7 EBRAISMO INFORMAZIONE CULTURA SETTIMANALE שבועון SHALOMשלום Iran e Arabia Saudita Tra sciiti e sunniti è vento di guerra 21 T EVET 5776 S A B A T O G E N N A I O 02 Attentato in un bar di Tel Aviv Due morti e diversi feriti, falciati da un arabo israeliano. Le minacce jihadiste dei giorni scorsi e l'esultanza di Hamas. In occidente continua la delegittimazione dello stato ebraico L' attentato è avvenuto sulla Dizengoff', la più occidentale delle strade di Tel Aviv, teatro delle grandi stragi kamikaze negli anni Novanta. Prima dello Shabbath ieri un terrorista sulla trentina, "calmo e sorridente", ha falciato i civili israeliani seduti al bar Simta, uccidendone due (fra cui il proprietario, Mon Bakal) e ferendone gravemente altrettanti. L'attentatore è un arabo israeliano, già noto alle autorità israeliane e riconosciuto dal padre dopo aver visto le immagini in televisione. Interpellato dal New York Times, l'esperto di antiterrorismo Daniel Byman ha detto che "sembra un attacco stile Isis", come l'assalto ai ristoranti di Parigi del 13 novembre. Un tweet forse legato allo Stato islamico annunciava di voler colpire Tel Aviv. Anche Hamas e il Jihad islamico nei giorni scorsi avevano minacciato Israele di voler compiere un salto di qualità nella Terza Intifada, finora combattuta a colpi di coltelli e assalti con le auto. Tel Aviv, a differenza di Gerusalemme e dei Territori, era rimasta fuori dall'ondata terroristica: l'ultimo attentato risaliva al 2 novembre, quando vennero uccisi due israeliani. Quale modo migliore per accogliere Israele nel nuovo anno che colpire gli ebrei al cuore della loro scintillante capitale economica? Tanti aspiravano a realizzare un simile attentato. Lo Stato Islamico, che alcuni giorni fa aveva declamato col califfo: "La Palestina sarà la vostra tomba". Ma anche la galassia palestinese. E il fatto che il terrorista sia un cittadino israeliano che uccide altri israeliani avvicina prepotentemente Israele a Parigi, anch'essa messa in ginocchio da altri cittadini francesi. Ma questa strage, la più sofisticata dall'inizio della Terza Intifada, si consuma in un clima di impressionante e colpevole delegittimazione dello stato ebraico da parte dell'opinione pubblica internazionale. I capi politici dell'Europa da anni mistificano dicendo che il terrore che colpisce le loro città è diverso da quello che fa sanguinare Israele. Il presidente francese, François Hollande, nel suo discorso dopo il 13 novembre ha volutamente separato Gerusalemme dalle altre capitali colpite dal jihad. E basta sfogliare la top ten di antisemiti preparata dal Centro Simon Wiesenthal: ci trovi un giornalista di sinistra dello Spiegel, un festival di musica in Spagna, un leader politico inglese. Alla notizia dei morti di Tel Aviv, tanti europei, nei giornali, nelle cancellerie, nei parlamenti, nelle strade, segretamente si compiacciono. GIULIO MEOTTI (Il Foglio, 2 gennaio 2016) Cosa fare a Tel Aviv quando sparano GENNAIO 2016 • TEVET 5776 I 2 A pochi metri da Dizengoff, tutta la vita che c’è qui e noi. “Fuck” n un secondo è cambiato tutto, anche il colore del cielo. Camminavamo da turisti per Dizengoff street, a Tel Aviv, in mezzo al sole, al vento freddo e a tantissime persone, e come gli altri eravamo tranquilli, allegri perché aveva smesso di piovere: in questo anno appena iniziato, e salutato ridendo la notte prima, entravamo e uscivamo dalle librerie, dai negozi di vestiti per bambini, la mia amica beveva una spremuta di melograno, desideravamo una collana con un ciondolo a forma di colibri, la proprietaria del negozio diceva che essendo il primo giorno del 2016 ci avrebbe fatto un grosso sconto, per augurarci tutto il meglio "e se comprate due colibrì, uno sconto più forte". Di lì a poco avrebbe chiuso, perché il venerdì pomeriggio, al tramonto, inizia lo Shabbat, e qualche bar cominciava a impilare sedie. Ma io ero lì soprattutto per denunciare il furto del mio portafoglio: Dizengoff è una strada molto famosa ma noi stavamo andando alla stazione di polizia, al numero 221 (a Capodanno, festeggiando di fronte alla Grande Sinagoga, ho perso di vista la mia borsa troppo a lungo, in mezzo a troppa gente, e adesso zero soldi per comprare quel ciondolo a Dizengoff e molti doveri burocratici per rifare i documenti). Ai miei amici dicevo: mi dispiace farvi perdere tempo, potevamo andare a Jaffa a vedere il porto e assaggiare le arance, ma loro erano contenti di camminare in quella strada piena di giovinezza, bellezza e bar con i tavolini all'aperto: al numero 130, il locale dell'attentato, non siamo entrati soltanto per caso, per fretta, perché a ogni metro c'era un'altra bella vetrina, un negozio dentro cui gironzolare prima che chiudesse, un palazzo da guardare, un quadro che non potevamo permetterci, una ragazza bellissima vestita troppo leggera per il vento che arriva dal mare, noi imbacuccati nelle sciarpe e loro con i cappotti aperti, le gonne senza calze. Alla polizia mi hanno detto di aspettare, i portafogli rubati a Capodanno non sono una priorità, ci siamo seduti lì, io che pensavo a quanto ero stata scema e distratta, i miei amici che dicevano quanta vita qui, quanto è bella questa città, poi in un secondo è cambiato tutto. Abbiamo sentito e visto due poliziotti urlare "Dizengoff", lo stesso che aveva parlato con me in inglese ora dava ordini in israeliano, li abbiamo visti armarsi, infilarsi i giubbotti antiproiettile, correre fuori, e altri poliziotti arrivavano di corsa insieme da altre stanze, uomini e donne uno dietro l'altro salivano sulle macchine, sulle moto, con le facce tese, non sconvolte (una ragazza in divisa ha detto "fuck", fra i denti, ed è corsa a piedi verso il posto degli spari). Noi li guardavamo, attoniti, dal vetro, loro non guardavano noi. Abbiamo visto contemporaneamente le auto e le ambulanze arrivare con le sirene spiegate e le persone sui marciapiedi continuare a camminare con i caffè in mano, tenere i cani al guinzaglio, passare in bicicletta, parlare al telefono. Un poliziotto è venuto da