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EBRAISMO INFORMAZIONE CULTURA
SETTIMANALE
‫שבועון‬
SHALOM‫שלום‬
Iran e Arabia Saudita
Tra sciiti e sunniti è vento di guerra
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S A B A T O
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Attentato in un bar di Tel Aviv
Due morti e diversi feriti, falciati da un arabo israeliano.
Le minacce jihadiste dei giorni scorsi e l'esultanza di Hamas.
In occidente continua la delegittimazione dello stato ebraico
L'
attentato è avvenuto sulla Dizengoff', la più occidentale delle strade di Tel Aviv, teatro delle grandi stragi kamikaze negli anni Novanta. Prima dello Shabbath ieri un terrorista sulla trentina, "calmo e sorridente", ha falciato i civili israeliani seduti al bar Simta, uccidendone due (fra cui il proprietario, Mon Bakal) e ferendone gravemente altrettanti. L'attentatore è un arabo israeliano, già noto
alle autorità israeliane e riconosciuto dal padre dopo aver visto
le immagini in televisione. Interpellato dal New York Times,
l'esperto di antiterrorismo Daniel Byman ha detto che "sembra
un attacco stile Isis", come l'assalto ai ristoranti di Parigi del 13
novembre. Un tweet forse legato allo Stato islamico annunciava di voler colpire Tel Aviv. Anche Hamas e il Jihad islamico
nei giorni scorsi avevano minacciato Israele di voler compiere
un salto di qualità nella Terza Intifada, finora combattuta a
colpi di coltelli e assalti con le auto.
Tel Aviv, a differenza di Gerusalemme e dei Territori, era rimasta fuori dall'ondata terroristica: l'ultimo attentato risaliva al 2
novembre, quando vennero uccisi due israeliani. Quale modo
migliore per accogliere Israele nel nuovo anno che colpire gli
ebrei al cuore della loro scintillante capitale economica? Tanti
aspiravano a realizzare un simile attentato. Lo Stato Islamico,
che alcuni giorni fa aveva declamato col califfo: "La Palestina
sarà la vostra tomba". Ma anche la galassia palestinese. E il
fatto che il terrorista sia un cittadino israeliano che uccide altri
israeliani avvicina prepotentemente Israele a Parigi, anch'essa
messa in ginocchio da altri cittadini francesi. Ma questa strage, la più sofisticata dall'inizio della Terza Intifada, si consuma
in un clima di impressionante e colpevole delegittimazione
dello stato ebraico da parte dell'opinione pubblica internazionale. I capi politici dell'Europa da anni mistificano dicendo che
il terrore che colpisce le loro città è diverso da quello che fa
sanguinare Israele. Il presidente francese, François Hollande,
nel suo discorso dopo il 13 novembre ha volutamente separato
Gerusalemme dalle altre capitali colpite dal jihad. E basta sfogliare la top ten di antisemiti preparata dal Centro Simon Wiesenthal: ci trovi un giornalista di sinistra dello Spiegel, un festival di musica in Spagna, un leader politico inglese. Alla notizia dei morti di Tel Aviv, tanti europei, nei giornali, nelle
cancellerie, nei parlamenti, nelle strade, segretamente si compiacciono.
GIULIO MEOTTI
(Il Foglio, 2 gennaio 2016)
Cosa fare a Tel Aviv quando sparano
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A pochi metri da Dizengoff, tutta la vita che c’è qui e noi. “Fuck”
n un secondo è cambiato tutto, anche
il colore del cielo. Camminavamo da
turisti per Dizengoff street, a Tel
Aviv, in mezzo al sole, al vento freddo
e a tantissime persone, e come gli altri
eravamo tranquilli, allegri perché aveva
smesso di piovere: in questo anno appena iniziato, e salutato ridendo la notte
prima, entravamo e uscivamo dalle librerie, dai negozi di vestiti per bambini, la
mia amica beveva una spremuta di melograno, desideravamo una collana con un
ciondolo a forma di colibri, la proprietaria
del negozio diceva che essendo il primo
giorno del 2016 ci avrebbe fatto un grosso
sconto, per augurarci tutto il meglio "e se
comprate due colibrì, uno sconto più forte". Di lì a poco avrebbe chiuso, perché il
venerdì pomeriggio, al tramonto, inizia lo
Shabbat, e qualche bar cominciava a impilare sedie. Ma io ero lì soprattutto per
denunciare il furto del mio portafoglio:
Dizengoff è una strada molto famosa ma
noi stavamo andando alla stazione di polizia, al numero 221 (a Capodanno, festeggiando di fronte alla Grande Sinagoga, ho
perso di vista la mia borsa troppo a lungo,
in mezzo a troppa gente, e adesso zero
soldi per comprare quel ciondolo a Dizengoff e molti doveri burocratici per rifare i
documenti). Ai miei amici dicevo: mi dispiace farvi perdere tempo, potevamo
andare a Jaffa a vedere il porto e assaggiare le arance, ma loro erano contenti di
camminare in quella strada piena di giovinezza, bellezza e bar con i tavolini all'aperto: al numero 130, il locale dell'attentato, non siamo entrati soltanto per caso,
per fretta, perché a ogni metro c'era un'altra bella vetrina, un negozio dentro cui
gironzolare prima che chiudesse, un palazzo da guardare, un quadro che non
potevamo permetterci, una ragazza bellissima vestita troppo leggera per il vento
che arriva dal mare, noi imbacuccati nelle
sciarpe e loro con i cappotti aperti, le gonne senza calze.
Alla polizia mi hanno detto di aspettare, i
portafogli rubati a Capodanno non sono
una priorità, ci siamo seduti lì, io che pensavo a quanto ero stata scema e distratta,
i miei amici che dicevano quanta vita qui,
quanto è bella questa città, poi in un secondo è cambiato tutto. Abbiamo sentito
e visto due poliziotti urlare "Dizengoff", lo
stesso che aveva parlato con me in inglese ora dava ordini in israeliano, li abbiamo visti armarsi, infilarsi i giubbotti antiproiettile, correre fuori, e altri poliziotti
arrivavano di corsa insieme da altre stanze, uomini e donne uno dietro l'altro salivano sulle macchine, sulle moto, con le
facce tese, non sconvolte (una ragazza in
divisa ha detto "fuck", fra i denti, ed è corsa a piedi verso il posto degli spari). Noi li
guardavamo, attoniti, dal vetro, loro non
guardavano noi. Abbiamo visto contemporaneamente le auto e le ambulanze arrivare con le sirene spiegate e le persone
sui marciapiedi continuare a camminare
con i caffè in mano, tenere i cani al guinzaglio, passare in bicicletta, parlare al telefono. Un poliziotto è venuto da me a
scusarsi: "C'è da aspettare per la denuncia". Ma che cosa succede? "Spari, urla,
panico, forse ci sono dei feriti, voi tre ri-
manete qui, non uscite". Noi tre non ci
siamo mossi, abbiamo cercato sui telefoni, trovato in pochi secondi notizia dell'attentato. Un morto. Un morto?, ho chiesto
a una poliziotta bionda. Temo due, ha risposto lei, ed è corsa di nuovo fuori. Abbiamo riconosciuto il locale dalle foto su
internet, a due isolati da lì, dove eravamo
passati a piedi al massimo dieci minuti
prima che un uomo con un kalashnikov
sparasse per uccidere, dove molte persone stavano chiacchierando, bevendo caffè, mangiando falafel il primo giorno del
nuovo anno, con le facce e le parole al
vento, i buoni propositi, il futuro. Adesso,
al posto della musica, il rumore degli elicotteri. Anche al posto del sole, un cielo
gonfio.
