RIVOLUZIONE RUSSA CROLLO DELL’IMPERO RUSSO E ASCESA DELL’URSS © GSCATULLO La Rivoluzione Russa L’Impero Russo nel XIX secolo La popolazione L’Impero Russo fu per tutto l’Ottocento una roccaforte del conservatorismo politico e sociale, il potere era concentrato nelle mani degli zar, appoggiati dall’aristocrazia, l’esercito e la Chiesa Ortodossa, che costituivano il 5% della popolazione. La borghesia mercantile ed imprenditoriale, presente quasi esclusivamente a Mosca e nei porti del Baltico, non aveva potere economico o politico e fino almeno al 1860 non era tollerata dagli zar nessuna forma di opposizione. All’interno dell’immenso Impero Russo convivevano decine di popoli, caratterizzati da lingue e tradizioni diverse, mentre i russi veri e propri non superavano il 45% della popolazione, tutti gli altri erano popoli conquistati che chiedevano autonomia e indipendenza. Le campagne Uno dei più gravi problemi della Russia era l’arretratezza delle campagne: il 90% delle terre erano in mano alle chiese, ai monasteri e alle grandi famiglie aristocratiche (circa 3000). I contadini erano ancora sottoposti alla servitù della gleba e disponevano a stento del necessario per vivere in quanto la produzione era per la maggior parte incamerata dai ricchi proprietari terrieri. Frequenti erano le rivolte: tra il 1840 e il 1855 se ne contarono 350, sovente represse nel sangue. Lo zar Alessandro II (1818-1881), succeduto al padre Nicola I nel 1855, tentò una politica di riforme, provvedimento più importante fu l’abolizione nel febbraio 1861 della servitù della gleba: il contadino liberato poteva ricevere il terreno che lavorava in uso permanente (non in proprietà), pagando un riscatto al proprietario. Tuttavia questo provvedimento impoverì la popolazione, infatti i contadini non riuscivano a pagare il riscatto e cedevano le loro terre ai medi proprietari, i kulaki, a prezzi bassissimi. Sviluppo industriale L’arretratezza economica russa era particolarmente evidente nelle relazioni commerciali con l’estero: la Russia esportava soprattutto cereali e materie prime, importando invece macchinari e prodotti industriali, de facto dipendendo dall’Occidente a livello economico. Dal 1870 si tentarono grandi sforzi per sviluppare l’industria nazionale, grazie anche all’appoggio dei capitali stranieri (Francia, Germania e Gran Bretagna) e all’intervento dello Stato che finanziò soprattutto il settore siderurgico e quello delle ferrovie. Fra il 1885 e il 1898 la produzione industriale crebbe complessivamente del 400%! Sorsero i primi grandi stabilimenti intorno alle grandi città: Mosca (industria tessile); San Pietroburgo (industria metallurgica); Baku (giacimenti petroliferi). L’industrializzazione fu di notevole intensità ma non portò alla nascita di una borghesia imprenditoriale: fu piuttosto un’iniziativa imposta dallo Stato e prevalentemente affidata a stranieri. Il populismo La classe colta della Russia zarista, l’intellighenzia, si chiedeva se valesse veramente la pena assumere l’Occidente come punto di riferimento. Rispondevano affermativamente gli occidentalisti, giudicando positivamente il capitalismo e le sue conseguenze sociali; contrari erano invece gli slavofili che auspicavano invece una via nazionale allo sviluppo, sfruttando il “ritardo” della Russia per rimediare agli errori dell’Occidente e ritenendo che il progresso sarebbe partito dai contadini e non dalla borghesia o dal proletariato come avveniva nei paesi capitalisti. La conseguente idealizzazione del popolo contadino li portò alla formazione di un movimento chiamato populismo, che voleva alfabetizzare i contadini, dargli consapevolezza del loro valore sociale con lo scopo di abbattere lo Stato e sostituirlo con comunità agricole. Tra i metodi populisti anche il terrorismo che porterà all’assassinio di Alessandro II nel 1881. I populisti russi assunsero nel corso del XX secolo il nome di socialrivoluzionari. Il marxismo Lo sviluppo industriale e