’hegelismo, di ricondurlo alle sue
dimensioni umane e terrene e di metterlo di fronte al problema del suo personalissimo destino. […]
Non si può negare che la sua abilità di costruttore sistematico sembri talora inconsistente, […] che
le sue interpretazioni critiche siano talvolta inesatte, talvolta ingiuste, talvolta settarie. Ma […] le
sue acutissime analisi fenomenologiche, la sua ribellione ai pregiudizi inveterati, il suo senso
dell’essere e del mistero compiono la funzione più genuinamente filosofica e iniziatica. […] La sua
polemica contro le astrazioni e l’intellettualismo, il suo richiamo alla vita e alle schiette
manifestazioni dell’essere, le sue stesse incongruenze, nate da un’anima aperta alle varie istanze
dell’esperienza più che alla smania sistematrice, […] valgono ancora […] a ricondurre l’uomo in
seno all’universo e a infondergli lo sgomento dell’esistere e l’ansia della salvezza.
È dunque legittima la concorrenza del moralista al filosofo. Lo è anche quella dell’artista? Le doti
artistiche di Schopenhauer non sono certo passate inosservate. Ma gli elogi si limitano in genere
allo stile. Schopenhauer, cioè, è considerato artista soprattutto in quanto stilista. Invece, secondo
noi, le sue doti vanno oltre, incidono sulla sostanza. La visione che egli comunica nel Mondo come
volontà e rappresentazione, pur con tutta la monumentale costruzione concettuale su cui è basata, è
alla fine, per i suoi effetti, una visione ad alto tasso poetico, è la visione di un pensatore-poeta
tragico. È la strutturazione artistica che, notata o non notata, rende l’opera impressionante e
indimenticabile, fonte di vere e proprie conversioni filosofiche. Ricordo per esempio la citazione in
essa di uno scienziato francese, che racconta come un serpente ipnotizzi uno scoiattolo e alla fine lo
ingoi, nonostante i suoi disperati tentativi di resistenza. È una scena che non ho più dimenticata.
Ora, di descrizioni del genere se ne trovano tante, nei libri, ma qui è il contesto, la regìa, l’arte
appunto, che rende la scena così terribile e toccante. Le cose sono disposte in modo che noi
vediamo nello scoiattolo noi stessi, tutti destinati ad essere ingoiati dal serpente mostruoso della
vita. Il mondo come volontà e rappresentazione fa così impressione, perché si sviluppa come il
grande romanzo tragico dell’umanità. In esso pertanto, come in tutti i grandi romanzi, c’è molta
arte. E questa, con la sua unilateralità, iperbole, influisce addirittura, nel senso di una certa
eccessività, sul tessuto filosofico.
Non è fuori luogo parlare qui dell’esperienza fatta in questo senso con Schopenhauer da Thomas
Mann, affine a quella di altri grandi, in primis di Tolstoj, per il quale Schopenhauer era
semplicemente il più grande pensatore. Mann giudica tale sua esperienza “un’esperienza psichica di
prim’ordine e indimenticabile”. Dice: “lessi per giorni e notti come probabilmente si legge una
volta sola”. Si sentì “tutto compreso e trascinato […] da quella potente negazione etico-spirituale e
dalla condanna del mondo e della vita in un sistema di pensiero la cui musicalità sinfonica mi
affascinava nel profondo. […] Ciò che mi incantò in modo sensibile-sovrasensibile fu l’elemento
erotico e mistico-unitario di questa filosofia, il quale aveva influito sulla musica niente affatto
ascetica del Tristano (Saggio autobiografico, Lebensabriss, in Romanzo di un romanzo, Mondadori,
Milano 1952, p. 23 sg.).
5. Altre conquiste filosofiche. Il pessimismo
Nonostante i meriti di Schoopenhauer come moralista e artista, in primo piano rimangono le
conquiste filosofiche. In aggiunta a quelle già dette, possiamo menzionare il metodo ascendente,
analitico, nel risalire dall’esperienza e dalla coscienza alla volontà come la sola cosa metafisica, in
contrasto col metodo deduttivo discendente dei panteisti, che cominciano dal Theós sconosciuto per
spiegare ogni altra cosa conosciuta.
Importante poi l’affermazione che solo il procedere dalla causa all’effetto, come si fa negli
esperimenti, è sicuro; non il procedere dall’effetto alla causa. Questo è anzi fonte di infiniti errori e
superstizioni (si sacrificano vite umane o di animali agli dèi, perché sono la causa della pioggia o
della siccità, dell’abbondanza dei raccolti, della carestia e della peste; si innalza al trono degli dèi
Giove per paura del fulmine ecc.).
Bella anche l’analisi del genio, splendido fiore spuntato sul martirio di una vita.