Noi tre non abbiamo visto sangue, abbiamo visto solo la vita entusiasmante che
c'era, e che era di tutti, colpita a tradimento, e la risposta immediata di uomini e
donne, la tensione muta e rabbiosa, dopo,
degli altri passanti, che obbedivano all'ordine di non rimanere per strada e cercavano taxi con la luce accesa. Dizengoff
era vuota e come morta, quando siamo
usciti dalla stazione di polizia, e adesso è
di nuovo piena di gente. I poliziotti di Dizengoff, che hanno comunque registrato
la mia misera denuncia di furto, hanno
detto: tornate subito a casa, qui è pericoloso, non andate a piedi. Ma hanno anche
sorriso per un attimo, seri: buona giornata, e buon anno.
ANNALENA
(Il Foglio, 2 gennaio 2016)
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DOMENICA
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A Riad, 47 esecuzioni
L’Arabia giustizia il leader degli sciiti. Teheran: la pagherete
Messo a morte anche il noto religioso e attivista filoiraniano Nimr al Nimr.
La folla assalta l’ambasciata saudita
a più sacra delle terre dell'islam ha altri tre Paesi dell'area dove gli sciiti sono
confermato di essere l'epicentro della maggioranza. L'imam Moqtada al-Sack, masguerra intestina millenaria tra i fedeli sima autorità sciita dell'Irak, ha lanciato un
di Allah. Ieri l'Arabia Saudita ha an- appello: «Chiedo agli sciiti dell'Arabia Saudinunciato di avere eseguito una pena capitale ta di mostrare coraggio nella risposta, anche
di massa, mettendo sullo stesso piano 43 con manifestazioni pacifiche, e lo stesso per
«terroristi» sunniti di Al Qaida, compreso il gli sciiti nel Golfo, come deterrente per l'inloro capo in territorio saudita, Fares al giustizia e il terrorismo di governo in futuro».
Shuwail, e 4 oppositori «sovversivi» sciiti, tra In Libano, Hezbollah ha condannato «l'omicicui spicca l'imam Nimr al-Nimr, che aveva dio» dell'imam al-Nimr. In Bahrain la polizia è
capeggiato la protesta della minoranza isla- intervenuta con i gas lacrimogeni per dispermica, pari al 5% della popolazione, tra il 2011 dere la folla.
Dal comunicato emesso dal ministero dell'Ine il 2014.
Durissima la reazione dell'Iran, il Paese dove terno saudita, emerge innanzitutto che l'insiegli sciiti rappresentano il 90% della popolazio- me delle condanne a morte sono state inflitte
ne. A Teheran il ministero degli Esteri ha sulla base della legge islamica del qisas, della
vendetta, del contrappasso o del taglione.
promesso che l'Arabia (...)
(...) Saudita pagherà «a caro prezzo» l'esecu- Che viene legittimata dal versetto 33 della
zione di al-Nimr. L'ayatollah Ahmad Khatami, Sura 5 del Corano: «La ricompensa di coloro
membro dell'influente Assemblea di esperti, che fanno la guerra ad Allah e al Suo Messagha definito «criminale» la famiglia reale sau- gero e che seminano la corruzione sulla terra
dita, sostenendo: «Questo sangue puro mac- è che siano uccisi o crocifissi, che siano loro
chierà la casa dei Saud e li spazzerà via dalle tagliate la mano e la gamba da lati opposti o
pagine della storia». Numerosi manifestanti che siano esiliati sulla terra: ecco l'ignominia
hanno protestato contro l'esecuzione: a Ma- che gli toccherà in questa vita; nell'altra vita
shhad, città religiosa nella zona nord-orienta- avranno castigo immenso». Lo stesso versetle dell'Iran, hanno dato fuoco al consolato to del Corano era stato menzionato nel video
saudita. In tarda serata, sarebbe stata attac- con cui il 3 febbraio 2015 i terroristi dello
cata l'ambasciata dell'Arabia saudita a Tehe- «Stato islamico» dell'Isis hanno legittimato
ran: diversi giornalisti iraniani hanno pubbli- l'atroce uccisione del pilota giordano musulcato su twitter foto e filmati in cui si vedono mano Muaz Kassasbe, arso vivo in una gabmolotov lanciate contro l'edificio, in fiamme. bia, sempre nel nome della legge islamica
Alcuni manifestanti sarebbero penetrati nella della vendetta.
sede diplomatica per saccheggiarla. Riad ha Di fatto abbiamo la conferma che sia uno Staconvocato l'ambasciatore iraniano e accusato to islamico che il mondo considera «moderaTeheran di aver tenuto un comportamento to», sia i terroristi islamici che il mondo de«vergognoso». Pesanti reazioni anche negli nuncia come «estremisti», attingono dalla
L
stessa fonte del Corano. Nel comunicato ufficiale saudita, si evidenzia che queste condanne a morte si basano sull'adesione del Regno
«al Libro di Allah e alla Sunna (la raccolta dei
detti e dei fatti) del suo Messaggero, che sin
dalla sua nascita sono stati assunti come propria Costituzione e Ordinamento».
Per un altro verso il comunicato elenca una
lunga serie di attentati compiuti tra il 2003 e
il 2006 che danno il quadro di un Paese sconvolto da una guerra interna scatenata dal
terrorismo islamico. Si denunciano attentati
realizzati contro palazzine in centri residenziali, le sedi del ministero dell'Interno, delle
Unità di pronto intervento e della motorizzazione, il consolato degli Stati Uniti a Gedda, la
raffineria di Beqiq, le sedi di due società petrolifere, l'assalto a banche e centri commerciali che hanno fruttato un ingente quantitativo di denaro che è stato riciclato per finanziare il terrorismo. Così come si denuncia il progetto di avvelenare gli acquedotti e di far
esplodere le infrastrutture petrolifere che sono presenti nella regione nord-orientale popolata dagli sciiti.
