colture in vitro - Università degli Studi Mediterranea

Tecniche di Colture Cellulari - Università degli Studi della Basilicata – A.A. 2000-2001
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DELLA
BASILICATA
FACOLTA’ DI AGRARIA
Corso di Laurea in Scienze e Tecnologie Agrarie
Tecniche di Colture Cellulari
(Nozioni Elementari)
Dispensa delle Lezioni
(Docente : Francesco Sunseri)
Anno Accademico 2000-2001
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- Introduzione
- Colture in vitro
- Caratteristiche e tecniche di coltura in vitro
sterilizzazione
mezzo di coltura
ormoni
pH
fattori fisici
contaminazioni latenti
vitrificazione(come aspetto della micro)
altre sostanze
vitalità cellulare
- Induzione di variabilità
variabilità preesistente
variabilità indotta dalla coltura in vitro
-Fecondazione in vitro e coltura di embrioni immaturi
coltura di embrioni immaturi
- Ottenimento di piante aploidi da microspore
- La micropropagazione
fasi della micropropagazione
- Vantaggi e svantaggi della micropropagazione
- Situazione della moltiplicazione in vitro in Italia
- Conservazione del germoplasma
- Colture cellulari
- manipolazione di protoplasti
fusione chimica
elettrofusione
-Risanamento di piante da virus
- La trasformazione genetica
-2-
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TECNICHE DI COLTURE IN VITRO
Definizione di coltura in vitro
Lo sviluppo della biologia molecolare degli ultimi vent'anni è stato possibile
grazie
alle
conoscenze
acquisite
sugli
organismi
ad
organizzazione
relativamente semplice (batteri, lieviti, alghe unicellulari e virus). È stato
successivamente
necessario
verificare
negli
organismi
superiori
sia
l'universalità delle conoscenze ottenute dallo studio degli organismi più
semplici, sia l'esistenza di nuovi meccanismi biologici, in relazione anche alla
maggior complessità strutturale ed organizzativa delle strutture pluricellulari. A
tale riguardo si è rivelata di grande importanza la coltivate in vitro di tessuti e
cellule.
La coltura di cellule e tessuti di piante trova il suo fondamento nella teoria
della totipotenza cellulare. In tutte le piante vascolari l'embrione si evolve in
una struttura allungata bipolare per via della presenza di due meristemi apicali,
caulinare e radicale. Durante il ciclo vitale della pianta, tali meristemi
producono continuamente nuovi organi (fusti, foglie, radici) che si aggiungono
a quelli prodotti durante l'embriogenesi. Per via di questo accrescimento
illimitato, le piante vascolari sono state definite organismi a embriogenesi
ricorrente o a ontogenesi ricorrente. A causa di tale ontogenesi ricorrente,
nelle piante non si assiste, come , invece, accade negli animali, alla separazione
fra linea somatica e linea germinale, solo ad un dato momento dello sviluppo,
gli apici vegetativi si trasformano in apici riproduttivi, cioè producenti
strutture atte alla riproduzione. Per entrambe queste regioni nelle piante
vascolari qualsiasi cellula somatica può considerarsi un progenitore potenziale
di un nuovo individuo.
Una delle prime applicazioni fu quella di Hanning (1904) il quale isolando
embrioni immaturi in vitro ottenne piantine vitali di alcune specie della
famiglia delle crucifere.
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Successivamente, il successo che le colture in vitro sono riuscite ad ottenere,
nei diversi settori di studio, è stato merito delle nuove acquisizioni scientifiche,
soprattutto in campo fisiologico (scoperta delle funzioni ormonali).
Con il termine colture in vitro si intendono diverse metodologie, sviluppate
negli ultimi trenta anni, che consentono, in molte specie vegetali, la crescita in
vitro di cellule, tessuti ed organi su terreni di coltura sintetici.
Si può indurre la crescita e la moltiplicazione di cellule isolate da organi o
tessuti della pianta, infatti, le cellule, anche se prelevate da tessuti già
differenziati, si sdifferenziano e sviluppano ammassi amorfi, callosi (calli) che
possono essere mantenuti indefinitamente in vitro o possono essere indotti a
rigenerare organi o piante intere, completamente differenziate.
Attualmente cellule prelevate da numerose specie di piante sono facilmente
coltivabili in vitro. In altre parole tutti i vegetali multicellulari possono essere
considerati sorgenti potenziali di cellule per le colture in vitro. Alcune specie
sembrano fare eccezione a tale regola, tuttavia ciò potrebbe essere dovuto ad
una erronea scelta delle condizioni colturali piuttosto che a caratteri genetici
del materiale vegetale. Infatti,
pur molto simili per i diversi tipi di cellule e
tessuti, le condizioni colturali possono mostrare differenze significative per
quanto riguarda la presenza e/o i rapporti di sostanze specifiche (ormoni,
vitamine,
aminoacidi,
ecc.)
e
specifiche
condizioni
ambientali
(luce,
temperatura).
Le colture in vitro hanno consentito di ampliare e diversificare il concetto
tradizionale di coltura ed offrono attualmente notevoli vantaggi. L'applicazione
di tali tecniche, tuttavia, richiede profonde conoscenze in vari settori scientifici
(fisiologia, genetica, biologia, ecc).
Le
tecniche
di
coltura
in
vitro
sono
biotecnologie vegetali, con diverse finalità:
-
induzione di variabilità somaclonale;
-
embriocoltura;
applicabili
in
vari
settori
delle
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-
ottenimento di piante aploidi da microspore;
-
colture cellulari;
-
manipolazioni di protoplasti (coltura, fusione ed introduzione di nuovo
materiale genetico);
-
risanamento di piante da patogeni;
-
propagazione clonale rapida (micropropagazione);
-
conservazione del germoplasma;
-
produzione di metaboliti di interesse farmaceutico, industriale ed agrario.
