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Zona7 e il Food Design
Intervista a Ilaria Legato
a cura di BCm
rand Care magazine: Ilaria, cos’è Zona7?
Ilaria Legato: Zona 7 è una società di consulenza
formata da 7 professionisti complementari tra loro,
che da anni (ciascuno con le proprie skills) si occupano di Food e di Design.
Io curo naturalmente l’aspetto marketing e comunicazione; Paolo Barichella è un industrial designer
e si occupa della progettazione del prodotto; chi è
poi bravo nell’ingegnerizzazione del prodotto stesso
e nello sviluppo dei punti vendita è Aurelio Latella, fondatore di Very Italian Food; poi abbiamo Marco Pietrosante e Francesco Subioli, designers in grado di dare forma ai nuovi oggetti ma anche di
posizionarli nello spazio, ottenendo un coordinamento ottimale tra gli elementi;
e infine c’è Franco Zeri, la nostra colonna portante nell’elaborazione culturale e
nella comunicazione visiva: è un esperto di arte contemporanea e lavora per Rai
International, spaziando dal digital a tutti i nuovi media.
BCm: Su cosa si fonda con esattezza il vostro business?
IL: Su tre pilastri.
Il primo è rappresentato dalla ricerca e dallo sviluppo di nuovi concept
e format legati al mondo del Food e del Design: dalla vera e propria
ILARIA LEGATO
Ilaria Legato è un’esperta di marketing e comunicazione nel settore HoReCa.
Laurea in scienze politiche all’università di Firenze, Master in Pubbliche Relazioni all’Istituto
Europeo di Design di Milano, specializzazione in Food and Beverage Managment.
Dal 1997 al 2001 si occupa di Pubbliche Relazioni per L’Istituto Europeo di Design e la “Biennale
d’arte contemporanea” di Firenze, per poi passare nel 2002 al settore Food, attraverso la consulenza Marketing e Comunicazione per la Ristorazione.
Docente in “Marketing nei luoghi consumo della ristorazione” nel Master di Food Design, presso
l’Istituto Europeo di Design di Roma, attualmente si occupa di Food Event Management: analisi,
pianificazione, implementazione e controllo di eventi legati al mondo del cibo in tutte le sue declinazioni; è consulente per la nota società di Banqueting Bachini & Bellini Srl di Firenze, l’Italian
Food Academy e il Food Design Studio Milano.
Dal 2009 è socio fondatore di Zona7 Communication Design and Food, società di
servizi per il design ed il food e direttrice di IED Comunicazione a Roma.
progettazione dei cibi a quella degli spazi di fruizione per il
Food and Beverage, sempre in accordo con la filosofia del
brand assistito, che secondo noi deve caratterizzare ogni concept store. Il mood del locale, insomma, non deve essere
fine a se stesso: vi è una serie di passaggi che occorre considerare nella sua definizione (per esempio colori pantone, materiali, elementi di riconoscibilità, vetrine tipo, elementi grafici,
iconografici e di arredo, strumentazione). Ultimato il nostro
intervento i clienti arriveranno ad avere un vero e proprio catalogo di tutti gli elementi trattati, con l’obiettivo di ottenere
una trasmissione chiara dei loro brand values.
La seconda specializzazione di Zona7 è rappresentata dal
marketing e dalla comunicazione per il settore ristorazione. Se fino a qualche tempo fa non c’era bisogno di
particolari sforzi da parte degli esecrenti per “riempire” i locali,
oggi con la crisi economica in atto è sempre più difficile catturare l’attenzione degli avventori o crearsi una clientela fidelizzata: in questo caso non sempre un mix di scenografia, suoni
suggestivi, presentazioni impattanti, pubblicità martellante e
soprattutto grossi investimenti portano automaticamente al
successo di un locale.