Sempre ieri l'Arabia Saudita ha annunciato la
fine del cessate il fuoco in vigore dal 15 dicembre in Yemen con i ribelli sciiti Houthi,
altro fronte di una guerra indiretta con l'Iran.
Ma è soprattutto in Siria e in Irak che si deciderà la sorte di questo conflitto tra sunniti e
sciiti iniziato alla morte di Maometto nel 632,
con ben tre dei primi quattro successori, i
«Califfi ben guidati», assassinati da altri musulmani. È singolare che il terrorismo islamico sunnita che l'Arabia Saudita combatte
dentro casa propria, è lo stesso terrorismo
islamico sunnita che sostiene alle porte di
casa sua. La lezione da trarre è che chi di terrorismo islamico ferisce, di terrorismo islamico perisce.
MAGDI CRISTIANO ALLAM
(Il Giornale, 3 gennaio 2016)
Vaticano: “Entra in vigore accordo con la Palestina sì a due Stati per la pace”
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Nel patto “difesa della libertà religiosa”. Ma il mondo ebraico protesta:
“Serviva più prudenza, il riconoscimento non ci aiuta”
Gerusalemme: “Decisioni unilaterali che non considerano gli interessi di Israele”
a ieri è ufficiale. Vaticano e Palestina hanno fatto entrare in vigore lo storico trattato firmato lo
scorso giugno con il quale, di fatto, la Santa Sede riconosce la Palestina come Stato e appoggia il disegno dei due
Stati che vivono uno accanto all'altro «in
pace e in sicurezza sulla base delle frontiere del 1967".
Il patto riguarda aspetti semplici ed essenziali dell'attività della Chiesa in Palestina, il
sostegno quindi ad una risoluzione pacifica
del conflitto e all'autodeterminazione del
popolo palestinese: un intero capitolo è
dedicato proprio alla libertà religiosa e di
coscienza. A darne l'annuncio è stata ieri la
sala stampa vaticana, che ha spiegato come «in riferimento al Comprehensive Agreement between the Holy See and the State
of Palestine, la Santa Sede e lo Stato di Palestina hanno notificato reciprocamente il
compimento delle procedure richieste per
la sua entrata in vigore, ai sensi dell'ari. 30
del medesimo Accordo".
I colloqui tra le parti sono iniziati nel 2000
e negli ultimi mesi hanno visto, da parte
vaticana l'azione efficace di monsignor Antoine Camilleri, sottosegretario per i Rapporti con gli Stati. Era stato lui, nei mesi
scorsi, a dire a L'Osservatore Romano che
«come tutti gli accordi che la Santa Sede
firma con diversi Stati, quello attuale ha lo
scopo di favorire la vita e l'attività della
Chiesa cattolica e il suo riconoscimento a
livello giuridico anche per un suo più efficace servizio alla società". In particolare, «il
testo ha un preambolo e un primo capitolo
sui principi e le norme fondamentali che
sono la cornice in cui si svolge la collaborazione tra le parti. In essi si esprime, per
esempio, l'auspicio per una soluzione della
questione palestinese e del conflitto tra
israeliani e palestinesi nell'ambito della
Two-State Solution e delle risoluzioni della
comunità internazionale, rinviando a un'intesa tra le patti. Segue un secondo importante capitolo sulla libertà religiosa e di
coscienza, molto elaborato e dettagliato. Ci
sono poi altri capitoli su diversi aspetti della vita e dell' attività della Chiesa nei Terri-
tori palestinesi: la sua libertà di azione, il
suo personale e la sua giurisdizione, lo
statuto personale, i luoghi di culto, l'attività
sociale e caritativa, i mezzi di comunicazione sociale. Un capitolo è infine dedicato
alle questioni fiscali e di proprietà".
Già nl giugno scorso Israele aveva esprimesso il suo risentimento nei confronti
della decisione della Santa Sede. Dal punto
di vista delle autorità israeliane infatti,
«Israele non può accettare le decisioni unilaterali contenute nell'accordo, che non
prendono in considerazione gli interessi
fondamentali di Israele e lo speciale status
storico del popolo ebraico a Gerusalemme». Mentre oggi è Giuseppe Laras, presidente dell'Assemblea rabbinica italiana e
figura chiave del dialogo ebraico-cristiano,
a dire a Repubblica che «in un contesto
così delicato il riconoscimento da parte del
Vaticano non aiuta a semplificare il problema. Non è facile ma forse una linea più
prudente avrebbe aiutato di più".
PAOLO RODARI
(La Repubblica, 3 gennaio 2016)
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Una scintilla nello scontro
fra tribù
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a decisione dell'Arabia Saudita di rompere lerelazioni diplomatiche con l'Iran porta il conflitto fra sunniti e sciiti sull'orlo del precipizio. L'esecuzione dell'imam sciita Nimr al-Nimr da parte di Riad e l'assalto
con le molotov all'ambasciata saudita a Teheran avvicinano
i due giganti del Golfo a un confronto diretto per l'egemonia
su un Medio Oriente segnato dal domino dell'implosione
degli Stati arabi. Ayatollah iraniani e sceicchi sauditi già
duellano, più o meno direttamente, in Siria, Yemen, Iraq,
Libano e Bahrein sullo sfondo di uno scontro nutrito da una
rivalità religiosa che risale alla disputa sulla successione a
Maometto.
Entrambi i fronti parlano di «Jihad» contro l'avversario perché in gioco c'è la guida dell'Islam. Il linguaggio che adoperano evoca gli scontri tribali. Ali Khamenei, Leader Supremo
dell'Iran, promette «vendetta divina» mentre Riad giustifica
l'esecuzione di al-Nimr citando il verso del Corano su «crocefissioni e taglio delle gambe» per gli apostati. Con le navi
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da guerra dei due Paesi schierate a breve distanza nelle
acque del Golfo e i rispettivi contingenti in stato d'allerta da
molti mesi, il rischio di una scintilla è divenuto reale, trasmettendo nelle capitali del Medio Oriente la percezione che
siamo entrati in una nuova fase. E' l'Arabia Saudita di re
Salman a guidare l'escalation in corso perché percepisce che
è l'Iran di Hassan Rouhani ad avere il vento a favore grazie
all'alleanza militare con la Russia di Vladimir Putin in Siria,
all'accordo con la comunità internazionale che legittima il
proprio programma nucleare ed alla crescente intesa con
l'America di Barack Obama, testimoniata dalla decisione
americana di rinviare le sanzioni a Teheran per i recenti test
missilistici che hanno violato proprio le intese di Vienna. Per
avere un'idea dell'atmosfera che regna a Riad bisogna guardare a cosa sta avvenendo nelle capitali degli alleati sunniti
più stretti. Dal Cairo Said Allawndi, voce di spicco del Centro di studi strategici di «Al Ahram», afferma che «l'Iran è
diventato uno strumento degli Stati Uniti intenzionati a destabilizzare l'intero mondo arabo» paventando dunque un
complotto internazionale contro i sunniti. Da Ankara il presidente turco Recep Tayyip Erdogan afferma che «in questo
momento abbiamo bisogno anche di Israele», ovvero anche
di un Paese finora definito «diabolico», visto che incombe lo
scontro con gli sciiti. La creazione di una coalizione militare
sunnita, composta di 34 Stati, per contrastare l'alleanza
pan-sciita guidata dall'Iran trasforma il momento della rottura delle relazioni iraniano-saudita nella genesi di un nuovo
spartiacque fra opposti schieramenti che si estendono su un
potenziale campo di battaglia di oltre 9000 km, dai confini
del Marocco a quelli del Pakistan.