Definitiva la divisione di scienza e filosofia. Le scienze contribuiscono significativamente ad
arricchire l’esperienza che è la base della filosofia, ma scivolano sulla superficie e si fermano tutte
davanti al mistero insondabile delle forze naturali. Queste sono tutte manifestazioni della Volontà,
che sono percepite dalle scienze nella loro varietà. Le scienze sono legate all’esperienza, che non
possono superare, come può fare invece la speculazione. La fisica, insomma, non può essere la
metafisica, con la quale soltanto si può indagare il mondo fisico stesso nella sua essenza e non
soltanto nella sua superficie o quantificazione. Il mondo dell’esperienza non si spiega da sé. Per
indagarne le cause bisogna superare l’esperienza senza tuttavia mai perdere il contatto con essa,
anzi bisogna procedere sempre e solo sulla base di essa. Schopenhauer può essere detto il filosofo
dell’esperienza. Più di Kant perché, al di là di Kant, ha sostenuto la possibilità e necessità non solo
di basarsi sull’esperienza, come Kant appunto, ma anche di interpretare l’esperienza come un dato,
come un tutto. E bisogna farlo muovendo non dal soggetto o dall’oggetto, come si era sempre fatto
prima di lui fino a Kant, bensì dalla rappresentazione, implicante indissociabilmente soggetto e
oggetto, e dalla Volontà.
A proposito degli effetti: la conoscenza degli oggetti è una conoscenza di effetti e rapporti reciproci,
non di essenze. Gli oggetti non sono che effetti e si esauriscono in tali loro rapporti reciproci. Il loro
agire in quanto intuizioni è la loro sola realtà.
C’è poi la soluzione dell’annoso, per non dire millenario problema dell’uno e dei molti. Esiste,
dobbiamo pensare, l’Uno, un flusso unico, che si frange in pluralità nello specchio della nostra
mente, nello specchio delle forme a priori della nostra intuizione. Questo chiarisce anche l’origine
della conoscenza. Il bisogno di essa sorge dalla pluralità, ossia dall’individuazione. Se ci fosse un
solo essere, questo essere non avrebbe bisogno di conoscere niente, tutto sarebbe in lui, come Dio
per Scoto Eriugena e, mille anni dopo, la Volontà per Schopenhauer, la quale è appunto priva di
conoscenza. Per la pluralità degli esseri, conseguente al principium individuationis, (l’Io di) ciascun
individuo è chiuso in sé, isolato dagli altri. Conosce immediatamente solo se stesso e può conoscere
gli altri solo tramite l’intelletto, dato agli animali superiori perché, con la comprensione dei motivi,
serva la volontà.
Un altro merito poco notato è la sua trasformazione della contrapposizione di anima e corpo in
contrapposizione di soggettivo e oggettivo, cioè l’eliminazione dell’“anima”. L’uomo, quando
considera se stesso secondo la percezione interna, quando si sente soggetto senza spazio e tempo, si
concepisce come anima. Quando invece si vede come essere oggettivo, come rappresentazione di
qualcosa di esterno, racchiuso in spazio e tempo, si concepisce come corpo, ossia come qualcosa di
contrapposto all’anima.
Un merito più sottile, non notato, mi sembra la sua capacità di mettersi dalla parte dell’oggetto
(della natura), che in questo caso è immenso, con effetti impressionanti, perché gli esseri umani ne
vengono fuori annichiliti, strumentalizzati, rimpiccioliti, ridotti a “sogni fugaci”, a “battiti di ciglia”
della natura. Prendiamo per esempio la questione dell’immortalità. Immortale è la vita, non
l’individuo, la vita che passa da individuo a individuo come il movimento delle onde del mare, la
vita che vive attraverso e a spese, ma anche con gaudio, degli individui. L’individuo sperimenta
l’immortalità o eternità, come essenza, qualità della vita, come infinito valore e beatitudine
(l’infinita ed eterna essenza di Dio che l’uomo conosce secondo Spinoza), se e fintantoché serve la
vita e si identifica con essa; dunque non in quanto fine a se stesso, ma in quanto anello nella catena
della specie. L’individuo pensa che la vita sia sua, invece è lui che è della vita. È una madre che
sviluppa nel proprio grembo il figlio d’altri. Croce diceva che l’individuo (empirico) è
un’istituzione dello Spirito, noi possiamo dire che è un’istituzione della Natura. Quando l’individuo
non è più in grado di servire la vita, la vita lo abbandona: egli è svuotato, solo con se stesso, una
nuda spoglia. Dunque la vita è immortale sì, grazie a noi e agli altri esseri viventi, ma noi no, noi, in
quanto individui che solo come tali ci identifichiamo e distinguiamo tra noi, siamo inesorabilmente
commessi alla reiezione o, come si dice oggi, alla gettatezza, alla morte e all’oblio.