le sue conseguenze sociali spinsero alcuni intellettuali ad avvicinarsi al marxismo. I marxisti si opponevano al populismo per quattro ragioni fondamentali: valutavano positivamente lo sviluppo tecnico, produttivo e sociale portato dal capitalismo e rifiutato dai populisti che invece idealizzavano i contadini; miravano ad una rivoluzione borghese democratico-liberale su cui basare la rivoluzione socialista, al contrario dei populisti che volevano abbattere lo Stato in favore di comunità agricole; sostenevano che la rivoluzione dovesse partire dal proletariato e non dai contadini; vedevano nella coscienza rivoluzionaria il vero mezzo di lotta, non il terrorismo populista. Nel 1898 i socialisti russi fondarono il Partito Opeaio Socialdemocratico Russo (POSDR) che fin dal 1903 si divise in due correnti rigidamente contrapposte: i bolscevichi (da un termine russo che significa “la maggioranza”), guidati da Vladimir Uljanov detto Lenin; e i menscevichi (“la minoranza”) capeggiati da Jilij Cederbaum, detto Martov. Mentre i menscevichi volevano creare un partito di massa sul modello di quello socialdemocratico tedesco, accettando l’alleanza con la borghesia per ottenere riforme sociali e politiche; i bolscevichi volevano un partito formato da professionisti della politica che guidasse gli operai e i lavoratori all’abolizione della proprietà privata e alla collettivizzazione dei mezzi di produzione. Lenin propose e ottenne nel 1918, d’accordo con questi obbiettivi, di cambiare il nome del partito in Partito comunista. Le tre rivoluzioni La rivoluzione del 1905 Nel 1905 la Russia, dopo la guerra contro il Giappone, visse una grave crisi: le condizioni di vita del proletariato e dei contadini peggioravano e il malcontento cresceva ovunque senza potersi esprimere tramite alcun mezzo legale. Il 9 gennaio 1905 circa 140 mila persone sfilarono per San Pietroburgo sino al Palazzo d’Inverno, residenza dello zar, per chiedergli aiuto e protezione. L’esercito però aprì il fuoco sui manifestanti causando circa un migliaio di vittima, questa giornata fu ricordata come la domenica di sangue. Questa sanguinosa repressione provocò scioperi e rivolte in tutto il paese, sia nelle fabbriche che tra i borghesi. Nacque un partito di ispirazione liberale che prese il nome di Costituzionale Democratico, i suoi appartenenti, che assunsero il nome di cadetti, dalle sue iniziali K e D (ka-de in russo), auspicavano per la Russia un sistema costituzionale moderato. Lo zar Nicola II (1868-1918), intimorito dagli eventi, promise libertà politiche e concesse l’elezione di un parlamento, la Duma. La protesta intanto si allargava e coinvolse l’esercito: a giugno si ammutinò la corazzata Potëmkin contro la quale le navi inviate per sopprimere la rivolta si rifiutarono di aprire il fuoco. In ottobre si ebbe, a San Pietroburgo, uno sciopero generale e venne creato il primo soviet (“consiglio” in russo) dei lavoratori, che si proponeva come organo di governo, al capo del quale venne eletto il melscevico Lev Davidovič Bronstein detto Trockij (1879-1940). La Prima Guerra Mondiale Le Dume elette tra il 1906 e il 1917 non ebbero mai un ruolo effettivo, controllate dal governo e sciolte ogni qual volta assumessero posizioni in contrasto con lo zarismo. Dal 1906 al 1911 fu al governo Pëtr Stolypin che portò avanti delle riforme economiche che non risolsero però i problemi della massa, crebbero perciò le tensioni ed i menscevichi rafforzarono il loro potere. L’ingresso della Russia nella prima guerra mondiale fece precipitare la situazioni: l’economia russa non era in grado di sopportare il peso del conflitto e le condizioni della popolazione, stremata dalle condizioni che la guerra imponeva, divennero drammatiche. La guerra poi divenne impopolare anche per l’incompetenza degli ufficiali: nel 1915 la Russia perse alcuni dei territori occupati nella prima fase del conflitto (Galizia e Bucovina) ed il controllo dei territori polacchi. La