CARATTERISTICHE DELLE COLTURE IN VITRO
Sterilizzazione
Una delle caratteristiche peculiari delle colture in vitro è quella di operare in
condizioni di assoluta sterilità. Infatti, per consentire la sopravvivenza e la
crescita degli espianti, è necessario evitare lo sviluppo di microrganismi, i quali
trovano condizioni di crescita ottimali nei substrati nutritivi delle cellule
vegetali. I tessuti interni della pianta sono generalmente sterili, mentre la
superficie è ricoperta da vari tipi di microrganismi. La rimozione di questi
ultimi
è
pertanto
indispensabile
se
si
vuole
evitare
la
contaminazione
dell'espianto al momento dell'inizio della coltura in vitro.
In generale, le possibili fonti di inquinamento sono: l'espianto, l'ambiente, il
mezzo nutritivo, gli strumenti utilizzati nelle varie operazioni e l'operatore.
Gli espianti rappresentano porzioni derivanti da plantule ottenute in vitro o da
piante prelevate in campo, in quest'ultimo caso è molto importante la
sterilizzazione delle porzioni prelevate.
La sterilizzazione degli espianti avviene, generalmente, con le seguenti
sostanze chimiche:
•
alcool etilico al 70% che non garantisce l'eliminazione di microrganismi
ed è in genere seguita dall'uso di ipoclorito di sodio; non vengono
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utilizzate concentrazioni superiori di alcool etilico in quanto degrada lo
strato superficiale dei tessuti;
•
ipoclorito di sodio (NaClO) facilmente reperibile in commercio (Ace), in
concentrazione variabile (5-15%); il prodotto commerciale in genere
viene utilizzato ad una concentrazione del 50-70% per 15 minuti,
concentrazioni superiori possono essere usate nel caso di materiale
vegetale meno sensibile;
•
ipoclorito di calcio [Ca(ClO) 2 ] in concentrazione variabile 35-100 g/l per
15-30 minuti, tale sostanza è indicata per materiale vegetale molto
delicato e viene preferito all'ipoclorito di sodio in quanto penetra più
lentamente nel tessuto vegetale;
•
cloruro di mercurio (HgCl 2 ), in soluzione allo 0,01-0,05% per 10-20
minuti. Questa sostanza è molto tossica e va usata con particolare
attenzione
in
quanto
può
provocare
danni
anche
all'operatore,
il
risciacquo deve essere molto accurato al fine di eliminare ogni possibile
residuo dai tessuti.
Ogni operazione, divisione e taglio degli espianti deve essere effettuata in
condizioni di asepsi. Solitamente si opera su superficie sterile (carta da filtro,
foglio di alluminio, capsula petri, ecc.) e sotto cappa a flusso laminare, dove i
raggi UV preventivamente sterilizzano l'ambiente e dove il flusso laminare
garantisce l'espulsione di qualsiasi corpuscolo estraneo, consentendo, così, il
mantenimento di condizioni di assoluta sterilità.
La sterilizzazione dei mezzi nutritivi avviene, in genere, con autoclave alla
pressione di 1 atmosfera ad una temperatura di 121°C per 15-20 minuti. Questo
procedimento può comportare dei problemi connessi ai cambiamenti che
avvengono nei mezzi di coltura durante la permanenza in autoclave, soprattutto
in quanto ci si trova in presenza di un notevole numero di componenti che
possono interagire tra di loro. In certi casi i singoli componenti del mezzo
possono venire autoclavati ciascuno per proprio conto e quindi riuniti insieme.
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Quando uno dei componenti del mezzo è termolabile si aggiunge al mezzo
autoclavato, dopo averlo sterilizzato per ultrafiltrazione.
Sia gli strumenti che la vetreria utilizzata possono essere sterilizzati in
autoclave a 121°C per 20 minuti, ad elevate temperature, con raggi UV e gamma
o con le stesse sostanze chimiche utilizzate per sterilizzare gli espianti. Sotto
cappa a flusso laminare è necessario avere sempre a disposizione uno
sterilizzatore elettrico o un becco bunsen, per consentire la sterilizzazione degli
strumenti dopo ogni uso. Anche l'operatore può essere fonte di inquinamenti,
pertanto, può essere utile l'uso di mascherina e guanti sterili.
Vari organi e tessuti della pianta possone essere utilizzati per avviare la coltura
in vitro, i risultati migliori si ottengono usando cellule giovani in attiva
proliferazione.
MEZZO DI COLTURA
Il mezzo di coltura è un parametro fondamentale per la messa a punto della
tecnica di colture in vitro. Il substrato infatti costituisce il mezzo da cui
l'espianto trarrà tutto ciò che è necessario per il suo accrescimento. È
indispensabile, dunque, che tutti gli elementi siano nella forma più prontamente
assimilabile da parte dei tessuti.
Il substrato contiene normalmente una componente minerale, formata da macro
e microelementi, e da una componente organica costituita da vitamine,
aminoacidi o altri componenti azotati e dai carboidrati.
A circa trenta anni dall’avvio di tali tecniche si conoscono differenti substrati
(Gautheret, White, Murashige e Skoog, Heller, Morel, ecc.) i quali possono
risultare specifici per obiettivi diverisificati (rigenerazione, trasformazione,
micropropagazione, ecc). Generalmente si diversificano per la concentrazione di
macro e microelementi o per l'aggiunta di sostanze particolari (vitamine, ecc.).
Vi sono alcuni substrati che prevedono un'alta concentrazione di sostanze
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azotate e, fra queste, possono prevalere le forme ammoniacali rispetto alle
nitriche, in relazione al tipo di espianto che verrà allevato.
Macroelementi
Gli elementi minerali necessari per la crescita delle piante sono: azoto (N),
fosforo (P), potassio (K), calcio (Ca), magnesio (Mg), e zolfo (S), essi vengono
aggiunti nel mezzo come sali.
Il terreno di coltura originale, può essere modificato nella sua composizione per
cercare di ottenere ad es. nella micropropagazione il miglior coefficiente di
moltiplicazione della specie propagata.
Nella
scelta
della
formulazione
del
substrato
di
crescita
è
necessario
considerare:
- il tipo di ioni presenti;
- l'equilibrio fra macroelementi;
- la concentrazione ionica totale del terreno.
La crescita in vitro è notevolmente influenzata dalla disponibilità di azoto e
dalla forma in cui questo è presente.