Resta la questione del pessimismo. Il pessimismo di Schopenhauer è, purtroppo, fondatissimo. Dei
molti mali che nel mondo sono inevitabili, ne ricordiamo qui due, che sono istituzionali, universali e
presenti a tutti: il destino nostro e di tutti gli esseri di vecchiaia malattia e morte, nonché la struttura
piramidale degli esseri, che ci costringe tutti a nutrirci di altri esseri, cioè a una guerra e distruzione
fratricida, perché la vita si nutre solo di se stessa. Se i leoni non sbranano e divorano le gazzelle,
perché le piogge stagionali sono mancate e le gazzelle non vanno ad abbeverarsi dove i leoni le
aspettano, i leoni muoiono di fame a famiglie intere. D’altra parte, “fintantoché si potrà vedere un
lombrico spezzato torcersi sulla strada, una mosca cadere perché sorpresa dal primo freddo e un
ragno che muore di fame per mancanza di visite”, dice Schopenhauer – o un topolino che si
spaventa dell’uomo che involontariamente gli distrugge la tana, come aggiungo io e come dice un
poeta scozzese in una poesia dedicata appunto a un topolino spaventato (Robert Burns, To a
Mouse), “soffrirà anche l’uomo che ha un cuore in petto. La pietà che costituisce la sua grandezza
sarà altresì il suo supplizio”.
Tuttavia il pessimismo schopenhaueriano è esagerato, eccessivo. È criticabile per esempio la
negazione della gioia che non sia un liberarsi dal male e dal bisogno o un appagamento di
quest’ultimo, come sostiene Schopenhauer. Basterebbe obiettare che già il sano esercizio degli
organi vitali porta con sé godimento, come riconosce Schopenhauer stesso, il quale ebbe certamente
grande godimento dall’esercizio del suo cervello, e già anche dalle passeggiate col suo Pudel, il
barboncino Atma (= Anima del mondo), lungo il Meno a Francoforte, dove da ultimo abitava. Ci
sono due felicità, canta Goethe, una è l’inspirare e l’altra l’espirare. Il bisogno e il desiderio stesso
possono far piacere invece che dispiacere, specie quando se ne prefigura la soddisfazione e
l’esaudimento. Inoltre: ci sono piaceri del tutto gratuiti, come odorare una rosa, contemplare
un’opera d’arte, anche magari guidare una bella macchina veloce, ammirare una bellezza femminile
o maschile al di là del desiderio, ammirare un panorama, il cielo stellato e la luna piena d’estate sul
mare ecc. Platone menziona come piaceri gratuiti i piaceri dei profumi e i piaceri dello spirito.
È comunque storto e morboso fino alla comicità concepire, come fa Schopenhauer, la vita come una
morte evitata, il camminare come un cadere trattenuto, la vivacità come una noia respinta, e
soprattutto la morte come scopo della vita, invece che come sua condizione e necessità. In questo
anzi Schopenhauer fa, senza accorgersene – se l’avesse capito! – della dialettica hegeliana. Anche la
rinuncia alla Volontà di vivere non può essere che un altro atto di volontà, la scelta di un altro modo
di vivere, come già ai suoi tempi rilevò, nel suo saggio su Schopenhauer e Leopardi, il nostro
Francesco De Sanctis, saggio che, nonostante gli strali scoccati contro Schopenhauer, fu da lui
approvato e ammirato.
La vera soluzione del pessimismo schopenhaueriano, nell’unico senso in cui può essere risolto, l’ha
trovata Nietzsche, che anche in questo si contrappone al maestro: rinunciare non alla Volontà di
vivere, ma all’egoismo, al calcolo e al titanismo che sono alla base del pessimismo
schopenhaueriano (“la vita è un cattivo affare”). Amare la vita disinteressatamente, per lealtà di
figlio che non giudica la madre e non chiede niente in cambio, un figlio che gode e soffre come la
vita porta, perché è fatto così, è vita nella vita e vive fedele a sé e ad essa. E’ un atteggiamento più
nobile e più giusto.
Jean Paul paragona Il mondo a “un malinconico lago norvegese, circondato da alte rocce, in cui non
si specchia mai il sole, ma solo il cielo stellato”. È una bella immagine. Ma il sole c’è e brilla
sempre, come Schopenhauer più volte sottolinea nel Mondo, anche quando da noi è notte. Brilla sui
buoni e sui cattivi. Il poeta e scrittore Chamisso, non certo un temperamento ilare, suggerì a
Schopenhauer, quando lo incontrò a Berlino, di accontentarsi, invece del nero, di un grigio scuro,
che poteva già bastare.
Questo testo corrisponde al primo saggio della terza parte dell’Oro prezioso
dell’essere, in uscita presso Mursia.
Sossio Giametta è nato a Frattamaggiore (Napoli) nel 1929 e vive a Bruxelles. Collaboratore di
Colli e Montinari all’edizione Nietzsche, ha tradotto tutte le opere del pensatore tedesco, oltre a
quattro volumi di frammenti postumi e a opere di Cesare, Spinoza, Goethe, Hegel,
Schopenhauer, Freud. Ha pubblicato libri di saggistica filosofica e letteraria e un libro di
narrativa, Madonna con bambina e altri racconti morali (2006). Il suo ultimo libro è Il bue
squartato e altri macelli. La dolce filosofia (Mursia, 2012).
(6 febbraio 2013)