rivoluzione del febbraio 1917 Il 23 febbraio 1917 gli operai di Pietrogrado – nuovo nome di San Pietroburgo dal 1914 – insorsero in massa e l’esercito dello zar si rifiutò di contrastarli schierandosi dalla loro parte. Aveva inizio la rivoluzione di febbraio che si estese fino a Mosca, e che chiedeva la distribuzione della terra e l’instaurazione della democrazia. Il 2 marzo 1917 lo zar Nicola II abdica in favore della Repubblica. Si formarono dopo la rivoluzione due centri di potere: un governo provvisorio presieduto dal principe L’vov, aristocratico aperto alle riforme che aveva l’appoggio borghese; il soviet di Pietrogrado, formato dai rappresentanti eletti nelle fabbriche e nell’esercito e guidato dai socialrivoluzionari (i populisti) e dai menscevichi. Se il potere legittimo era formalmente nelle mani del primo, il soviet svolgeva sempre più funzioni di direzione politica. Questa divisione indebolì inevitabilmente la Repubblica russa. Entrambi volevano continuare la guerra seppure per motivi diversi: il governo provvisorio riteneva che una vittoria avrebbe rafforzato lo Stato e la borghesia permettendo l’instaurazione di un regime parlamentare moderato; il soviet di Pietrogrado riteneva invece necessario sconfiggere Austria e Germania, potenze imperialiste e conservatrici, per difendere la rivoluzione. I problemi che affliggevano la Russia sarebbero stati risolti dopo la guerra: con riforme politiche secondo il governo, con una riforma agraria per il soviet. Lenin La Repubblica russa appariva incapace di far fronte ai problemi del paese, una soluzione fu proposta da Lenin il 4 aprile 1917, al suo ritorno dall’esilio in Svizzera, nelle così dette Tesi di aprile, in cui affermava fosse necessario: dare ai soviet tutto il potere, eliminando il governo provvisorio; far uscire la Russia dalla guerra; dare ai contadini la terra. Questo programma incontrò le opposizioni anche di alcuni membri dello stesso partito bolscevico che accusavano Lenin di anarchismo, in realtà però si era limitato ad accontentare i desideri delle classi più basse (pace e terra), tra cui riscosse molto consenso. Nel giugno 1917 si svolse a Pietrogrado il Primo Congresso panrusso dei Soviet, assemblea dei delegati dei soviet di tutte le province russe, dove i bolscevichi erano ancora una minoranza (105 delegati su 822) rispetto ai socialrivoluzionari e ai menscevichi. Una serie di eventi portò però questa situazione a ribaltarsi: i fallimenti sul fronte del governo provvisorio, tra cui il 18 giugno il rifiuto dei soldati di combattere in assenza di un adeguata preparazione dell’azione; i disordini a Pietrogrado nel mese di luglio, volti ad impedire la partenza al fronte di alcuni reparti, con il coinvolgimento di alcuni dei capi bolscevichi; il fallito colpo di stato del mese di settembre guidato dal generale Kornilov, cui resistette il governo provvisorio guidato dal socialrivoluzionario Kerenskij grazia anche all’appoggio dei bolscevichi che ne uscirono rafforzati. Nel corso dell’estate Lenin scrisse il saggio Stato e Rivoluzione, in cui sosteneva che lo Stato dovesse soccombere sotto i bolscevichi, chiamati a dar vita alla dittatura democratica del proletariato e dei contadini: oppressiva (dittatura) contro la borghesia e rappresentativa della maggioranza della popolazione (democratica). La rivoluzione di ottobre La disfatta militare, la disoccupazione, la miseria e l’appoggio delle masse spingevano i bolscevichi alla decisione di rovesciare il governo provvisorio. Per questo scopo fu creata una Guardia Rossa ed i preparativi furono noti a tutti per tutto l’ottobre 1917. Il 24 ottobre 1917 le guardie rosse, senza spargimenti di sangue, occuparono i punti strategici di Pietrogrado dove non trovarono alcuna resistenza. La neutralità dell’esercito facilitò enormemente le cose e la sera del 25 ottobre i rivoluzionari conquistarono il Palazzo d’Inverno, sede del governo Kerenskij e dichiararono aperto il Secondo Congresso