_
Lo ione nitrato (NO 3 ) è considerato la forma principale di azoto per le colture,
ma per la morfogenesi è necessaria anche la presenza dello ione ammonio
(NH 4 + ). Per avere uno sviluppo omogeneo dei germogli ed evitare fenomeni di
vitrescenza il rapporto fra i due ioni deve essere bilanciato.
Dopo i sali di azoto quelli più rappresentati sono i sali di potassio e di fosforo.
L'influenza positiva del fosforo sul tasso di moltiplicazione è più evidente nel
melo che nel susino e cio dimostra che le singole specie hanno un diverso
fabbisogno di macroelementi. Anche il magnesio influenza positivamente la
proliferazione.
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Microelementi
Sono elementi nutritivi necessari in piccole quantità e la loro carenza causa
sintomatologie specifiche, in quanto intervengono nel metabolismo ed entrano a
far parte anche degli enzimi:
CATIONI - ferro (Fe), rame (Cu), zinco (Zn), cobalto (Co), nichel (Ni),
alluminio (Al), sodio (Na);
ANIONI - boro (B), molibdeno (Mo), iodio (I), cloro (Cl);
Un apporto non quantificabile di microelementi può provenire da altri composti
presenti nel substrato.
Il ferro viene aggiunto come chelato (Fe-EDTA) per far si che resti in soluzione
anche nelle condizioni in cui lo ione libero non sarebbe solubile (Tab.5).
Vitamine
I germogli coltivati "in vitro", a differenza di quelli "in vivo", non sono
completamente autotrofi per questi composti.
Le vitamine che generalmente vengono aggiunte al substrato sono:
- Tiamina (B1);
- Acido nicotinico (PP);
- Piridossina (B6);
- Inositolo (Meso);
- Acido pantotenico;
- Biotina (H);
- Acido folico (M);
- Riboflavina (B2);
- Cianocobalamina;
- Colina;
- Tocoferolo (E).
Come i macro ed i microelementi anche le vitamine vengono aggiunte al
substrato in particolari formulazioni.
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Vengono aggiunte in concentrazioni variabili fra 0,1-50 mg/l; soltanto l'acido
ascorbico viene utilizzato fino a 100 mg/l per il suo potere antiossidante.
Fra le vitamine, la tiamina è un prodotto critico per l’andamento delle colture
ed è aggiunta alla concentrazione di 0,1-0,4 mg/l, mentre l'inositolo non è
indispensabile, tuttavia, è bene aggiungerlo alla concentrazione di 100 mg/l.
Carboidrati
Secondo alcuni Autori i tessuti verdi dei germogli coltivati in vitro hanno una
attività fotosintetica minima per la bassa concentrazione di anidride carbonica
(CO 2 ) all'interno dei contenitori.
Il bilancio della CO 2 nell'atmosfera dei vasi è il risultato della fotosintesi e
della respirazione e la prima è direttamente correlata all'intensità luminosa. La
quantità di CO 2 presente all'interno del contenitore raggiunge livelli superiori
al buio perchè alla luce essa viene in parte utilizzata per la fotosintesi. Durante
la fase di fotoperiodismo che prevede l’assenza di luce la CO 2 può raggiungere
una concentrazione variabile fra 3000 e 9000 ppm in alcune specie ornamentali,
per ridursi dopo solo 2 ore di luce a 90 ppm.
In alcuni casi si è evidenziato che alla diminuzione della concentrazione di
saccarosio aumenta la capacità fotosintetica. Infatti la pianta, al diminuire della
disponibilità di una delle due fonti di carbonio (CO 2 o saccarosio), utilizza
maggiormente la forma alternativa o complementare per soddisfare il proprio
fabbisogno (44). La forma esogena di carbonio sotto forma di saccarosio non è
quindi indispensabile per la crescita in vitro della pianta ove mantenuta in
ambienti
con
quest’ultimo
elevate
aspetto
intensità
sono
stati
luminosa
effettuati
e
concentrazione
esperimenti
che
di
CO 2 .
prevedono
Per
la
somministrazione di CO 2 nei vasi di coltura e tali applicazioni appaiono
frequentemente promettenti. Anche l'aumento dell'intensità luminosa potrebbe
incrementare la capacità fotosintetica dei germogli, ma spesso tale applicazione
comporta un aumento della temperatura non sopportabile da alcune specie o
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cultivars. E’ pertanto necessario aggiungere al substrato una fonte di carbonio,
anche se è auspicabile la creazione di sistemi di illuminazione che stimolino
l'autotrofismo dei germogli.
Tra gli zuccheri quello più utilizzato per la preparazione del substrato è il
saccarosio, che viene utilizzato in concentrazioni comprese fra 1-5%. Altri
zuccheri possono essere utilizzati quali: glucosio, fruttosio e maltosio, ma sono
tuttavia meno diffusi e di uso particolare. Il saccarosio viene idrolizzato dalle
invertasi
presenti
sulle
pareti
cellulari
dei
vegetali,
o
dagli
enzimi
extracellulari, in glucosio e fruttosio che sono poi metabolizzati dagli espianti.
Gli zuccheri possono subire delle alterazioni durante la sterilizzazione del
substrato in autoclave, sopratutto se non è stato effettuato un attento controllo
del pH.
A questa soluzione, costituita da costituenti inorganici ed organici, viene
normalmente aggiunta una fonte ormonale, generalmente rappresentata da
auxine, chinetine, più raramente gibberelline.
ORMONI
Gli ormoni svolgono un ruolo di estrema importanza come regolatori della
crescita e della differenziazione negli organismi vegetali, così come in quelli
animali. Sono sostanze chimiche a struttura relativamente semplice che,
prodotte in certe zone delle piante, in risposta ad opportuni stimoli, sia interni
che esterni, vengono traslocate in zone più o meno lontane, ove condizionano le
attività metaboliche delle cellule e quindi lo sviluppo di tutto l'organismo.
Si definiscono ormoni quelli elaborati dagli stessi vegetali, mentre sono detti
fitoregolatori quelli non prodotti dalle piante, ma capaci di esercitare su di esse
effetti analoghi agli endogeni e di interferire sull'azione o sulla trasformazione
di questi ultimi. Normalmente i tessuti o i piccoli organi posti in vitro non sono
in grado di sintetizzare una quantità sufficiente di ormoni, quindi è necessario
addizionarli al substrato.