MAURIZIO MOLINARI
(La Stampa, 4 gennaio 2016)
I cecchini di Hebron
che mirano ai soldati
Doppio attacco nei Territori palestinesi: due reclute israeliane in ospedale, tra loro una soldatessa
19enne «Modalità diverse dal passato». Dopo coltelli e sparatorie, un salto di qualità dell'«intifada
fai da te»?
C
he sparino, ci sta. Che sparino così distante, può
succedere. Che sparino così bene, è molto più
raro. Che sparino solo alle gambe, e facciano pure
centro, è tutta un'altra faccenda. A Hebron, ieri, è
successo due volte in poche ore. Due colpi secchi, con armi
di precisione. In due luoghi diversi. Due colpi, due centri.
Al mattino s'è cimentato nel tiro al bersaglio un cecchino
nascosto sul tetto d'una casa che vede appena la Tomba
dei Patriarchi: nel mirino ha messo una soldatessa israeliana di 19 anni e l'ha presa alla coscia, per poi sparire fra le
terrazze che coprono bene le fughe nella città vecchia. Di
pomeriggio c'è riuscito un altro (o lo stesso?) tiratore scelto,
sdraiato su un fabbricato all'altezza della Hakvasim Junction, un incrocio appena fuori Hebron che conduce alle
colonie: c'era un soldato che controllava i documenti degli
automobilisti, lo sparo s'è sentito da lontano. Obbiettivo
centrato a una gamba. Le due reclute sono state portate in
ospedale a Gerusalemme. Le loro condizioni non sono complicate: lo è molto di più lo scenario che si presenta. «Non
possiamo confermare che si registri un salto di qualità negli attacchi ai militari — dice un portavoce dell'Israel Defence Force —, ma il modo d'agire è decisamente diverso».
Palestinian Sniper. C'è un'intifada fai da te, coltellate alla
disperata, che da più di tre mesi fa paura e morti, 154. E c'è
qualcuno che alza il tiro: simulando attacchi in stile Stato
islamico contro pulmini di turisti, com'è accaduto a novembre; ripetendo a Tel Aviv gli attacchi modello Parigi, com'è
accaduto venerdì scorso con lo psicopatico arabo israeliano
Nashad Melhel, ancora incredibilmente latitante; imparando la lezione di Al Baghdadi, che qualche mese fa aveva
postato un video inneggiante a un'armata di cecchini pronta a colpire ovunque in Medio Oriente. Il cecchino palestinese s'era fatto vivo la prima volta il 13 novembre, sempre
a Hebron: un padre e un figlio in auto ammazzati con due
proiettili sparati da un'altura, lungo la strada della colonia
di Othmel. È presto per sostenere che ci sia nei Territori
palestinesi qualche eroe del mirino, un Chris Kyle al contrario. E soprattutto che risponda alle sirene dell'Isis. «E’
evidente però che c'è qualche buon tiratore», dice un ricercatore d'intelligence dell'Hezilyia Institute, Alon Berger:
«Certo, in molti casi si tratta di gente disturbata. Il killer
della Dizengoff lo è di sicuro. Ma in fondo, non lo erano
anche gli assassini di Tunisi e i due californiani di San Bernardino?».
FRANCO VENTURINI
(Il Corriere della Sera, 4 gennaio 2016)
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Arresti, repressione e teste
tagliate: te la do io l'Arabia
Tutto il mondo ora si indigna per le barbare
esecuzioni in Arabia Saudita. Ma quando si
tratta di affari nessuno, Italia inclusa, si è mai
fatto scrupoli. Processi iniqui e pene medioevali, ma i sauditi sono stati eletti o capo del
Consiglio per i diritti umani dell'Onu. Amnesty denuncia il caso del blogger Badawi: 10
anni di carcere e 1000 frustate
L
e relazioni degli Usa e dell'Europa con i paesi del Golfo sono state fino al 2015 molto acritiche, specialmente con l'Arabia Saudita, finora principale potenza
economica del Medio Oriente grazie alla supremazia
petrolifera nonché perno spirituale di tutto il mondo islamico,
per la presenza sul suo territorio di due dei luoghi più sacri
dell'Islam: Mecca e Medina. Sacri anche per i musulmani di
confessione sciita, guidati dalla teocrazia iraniana antagonista di Ryad.
PROPRIO la Guida Suprema dell'ex Persia, l'Ayatollah Ali
Khamenei, ha definito la famiglia Saud che regna da sempre
sull'Arabia Saudita uguale all'Isis. Se la durissima accusa di
Khamenei, in seguito alla provocatoria decapitazione del religioso sciita Nimr al Nimr, leader della minoranza sciita nel
Golfo, può sembrare faziosa, esagerata e poco credibile a
causa dell'altissimo numero di condanne all'impiccagione e
alle continue violazioni dei diritti umani in Iran, i rapporti
delle organizzazioni umanitarie non lasciano spazio ai dubbi.
Sono anni che Amnesty International, Human Rights Watch
e l'Ong italiana Nessuno Tocchi Caino, solo per citarne alcune, raccolgono testimonianze di prima mano sulla violenta
repressione del dissenso interno, della stampa indipendente,
sugli abusi costanti nei confronti degli sciiti che vivono nella
zona orientale del Paese, la più ricca di petrolio, sui processi
iniqui, sulle pene medioevali inflitte e sul numero esponenziale delle condanne a morte. Che vengono eseguite in due
fasi per rendere più esemplare e terrorizzante la punizione:
decapitazione pubblica per mano del boia armato di spada e
quindi crocifissione del corpo mutilato, che dovrà rimanere
esposto fino a putrefazione avvenuta. La seconda fase viene
rispettata quando il cadavere appartiene a un oppositore politico-religioso.