me a scusarsi: "C'è da aspettare per la denuncia". Ma che cosa succede? "Spari, urla, panico, forse ci sono dei feriti, voi tre ri- manete qui, non uscite". Noi tre non ci siamo mossi, abbiamo cercato sui telefoni, trovato in pochi secondi notizia dell'attentato. Un morto. Un morto?, ho chiesto a una poliziotta bionda. Temo due, ha risposto lei, ed è corsa di nuovo fuori. Abbiamo riconosciuto il locale dalle foto su internet, a due isolati da lì, dove eravamo passati a piedi al massimo dieci minuti prima che un uomo con un kalashnikov sparasse per uccidere, dove molte persone stavano chiacchierando, bevendo caffè, mangiando falafel il primo giorno del nuovo anno, con le facce e le parole al vento, i buoni propositi, il futuro. Adesso, al posto della musica, il rumore degli elicotteri. Anche al posto del sole, un cielo gonfio. Noi tre non abbiamo visto sangue, abbiamo visto solo la vita entusiasmante che c'era, e che era di tutti, colpita a tradimento, e la risposta immediata di uomini e donne, la tensione muta e rabbiosa, dopo, degli altri passanti, che obbedivano all'ordine di non rimanere per strada e cercavano taxi con la luce accesa. Dizengoff era vuota e come morta, quando siamo usciti dalla stazione di polizia, e adesso è di nuovo piena di gente. I poliziotti di Dizengoff, che hanno comunque registrato la mia misera denuncia di furto, hanno detto: tornate subito a casa, qui è pericoloso, non andate a piedi. Ma hanno anche sorriso per un attimo, seri: buona giornata, e buon anno. ANNALENA (Il Foglio, 2 gennaio 2016) 22 T EVET 5776 DOMENICA G E N N A I O 03 A Riad, 47 esecuzioni L’Arabia giustizia il leader degli sciiti. Teheran: la pagherete Messo a morte anche il noto religioso e attivista filoiraniano Nimr al Nimr. La folla assalta l’ambasciata saudita a più sacra delle terre dell'islam ha altri tre Paesi dell'area dove gli sciiti sono confermato di essere l'epicentro della maggioranza. L'imam Moqtada al-Sack, masguerra intestina millenaria tra i fedeli sima autorità sciita dell'Irak, ha lanciato un di Allah. Ieri l'Arabia Saudita ha an- appello: «Chiedo agli sciiti dell'Arabia Saudinunciato di avere eseguito una pena capitale ta di mostrare coraggio nella risposta, anche di massa, mettendo sullo stesso piano 43 con manifestazioni pacifiche, e lo stesso per «terroristi» sunniti di Al Qaida, compreso il gli sciiti nel Golfo, come deterrente per l'inloro capo in territorio saudita, Fares al giustizia e il terrorismo di governo in futuro». Shuwail, e 4 oppositori «sovversivi» sciiti, tra In Libano, Hezbollah ha condannato «l'omicicui spicca l'imam Nimr al-Nimr, che aveva dio» dell'imam al-Nimr. In Bahrain la polizia è capeggiato la protesta della minoranza isla- intervenuta con i gas lacrimogeni per dispermica, pari al 5% della popolazione, tra il 2011 dere la folla. Dal comunicato emesso dal ministero dell'Ine il 2014. Durissima la reazione dell'Iran, il Paese dove terno saudita, emerge innanzitutto che l'insiegli sciiti rappresentano il 90% della popolazio- me delle condanne a morte sono state inflitte ne. A Teheran il ministero degli Esteri ha sulla base della legge islamica del qisas, della vendetta, del contrappasso o del taglione. promesso che l'Arabia (...) (...) Saudita pagherà «a caro prezzo» l'esecu- Che viene legittimata dal versetto 33 della zione di al-Nimr. L'ayatollah Ahmad Khatami, Sura 5 del Corano: «La ricompensa di coloro membro dell'influente Assemblea di esperti, che fanno la guerra ad Allah e al Suo Messagha definito «criminale» la famiglia reale sau- gero e che seminano la corruzione sulla terra dita, sostenendo: «Questo sangue puro mac- è che siano uccisi o crocifissi, che siano loro chierà la casa dei Saud e li spazzerà via dalle tagliate la mano e la gamba da lati opposti o pagine della storia». Numerosi manifestanti che siano esiliati sulla terra: ecco l'ignominia hanno protestato contro l'esecuzione: a Ma- che gli toccherà in questa vita; nell'altra vita shhad, città religiosa nella zona nord-orienta- avranno castigo immenso». Lo stesso versetle dell'Iran, hanno dato fuoco al consolato to del Corano era stato menzionato nel video saudita. In tarda serata, sarebbe stata attac- con cui il 3 febbraio 2015 i terroristi dello cata l'ambasciata dell'Arabia saudita a Tehe- «Stato islamico» dell'Isis hanno legittimato ran: diversi giornalisti iraniani hanno pubbli- l'atroce uccisione del pilota giordano musulcato su twitter foto e filmati in cui si vedono mano Muaz Kassasbe, arso vivo in una gabmolotov lanciate contro l'edificio, in fiamme. bia, sempre nel nome della legge islamica Alcuni manifestanti sarebbero penetrati nella della vendetta. sede diplomatica per saccheggiarla. Riad ha Di fatto abbiamo la conferma che sia uno Staconvocato l'ambasciatore iraniano e accusato to islamico che il mondo considera «moderaTeheran di aver tenuto un comportamento to», sia i terroristi islamici che il mondo de«vergognoso». Pesanti reazioni anche negli nuncia come «estremisti», attingono dalla L stessa fonte del Corano. Nel comunicato ufficiale saudita, si evidenzia che queste condanne a morte si basano sull'adesione del Regno «al Libro di Allah e alla Sunna (la raccolta dei detti e dei fatti) del suo Messaggero, che sin dalla sua nascita sono stati assunti come propria Costituzione e Ordinamento». Per un altro verso il comunicato elenca una lunga serie di attentati compiuti tra il 2003 e il 2006 che danno il quadro di un Paese sconvolto da una guerra interna scatenata dal terrorismo islamico. Si denunciano attentati realizzati contro palazzine in centri residenziali, le sedi del ministero dell'Interno, delle Unità di pronto intervento e della motorizzazione, il consolato degli Stati Uniti a Gedda, la raffineria di Beqiq, le sedi di due società petrolifere, l'assalto a banche e centri commerciali che hanno fruttato un ingente quantitativo di denaro che è stato riciclato per finanziare il terrorismo. Così come si denuncia il progetto di avvelenare gli acquedotti e di far esplodere le infrastrutture petrolifere