Il terzo ambito di specializzazione, infine, è la direzione
creativa degli eventi legati al mondo del Food e del
Design. Siamo in grado di creare contenuti di impatto che
rendano memorabile l’evento stesso, anche collaborando con
le agenzie di comunicazione. Tengo a sottolineare, a tal proposito, che il nostro lavoro non si esaurisce con il coinvolgimento una tantum degli invitati: “buttare gente dentro” per una sola
serata, come succede attraverso il più comune lavoro dei PR,
non è il nostro obiettivo. Noi dobbiamo far sì che il ristorante
si posizioni su livelli economici e d’immagine soddisfacenti,
raggiungendo una certa awareness e un consenso del target
possibilmente costante.
BCm: Quello di food design è un concetto tanto innovativo quanto, almeno in parte, abusato da parte di
alcuni. Ci spieghi più in generale di cosa si tratta?
IL: Il primo a teorizzare questo nuovo approccio in Italia è
stato proprio uno dei soci fondatori di Zona7: Paolo Barichella, con il suo Food Design Studio. Se design significa “dare
forma a un’esigenza”, food design vuol dire “dare forma
a un’esigenza alimentare”, basando i processi sulla polisensorialità e sull’applicazione di norme derivate dalle arti
visive. Tale applicazione, in definitiva, è finalizzata a dare risalto alll’“aura” espressiva dei piatti e degli ambienti in cui essi
vengono consumati.
Le direzioni di sviluppo del food design sono fondamentalmente tre: la progettazione per il cibo (pensiamo, ad esempio,
a tutti quei nuovi accessori da cocktail e da banqueting realizzati per fornire soluzioni alle varie problematiche legate alla
fruizione di cibo in contesti diversi); la progettazione con
il cibo, nella quale collochiamo per esempio quegli chef che
utilizzano un approccio progettuale nell’ideazione dei propri
piatti; e la progettazione di portata.
BCm: Cosa intendi per progettazione di portata?
IL: Per evitare di creare squilibri di comunicazione, il campo che contiene l’alimento deve mantenere basso il livello di
contrasto formale con il contenuto.
Per possedere un corretto impatto espressivo la portata deve
creare armonia, mantenendo un’equilibrata interazione
tra il piatto e l’alimento: occorre ricordare che in una
portata è il piatto a essere messo al servizio dell’alimento,
e non viceversa. Il rapporto tra il contenitore e il contenuto,
insomma, è per il food designer il punto principale di sviluppo, e la progettazione di portata è una delle chiavi di tale
sviluppo.
BCm: Siamo curiosi di sapere qual è stato il percorso professionale che ti ha portato a compiere la
scelta del marketing per il food, attività da un lato
“di nicchia”, perché molto specialistica, dall’altro
“di massa”, perché – come dire? – è ovvio che nessuno può fare a meno di mangiare.
IL: Giusto! Dopo aver frequentato un Master in Relazioni
Pubbliche ed Eventi presso lo IED di Milano, e dopo diverse
esperienze lavorative, tra cui una presso la divisione Software
gestionali di Zucchetti, sentivo il bisogno di intraprendere una
sfida professionale stimolante. Durante i primi tre anni
trascorsi a Milano avevo raccolto una serie di contatti, compreso quello di un imprenditore che operava nel campo della
ristorazione. In una cena, tra una portata e l’altra, lui mi disse:
«per te è facile fare marketing e comunicazione per aziende
dal brand famoso, ma cosa combineresti se ti affidassi i miei
quattro ristoranti?». Accettai la sfida, specificando il fatto che
non ero una PR. L’obiettivo era congegnare un piano
di comunicazione e marketing continuativo: il primo
giorno fu devastante e non sapevo da dove iniziare, anche
perché occuparmi di food non era mai stato il sogno della mia
vita, almeno fino ad allora. Pian piano ho comunque capito
che questo settore presenta un vantaggio in più rispetto agli
altri: il prodotto lo vivi, riesci in contemporanea ad avere la
visione dell’addetto ai lavori e quella del consumatore.