NON È STATO il caso dello sceicco sciita al Nimr per la sua
fama e perché la sua esecuzione è già stata di per sé un azzardo estremo e una prova muscolare assai pericolosa. Ma se
il nipote ventenne Ali al Nimr, in carcere da quando aveva
diciassette anni per aver partecipato, secondo i magistrati
armato di molotov, alle manifestazioni di piazza del 2011
nell'ambito delle cosiddette primavere arabe, dovesse essere
messo a morte, probabilmente l'iter sarà quello previsto. Per
tentare di salvare il ragazzo è in corso una campagna internazionale di raccolte firme e anche per il noto trentacinquenne artista palestinese naturalizzato saudita Ashraf Fayadh,
anche lui condannato alla pena capitale per aver scritto sui
social network di non credere in Dio. Il blogger Raif Badawi
dovrà rimanere in carcere per dieci anni di carcere e subire
mille frustate in pubblico per "aver offeso l'islam". L'accusa di
apostasia è molto usata dalla magistratura al guinzaglio del
regime per tentare di disinnescare il dibattito sul potere assoluto dei Saud e sul ruolo del carcere nel regno, come ha
fatto attraverso il suo blog Badawi.
MOLTE DONNE sciite invece vengono condannate alla decapitazione per stregoneria, un altro reato preso a prestito dalla
Santa Inquisizione, che non esiste nemmeno in Iran. Le signore, anche di confessione sunnita, sorprese a guidare la
macchina o non accompagnate dai mariti, vengono picchiate
all'istante dalla "polizia per il decoro" che pattuglia armata di
pistole e manganelli strade e vicoli. Eppure l'Arabia Saudita,
forse perché è il paese che acquista più armi nel mondo, specialmente americane e italiane, è stata eletta a capo del Consiglio per i diritti umani dell'Onu per tutto il 2016. Spetterà
dunque a uno dei pochi Paesi al mondo che non ha mai firmato la Dichiarazione universale dei diritti umani, e con il più
alto tasso di condanne a morte assieme a Iran e Cina, difendere per conto dell'Onu le vittime dei soprusi e delle violenze.
ROBERTA ZUNINI
(Il Fatto Quotidiano, 5 gennaio 2016)
Isis, identificato il nuovo Jihadi
John: fu arrestato nel 2014
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Boia britannico sarebbe Siddharta Dhar,
ex commerciante a Londra
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I
l nuovo Jihadi John ha un nome e cognome. Secondo la
Bbc, il boia britannico che minaccia il Regno unito in un
nuovo video dell'Isis, è Siddhartha Dhar, ex commerciante 32enne di Londra. Di origini indiane, Dhar si è convertito dall'induismo all'Islam ed è già noto all'intelligence di
Londra. Il jihadista, conosciuto anche come Abu Rumaysah,
fu infatti arrestato nel Regno unito nel 2014 con il sospetto di
incitamento al terrorismo, ma riuscì a fuggire in Siria dopo il
suo rilascio su cauzione.Una fonte della Bbc ha detto di "non
avere dubbi" sul fatto che la voce dell'uomo che minaccia il
primo ministro David Cameron e i cittadini britannici appartenga a Dhar. E anche la sorella del boia ha spiegato che sin
dal primo momento in cui ha ascoltato la sua voce ha temuto
che potesse trattarsi del fratello. "Ero in stato di shock", ha
commentato Konika Dhar. Inoltre, un uomo identificato come
Sunday Dare, secondo Channel 4, avrebbe riconosciuto anche il bambino che appare per pochi secondi al termine del
video dell'Isis. Secondo la fonte si tratterebbe del figlio di 5
anni di Grace Khadijà Dhare, una giovane donna britannica
unitasi recentemente alla schiera di militanti fanatiche che si
offrono come spose dei jihadisti dell'Isis in Siria. (Askanews)
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L’intifada del “presidente moderato”.
Esclusiva, ecco l’Abu Mazen connection
Il Foglio svela una prova della responsabilità di Abu Mazen negli attacchi terroristici
che hanno ucciso trenta persone in Israele. Così gli ufficiali della sua Guardia presidenziale
gestiscono le piattaforme dell’odio
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prile 2002, culmine della Seconda Intifada. L'esercito israeliano compie un'incursione a Ramallah e negli uffici di Fatah scopre documenti
che dimostravano il passaggio di ordini da
Yasser Arafat a Marwan Barghouti, percorrendo tutta la
catena del terrore. Soldi, cinture di tritolo, armi, tutto annotato in lettere. Oltre a invitare al "martirio", Arafat forniva consapevolmente i soldi per la preparazione degli
attentati alle Brigate di al Aqsa. Prove che sarebbero
servite a far condannare Barghouti a cinque ergastoli (un
anno fa un tribunale di New York ha anche condannato
l'Autorità nazionale palestinese per il suo diretto coinvolgimento in sei attentati).
Per spiegare la "Terza Intifada", che in questi due mesi e
mezzo ha causato trenta morti e trecento feriti fra gli israeliani, non è possibile ricorrere a documenti simili. Con
un dollaro a Ramallah ora puoi acquistare i coltelli da cucina usati per pugnalare gli israeliani, con la stessa cifra
nelle strade trovi i cd con la "musica dell'Intifada" e, più
che in lettere su carta, gli ordini oggi corrono sulla rete.
"Is Palestinian-Israeli violence being driven by social media?", chiede la Bbc. La risposta è "sì" e le prove portano
diritto alla "Muqata" di Ramallah, il palazzo di Abu Mazen,
il presidente dell'Autorità nazionale palestinese. Quasi
tutti gli attentatori in quest'ultima ondata di terrore hanno lasciato messaggi su Facebook. Il primo fu Muhannad
Halabi, il terrorista palestinese che ha accoltellato a morte due persone a Gerusalemme, che aveva postato sul
suo Facebook le motivazioni del duplice assassinio: "La
Terza Intifada è iniziata. Ciò che sta accadendo alla Moschea di al Aqsa è ciò che sta accadendo ai nostri luoghi
santi, è la via del nostro Profeta Maometto, è ciò che sta
accadendo alle donne di al Aqsa e alle nostre madri e
sorelle. Io non credo che il popolo soccomberà all'umiliazione. Il popolo si solleverà e sarà davvero Intifada".
Finora, media e analisti hanno portato come "prove" del
coinvolgimento di Abu Mazen figure come Ahmed
Ruweidi, consigliere del presidente per gli affari di Gerusalemme, che ha detto: "Sono orgoglioso dei combattenti
che adoperando il sangue, gli arresti, gli attacchi e le
percosse sono riusciti a espellere gli ebrei con i loro corpi.