che sono presenti nella regione nord-orientale popolata dagli sciiti. Sempre ieri l'Arabia Saudita ha annunciato la fine del cessate il fuoco in vigore dal 15 dicembre in Yemen con i ribelli sciiti Houthi, altro fronte di una guerra indiretta con l'Iran. Ma è soprattutto in Siria e in Irak che si deciderà la sorte di questo conflitto tra sunniti e sciiti iniziato alla morte di Maometto nel 632, con ben tre dei primi quattro successori, i «Califfi ben guidati», assassinati da altri musulmani. È singolare che il terrorismo islamico sunnita che l'Arabia Saudita combatte dentro casa propria, è lo stesso terrorismo islamico sunnita che sostiene alle porte di casa sua. La lezione da trarre è che chi di terrorismo islamico ferisce, di terrorismo islamico perisce. MAGDI CRISTIANO ALLAM (Il Giornale, 3 gennaio 2016) Vaticano: “Entra in vigore accordo con la Palestina sì a due Stati per la pace” GENNAIO 2016 • TEVET 5776 D 3 Nel patto “difesa della libertà religiosa”. Ma il mondo ebraico protesta: “Serviva più prudenza, il riconoscimento non ci aiuta” Gerusalemme: “Decisioni unilaterali che non considerano gli interessi di Israele” a ieri è ufficiale. Vaticano e Palestina hanno fatto entrare in vigore lo storico trattato firmato lo scorso giugno con il quale, di fatto, la Santa Sede riconosce la Palestina come Stato e appoggia il disegno dei due Stati che vivono uno accanto all'altro «in pace e in sicurezza sulla base delle frontiere del 1967". Il patto riguarda aspetti semplici ed essenziali dell'attività della Chiesa in Palestina, il sostegno quindi ad una risoluzione pacifica del conflitto e all'autodeterminazione del popolo palestinese: un intero capitolo è dedicato proprio alla libertà religiosa e di coscienza. A darne l'annuncio è stata ieri la sala stampa vaticana, che ha spiegato come «in riferimento al Comprehensive Agreement between the Holy See and the State of Palestine, la Santa Sede e lo Stato di Palestina hanno notificato reciprocamente il compimento delle procedure richieste per la sua entrata in vigore, ai sensi dell'ari. 30 del medesimo Accordo". I colloqui tra le parti sono iniziati nel 2000 e negli ultimi mesi hanno visto, da parte vaticana l'azione efficace di monsignor Antoine Camilleri, sottosegretario per i Rapporti con gli Stati. Era stato lui, nei mesi scorsi, a dire a L'Osservatore Romano che «come tutti gli accordi che la Santa Sede firma con diversi Stati, quello attuale ha lo scopo di favorire la vita e l'attività della Chiesa cattolica e il suo riconoscimento a livello giuridico anche per un suo più efficace servizio alla società". In particolare, «il testo ha un preambolo e un primo capitolo sui principi e le norme fondamentali che sono la cornice in cui si svolge la collaborazione tra le parti. In essi si esprime, per esempio, l'auspicio per una soluzione della questione palestinese e del conflitto tra israeliani e palestinesi nell'ambito della Two-State Solution e delle risoluzioni della comunità internazionale, rinviando a un'intesa tra le patti. Segue un secondo importante capitolo sulla libertà religiosa e di coscienza, molto elaborato e dettagliato. Ci sono poi altri capitoli su diversi aspetti della vita e dell' attività della Chiesa nei Terri- tori palestinesi: la sua libertà di azione, il suo personale e la sua giurisdizione, lo statuto personale, i luoghi di culto, l'attività sociale e caritativa, i mezzi di comunicazione sociale. Un capitolo è infine dedicato alle questioni fiscali e di proprietà". Già nl giugno scorso Israele aveva esprimesso il suo risentimento nei confronti della decisione della Santa Sede. Dal punto di vista delle autorità israeliane infatti, «Israele non può accettare le decisioni unilaterali contenute nell'accordo, che non prendono in considerazione gli interessi fondamentali di Israele e lo speciale status storico del popolo ebraico a Gerusalemme». Mentre oggi è Giuseppe Laras, presidente dell'Assemblea rabbinica italiana e figura chiave del dialogo ebraico-cristiano, a dire a Repubblica che «in un contesto così delicato il riconoscimento da parte del Vaticano non aiuta a semplificare il problema. Non è facile ma forse una linea più prudente avrebbe aiutato di più". PAOLO RODARI (La Repubblica, 3 gennaio 2016) 23 T EVET 5776 L U N E D I G E N N A I O 04 Una scintilla nello scontro fra tribù L GENNAIO 2016 • TEVET 5776 a decisione dell'Arabia Saudita di rompere lerelazioni diplomatiche con l'Iran porta il conflitto fra sunniti e sciiti sull'orlo del precipizio. L'esecuzione dell'imam sciita Nimr al-Nimr da parte di Riad e l'assalto con le molotov all'ambasciata saudita a Teheran avvicinano i due giganti del Golfo a un confronto diretto per l'egemonia su un Medio Oriente segnato dal domino dell'implosione degli Stati arabi. Ayatollah iraniani e sceicchi sauditi già duellano, più o meno direttamente, in Siria, Yemen, Iraq, Libano e Bahrein sullo sfondo di uno scontro nutrito da una rivalità religiosa che risale alla disputa sulla successione a Maometto. Entrambi i fronti parlano di «Jihad» contro l'avversario perché in gioco c'è la guida dell'Islam. Il linguaggio che adoperano evoca gli scontri tribali. Ali Khamenei, Leader Supremo dell'Iran, promette «vendetta divina» mentre Riad giustifica l'esecuzione di al-Nimr citando il verso del Corano su «crocefissioni e taglio delle gambe» per gli apostati. Con le navi 4 da guerra dei due Paesi schierate a breve distanza nelle acque del Golfo e i rispettivi contingenti in stato d'allerta da molti mesi, il rischio di una scintilla è divenuto reale, trasmettendo nelle capitali del Medio Oriente la percezione che siamo entrati in una nuova fase. E' l'Arabia Saudita di re Salman a guidare l'escalation in corso perché percepisce che è l'Iran di Hassan Rouhani ad avere il vento a favore grazie all'alleanza militare con la Russia di Vladimir Putin in Siria, all'accordo con la comunità internazionale che legittima il proprio programma nucleare ed alla crescente intesa con l'America di Barack Obama, testimoniata dalla decisione