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La crescita e la morfogenesi sono regolate dall'interazione e dall'equilibrio fra
fitoregolatori aggiunti al terreno ed ormoni prodotti naturalmente dai tessuti. Le
conoscenze scientifiche sui fitormoni sono ancora frammentarie, a fronte di una
conoscenza sufficientemente approfondita della loro struttura chimica e dei loro
effetti pratici, si conosce molto poco sul sito e sulla regolazione della sintesi
dei diversi ormoni nella pianta, sul meccanismo con cui essi vengono traslocati,
sull'identità di eventuali accettori chimici cellulari a cui gli ormoni sono
destinati e sugli aspetti molecolari del meccanismo con cui essi influenzano le
attività cellulari.
Gli ormoni vegetali oggi conosciuti sono classificabili, in base alla loro
funzione, in tre gruppi principali: auxine, gibberelline e citochinine. Gli ormoni
di ciascuno di questi gruppi provocano un largo spettro di risposte biologiche
da parte della pianta e spesso questi si sovrappongono. Altri ormoni vegetali
oggi conosciuti sono l'acido abscissico e l'etilene.
Auxine
L'auxina naturale è l'IAA (acido 3-indolacetico). Per i terreni di coltura
vengono comunemente utilizzati composti di sintesi con funzione auxino-simile,
quali:
-IBA (acido 3-indolbutirrico);
-NAA (acido naftalen-acetico);
- 2,4 D (acido 2,4 diclorofenossiacetico), il cui impiego è limitato poichè può
espletare anche un effetto mutageno.
La scelta del tipo di auxina e della sua concentrazione dipendono:
- dal tipo di crescita che si vuole ottenere;
- dal livello di auxine naturali presenti nell'espianto al momento del prelievo;
- dalla capacità dei tessuti di sintetizzare auxina naturale;
- dalla interazione fra auxine naturali e di sintesi.
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Le auxine naturali (aggiunte in concentrazione variabile tra 0,01-10 mg/l), o
quelle di sintesi (aggiunte in concentrazione compresa fra 0,001-10 mg/l; 33)
determinano:
- l'allungamento e la distensione cellulare dei tessuti;
- la divisione cellulare;
- la formazione di radici avventizie.
Favoriscono l'embriogenesi, ma limitano la formazione di germogli ascellari e
avventizi nella fase di proliferazione. Studi sul pesco hanno evidenziato che il
contenuto di auxine è controllato dalle auxino-ossidasi (enzimi appartenenti alle
perossidasi), perciò l'emissione delle radici, ad esempio, è massima quando la
concentrazione di perossidasi è minima, oppure quando vengono aggiunte
sostanze che hanno una azione sinergica con le auxine, come la quercetina. Nel
processo di rizogenesi, oltre alla concentrazione delle auxine, è importante il
momento in cui questi composti vengono aggiunti al mezzo sintetico.
L'auxina
più
comunemente
utilizzata
per
la
radicazione
è
l'acido
3-
indolbutirrico, anche se in alcune specie, come l'olivo, la percentuale di
germogli radicati è massima quando si utilizza acido naftalenacetico e si riduce
sostituendo
tale
composto
con
l’acido
3-indolbutirrico
o
con
l’acido
indolacetico. Nel "GF 677" la rizogenesi è rapida ed elevata e gli apparati
radicali
sono
omogenei
se
nel
substrato
è
presente
1
mg/l
di
acido
naftalenacetico.
Le radici formatesi in presenza di acido naftalenacetico sono in genere più corte
e con uno spessore maggiore rispetto a quelle formate in presenza di acido 3indolbutirrico, perciò incontrano maggiori difficoltà nella successiva fase di
ambientamento. Inoltre per avere la stessa percentuale di radicazione è
necessaria una maggiore concentrazione di acido naftalenacetico rispetto agli
altri composti auxinici. La proliferazione delle radici è invece influenzata oltre
che dalla presenza di auxine, citochine e gibberelline dal rapporto tra le diverse
classi di fitoregolatori.
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Per ottenere tutti i vantaggi della micropropagazione è quindi molto importante
scegliere, per le singole specie, la concentrazione ed il tipo di auxina più
appropriata per le diverse fasi. È bene sopratutto non aggiungere al substrato
dosi troppo elevate di auxine perchè non si promuovono la proliferazione o la
radicazione, ma la formazione di callo, il quale, oltre ad assorbire sostanze
nutritive senza peraltro favorire la moltiplicazione, è facilmente soggetto, a
mutazioni geniche di germogli che da esso derivano possono portare caratteri
fuori tipo.
Citochinine
Le citochinine naturali sono:
- Kinetina (6-furfurilamminopurina );
- Zeatina (idrossi-3-metil-trans-2-butenilamminopurina);
- 2iP (N-(2-isopentenil)adenina).
Fra le citochinine di sintesi, molto utilizzata è la BAP (6-benzilamminopurina).
Hanno attività simile alle citochinine alcuni composti dell'urea. Di
recente introduzione nelle colture "in vitro" è una fenilurea, il thidiazuron
(TDZ).
Le citochinine vengono impiegate in concentrazioni compresa fra: 1-10 mg/l,
per:
- stimolare la divisione cellulare;
- favorire la produzione di germogli avventizi dai tessuti o dal callo e la
crescita di embrioni somatici;
- indurre lo sviluppo di germogli ascellari, perchè inibiscono la dominanza
apicale.
Le citochinine inibiscono anche la formazione e lo sviluppo delle radici. In
segmenti
di
ipocotile
di
castagno
la
benzilamminopurina
determina
la
formazione di gemme avventizie, dalle quali, successivamente, si sviluppano
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germogli di 3-6 mm. Per il primo stadio è necessaria una quantità superiore di
benzilamminopurina (0,2 mg/1) rispetto al secondo (0,1mg/l).
Nell'olivo la citochinina che più stimola la proliferazione è, invece, la zeatina
ed a seguire la 2-isopenteniladeina. Identici risultati sono stati ottenuti in
mirtillo, ma per l'elevato costo della citochinina naturale per lo più viene
aggiunta al substrato di moltiplicazione la 2-isopenteniladenina.