panrusso dei Soviet, dopo alcuni giorni anche Mosca, dove era rimasta una resistenza delle truppe fedeli alla Repubblica, cadde. Si era realizzata in maniera incruenta, causando al massimo una quindicina di morti, la rivoluzione di ottobre. La nascita dell’URSS I bolscevichi al potere Primo atto del Congresso dei soviet fu l’approvazione del decreto sulla pace, che invitava i paesi belligeranti ad una pace immediata senza annessioni territoriali, e del decreto sulla terra, che aboliva la proprietà privata della terra e disponeva di conseguenza la confisca delle grandi proprietà. Con questi decreti i bolscevichi si vollero garantire l’appoggio popolare. Contemporaneamente fu creato un governo rivoluzionario chiamato Consiglio dei commissari del popolo, composto da bolscevichi e presieduto da Lenin, che proclamò come primo atto la nazionalizzazione delle banche e la consegna del controllo delle fabbriche agli operai. Le altre forze politiche, ritenendosi escluse dai bolscevichi che accusavano di aver eliminato la democrazia, abbandonarono il congresso dei Soviet. Il 12 novembre 1917 si tennero le elezioni per la formazione dell’Assemblea Costituente, che diedero risultati sfavorevoli ai bolscevichi, che ottennero il 25% contro il 58% dei socialrivoluzionari, che avevano ricevuto voti dalle campagne, il 13% dei cadetti ed il 4% dei menscevichi. L’Assemblea Costituente si riunì il 18 gennaio 1918, ma i suoi lavori durarono un giorno poiché l’assemblea fu sciolta d’autorità dai bolscevichi alla fine della prima seduta dopo aver constatato l’ostilità nei loro confronti. Quest’atto di forza corrispondeva alla dittatura del proletariato contro la democrazia borghese, contribuì alla totale sfiducia delle masse nei confronti dei bolscevichi e provocò l’emigrazione di molti intellettuali per motivi politici: tra il 1918 e il 1926 furono più di un milione! La pace di Brest-Litovsk Principale problema da affrontare per la Russia era quello della guerra. La capitale fu spostata da Petrogrado a Mosca per timore della minaccia tedesca e i confini dell’ex-impero erano occupati dai nemici. Il 3 marzo 1918 venne firmata una pace a Brest-Litovsk che imponeva pesanti condizioni alla Russia: cessione alla Germania delle regioni comprese tra Bielorussia e Caucaso; riconoscimento dell’indipendenza della Finlandia e dell’Ucraina (regione con la produzione di grano più grande d’Europa!); rinuncia alle pretese territoriali sui Paesi baltici (Estonia, Lettonia e Lituania) e sulla Polonia. Lenin stesso, che pure la considerava necessaria, definì questa pace “vergognosa”. Le ripercussioni interne furono notevoli: i socialrivoluzionari (di sinistra) uscirono anch’essi dal governo lasciando i bolscevichi soli alla guida della rivoluzione. La guerra civile Dalla primavera del 1918 la Repubblica dei soviet dovette fronteggiare una duplice minaccia: l’intervento delle potenze occidentali al confine e la guerra civile al suo interno. I governi dell’Intesa volevano eliminare il governo bolscevico per ricostruire una repubblica democratica che proseguisse la guerra al loro fianco e per evitare il pericoloso esempio di governo rivoluzionario che avrebbe potuto diffondersi anche in Occidente. Perciò truppe anglo-francesi e statunitensi sbarcarono nel Nord della Russia e poi sulle coste del Mar Nero. Contemporaneamente i Giapponesi si stabilirono con le truppe a Vladivostok, sul Pacifico, con fini espansionistici. I reparti delle potenze occidentali andarono ad appoggiare le forze controrivoluzionari militanti in Russia dal 1917, composta da ex militari zaristi fedeli al regime e da masse di contadini, formando la così detta “armata bianca”, dal colore delle divise dell’esercito dello zar. Quest’armata si andava a scontrare con l’Armata Rossa bolscevica. La guerra civile tra “rossi” e “bianchi” vide il susseguirsi di azioni violente, tra cui l’esecuzione dello zar (6 luglio 1918) e dell’intera famiglia Romanov, per una stima