americana di rinviare le sanzioni a Teheran per i recenti test missilistici che hanno violato proprio le intese di Vienna. Per avere un'idea dell'atmosfera che regna a Riad bisogna guardare a cosa sta avvenendo nelle capitali degli alleati sunniti più stretti. Dal Cairo Said Allawndi, voce di spicco del Centro di studi strategici di «Al Ahram», afferma che «l'Iran è diventato uno strumento degli Stati Uniti intenzionati a destabilizzare l'intero mondo arabo» paventando dunque un complotto internazionale contro i sunniti. Da Ankara il presidente turco Recep Tayyip Erdogan afferma che «in questo momento abbiamo bisogno anche di Israele», ovvero anche di un Paese finora definito «diabolico», visto che incombe lo scontro con gli sciiti. La creazione di una coalizione militare sunnita, composta di 34 Stati, per contrastare l'alleanza pan-sciita guidata dall'Iran trasforma il momento della rottura delle relazioni iraniano-saudita nella genesi di un nuovo spartiacque fra opposti schieramenti che si estendono su un potenziale campo di battaglia di oltre 9000 km, dai confini del Marocco a quelli del Pakistan. MAURIZIO MOLINARI (La Stampa, 4 gennaio 2016) I cecchini di Hebron che mirano ai soldati Doppio attacco nei Territori palestinesi: due reclute israeliane in ospedale, tra loro una soldatessa 19enne «Modalità diverse dal passato». Dopo coltelli e sparatorie, un salto di qualità dell'«intifada fai da te»? C he sparino, ci sta. Che sparino così distante, può succedere. Che sparino così bene, è molto più raro. Che sparino solo alle gambe, e facciano pure centro, è tutta un'altra faccenda. A Hebron, ieri, è successo due volte in poche ore. Due colpi secchi, con armi di precisione. In due luoghi diversi. Due colpi, due centri. Al mattino s'è cimentato nel tiro al bersaglio un cecchino nascosto sul tetto d'una casa che vede appena la Tomba dei Patriarchi: nel mirino ha messo una soldatessa israeliana di 19 anni e l'ha presa alla coscia, per poi sparire fra le terrazze che coprono bene le fughe nella città vecchia. Di pomeriggio c'è riuscito un altro (o lo stesso?) tiratore scelto, sdraiato su un fabbricato all'altezza della Hakvasim Junction, un incrocio appena fuori Hebron che conduce alle colonie: c'era un soldato che controllava i documenti degli automobilisti, lo sparo s'è sentito da lontano. Obbiettivo centrato a una gamba. Le due reclute sono state portate in ospedale a Gerusalemme. Le loro condizioni non sono complicate: lo è molto di più lo scenario che si presenta. «Non possiamo confermare che si registri un salto di qualità negli attacchi ai militari — dice un portavoce dell'Israel Defence Force —, ma il modo d'agire è decisamente diverso». Palestinian Sniper. C'è un'intifada fai da te, coltellate alla disperata, che da più di tre mesi fa paura e morti, 154. E c'è qualcuno che alza il tiro: simulando attacchi in stile Stato islamico contro pulmini di turisti, com'è accaduto a novembre; ripetendo a Tel Aviv gli attacchi modello Parigi, com'è accaduto venerdì scorso con lo psicopatico arabo israeliano Nashad Melhel, ancora incredibilmente latitante; imparando la lezione di Al Baghdadi, che qualche mese fa aveva postato un video inneggiante a un'armata di cecchini pronta a colpire ovunque in Medio Oriente. Il cecchino palestinese s'era fatto vivo la prima volta il 13 novembre, sempre a Hebron: un padre e un figlio in auto ammazzati con due proiettili sparati da un'altura, lungo la strada della colonia di Othmel. È presto per sostenere che ci sia nei Territori palestinesi qualche eroe del mirino, un Chris Kyle al contrario. E soprattutto che risponda alle sirene dell'Isis. «E’ evidente però che c'è qualche buon tiratore», dice un ricercatore d'intelligence dell'Hezilyia Institute, Alon Berger: «Certo, in molti casi si tratta di gente disturbata. Il killer della Dizengoff lo è di sicuro. Ma in fondo, non lo erano anche gli assassini di Tunisi e i due californiani di San Bernardino?». FRANCO VENTURINI (Il Corriere della Sera, 4 gennaio 2016) 24 T EVET 5776 MARTEDI G E N N A I O 05 Arresti, repressione e teste tagliate: te la do io l'Arabia Tutto il mondo ora si indigna per le barbare esecuzioni in Arabia Saudita. Ma quando si tratta di affari nessuno, Italia inclusa, si è mai fatto scrupoli. Processi iniqui e pene medioevali, ma i sauditi sono stati eletti o capo del Consiglio per i diritti umani dell'Onu. Amnesty denuncia il caso del blogger Badawi: 10 anni di carcere e 1000 frustate L e relazioni degli Usa e dell'Europa con i paesi del Golfo sono state fino al 2015 molto acritiche, specialmente con l'Arabia Saudita, finora principale potenza economica del Medio Oriente grazie alla supremazia petrolifera nonché perno spirituale di tutto il mondo islamico, per la presenza sul suo territorio di due dei luoghi più sacri dell'Islam: Mecca e Medina. Sacri anche per i musulmani di confessione sciita, guidati dalla teocrazia iraniana antagonista di Ryad. PROPRIO la Guida Suprema dell'ex Persia, l'Ayatollah Ali Khamenei, ha definito la famiglia Saud che regna da sempre sull'Arabia Saudita uguale all'Isis. Se la durissima accusa di Khamenei, in seguito alla provocatoria decapitazione del religioso sciita Nimr al Nimr, leader della minoranza sciita nel Golfo, può sembrare faziosa, esagerata e poco credibile a causa dell'altissimo numero di condanne all'impiccagione e alle continue violazioni dei diritti umani in Iran, i rapporti delle organizzazioni umanitarie non lasciano spazio ai dubbi. Sono anni che Amnesty International, Human Rights Watch e l'Ong italiana Nessuno Tocchi Caino, solo per citarne alcune, raccolgono testimonianze di prima mano sulla violenta repressione del dissenso interno, della stampa indipendente, sugli abusi costanti nei confronti degli sciiti che vivono nella zona orientale del Paese, la più ricca di petrolio, sui processi iniqui, sulle pene medioevali inflitte e sul numero esponenziale delle condanne a morte. Che vengono eseguite in due fasi per rendere più esemplare e terrorizzante la punizione: decapitazione