Gibberelline
La gibberellina più frequentemente impiegata è la GA 3 (acido gibberellico), che
favorisce:
- l'allungamento degli internodi;
- lo sviluppo dei meristemi e delle gemme;
mentre inibisce la formazione di radici avventizie, pertanto è impiegata
sopratutto nella fase di allungamento.
Le gibberelline rompono la dormienza dei semi o degli embrioni isolati da
questi. Per quanto riguarda la radicazione, nel melo, ed in molte altre specie,
esiste una relazione inversa fra la concentrazione di acido gibberellico e la
formazione di radici:quest'ultima aumenta al diminuire del contenuto di GA 3 .
La presenza di GA 3 nel substrato di proliferazione non è sempre ritenuta
necessaria: alcuni Autori ritengono che sia in grado di stimolare l'allungamento
delle gemme ascellari e la moltiplicazione dei germogli, altri Autori hanno
invece osservato che tale composto non influisce sulla attività proliferativa.
Tuttavia tali germogli radicano più difficilmente per un probabile effetto
residuale dell'acido gibberellico.
Gli ormoni influiscono significativamente sull'accrescimento dei vari organi. In
considerazione
degli
effetti,
spesso
contrastanti,
delle
varie
classi
dei
fitoregolatori, la loro utilizzazione viene adattata di volta in volta ai diversi
stadi di coltura. Inoltre il grado ed il tipo di differenziamento indotto sugli
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espianti dipendono dalla concentrazione e dai rapporti ormonali nel substrato,
particolarmente dal rapporto tra auxine e citochinine.
In questi ultimi anni sono stati individuati altri regolatori della crescita.
Attualmente non sono ancora frequentemente utilizzati nella formulazione dei
substrati di coltura, ma sono, comunque, molto interessanti per via del loro
potenziale utilizzo futuro:
-acido clorogenico;
-flavonoidi;
-vari inibitori dell'etilene;
-vari inibitori della biosintesi delle gibberelline.
pH
I valori del pH del substrato devono essere tali da consentire la crescita dei
tessuti vegetali.
Il pH influenza:
- la solubilità dei sali:se è troppo basso i fosfati ed altri sali con alto peso
molecolare possono precipitare;
- l'assorbimento degli elementi nutritivi e degli ormoni: con bassi valori di pH
le vitamine del gruppo B e l'acido pantotenico, le auxine e l'acido gibberellico
diventano instabili ed, inoltre, viene ritardato l'assorbimento degli ioni
ammonio;
- la solidificazione dell'agar.
Per questi motivi il range di variazione del pH è abbastanza ristretto ed il
valore ottimale per molte specie è compreso fra 5,2-5,8. In questo intervallo i
sali si mantengono nella forma solubile, anche in presenza di elevate
concentrazioni di fosfati, inoltre questi valori sono sufficientemente bassi per
permettere una crescita rapida dei germogli. Durante la sterilizzazione del
substrato il valore del pH subisce un abbassamento di circa 0,2-0,3 punti. Si
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modifica anche durante lo sviluppo della coltura per la metabolizzazione di
alcune sostanze.
In alcune specie il pH scende nelle prime due settimane di coltura per poi
risalire alla fine della subcoltura. Secondo alcuni Autori ciò è dovuto alla CO 2
prodotta dalla respirazione dei vegetali, mentre altri sostengono che la
diminuizione del pH è legata all'assorbimento dei cationi presenti nel mezzo,
mentre il successivo aumento è dovuto alla metabolizzazione degli anioni,
sopratutto quelli nitrici.
Per quanto riguarda la stabilità dell'agar, un pH troppo acido determina
l'idrolisi dell'agente solidificante durante la sterilizzazione in autoclave,
causandone la perdita del potere addensante. Al contrario, un pH troppo
alcalino rende il substrato viscoso e ciò rende più difficile lo sviluppo dei
germogli.
FATTORI FISICI
Il mezzo di coltura può essere solido o liquido, la solidificazione si ottiene
mediante aggiunta di un gelificante, generalmente agar in quantità variabili tra
0,7-0,8 g/l. L'agar ha i seguenti vantaggi:
- non è metabolizzato dalle piante;
- non reagisce con i costituenti del terreno;
- forma con l'acqua dei gel che si sciolgono a circa 100°C e solidificano a
45°C, per un fenomeno di soprafusione (un terreno agarizzato solidificato resta
tale fino a 72° C, mentre un agar liquido rimane fluido fino a 48° C).
In questo modo un terreno agarizzato è stabile alle normali condizioni di
coltura. Dosi troppo basse di agar, pur essendo economicamente convenienti,
non
permettono
ai
germogli
di
rimanere
eretti,
favorendo
fenomeni
di
vitrescenza dei tessuti e determinando un basso coefficiente di moltiplicazione.
Anche un terreno troppo solido inibisce la crescita e la proliferazione, perchè
riduce la diffusione degli elementi nutritivi e degli ormoni e limita il contatto
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fra germoglio e soluzione; spesso causa anche l'accumulo di metaboliti tossici.
Agenti solidificanti che possono sostituire l'agar (composto molto costoso)
sono:
- polimeri sintetici come il Biogel P200 (una poliammide);
- alginati, impiegati sopratutto per colture di protoplasti;
- gerlite, agente gelidificante di sintesi.
- polimeri di amido, che hanno il vantaggio di essere solubili in acqua fredda.
L'uso del mezzo liquido, in alcuni casi, può dare risultati migliori, in quanto
favorisce la rapida dispersione di sostanze tossiche secrete dall'espianto, che se
rimanessero concentrate attorno ad esso, come accade nei mezzi solidi,
potrebbero causare la morte dei tessuti. In coltura liquida l'espianto può essere
immerso nel substrato o essere appoggiato su di un ponte di carta da filtro che,
permettendo un continuo ricambio, tiene l'espianto in condizione di miglior
arieggiamento. Nel primo caso, invece, le colture devono essere agitate,
continuamente, impiegando un agitatore orizzontale o verticale ad una velocità
di pochi giri al minuto, velocità più elevate vengono impiegate per colture
cellulari.