BCm: In che differisce il marketing per il food rispetto a quello concepito per altri settori merceologici?
IL: Direi che l’operatività del marketing per il food non è molto differente da quella concepita per gli altri settori merceologici, perché occorre anche qui lavorare sul valore del prodotto
e sul suo posizionamento attraverso le leve della notorietà e
del consenso presso il pubblico di riferimento. Il consulente, sulla base di un’accurata analisi del locale, del target e
del territorio, deve capire quale può essere il giusto target da
raggiungere e, attraverso una scelta di azioni e mezzi appropriati, deve raggiungerlo e fidelizzarlo, ottenendo il massimo
risultato possibile con il minor dispendio economico… Bisogna capire di quante persone in più il locale ha bisogno per
raggiungere il “break even point” (punto di pareggio, termine
che indica il valore minimo che l’attività deve raggiungere
©Cioccolatitaliani
©Cioccolatitaliani
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affinché non si subiscano perdite); da qui inizia lo studio di
posizionamento del prodotto.
L’attenzione in più che dobbiamo dimostrare, semmai, è
di natura “etica” e culturale. Da un lato in gran parte del
pianeta ancora oggi il cibo costituisce, per la sua distribuzione
territoriale iniqua, una problematica rilevante; dall’altro esso
porta con sé un carico di valori che non si fermano al nutrimento: è, ed è sempre stato, un contenitore culturale, un vero
e proprio linguaggio, per dirla alla Barthes.
BCm: Nelle tue strategie di marketing per la ristorazione ti è mai capitato di iniziare cambiando il nome
del ristorante?
IL: Una delle cose che facciamo spesso è proprio questa. La
cosa difficile però è che a volte il proprietario è così affezionato al nome e sicuro del fatto che sia adeguato, che fa molta
resistenza. In questi casi sottolineo al titolare che si tratta di
un atteggiamento tipico di coloro che non arrivano dal mondo
della ristorazione, e gli faccio notare che il loro caso è ben
diverso da quello delle famiglie di ristoratori, imprenditori navigati che di generazione in generazione non hanno mai avuto
problemi di gestione poiché nascono e muoiono nel ristorante, sanno come trasformare la location, e alle volte proprio il
non trasformarlo costituisce il loro plus.
Il problema più grande in questo settore, insomma, è quando
si ha di fronte l’imprenditore improvvisato, che apre un ristorante e lo chiama “I Cinque Sensi”, trascurando che magari
quando entri nel suo locale riesci ad attivare soltanto il senso
dell’olfatto, magari attraverso un odore cattivo... Riuscire a
renderli partecipi della strategia non è sempre semplice. Si
tratta di un percorso che facciamo insieme, in cui cerchiamo
di far capire che cambiando con oculatezza si può avere l’occasione di ri-comunicare che il posto è sempre dello stesso
proprietario, seppure con un nuovo nome e una nuova curiosità da andare a scoprire.
BCm: A tal proposito, connettere principi organizzativi e comunicativi “freddi” a dinamiche esperienziali, che hanno direttamente a che fare, appunto,
con i sensi, sembra essere la direzione più in voga
nel marketing, a partire dall’approccio relazionale e
da quello olistico. Per questo la scelta di lavorare
sul “gusto” appare molto in sintonia con le tendenze
attuali...
IL: Assolutamente sì. Oggi il cibo ha esasperato più che mai
la sua funzione comunicativa, complici i vari media che lo
esaltano mettendo in luce questo aspetto. Così ad esempio i
produttori di cibi industriali (ma non solo loro) si affidano, per
l’identificazione del proprio prodotto, all’aspetto e al valore
simbolico. In questo modo il cibo diventa in sé insignificante, ciò che acquista importanza è il modo nel quale si consuma, ma soprattutto i valori che veicola: gioventù , vigore,
sensualità, opulenza, moda, stile.