pubblica per mano del boia armato di spada e quindi crocifissione del corpo mutilato, che dovrà rimanere esposto fino a putrefazione avvenuta. La seconda fase viene rispettata quando il cadavere appartiene a un oppositore politico-religioso. NON È STATO il caso dello sceicco sciita al Nimr per la sua fama e perché la sua esecuzione è già stata di per sé un azzardo estremo e una prova muscolare assai pericolosa. Ma se il nipote ventenne Ali al Nimr, in carcere da quando aveva diciassette anni per aver partecipato, secondo i magistrati armato di molotov, alle manifestazioni di piazza del 2011 nell'ambito delle cosiddette primavere arabe, dovesse essere messo a morte, probabilmente l'iter sarà quello previsto. Per tentare di salvare il ragazzo è in corso una campagna internazionale di raccolte firme e anche per il noto trentacinquenne artista palestinese naturalizzato saudita Ashraf Fayadh, anche lui condannato alla pena capitale per aver scritto sui social network di non credere in Dio. Il blogger Raif Badawi dovrà rimanere in carcere per dieci anni di carcere e subire mille frustate in pubblico per "aver offeso l'islam". L'accusa di apostasia è molto usata dalla magistratura al guinzaglio del regime per tentare di disinnescare il dibattito sul potere assoluto dei Saud e sul ruolo del carcere nel regno, come ha fatto attraverso il suo blog Badawi. MOLTE DONNE sciite invece vengono condannate alla decapitazione per stregoneria, un altro reato preso a prestito dalla Santa Inquisizione, che non esiste nemmeno in Iran. Le signore, anche di confessione sunnita, sorprese a guidare la macchina o non accompagnate dai mariti, vengono picchiate all'istante dalla "polizia per il decoro" che pattuglia armata di pistole e manganelli strade e vicoli. Eppure l'Arabia Saudita, forse perché è il paese che acquista più armi nel mondo, specialmente americane e italiane, è stata eletta a capo del Consiglio per i diritti umani dell'Onu per tutto il 2016. Spetterà dunque a uno dei pochi Paesi al mondo che non ha mai firmato la Dichiarazione universale dei diritti umani, e con il più alto tasso di condanne a morte assieme a Iran e Cina, difendere per conto dell'Onu le vittime dei soprusi e delle violenze. ROBERTA ZUNINI (Il Fatto Quotidiano, 5 gennaio 2016) Isis, identificato il nuovo Jihadi John: fu arrestato nel 2014 GENNAIO 2016 • TEVET 5776 Boia britannico sarebbe Siddharta Dhar, ex commerciante a Londra 5 I l nuovo Jihadi John ha un nome e cognome. Secondo la Bbc, il boia britannico che minaccia il Regno unito in un nuovo video dell'Isis, è Siddhartha Dhar, ex commerciante 32enne di Londra. Di origini indiane, Dhar si è convertito dall'induismo all'Islam ed è già noto all'intelligence di Londra. Il jihadista, conosciuto anche come Abu Rumaysah, fu infatti arrestato nel Regno unito nel 2014 con il sospetto di incitamento al terrorismo, ma riuscì a fuggire in Siria dopo il suo rilascio su cauzione.Una fonte della Bbc ha detto di "non avere dubbi" sul fatto che la voce dell'uomo che minaccia il primo ministro David Cameron e i cittadini britannici appartenga a Dhar. E anche la sorella del boia ha spiegato che sin dal primo momento in cui ha ascoltato la sua voce ha temuto che potesse trattarsi del fratello. "Ero in stato di shock", ha commentato Konika Dhar. Inoltre, un uomo identificato come Sunday Dare, secondo Channel 4, avrebbe riconosciuto anche il bambino che appare per pochi secondi al termine del video dell'Isis. Secondo la fonte si tratterebbe del figlio di 5 anni di Grace Khadijà Dhare, una giovane donna britannica unitasi recentemente alla schiera di militanti fanatiche che si offrono come spose dei jihadisti dell'Isis in Siria. (Askanews) 25 T EVET 5776 MERCOLEDI G E N N A I O 06 L’intifada del “presidente moderato”. Esclusiva, ecco l’Abu Mazen connection Il Foglio svela una prova della responsabilità di Abu Mazen negli attacchi terroristici che hanno ucciso trenta persone in Israele. Così gli ufficiali della sua Guardia presidenziale gestiscono le piattaforme dell’odio GENNAIO 2016 • TEVET 5776 A 6 prile 2002, culmine della Seconda Intifada. L'esercito israeliano compie un'incursione a Ramallah e negli uffici di Fatah scopre documenti che dimostravano il passaggio di ordini da Yasser Arafat a Marwan Barghouti, percorrendo tutta la catena del terrore. Soldi, cinture di tritolo, armi, tutto annotato in lettere. Oltre a invitare al "martirio", Arafat forniva consapevolmente i soldi per la preparazione degli attentati alle Brigate di al Aqsa. Prove che sarebbero servite a far condannare Barghouti a cinque ergastoli (un anno fa un tribunale di New York ha anche condannato l'Autorità nazionale palestinese per il suo diretto coinvolgimento in sei attentati). Per spiegare la "Terza Intifada", che in questi due mesi e mezzo ha causato trenta morti e trecento feriti fra gli israeliani, non è possibile ricorrere a documenti simili. Con un dollaro a Ramallah ora puoi acquistare i coltelli da cucina usati per pugnalare gli israeliani, con la stessa cifra nelle strade trovi i cd con la "musica dell'Intifada" e, più che in lettere su carta, gli ordini oggi corrono sulla rete. "Is Palestinian-Israeli violence being driven by social media?", chiede la Bbc. La risposta è "sì" e le prove portano diritto alla "Muqata" di Ramallah, il palazzo di Abu Mazen, il presidente dell'Autorità nazionale palestinese. Quasi tutti gli attentatori in quest'ultima ondata di terrore hanno lasciato messaggi su Facebook. Il primo fu Muhannad Halabi, il terrorista palestinese che ha accoltellato a morte due persone a Gerusalemme, che aveva postato sul suo Facebook le motivazioni del duplice assassinio: "La Terza Intifada è iniziata. Ciò che sta accadendo alla Moschea di al Aqsa è ciò che sta accadendo ai nostri luoghi santi, è la via del nostro Profeta Maometto, è ciò che sta accadendo alle donne di al Aqsa e alle nostre madri e sorelle. Io non credo che il popolo soccomberà all'umiliazione. Il popolo si solleverà e sarà davvero Intifada". Finora, media e analisti