Lo sviluppo degli espianti in vitro è influenzato anche dalle condizioni
ambientali della camera di crescita. Luce e temperatura sono i parametri più
importanti.
Temperatura
La temperatura controlla l'accrescimento e lo sviluppo delle piante sia in vivo
che in vitro. Questo controllo si riflette sulla crescita delle singole cellule,
sullo sviluppo degli organi, sulla attività degli enzimi e quindi sul metabolismo
del vegetale. Il range di temperatura ottimale varia in relazione alle specie,
essendo compresa in genere tra 18-25°C. Per le specie tropicali e subtropicali la
temperatura può essere mantenuta a livelli superiori (25-30°C). All'interno della
cella di climatizzazione la temperatura è solitamente controllata da un
termostato.
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Luce
La luce influenza oltre al processo fotosintetico anche quello di morfogenesi.
Perciò il controllo del fotoperiodo e della intensità luminosa all'interno della
camera è di fondamentale importanza per ottenere un buon coefficiente di
proliferazione e favorire il processo di rizogenesi. La limitata attività
fotosintetica delle piante mantenute in vitro può essere legata alla mancanza di
organizzazione dei cloroplasti, che si presentano appiattiti, senza la struttura a
grana nè il caratteristico stroma lamellare, che invece si ritrovano nelle piante
già acclimatate.
Questo aspetto riveste notevole importanza non tanto per l'accrescimento in
vitro, che avviene prevalentemente in modo eterotrofo utilizzando gli zuccheri
presenti nel substrato, quanto per la fase di ambientamento dove è necessario il
ripristino della condizione di nutrizione autrotofa. Generalmente l'illuminazione
si attua con tubi fluorescenti a luce bianca, che assicurano una buona luminosità
e non creano un eccessivo riscaldamento dell'ambiente. La luce fornita è inoltre
simile a quella dello spettro solare. In relazione al tipo di luce, Steegmans e
Pierik attribuirono alla luce bianca una azione favorevole sulla proliferazione,
mentre alle lunghezze d'onda dell'ultravioletto attribuiscono l'effetto opposto.
Il fotoperiodo e l'intensità luminosa ottimali variano per le singole specie nelle
varie fasi. Tuttavia nella camera di crescita l'intensità luminosa ottimale in fase
di moltiplicazione è compresa fra 1000-3000 lux, mentre in fase di radicazione
è necessaria una illuminazione di almeno 3000 lux per abituare i germogli
all'ambiente esterno.
La luce e la concentrazione di CO 2 all'interno del contenitore sterile di crescita
ha un effetto importante sulla fotosintesi e quindi sulla produzione di biomassa.
Il peso secco totale ed il rapporto peso secco/peso fresco nella fase di
proliferazione in actinidia aumenta all’incremento dell'intensità luminosa.
Quest'ultima influenza anche il contenuto di pigmenti fotosintetici: in piante di
lampone con una intensità luminosa di 3000 lux è stato ottenuto il più elevato
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contenuto di pigmenti fotosintetici. Sembra comunque che non esista un
rapporto diretto fra quantità di pigmenti e fotosintesi, anzi ad una diminuizione
della quantità totale di pigmenti, corrisponde, in alcuni casi, un aumento della
loro efficienza.
Il fotoperiodo influenza la morfogenesi e l'intervallo di buio e di luce ottimale
varia nei singoli taxa. Nella camera di crescita non è necessario controllare
l'umidità perchè i germogli sono isolati dall'ambiente esterno attraverso le
pareti dei contenitori. L'umidità all'interno dei vasi è dovuta all'acqua aggiunta
al substrato ed alla concentrazione dell'agente solidificante e, generalmente,
raggiunge valori prossimi al 100%. In camera di crescita normalmente vengono
applicate condizioni standard: 20-25°C, fotoperiodo di 16 ore di luce,
un'intensità luminosa di 1000-3000 lux e lampade fluorescenti a luce bianca.
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CONTAMINAZIONI LATENTI
Per avere un buon cefficiente di moltiplicazione è importante anche la sanità
del materiale di partenza: se le gemme o i giovani germogli presentano infezioni
batteriche o crittogamiche, gli espianti non si svilupperanno in vitro. In questi
casi è necessario prestare particolare attenzione nella fase di stabilizzazione
della coltura asettica mediante una accurata sterilizzazione degli espianti di
partenza.
VITRESCENZA
La vitrificazione è un'alterazione che può manifestarsi a carico di parte o di
tutto l'espianto che presenta foglie di colore chiaro, tessuti ispessiti, turgidi e
di consistenza vitrea. I germogli vitrescenti presentano quasi sempre un
accrescimento molto lento o nullo, scarso coefficiente di moltiplicazione, foglie
fragili
che
si
distaccano
dallo
stelo
durante
la
subcoltura.
Differenze
anatomiche e fisiologiche tra piante normali e vitrificate sono facilmente
evidenziabili.
In germogli vitrescenti lo sclerenchima perivascolare è ridotto a isolati gruppi
di fibre scarsamente lignificate, lo xilema è poco differenziato, e nella corteccia
si osserva un aumento sia del numero che della grandezza delle cellule. Nelle
foglie non esiste una netta differenzazione fra parenchima a palizzata e
parenchima spugnoso, che presenta ampi spazi intercellulari ed è quindi
responsabile, insieme alla proliferazione delle cellule del parenchima, del
maggiore spessore delle foglie vitrificate (che spesso si presentano ripiegate a
V). I tessuti sono molto acquosi, con un limitato contenuto di clorofilla e
proteine. I germogli vitrescenti radicano difficilmente e la percentuale di
sopravvivenza dopo il trasferimento in serra di tali germogli è molto bassa.
Gli espianti vitrescenti hanno un minor peso secco rispetto a quelli normali per
l'elevato contenuto di acqua dei tessuti. Geneticamente piante normali e
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vitrescenti non presentano differenze: hanno la stessa quantità di DNA e gli
apici meristematici danno origine a germogli normali.
I
fattori
che
determinano
la
vitrescenza
sono
diversi
e
probabilmente
interagenti, tra questi ricordiamo:
- l'eccesso di ioni ammonio e/o di cloro nel substrato;
- l'eccesso di umidità ambientale;
- il potenziale osmotico elevato;
- alte dosi di auxine e citochinine.