complessiva di 3 milioni di morti. Nell’estate del 1920 la guerra civile poteva dirsi conclusa con la vittoria delle armate rosse, favorita dall’appoggio dei contadini che temevano di perdere, in caso della vittoria dei bianchi, quel poco che avevano ottenuto. Nell’aprile 1920 la Polonia, approfittando della situazione in Russia, tentò di riappropriarsi dei territori persi con la pace di Versailles (1919). L’invasione polacca venne respinta dall’Armata Rossa che avanzò sino alle porte di Varsavia. La guerra si concluse dopo alterne vicende nel 1921 con l’acquisizione polacca di parte della Bielorussia e dell’Ucraina. In piena guerra civile entrò in vigore, nel luglio 1918, la prima Costituzione sovietica, che affermava i diritti del popolo sfruttato e oppresso, prevedendo uno stato in forma di repubblica federale e contemplando l’aggregazione libera di altre eventuali repubbliche sovietiche. Fra il 1920 e il 1922 si unirono alla Repubblica russa le atre province in cui i bolscevichi erano riusciti a prendere il potere sconfiggendo le armate bianche. Nel dicembre 1922 nacque l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS). Gli scontri interni ed esterni avevano indotto i bolscevichi ad accentuare i tratti autoritari del regime: gli oppositori furono dichiarati fuorilegge, la pena di morte reintrodotta (era stata abolita dopo la rivoluzione d’ottobre) e creata una polizia politica, la CEKA, famosa per i suoi metodi violenti e arbitrari. Il comunismo di guerra Nel 1917 alla presa del potere dei Bolscevichi le condizioni economiche della Russia erano pessime: i contadini che dopo il decreto sulla terra avevano costituito piccole aziende producevano per l’autoconsumo e non rifornivano le città, il governo incapace di riscuotere tasse stampava carta moneta senza valore aumentando l’inflazione. Nel 1918 il governo attuò una politica autoritaria, definita poi da Lenin comunismo di guerra, che prevedeva la nazionalizzazione (e non più la semplice collettivizzazione) delle terre e dei loro prodotti, la soppressione del libero mercato ed il controllo totale dello Stato sull’economia. I bolscevichi per risolvere il problema dell’approvvigionamento avrebbero fatto vere e proprie razzie dei beni prodotti nelle campagne che non fossero strettamente necessari alla sopravvivenza dei contadini. Questa politica accentuò la crisi economica: la produzione industriale si ridusse a un settimo rispetto al periodo prebellico, le fabbriche chiusero e le città si spopolarono (gli abitanti di Pietrogrado passarono da 2 milioni a 700 mila), i trasporti si bloccarono e si diffuse la fame. Il malcontento dei contadini si manifestò attraverso varie sommosse e fu necessario proclamare lo stato d’assedio per controllare la situazione. La rivolta più grande fu quella dei marinai della base navale di Kronstadt (marzo 1921), che avevano sempre appoggiato i bolscevichi. La spietata repressione che ne seguì dimostrò l’accentuarsi del centralismo e del potere del partito di Lenin. La Nuova Politica Economica La gravità della crisi portò Lenin ad una radicale critica del comunismo di guerra, sostenendo che aveva come obbiettivo solo il fronteggiare la guerra civile e non accelerare il processo di trasformazione comunista della società russa. La nuova linea fu adottata ufficialmente dal Decimo Congresso del Partito comunista che si tenne a Mosca nel marzo 1921. L’assemblea approvò la Nuova Politica Economica (NEP) che segnò la fine del comunismo di guerra e che prevedeva: il permesso ai contadini di coltivare la terra per le loro necessità e, consegnata una parte allo Stato, di vendere le eccedenze; la legalizzazione del commercio spicciolo per contrastare il mercato nero; il controllo statale delle fabbriche veniva limitato a quelle con più di 20 dipendenti. Il Congresso si celebrò mentre la situazione stava precipitando, nello stesso mese della rivolta di Kronstadt, sul paese incombeva una terribile carestia che