A loro va tutto il mio rispetto e apprezzamento". E' l'incitamento all'odio del "moderato" Abu Mazen su cui il mondo punta, che chiama le piazze con i nomi dei terroristi e
lascia che le sue tv e i suoi siti siano pieni di incitamento.
Il Foglio in questa esclusiva è in grado di fare di più: dare un nome e un volto a uno dei principali burattinai di
questa Terza Intifada.
Uno dei principali canali di indottrinamento per gli assalti palestinesi con i coltelli e le auto è una pagina Facebook traducibile dall'arabo come "Vietato l'ingresso agli
ubriachi". Il logo è un ragazzino palestinese con la kefiah,
una lama in mano e la scritta: "Vigilate sulla Palestina
con il coltello". La pagina, fino a oggi, ha raccolto un mi-
lione e mezzo di like. Si trova sotto la sezione "arte e intrattenimento" ed è stata lanciata nel 2011 durante la
cosiddetta "primavera araba".
Un burattinaio di nome Husam Nabil Adwan
Da quando è stata promossa la Terza Intifada, alla fine di
settembre, la pagina ha registrato un'impennata giornaliera di visitatori. Un'analisi attenta di questa pagina rivela un antisemitismo esasperato e l'invito giornaliero a
uccidere ebrei israeliani.
Il 14 ottobre si chiede ai palestinesi di asfaltare gli israeliani in attesa dell'autobus, accompagnato da tanto di
contachilometri: "Figli di Palestina, accoltellate e passate
sopra con l'auto". L'11 dicembre: "Vi invito in Palestina a
testimoniare la rivoluzione contro l'occupazione sionista".
E ancora: "Figli di puttana (rivolto agli ebrei, ndr), che
Allah vi maledica". Ovunque immagini degli attentatori:
"La sua anima è in paradiso". Un soldato israeliano? "Figlio di cane". Il 12 dicembre ci sono fotografie di assalti
palestinesi a civili e soldati: "A coloro che dubitano della
Palestina e del suo stato, guardate che eroismo". Il 19
dicembre, con foto di israeliani portati via in ambulanza:
"Allah il Grande ha ucciso un sionista". Due giorni fa è
arrivato, puntuale, anche un elogio di Nashat Melhem, il
terrorista che venerdì ha ucciso due ragazzi israeliani nel
caffè di Tel Aviv: "Che Allah lo protegga". Gli ebrei sono
chiamati ovunque "figli di scimmie e maiali". Il 31 dicembre hanno avuto un modo originale di fare gli auguri:
"Tutti aspettano Capodanno. Noi aspettiamo la testa di
Netanyahu nelle mani della resistenza palestinese".
Chi c'è dietro questa piattaforma terroristica? Husam Nabil Adwan. E' un palestinese nato nel 1988 e cresciuto ad
Al Ezaria, un sobborgo di Gerusalemme est. Perché è
importante? Perché dal 2006 Adwan ha le mostrine con
le spade ricurve della Guardia presidenziale di Abu Mazen, il corpo d'élite responsabile della sicurezza del presidente palestinese e dei suoi ospiti stranieri in visita a
Ramallah. Nella sua pagina Facebook, si fa fotografare
con alle spalle la moschea di al Aksa, il Corano in una
mano e il kalashnikov nell'altra. Ci sono poi le foto con i
volti più noti della politica e della sicurezza palestinese,
fra cui la storica guardia del corpo di Arafat, Mohammed
Daya, e l'ex primo ministro Abu Ala. Questa terza non è
affatto una "Intifada spontanea" ma ha un software preciso, l'incitamento all'odio, e alti ufficiali e pretoriani
dell'Autorità nazionale palestinese che gestiscono le
maggiori piattaforme di questa "guerra silenziosa". Nei
giorni scorsi il dottor Ofer Merin, capo dell'unità traumi
dell'ospedale Shaare Zedek di Gerusalemme, ha tenuto
una conferenza stampa sulle vittime della Terza Intifada:
"Gli attentatori sanno sempre dove colpire, le ferite che
vediamo non sono mai casuali". Colpiscono sempre per
uccidere
di Giulio Meotti *
(Il Foglio, 5 gennaio 2016)
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L’occidente tra sofismi
e sottomissione
Un anno dopo Charlie, la Francia continua a pestare
l’acqua nel mortaio. Non c’entra la religione, non
c’entra l’antigiudaismo e al Bataclan erano solo
compagni che sbagliano.
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Barbès, Parigi nord, davanti a un commissariato i gendarmes hanno ammazzato un tizio con una cintura esplosiva
finta e forse un coltello: minacciava sfracelli gridando Allahu akbar, Dio è grande. Forse era un pazzo sfrenato, forse
è un episodio sinistramente obliquo come il tentativo di investimento
in auto di una pattuglia di sicurezza davanti alla moschea di Valence,
qualche giorno fa, con annessa sparatoria e ferimento grave di un
isolato, di uno strano. Fosse una cosa seria, si rinnoverebbe la paura,
e ancora non hanno celebrato l’anniversario (9 gennaio) della presa
d’ostaggi nel mercato kosher, con fucilazione di ebrei da parte di Amedy Coulibaly, islamista radicalizzato in carcere, come si dice, accanto
a Cherif Kouachi, uno dei due fratelli che avevano steso quelli di Charlie Hebdo e un poliziotto musulmano “apostata” e proclamato la vendetta in nome del Profeta. Prevalesse l’aspetto sinistro e meno decifrabile, pazzotico, ne seguiranno polemiche dure sull’eccesso sécuritaire,
l’isteria al cospetto del pericolo islamista. Ecco, situazione perfettamente assurda e di notevole surreale violenza.
E’ valsa la pena stare qualche giorno a Parigi in epoca di anniversari
stragisti. Si capisce quasi tutto del clima di sottomissione in cui viviamo in occidente. Non è un problema francese, ovvio. Obama ha pianto,
in questa congiuntura, con duecentocinquantamila morti siriani e un
esodo biblico causati anche dalla sua straordinaria inazione, perché il
popolo americano, stimolato da una lobby di cattivi produttori e venditori di armamenti sempre castigati anche da Francesco, non vuole
farsi disarmare. Farà dei decreti inutili, vanitosi, retorici, mentre in
un’Università della Virginia, la Liberty University evangelica, il senato
accademico chiede a insegnanti e studenti di armarsi per difendersi.