Oggi parlare di finger food, fast food, slow food, street food e
soprattutto food design è diventato di gran moda, ma quello
che realmente emerge è che i ritmi accelerati propri del processo industriale, pronto a dover rifornire costantemente un
mercato globale, sembrano andare di pari passo con i ritmi
sempre più frenetici del consumatore tipo, il quale
trascorre gran parte della propria giornata fuori casa fra lavoro, spostamenti e attività varie, riducendo così al minimo
il tempo dedicato ai bisogni primari, primo fra tutti quello del
nutrimento. Ci si trova a mangiare pasti frugali in piedi mentre si cammina, si lavora o addirittura si guida, prendendo il
cibo con le mani o servendosi di nuovi invisibili strumenti e
utensili; “invisibili” in quanto non li riconosciamo come oggetti dotati di identità propria, ma li associamo unicamente
a quel cibo a quel prodotto (basti pensare alle posate usa e
getta, che “nascono e muoiono in un sol boccone”). Sempre
per mancanza di tempo ci si ritrova ad acquistare pietanze surgelate, precotte, pronte da mettere a tavola, che riconosciamo
e scegliamo sugli scaffali non perché prodotte con cibi di stagione, maturi e freschi ma perché attirati dal packaging, dalla
grafica e dai colori della confezione. Per nostra fortuna però
esiste un’altra tendenza per cui l’atto del mangiare non si
associa esclusivamente al frettoloso consumo di cui
sopra ma ridiventa occasione edonistica di ricerca e
condivisione del piacere attraverso i sapori, i profumi e
le forme del cibo. Noi oggi ci inseriamo in questo spazio e
ci confrontiamo continuamente con modi, tempi e strumenti
nuovi per la fruizione del food e con altrettanto nuovi metodi per produrre, conservare, concepire e presentare il cibo.
Ecco che la cultura del progetto, motore indispensabile
all’ideazione e allo sviluppo di tutti gli strumenti necessari per
soddisfare i bisogni contemporanei, arriva in tavola.
BCm: Gli chef guardano con sospetto le vostre proposte, si sentono minacciati dalla vostra presenza, o
avete avuto modo di trovare dei punti di convergenza
anche con loro, oltre che con i gestori?
IL: Quando sono davvero bravi gli chef sono i nostri migliori alleati. L’esperienza del Food Design Studio, per esempio,
nasce dall’unione di uno chef e un industrial designer: gli chef
più all’avanguardia vedono il nostro servizio come un’occasione poiché il progettista con il suo intervento può dare vita
a un piatto in grado di esaltare il significato simbolico della
ricetta di cucina.
Davide Oldani, per esempio, chef milanese che ha fatto tantissima esperienza all’estero e che adesso è tornato in Italia,
viene chiamato il “designer chef”, proprio perché, in modo
olistico, crea un intero universo intorno al suo ristorante, a
partire dagli accessori.
BCm: Tornando al discorso sulle forme di produzione e consumo sostenibili, quanto vanno d’accordo il
food design e lo slow food, che prima hai nominato?
IL: Slow food significa buono, giusto e pulito e uno dei
principi del food design è che con il cibo non si gioca: il
cibo è, come detto, una risorsa scarsa per la maggior parte
delle popolazioni mondiali. Per questo motivo “dare forma ad
un’esigenza alimentare” significa pensare a qualcosa che sia
necessariamente in linea con la sostenibilità.
In altre parole non bisogna assolutamente associare il food
design al cibo veloce, tanto che ci sono molti designer iscritti
a Slow Food. Per quanto riguarda noi stiamo sviluppando anche un progetto per alcuni parchi, nell’ambito dell’Expo 2015,
che si chiama PicNic 2.0 e che prevede l’allestimento di isole verdi, nei parchi ciascuna città, in cui ci si possa fermare
e rigenerare delle piastre a pannelli solari tramite l’USB del
proprio telefonino. L’obiettivo è quello di potersi nutrire allo
stesso tempo sia di comunicazione che di “food to walk”.
©Picnic 2.0
©Paolo Barichella