nell’arco dell’anno causò 3 milioni di vittime. La situazione migliorò solo dall’estate del 1922, quando finalmente la nuova linea economica poté essere applicata. La NEP ottenne significativi risultati, la produzione agricola aumentò ed il paese uscì dalla carestia: nel 1926 i livelli di produzione tornarono a quelli del 1914. Il partito unico Provvedimento importante preso durante il X Congresso fu la proibizione del frazionismo ovvero l’organizzazione di correnti stabili interne al partito: non dovevano esistere contrasti all’interno del Partito Comunista dell’Unione Sovietica (PCUS). Si approvò inoltre la regola del centralismo democratico, adottata successivamente da tutti i partiti comunisti europei: una posizione presa dopo un regolare dibattito non poteva essere più contrastata e diventava vincolante per tutti. Si accentuava inevitabilmente il carattere autoritario dello Stato e l’URSS diventava sempre più uno Stato totalitario (sistema politico che vede lo Stato esercitare un controllo della società e della vita dei cittadini e ricerca il consenso). Stalin Stalin e Trockij Nell’estate del 1922 Lenin fu colpito dal primo attacco della grave malattia celebrale che lo portò alla morte nel gennaio 1924, si aprì il problema della successione del capo del partito, che fu conteso da due grandi personalità: Trockij e Stalin. Iosif Vissarionovič Džugašvili, Stalin (“uomo d’acciaio”) fu lo pseudonimo con il quale prese a firmarsi dal 1912, era nato il 21 dicembre 1879 a Gori, piccolo paese della Georgia, figlio di un modesto calzolaio e di una donna dalle umili origini che lo educò. Mandato a studiare teologia, preferì agli studi religiosi le teorie di Marx e Lenin. Vicino alle posizioni anti-zariste fu espulso dalla scuola nel 1899, militò nel partito bolscevico dove si distinse per le capacità organizzative. Subì come Lenin persecuzioni della polizia zarista, fu arrestato sette volte e cinque evase dal carcere. Nel suo testamento Lenin diffidava dal porre Stalin al governo, dubitando della sua prudenza al potere. Trockij lo definiva mediocre, e Stalin ha sempre risentito di questa inferiorità percepita cui cercò di rimediare studiando molto. Era inoltre poco abile nel tenere discorsi, ma il suo tono lento e schematico trasmetteva alle masse un’idea di grande saggezza. Lev Davidovič Bronstein detto Trockij nacque a Janovka, nell’attuale Ucraina, nel 1879. Vicino sin da giovane ad ambienti marxisti fu arrestato nel 1899 per le sue attività politiche e di propaganda, deportato in Siberia riuscì a fuggire in Europa entrando a far parte della cerchia degli intellettuali anti-zaristi in esilio. A Londra conobbe Lenin e Plechanov. Nel 1905 allo scoppio della prima rivoluzione rientrò in Russia e si distinse nella direzione del soviet di Pietroburgo. Fu eletto nel 1917 nel Comitato centrale del partito bolscevico e fu tra i principali protagonisti della rivoluzione di ottobre. Per le sue abilità oratorie venne definito “il tribuno della rivoluzione”. Durante la guerra civile percorse tutta la Russia nel suo treno blindato per stroncare le armate bianche. Dotato di molti talenti, godeva di grande popolarità seconda solo a quella di Lenin. I due schieramenti interni al partito che facevano capo a Stalin e Trockij si contrapponevano principalmente su alcune questioni: la gestione del partito, che per Trockij doveva rinunciare alla centralizzazione e ridare spazio alla democrazia interna; il giudizio sulla NEP, ben vista da Stalin era ritenuta da Trockij sfavorevole per la classe operaia e al processo di industrializzazione e collettivizzazione delle terre; la diversa posizione circa la questione esteri, Trockij voleva esportare la rivoluzione socialista in Occidente (tesi della rivoluzione permanente), mentre Stalin riteneva che andasse rinforzata l’URSS per contrastare l’Occidente come unica potenza socialista mondiale (socialismo in un solo paese). Ascesa di Stalin Nell’aprile 1922 Stalin fu nominato