Non è un problema francese, chiaro. In Libia, alle nostre porte malamente custodite, l’orrore avanza a grandi passi: la perseguita autodeterminazione del valoroso popolo libico si confronta con una settantina e più di morti ammazzati da sparse tribù del jihad che si richiamano allo Stato califfale islamico. Poi ci sono i fatti di Colonia, imbarazzanti per lo meno, il nuovo Jihadi John si fa vivo con un accento superbamente british, e più ancora saremo destinati a subirne.
Ma quel che spiega tutto è lo stato della discussione, l’odg molto foucaultiano e bourdieusiste, al quale è appeso il grande paese delle
grandi idee sconvolto nel 2015 da fenomenali atti di guerra contro la
libertà di espressione e la vita civile ordinaria, da gennaio a novembre.
Guardate la tv, leggete i giornali, passate in libreria, osservate le mosse politico-parlamentari: un panorama di pazziate da non potercisi
raccapezzare. Scontro politico sul nulla simbolico: Hollande solennemente si pronuncia per una misura proposta dalla destra, con chiari
scopi di nichilistica unità nazionale sul diversivo. Vuole togliere la
nazionalità francese ai cattivi condannati per terrorismo, ma sembra
solo a quelli che di nazionalità ne hanno due, francese per dire e magari algerina o di qualche altro paese arabo-islamico, altrimenti si
creerebbero degli apolidi, degli apatrides (e c’è chi scherza sull’inno
glorioso: allons enfants des apadrides…). Non si capisce: ne nasce, e
su una misura che sa di niente sul piano dell’efficacia, anche per ammissione di chi la propone, una disputa costituzionalistica sui valori
universali del tutto insensata. Un anno dopo, la perdita di tempo.
Ma la politica, si sa, è in balia delle procedure del consenso. Vediamo
la cultura, che come dice Richard Millet è stata rimpiazzata dal culturale, il fratellino scemo. Dopo un anno si sarà capito che come dice il
poeta è la semplicità che è difficile a farsi. E per questo è obbligatorio
farla. Niente. Si parla di frustrazione sociale, di mancanza di spirito di
inclusione, di radici economico-sociali del disastro violento e minaccioso che ha colpito il paese e l’occidente. Si parla della radicalizzazione e dei suoi percorsi, si indaga con documentari, anche ben fatti, inchieste, storytelling di vario conio, e larghissimi dibattiti di idee. Si
inventa, come antidoto alla scorrettezza dello scontro di civiltà, la
guerra civile: siccome alcuni autori dei massacri sono cittadini francesi, allora è una guerra fratricida interna. Di qui la pressione ridicola per
sanzionare con l’indegnità nazionale gli shahid che alla République
preferiscono il paradiso coranico del martirio. Viene invocata la “sociologia post-traumatica”, che Dio li perdoni. Quello religioso è un fatto
sociale come un altro, alla stessa stregua, e la dialettica tra decristia-
Roma: domani negozi quartiere
ebraico di Portico Ottavia
abbasseranno serrande
Per ricordare strage al supermercato
casher di Parigi di un anno fa
D
omani alle 12:00 per un minuto, gli esercenti di Portico
d'Ottavia abbasseranno le serrande dei negozi casher ed
ognuno esporrà un cartello "in memoria di quel drammatico venerdì all'HyperCacher di Porte de Vincennes". Lo fa
sapere, in una nota, l'ufficio stampa della Comunità Ebraica di Roma. "Un anno è trascorso dalla strage al supermercato casher di
Parigi - ricordano - dove persero la vita Yohan Cohen, Philippe
Braham, Francois-Michel Saada, YoavHattab, assassinati dall'odio e
dalla ferocia del terrorismo di matrice islamista. Il 9 gennaio 2015
ebrei innocenti furono strappati all'amore delle loro famiglie e alla
comunità intera. In ricordo delle vittime dei tragici fatti di Parigi e
di tutti i caduti per mano terrorista, domani gli studenti delle scuole ebraiche cuoceranno e distribuiranno nelle case le challoth, pane
dello Shabbat, intreccio di vita, unione e prosperità. Unica via 'nutrire' la speranza, celebrare l'esistenza oltre la morte, vincendola
rabbia ed il dolore aprendosi al futuro con forza e determinazione".
Alla chiusura saranno presenti il Rabbino Capo Riccardo Di Segni
ed il Presidente della Comunità Ebraica di Roma Ruth Dureghello.
nizzazione dell’occidente e risveglio islamico è derubricata a fobia
degli islamofobi. Si apre il quadernetto della lotta di classe aggiornata
alla bisogna dell’attualità: il combattente venuto dalle banlieues è un
soggetto di critica della globalizzazione capitalistica. Oooops! L’esperto Gilles Kepel, che come tutti gli esperti cerca il cuore delle cose e ne
ignora la superficie dell’evidenza, tira in ballo la colpa postcoloniale, il
risentimento della seconda o terza generazione dei beurs. Il fuoco
degli intellos è tutto concentrato contro il concetto di eredità tradita e
di identità offuscata, caro a un gruppo di filosofi e saggisti che è stato
bollato come alleato della Le Pen per aver detto che la Repubblica
deve riconquistare il suo stesso territorio alla sua cultura, che non è
culturale, e allo stato di diritto. Tutti sono mobilitati per diffondere la
vulgata del Collège de France: la storia è piena di sorprese e deve
essere liberata dal peso dell’eredità, concetto statico, tradizionalista,
uno dei tanti muri dell’esclusione che gronda sangue.
Insomma. Due combattenti islamici hanno ammazzato i vignettisti libertini che avevano messo in burla la religione, prendendosi il rischio
della reazione violenta giustificata perfino dal Papa, a Parigi come in
altre grandi città europee. Su YouTube li si vede dire che il loro Dio è
al di sopra di tutto e che il suo Profeta è stato vendicato. Si direbbe
letteralmente una pistola fumante. Poi a novembre hanno massacrato
ragazzi e ragazze che bevevano al bar, vedevano la partita, ascoltavano un concerto in cui li si invitava dal palco rock a baciare il diavolo
(“Kiss the Devil”). Altri proclami e pistole fumanti. Ma non basta ancora. Non basta l’ovvia considerazione che queste cose succedono per
ogni dove, dopo l’11 settembre hanno colpito la movida di Madrid alla
stazione di Atocha, il tube a Londra. Che la radicalizzazione non è
nelle periferie, è nel centro del mondo musulmano, dipende da scelte,
culture, linguaggi, programmi, strategie che sono riconoscibili e non
vengono dalla frustrazione ma dall’orgoglio fanatico che si nutre del
succo della Rivelazione islamica per come è sempre e dovunque storicamente stata intesa. Non basta. Un anno dopo, questo grande paese
di orientalisti e di esperti continua a piétiner sur place, a pestare l’acqua nel mortaio. Non c’entra la religione, non c’entra l’antigiudaismo.