hanno portato come "prove" del coinvolgimento di Abu Mazen figure come Ahmed Ruweidi, consigliere del presidente per gli affari di Gerusalemme, che ha detto: "Sono orgoglioso dei combattenti che adoperando il sangue, gli arresti, gli attacchi e le percosse sono riusciti a espellere gli ebrei con i loro corpi. A loro va tutto il mio rispetto e apprezzamento". E' l'incitamento all'odio del "moderato" Abu Mazen su cui il mondo punta, che chiama le piazze con i nomi dei terroristi e lascia che le sue tv e i suoi siti siano pieni di incitamento. Il Foglio in questa esclusiva è in grado di fare di più: dare un nome e un volto a uno dei principali burattinai di questa Terza Intifada. Uno dei principali canali di indottrinamento per gli assalti palestinesi con i coltelli e le auto è una pagina Facebook traducibile dall'arabo come "Vietato l'ingresso agli ubriachi". Il logo è un ragazzino palestinese con la kefiah, una lama in mano e la scritta: "Vigilate sulla Palestina con il coltello". La pagina, fino a oggi, ha raccolto un mi- lione e mezzo di like. Si trova sotto la sezione "arte e intrattenimento" ed è stata lanciata nel 2011 durante la cosiddetta "primavera araba". Un burattinaio di nome Husam Nabil Adwan Da quando è stata promossa la Terza Intifada, alla fine di settembre, la pagina ha registrato un'impennata giornaliera di visitatori. Un'analisi attenta di questa pagina rivela un antisemitismo esasperato e l'invito giornaliero a uccidere ebrei israeliani. Il 14 ottobre si chiede ai palestinesi di asfaltare gli israeliani in attesa dell'autobus, accompagnato da tanto di contachilometri: "Figli di Palestina, accoltellate e passate sopra con l'auto". L'11 dicembre: "Vi invito in Palestina a testimoniare la rivoluzione contro l'occupazione sionista". E ancora: "Figli di puttana (rivolto agli ebrei, ndr), che Allah vi maledica". Ovunque immagini degli attentatori: "La sua anima è in paradiso". Un soldato israeliano? "Figlio di cane". Il 12 dicembre ci sono fotografie di assalti palestinesi a civili e soldati: "A coloro che dubitano della Palestina e del suo stato, guardate che eroismo". Il 19 dicembre, con foto di israeliani portati via in ambulanza: "Allah il Grande ha ucciso un sionista". Due giorni fa è arrivato, puntuale, anche un elogio di Nashat Melhem, il terrorista che venerdì ha ucciso due ragazzi israeliani nel caffè di Tel Aviv: "Che Allah lo protegga". Gli ebrei sono chiamati ovunque "figli di scimmie e maiali". Il 31 dicembre hanno avuto un modo originale di fare gli auguri: "Tutti aspettano Capodanno. Noi aspettiamo la testa di Netanyahu nelle mani della resistenza palestinese". Chi c'è dietro questa piattaforma terroristica? Husam Nabil Adwan. E' un palestinese nato nel 1988 e cresciuto ad Al Ezaria, un sobborgo di Gerusalemme est. Perché è importante? Perché dal 2006 Adwan ha le mostrine con le spade ricurve della Guardia presidenziale di Abu Mazen, il corpo d'élite responsabile della sicurezza del presidente palestinese e dei suoi ospiti stranieri in visita a Ramallah. Nella sua pagina Facebook, si fa fotografare con alle spalle la moschea di al Aksa, il Corano in una mano e il kalashnikov nell'altra. Ci sono poi le foto con i volti più noti della politica e della sicurezza palestinese, fra cui la storica guardia del corpo di Arafat, Mohammed Daya, e l'ex primo ministro Abu Ala. Questa terza non è affatto una "Intifada spontanea" ma ha un software preciso, l'incitamento all'odio, e alti ufficiali e pretoriani dell'Autorità nazionale palestinese che gestiscono le maggiori piattaforme di questa "guerra silenziosa". Nei giorni scorsi il dottor Ofer Merin, capo dell'unità traumi dell'ospedale Shaare Zedek di Gerusalemme, ha tenuto una conferenza stampa sulle vittime della Terza Intifada: "Gli attentatori sanno sempre dove colpire, le ferite che vediamo non sono mai casuali". Colpiscono sempre per uccidere di Giulio Meotti * (Il Foglio, 5 gennaio 2016) 26 T EVET 5776 G I O V E D I G E N N A I O 07 L’occidente tra sofismi e sottomissione Un anno dopo Charlie, la Francia continua a pestare l’acqua nel mortaio. Non c’entra la religione, non c’entra l’antigiudaismo e al Bataclan erano solo compagni che sbagliano. GENNAIO 2016 • TEVET 5776 A 7 Barbès, Parigi nord, davanti a un commissariato i gendarmes hanno ammazzato un tizio con una cintura esplosiva finta e forse un coltello: minacciava sfracelli gridando Allahu akbar, Dio è grande. Forse era un pazzo sfrenato, forse è un episodio sinistramente obliquo come il tentativo di investimento in auto di una pattuglia di sicurezza davanti alla moschea di Valence, qualche giorno fa, con annessa sparatoria e ferimento grave di un isolato, di uno strano. Fosse una cosa seria, si rinnoverebbe la paura, e ancora non hanno celebrato l’anniversario (9 gennaio) della presa d’ostaggi nel mercato kosher, con fucilazione di ebrei da parte di Amedy Coulibaly, islamista radicalizzato in carcere, come si dice, accanto a Cherif Kouachi, uno dei due fratelli che avevano steso quelli di Charlie Hebdo e un poliziotto musulmano “apostata” e proclamato la vendetta in nome del Profeta. Prevalesse l’aspetto sinistro e meno decifrabile, pazzotico, ne seguiranno polemiche dure sull’eccesso sécuritaire, l’isteria al cospetto del pericolo islamista. Ecco, situazione perfettamente assurda e di notevole surreale violenza. E’ valsa la pena stare qualche giorno a Parigi in epoca di anniversari stragisti. Si capisce quasi tutto del clima di sottomissione in cui viviamo in occidente. Non è un problema francese, ovvio. Obama ha pianto, in questa congiuntura, con duecentocinquantamila morti siriani e un esodo biblico causati anche dalla sua straordinaria inazione, perché il popolo americano, stimolato da una lobby di cattivi produttori e venditori di armamenti sempre castigati anche da Francesco, non vuole farsi disarmare. Farà dei decreti inutili, vanitosi, retorici, mentre in un’Università della Virginia, la Liberty University evangelica, il senato accademico chiede a insegnanti e studenti di armarsi