segretario generale del Partito comunista dell’Unione Sovietica, dirigendo di fatto l’intero partito e quindi l’intera nazione, controllava inoltre la burocrazia sovietica (la nomenklatura). A rafforzare il potere di Stalin fu il riconoscimento di diversi paesi europei dell’URSS come stato sovrano: segno che la fase rivoluzionaria era finita ed iniziava quella di consolidamento. Lo schieramento di Stalin prevalse notevolmente, Trockij fu espulso dal partito ed esiliato: fedele alle idee marxiste non aveva compreso l’importanza della burocrazia e dell’organizzazione; giunto a Città del Messico nel 1940 fu ferito a morte da un sicario di Stalin il 20 agosto dello stesso anno, morì il giorno dopo. Governo La situazione economica russa fu risanata da Stalin con una politica di industrializzazione forzata (19281939) condotta tramite diversi piani quinquennali per l’industria. Il primo iniziato nel 1928 prevedeva la produzione di materie prime dell’industria pesante (es. ferro, gomma) che sarebbero servite per la produzione di macchinari. La produzione crebbe del 40%, grazie anche ad un’operazione propagandistica per coinvolgere nel lavoro più operai possibili, reclutati tra l’altro forzatamente tra le campagne. Nel 1932 fu lanciato il secondo piano quinquennale che portò ad un incremento della produzione globale dell’industria del 121%. Il terzo piano quinquennale fu interrotto allo scoppio della seconda guerra mondiale che vide le industrie adattarsi nella produzione di materiale bellico. Durante gli anni dell’industrializzazione le autorità sovietiche piegarono totalmente l’agricoltura alle necessità dell’industria: fu interrotta la NEP, tutte le terre dei kulaki furono confiscate ed i contadini costretti ad entrare in unità produttive collettive: i kolchozy (aziende di terre collettivizzate) e i sovchozy (terre nazionalizzate). Quanti si opposero alla collettivizzazione vennero considerati nemici del popolo e giustiziati, complessivamente furono vittime di questo processo alcuni milioni di persone. Bilancio reso ancora più tragico dalla grande carestia che fece milioni di vittime tra il 1932 e il 1933. Il governo russo controllava ogni settore della vita (economia, cultura, arti, stampa, ecc.) realizzando l’idea di Stato totalitario in cui il partito unico aveva monopolio di ogni attività politica ed economica, nonché dei mezzi di comunicazione ed informazione. A completare il quadro l’instaurazione di un vero e proprio culto del capo, cioè di Stalin, esaltato come incarnazione dello spirito rivoluzionario e successore di Lenin. Fenomeno contemporaneo a quest’affermazione totalitaria dello stato fu l’eliminazione integrale di ogni possibile opposizione a Stalin e al partito: tra il 1935 e il 1938 tutti quelli che si erano in qualche modo opposti al partito e a Stalin furono giustiziati sommariamente nelle così dette grandi epurazioni o purghe. Persino il fedelissimo Bucharin fu accusato di “trockijsmo” fu processato e fucilato. Altra forma di eliminazione dell’opposizione fu la deportazione dei prigionieri politici nei gulag, sigla russa che sta per Amministrazione centrale statale dei campi di rieducazione e lavoro, ovvero lager sovietici dove venivano imprigionati i “nemici dello stato”, condannati, senza un regolare processo o dopo confessioni estorte con torture, a lavori forzati in condizioni disumane. Vennero internate tra il 1930 e il 1953 complessivamente 15 milioni di persone, di cui 1.500.000 persero la vita. Contro gli oppositori politici fu emanato l’articolo 58 del Codice penale Sovietico che elencava i delitti contro lo Stato punibili e che permetteva, per la sua vaghezza, larghe interpretazioni a sfavore dei sospettati e degli imputati che potevano essere fucilati come criminali politici anche per aver soltanto attirato su di se sospetti di quel crimine. Un’arma perfetta di terrore a disposizione del regime sovietico. Realizzato da Poalo Franchi, 5°BC (A.S. 2015/2016) AMDG