Il rapporto NH + S riveste un certo ruolo nel fenomeno, la vitrescenza si
evidenzia dopo un numero elevato di subcolture utilizzando i sali di MS, mentre
utilizzando il substrato di Heller (meno ricco di azoto) questa alterazione non si
manifesta. Anche il rapporto NH4 + /NO3 - è molto importante, infatti il
potenziale osmotico superiore delle cellule di tessuti vitrescenti sembra legato
alla scarsa lignificazione dei tessuti, che richiamano più acqua.
L'incremento della concentrazione di agar nel substrato sembra determinare da
solo una diminuizione della vitrescenza, poichè modifica il potenziale osmotico
dell'acqua rendendola meno disponibile per i germogli in accrescimento. La
vitrescenza può essere limitata cambiando la composizione dei macroelementi,
utilizzando ad esempio il substrato di Lepoivre piuttosto che il classico MS si
evitano tali fenomeni in Malus e Prunus.
ALTRE SOSTANZE
Frequentemente ai substrati nutritivi viene aggiunto il carbone attivo, derivante
dalla carbonizzazione del legno ad alta temperatura in presenza di vapore
acqueo. È dotato di un' enorme estensione superficiale, su questa area, gli atomi
di carbonio superficiali attraggono molecole, in particolare quelle polari. In
questo modo ogni tipo di sostanza (gas, composti solidi) può essere assorbita. Il
carbone attivo viene purificato al fine di rimuovere ogni tipo di impurità.
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Le funzionalità dell’utilizzo del carbone attivo nelle colture in vitro possono
essere così riassunte:
- assorbimento di pigmenti tossici bruni (composti fenolici e melanina) e di
altri composti tossici, bruni, dalla composizione chimica non nota;
-
assorbimento
di
altri
composti
organici
(auxine,
citochinine,
etilene,
vitamine, chelati di ferro e zinco ecc.);
- la modifica della distribuzione dell'illuminazione totale (inscurimento del
substrato), come risultato di questo, la formazione delle radici e il loro
sviluppo può essere modificato;
- promuove l'embriogenesi somatica e l'embriogenesi in colture di antere di
Anemone e Nicotiana. Inoltre è stato accertato che l'aggiunta di carbone attivo,
spesso, ha un effetto di stimolo sullo sviluppo ed organogenesi di specie
legnose;
- stabilizza il pH.
L'utilizzazione del carbone attivo è indispensabile per le piante che, allevate in
vitro, producono pigmenti marroni o neri (di solito polifenoli ossidati e
tannini), che rendono la crescita e lo sviluppo molto difficile. La formazione di
queste
sostanze
può
essere
ridotta,
oltre
che
con
il
carbone
attivo
(concentrazione di 0,2-0,3% g/l, utilizzando altre sostanze da aggiungere al
mezzo di coltura:
- aggiunta di PVP (concentrazione di 250-1000 mg/l), polimero che assorbe
sostanze del tipo fenolico;
- aggiunta di composti con funzioni antiossidanti come l'acido citrico, l'acido
ascorbico, thiourea o L-cistina. Questi composti impediscono l'ossidazione dei
fenoli;
- aggiunta dei dietil-ditiocarbonati (DIECA), durante i risciacqui, dopo
sterilizzazione, alla concentrazione di 2 g/l;
- aggiunta di tre aminoacidi (glutamina, arginina, ed asparagina).
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Potrebbe essere utile infine effettuare frequenti subcolture su mezzi freschi, per
rallentare la formazione di pigmenti indesiderati; utilizzare mezzi liquidi nei
quali è più facile e veloce diluire i prodotti tossici; mantenere la base degli
apici al buio durante l'allevamento in vitro per ridurre l'imbrunimento
provocato dalla foto-attivazione; utilizzare contenitori o tubi con pareti
imbrunite per limitare la penetrazione della luce; ridurre la superficie di taglio
sugli espianti e la concentrazione dei sali nel mezzo di coltura al fine di
contenere gli essudati;
Va infine ricordato che i regolatori di crescita svolgono un ruolo importante
nell'imbrunimento del substrato derivante dall'ossidazione dei fenoli, limitando
l’utilizzo di tali composti si può ridurre l'ossidazione; il risciacquo degli
espianti in acqua prima della messa in coltura ha un efficace azione nella
riduzione degli essudati.
VITALITÀ CELLULARE
Periodicamente è necessario determinare la vitalità delle cellule in coltura
ricorrendo all'osservazione al microscopio della corrente citoplasmatica nelle
cellule, oppure usando specifiche sostanze coloranti (fenosafranina, blu di
Evan, fluoresceina diacetato).
INDUZIONE DI VARIABILITÀ
La
colture in vitro possono essere ottenute dalla maggior parte dei tessuti
vegetali: meristemi, gemme ascellari ed apicali, foglie, steli, piccioli, radici,
fiori o loro parti compresi i tessuti aploidi delle antere e degli ovari. La
rigenerazione di piante da tali tessuti può avvenire direttamente dall'espianto
primario, da callo o da colture cellulari in sospensione, ottenute dall'espianto
primario.
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Essa può avvenire via organogenesi (formazione di germogli in grado di
radicare) o via embriogenesi somatica (fenomeno che mima lo sviluppo dello
zigote).
Le colture in vitro rappresentano uno strumento molto utile nel miglioramento
genetico delle piante, con tale tecnica, infatti, è possibile indurre nuova
variabilità genetica per il reperimento di nuovi caratteri utili.
Nella maggior parte delle piante propagate a partire da meristemi o gemme
apicali ed ascellari, la variabilità osservata è inferiore o pari a quella osservata
nelle piante propagate vegetativamente con i metodi tradizionali. Un aumento
considerevole della variabilità si osserva quando nel protocollo di rigenerazione
sono previsti uno o più cicli di ridifferenziazione cellulare, come nel caso della
rigenerazione da tessuti somatici, da colture cellulari in sospensione o da
protoplasti.
La variabilità genetica ottenuta con le tecniche di coltura in vitro può essere
ascrivibile a tre principali fenomeni :
1. mutazioni genetiche;
2. riarrangiamento dei tessuti chimerici;
3. modificazioni epigenetiche.