Per fortuna una bella corrispondenza ieri di Mauro Zanon, a colloquio
con Jean Birnbaum, redattore libero del Monde, ha segnalato che
qualche eccezione al pensiero dominante si fa strada anche nella gauche intellettuale. Ma è un’eccezione, appunto. La parola islam non va
pronunciata, significa un improprio amalgama, e anche l’idea che la
patria sia in guerra è un regalo al califfo, i disperati del Bataclan erano
solo compagni che sbagliano.
GIULIANO FERRARA
(Il Foglio, 8 gennaio 2016)
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Parashà Vaerà
L’importanza di scegliere una moglie di buona famiglia
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oopo aver iniziato la descrizione della missione
di Moshè e di Aharon presso il Faraone per fare
uscire i figli d’Israele dall’Egitto, il racconto
della Torà viene interrotto da una serie di dati
genealogici sulle prime tribù d’Israele.
R. Shimshòn Refaèl Hirsch [Amburgo, 1808-1888, Francoforte] spiega che a questo punto nel racconto della
Torà inizia la missione trionfale di Moshè e di Aharòn
con un successo mai prima ottenuto e che non sarà mai
più ottenuto da nessun altro mortale. Per questo era
importante presentare il loro albero genealogico per attestare che la loro origine era normale e quindi erano
normali esseri umani.
Questo per evitare che
essi, come grandi benefattori del popolo, dopo
la loro morte venissero
deificati, come avvenne
in altri casi tra le nazioni del mondo.
Nel mezzo di questo
elenco viene raccontato
che “Aharòn prese in
moglie Elishèva’ (da cui
deriva il nome Elisabetta) figlia di ‘Aminadàv
e sorella di Nachshòn
e lei partorì Nadàv,
Avihù, El’azàr e Itamàr” (Shemòt, 6:23).
Chi erano ‘Aminadàv e suo figlio Nachshòn i cui nomi
appaiono nella Torà? ‘Aminadav era pronipote di Peretz,
figlio di Yehudà (Bereshìt, 38:29). Nel libro di Rut è infatti
scritto: “Pèretz ebbe come figlio Chetzròn; Chetzròn ebbe Ram, Ram ebbe ‘Aminadàv; ‘Aminadàv ebbe Nachshòn; Nachshòn ebbe Salmà; Salmòn ebbe Bo’az; Bo’az
ebbe ‘Ovèd, ‘Ovèd ebbe Ishày e Ishày ebbe David” (Rut,
4:18-22).
Nel libro delle Cronache dei Re di Yehudà vi è un dettaglio addizionale: “Ram ebbe come figlio ‘Aminadàv e
‘Aminadàv ebbe Nachshòn, capo della tribú di Yehudà”
(I, Divrè Ha-Yamìm, 2:10). Aharòn aveva quindi preso in
moglie la sorella del capo della tribú di Yehudà.
Il Nachmanide [Gerona,1194-1270, Acco ] nel suo commento alla Torà spiega che viene menzionata la moglie
di Aharon per insegnarci che la madre dei Kohanìm era
di una famiglia distinta e di stirpe reale, ed era la sorella
del più grande capo tribù. Egli aggiunge che è uso delle
Scritture menzionare le madri dei Re, come per esempio,
“E il nome di sua madre era Ma’akhà figlia di Avishalòm”
(I Melakhìm, 15:2 e 10). Ma’akhà fu madre di due fratelli,
Aviàm e Assà, che furono uno dopo l’altro Re del regno
di Yehudà. Rashì [Francia, 1040-1105] nel commento alla
Torà scrive: “Da qui [i Maestri] impararono che chi prende moglie deve verificare il fratello di lei” (Shemòt, 6:23).
Rashì nel suo commento ha citato in modo parziale un
insegnamento dei Maestri nel trattato talmudico Bavà
Batrà (110a) dove è scritto: “Rava disse: chi prende moglie deve verificare suo fratello, come è detto: “E Aharòn
prese in moglie Elishèva’ figlia di ‘Aminadàv, sorella di
Nachshòn. Dal fatto che ella era figlia di ‘Aminadàv, non
possiamo forse già sapere che era sorella di Nachshòn?
Cosa ci vuole quindi insegnare l’espressione “Sorella di
Nachshòn”? Che chi prende moglie deve verificarne il
fratello”.
E per quale motivo è cosi importante verificare il carattere del fratello della prospettiva moglie? Questo viene
spiegato nel trattato Sofrìm (15:10) dove è scritto: “La
maggior parte dei figli assomiglia ai fratelli della moglie”.
R.
Barùkh
Halevi
Epstein [Belarus, 18601941] in Torà Temimà
(p. 54) commenta che
questo insegnamento
non ha nulla a che fare con il fatto che la famiglia sia appropriata
o meno (specialmente
per dei Kohanìm) la cui
verifica è obbligatoria e
non è un di più. In questo versetto viene sottolineata l’importanza
di scegliere una moglie
di buona famiglia come detto nel trattato Pesachìm (49b)
del Talmud Babilonese. L’insegnamento in quel trattato è citato come normativo nello Shulchàn ‘Arùkh (Even
Ha-’Ezer, 2:6) dove è scritto: “Bisogna sempre cercare
di sposare la figlia di un talmìd chakhàm (saggio di Torà)
e di fare sposare la figlia a un talmìd chakhàm. Se non ha
trovato la figlia di un talmìd chakhàm, sposi la figlia di
persone giuste e che fanno del bene; se non ha trovato
tra questi, sposi la figlia di dirigenti comunitari; se non
ha trovato tra questi, sposi la figlia di chi fa raccolte per
beneficenza; se non ha trovato tra questi, sposi la figlia
di un insegnante di Torà ai bambini e non sposi la figlia
di un ignorante”.
Alla fine della parashà di Toledòt al versetto “E Yitzchàk
congedò Ya’akòv ed egli si recò a Padàn Aràm da Lavàn
[...] fratello di Rivkà, madre di Ya’akòv e di Esau (Bereshìt, 28:5), Rashì commentando le parole “Madre di
Ya’akòv e di Esau” scrive: “Non so cosa ci insegna”. R.
David Pardo [Venezia, 1710-1792, Gerusalemme] nel suo
commento a Rashì, scrive che Rashì vuole insegnare che
Yitzchàk aveva detto a Ya’akov che non sapeva quale
fosse il carattere di Lavan. Perché se è vero che la maggior parte dei figli assomigliano al fratello della madre,
Rivkà aveva solo due figli, Ya’akov, che era virtuoso, ed
Esau che non lo era. Non c’era quindi una maggioranza
di figli per poter trarre qualche conclusione sul carattere
di Lavan!
DONATO GROSSER