per difendersi. Non è un problema francese, chiaro. In Libia, alle nostre porte malamente custodite, l’orrore avanza a grandi passi: la perseguita autodeterminazione del valoroso popolo libico si confronta con una settantina e più di morti ammazzati da sparse tribù del jihad che si richiamano allo Stato califfale islamico. Poi ci sono i fatti di Colonia, imbarazzanti per lo meno, il nuovo Jihadi John si fa vivo con un accento superbamente british, e più ancora saremo destinati a subirne. Ma quel che spiega tutto è lo stato della discussione, l’odg molto foucaultiano e bourdieusiste, al quale è appeso il grande paese delle grandi idee sconvolto nel 2015 da fenomenali atti di guerra contro la libertà di espressione e la vita civile ordinaria, da gennaio a novembre. Guardate la tv, leggete i giornali, passate in libreria, osservate le mosse politico-parlamentari: un panorama di pazziate da non potercisi raccapezzare. Scontro politico sul nulla simbolico: Hollande solennemente si pronuncia per una misura proposta dalla destra, con chiari scopi di nichilistica unità nazionale sul diversivo. Vuole togliere la nazionalità francese ai cattivi condannati per terrorismo, ma sembra solo a quelli che di nazionalità ne hanno due, francese per dire e magari algerina o di qualche altro paese arabo-islamico, altrimenti si creerebbero degli apolidi, degli apatrides (e c’è chi scherza sull’inno glorioso: allons enfants des apadrides…). Non si capisce: ne nasce, e su una misura che sa di niente sul piano dell’efficacia, anche per ammissione di chi la propone, una disputa costituzionalistica sui valori universali del tutto insensata. Un anno dopo, la perdita di tempo. Ma la politica, si sa, è in balia delle procedure del consenso. Vediamo la cultura, che come dice Richard Millet è stata rimpiazzata dal culturale, il fratellino scemo. Dopo un anno si sarà capito che come dice il poeta è la semplicità che è difficile a farsi. E per questo è obbligatorio farla. Niente. Si parla di frustrazione sociale, di mancanza di spirito di inclusione, di radici economico-sociali del disastro violento e minaccioso che ha colpito il paese e l’occidente. Si parla della radicalizzazione e dei suoi percorsi, si indaga con documentari, anche ben fatti, inchieste, storytelling di vario conio, e larghissimi dibattiti di idee. Si inventa, come antidoto alla scorrettezza dello scontro di civiltà, la guerra civile: siccome alcuni autori dei massacri sono cittadini francesi, allora è una guerra fratricida interna. Di qui la pressione ridicola per sanzionare con l’indegnità nazionale gli shahid che alla République preferiscono il paradiso coranico del martirio. Viene invocata la “sociologia post-traumatica”, che Dio li perdoni. Quello religioso è un fatto sociale come un altro, alla stessa stregua, e la dialettica tra decristia- Roma: domani negozi quartiere ebraico di Portico Ottavia abbasseranno serrande Per ricordare strage al supermercato casher di Parigi di un anno fa D omani alle 12:00 per un minuto, gli esercenti di Portico d'Ottavia abbasseranno le serrande dei negozi casher ed ognuno esporrà un cartello "in memoria di quel drammatico venerdì all'HyperCacher di Porte de Vincennes". Lo fa sapere, in una nota, l'ufficio stampa della Comunità Ebraica di Roma. "Un anno è trascorso dalla strage al supermercato casher di Parigi - ricordano - dove persero la vita Yohan Cohen, Philippe Braham, Francois-Michel Saada, YoavHattab, assassinati dall'odio e dalla ferocia del terrorismo di matrice islamista. Il 9 gennaio 2015 ebrei innocenti furono strappati all'amore delle loro famiglie e alla comunità intera. In ricordo delle vittime dei tragici fatti di Parigi e di tutti i caduti per mano terrorista, domani gli studenti delle scuole ebraiche cuoceranno e distribuiranno nelle case le challoth, pane dello Shabbat, intreccio di vita, unione e prosperità. Unica via 'nutrire' la speranza, celebrare l'esistenza oltre la morte, vincendola rabbia ed il dolore aprendosi al futuro con forza e determinazione". Alla chiusura saranno presenti il Rabbino Capo Riccardo Di Segni ed il Presidente della Comunità Ebraica di Roma Ruth Dureghello. nizzazione dell’occidente e risveglio islamico è derubricata a fobia degli islamofobi. Si apre il quadernetto della lotta di classe aggiornata alla bisogna dell’attualità: il combattente venuto dalle banlieues è un soggetto di critica della globalizzazione capitalistica. Oooops! L’esperto Gilles Kepel, che come tutti gli esperti cerca il cuore delle cose e ne ignora la superficie dell’evidenza, tira in ballo la colpa postcoloniale, il risentimento della seconda o terza generazione dei beurs. Il fuoco degli intellos è tutto concentrato contro il concetto di eredità tradita e di identità offuscata, caro a un gruppo di filosofi e saggisti che è stato bollato come alleato della Le Pen per aver detto che la Repubblica deve riconquistare il suo stesso territorio alla sua cultura, che non è culturale, e allo stato di diritto. Tutti sono mobilitati per diffondere la vulgata del Collège de France: la storia è piena di sorprese e deve essere liberata dal peso dell’eredità, concetto statico, tradizionalista, uno dei tanti muri dell’esclusione che gronda sangue. Insomma. Due combattenti islamici hanno ammazzato i vignettisti libertini che avevano messo in burla la religione, prendendosi il rischio della reazione violenta giustificata perfino dal Papa, a Parigi come in altre grandi città europee. Su YouTube li si vede dire che il loro Dio è al di sopra di tutto e che il suo Profeta è stato vendicato. Si direbbe letteralmente una pistola fumante. Poi a novembre hanno massacrato ragazzi e ragazze che bevevano al bar, vedevano la partita, ascoltavano un concerto in cui li si invitava dal palco rock a baciare il diavolo (“Kiss the Devil”). Altri proclami e pistole fumanti. Ma non basta ancora. Non basta l’ovvia considerazione che queste cose succedono per ogni dove, dopo l’11 settembre hanno colpito la movida di Madrid alla stazione di Atocha, il tube a Londra. Che la radicalizzazione non è nelle periferie, è nel centro del mondo musulmano, dipende da scelte, culture, linguaggi, programmi, strategie che sono riconoscibili e non vengono dalla frustrazione ma dall’orgoglio fanatico che si nutre del succo della Rivelazione islamica per come è sempre e dovunque storicamente stata intesa. Non basta. Un anno dopo, questo grande paese di orientalisti e di esperti continua a piétiner sur place, a pestare l’acqua nel mortaio. Non c’entra la religione, non c’entra l’antigiudaismo. Per fortuna una bella corrispondenza ieri di Mauro Zanon, a colloquio con Jean Birnbaum, redattore libero del Monde, ha segnalato che qualche eccezione al pensiero dominante si fa strada anche nella gauche intellettuale. Ma è un’eccezione, appunto. La parola islam non va pronunciata, significa un improprio amalgama, e anche l’idea che la patria sia in guerra è un regalo al califfo, i disperati del Bataclan erano solo compagni che sbagliano. GIULIANO FERRARA (Il Foglio, 8 gennaio 2016) 27 T EVET 5776 VENERDI G E N N A I O 08 Parashà Vaerà L’importanza di scegliere una moglie di buona famiglia GENNAIO 2016 • TEVET 5776 D 8 oopo aver iniziato la descrizione della missione di Moshè e di Aharon presso il Faraone per fare uscire i figli d’Israele dall’Egitto, il racconto della Torà viene interrotto da una serie di dati genealogici sulle prime tribù d’Israele. R. Shimshòn Refaèl Hirsch [Amburgo, 1808-1888, Francoforte] spiega che a questo punto nel racconto della Torà inizia la missione trionfale di Moshè e di Aharòn con un successo mai prima ottenuto e che non sarà mai più ottenuto da nessun altro mortale. Per questo era importante presentare il loro albero genealogico per attestare che la loro origine era normale e quindi erano normali esseri umani. Questo per evitare che essi, come grandi benefattori del popolo, dopo la loro morte venissero deificati, come avvenne in altri casi tra le nazioni del mondo. Nel mezzo di questo elenco viene raccontato che “Aharòn prese in moglie Elishèva’ (da cui deriva il nome Elisabetta) figlia di ‘Aminadàv e sorella di Nachshòn e lei partorì Nadàv, Avihù, El’azàr e Itamàr” (Shemòt, 6:23). Chi erano ‘Aminadàv e suo figlio Nachshòn i cui nomi appaiono nella Torà? ‘Aminadav era pronipote di Peretz, figlio di Yehudà (Bereshìt, 38:29). Nel libro di Rut è infatti scritto: “Pèretz ebbe come figlio Chetzròn; Chetzròn ebbe Ram, Ram ebbe ‘Aminadàv; ‘Aminadàv ebbe Nachshòn; Nachshòn ebbe Salmà; Salmòn ebbe Bo’az; Bo’az ebbe ‘Ovèd, ‘Ovèd ebbe Ishày e Ishày ebbe David” (Rut, 4:18-22). Nel libro delle Cronache dei Re di Yehudà vi è un dettaglio addizionale: “Ram ebbe come figlio ‘Aminadàv e ‘Aminadàv ebbe Nachshòn, capo della tribú di Yehudà” (I, Divrè Ha-Yamìm, 2:10). Aharòn aveva quindi preso in moglie la sorella del capo della tribú di Yehudà. Il Nachmanide [Gerona,1194-1270, Acco ] nel suo commento alla Torà spiega che viene menzionata la moglie di Aharon per insegnarci che la madre dei Kohanìm era di una famiglia distinta e di stirpe reale, ed era la sorella del più grande capo tribù. Egli aggiunge che è uso delle Scritture menzionare le madri dei Re, come per esempio, “E il nome di sua madre era Ma’akhà figlia di Avishalòm” (I Melakhìm, 15:2 e 10). Ma’akhà fu madre di due fratelli, Aviàm e Assà, che furono uno dopo l’altro Re del regno di Yehudà. Rashì [Francia, 1040-1105] nel commento alla Torà scrive: “Da qui [i Maestri] impararono che chi prende moglie deve verificare il fratello di lei” (Shemòt, 6:23). Rashì nel suo commento ha citato in modo parziale un insegnamento dei Maestri nel trattato talmudico Bavà Batrà (110a) dove è scritto: “Rava disse: chi prende moglie deve verificare suo fratello, come è detto: “E Aharòn prese in moglie Elishèva’ figlia di ‘Aminadàv, sorella di Nachshòn. Dal fatto che ella era figlia di ‘Aminadàv, non possiamo forse già sapere che era sorella di Nachshòn? Cosa ci vuole quindi insegnare l’espressione “Sorella di Nachshòn”? Che chi prende moglie deve verificarne il fratello”. E per quale motivo è cosi importante verificare il carattere del fratello della prospettiva moglie? Questo viene spiegato nel trattato Sofrìm (15:10) dove è scritto: “La maggior parte dei figli assomiglia ai fratelli della moglie”. R. Barùkh Halevi Epstein [Belarus, 18601941] in Torà Temimà (p. 54) commenta che questo insegnamento non ha nulla a che fare con il fatto che la famiglia sia appropriata o meno (specialmente per dei Kohanìm) la cui verifica è obbligatoria e non è un di più. In questo versetto viene sottolineata l’importanza di scegliere una moglie di buona famiglia come detto nel trattato Pesachìm (49b) del Talmud Babilonese. L’insegnamento in quel trattato è citato come normativo nello Shulchàn ‘Arùkh (Even Ha-’Ezer, 2:6) dove è scritto: “Bisogna sempre cercare di sposare la figlia di un talmìd chakhàm (saggio di Torà) e di fare sposare la figlia a un talmìd chakhàm. Se non ha trovato la figlia di un talmìd chakhàm, sposi la figlia di persone giuste e che fanno del bene; se non ha trovato tra questi, sposi la figlia di dirigenti comunitari; se non ha trovato tra questi, sposi la figlia di chi fa raccolte per beneficenza; se non ha trovato tra questi, sposi la figlia di un insegnante di Torà ai bambini e non sposi la figlia di un ignorante”. Alla fine della parashà di Toledòt al versetto “E Yitzchàk congedò Ya’akòv ed egli si recò a Padàn Aràm da Lavàn [...] fratello di Rivkà, madre di Ya’akòv e di Esau (Bereshìt, 28:5), Rashì commentando le parole “Madre di Ya’akòv e di Esau” scrive: “Non so cosa ci insegna”. R. David Pardo [Venezia, 1710-1792, Gerusalemme] nel suo commento a Rashì, scrive che Rashì vuole insegnare che Yitzchàk aveva detto a Ya’akov che non sapeva quale fosse il carattere di Lavan. Perché se è vero che la maggior parte dei figli assomigliano al fratello della madre, Rivkà aveva solo due figli, Ya’akov, che era virtuoso, ed Esau che non lo era. Non c’era quindi una maggioranza di figli per poter trarre qualche conclusione sul carattere di Lavan! DONATO GROSSER