Un altro tipo di classificazione si può effettuare sulla base del momento
presunto dell'induzione di variabilità che può definirsi come preesistente al
trattamento in vitro del tessuto vegetale, oppure indotta dalla coltura in vitro.
Variabilità preesistente
Chimere. Gli organismi chimerici, costituiti da almeno due famiglie cellulari
portanti
differenze
genotipiche,
sono
abbastenza
frequenti
nelle
piante
tradizionalmente propagate per via vegetativa ed in particolare nelle specie
ornamentali. Le condizioni di crescita in vitro possono fornire un vantaggio
selettivo alle cellule con una particolare base genetica. Di conseguenza si può
verificare la rottura o il riarrangiamento della chimera originale.
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Variabilità genica. Quando presente nei tessuti somatici e preesistente la
coltura in vitro è attribuibile a mutazioni spontanee o causate da elementi
trasponibili, ad eventi di crossing over mitotici, ad amplificazione di DNA.
Variabilità genomica e cromosomica. Occasionalmente possono verificarsi in
alcune cellule uno o più cicli di endoreduplicazione, senza il verificarsi della
successiva mitosi. Si raggiungono in questo modo vari livelli di endopoliploidia
(polisomatia). Quando cellule polisomatiche entrano ancora in mitosi, ad
esempio sotto lo stimolo dei fattori esterni tipici delle colture in vitro, si
generano cellule di natura poliploide. La frequenza di endopoliploidia è sotto
controllo genetico, è funzione dell'età e del tipo di tessuto. I vari tessuti della
stessa pianta mostrano diversa capacità di accumulo di mutazioni. In genere i
tessuti differenziati presentano un maggior carico di mutazioni genetiche.
Variabilità indotta dalla coltura in vitro
Variabilità somaclonale. La modificazione più frequente a carico delle cellule
allevate in vitro è la poliploidizzazione. Questo fenomeno può veificarsi sia in
conseguenza di endoreduplicazione seguita da mitosi, sia in conseguenza alla
duplicazione cromosomica non seguita dalla divisione cellulare. Un'altra via di
poliploidizzazione è attribuita alla fusione di nuclei in cellule multinucleate.
Dal momento che in queste cellule possono coesistere nuclei con diverso livello
di ploidia quest'ultimo meccanismo spiega anche la formazione di triploidi ed
esaploidi.
La formazione di cellule aploidi probabilmente avviene secondo due modalità:
la prima, che prevede eventi di meiosi somatica, è stata documentata in
meristemi di radici in vivo ed in alcuni tipi di tessuti allevati in vitro. In quelle
specie con basso numero di cromosomi la condizione aploide potrebbe essere
determinata dall’allevamento in vitro anche in conseguenza di ripetute mitosi
senza disgiunzione. In cellule con elevato numero di cromosomi questo
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meccanismo di aploidizzazione sembrerebbe poco probabile e porterebbe
piuttosto alla formazione di aneuploidi e peudoaploidi.
Situazioni cromosomiche aneuploidi possono verificarsi in vitro in conseguenza
di segregazioni cromosomiche anormali durante la mitosi o per frammentazione
nucleare (amitosi) seguita da normali mitosi. L'aneuploidia può essere la
conseguenza
anche
dell'eliminazione
di
cromatina
a
seguito
di
rotture
cromosomiche.
Per quanto riguarda le modificazioni strutturali dei cromosomi (delezioni,
traslocazioni) esse derivano dalla rottura dei cromatidi nella fase cellulare G1
(aberrazioni
di
tipo
cromosomico)
o
nelle
fasi
S
e
G2
(aberrazioni
cromatidiche). Queste anomalie sono più frequenti nelle cellule poliploidi.
Molti tipi di traslocazioni vengono ereditate stabilmente attraverso i successivi
cicli mitotici; tuttavia, le traslocazioni che danno origine ai cromosomi
dicentrici possono continuare ad originare variabilità genetica in conseguenza
dei cicli rottura-fusione-ponte. I cicli terminano e si formano nuovi cromosomi
monocentrici quando avviene la cicatrizzazione delle estremità cromosomiche
interessate.
Altre possibili cause di mutazioni genetiche sono:
•
mutazioni spontanee e indotte da componenti mutageni del mezzo di
coltura;
•
elementi trasponibili;
•
ricombinazione genica somatica;
•
scambi tra cromatidi omologhi;
•
alterata metilazione con conseguente formazione di zone particolarmente
instabili;
•
attivazione e disattivazione di geni in conseguenza di mutazione in
regioni non codificanti.
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Gli elementi trasponibili sono una delle maggiori fonti di mutazioni. Si ritiene
che essi siano particolarmente attivi nelle cellule allevate in vitro poichè
attivati da condizioni di stress presenti in coltura.
La metilazione del DNA produce generalmente delle modificazioni reversibili
dell'attività genica. Studi sul riso hanno evidenziato che la metilazione è una
delle cause, sebbene non la maggiore, dell'induzione di polimorfismi dei
frammenti di restrizione del DNA delle piante rigenerate da protoplasti.
Gli eventi che generano mutazioni si verificano durante l'allevamento in vitro e
possono interessare anche le informazioni genetiche presenti nel DNA di
organelli citoplasmatici come i cloroplasti e i mitocondri.
La variabilità indotta dalle tecniche di coltura in vitro è sotto il controllo
genetico, ma è anche influenzata da fattori esogeni, quali:
•
la metodologia di rigenerazione utilizzata;
•
il tipo e la concentrazione dei fattori di crescita;
•
la concentrazione salina del substrato;
•
gli agenti chelanti;
•
la presenza di agenti mutageni;
•
la frequenza di subcoltura;
•
il tipo di coltura (mezzo liquido o solido).
Tuttavia è importante sottolineare che il meccanismo di induzione di tale
variabilità non è noto per la quasi totalità dei fattori coinvolti.
Naturalmente non tutte le varianti genetiche ottenute a seguito delle colture in
vitro sono ugualmente competitive. Tra l’altro molte delle mutazioni a carico
delle cellule allevate in vitro non vengono mantenute durante la fase di
rigenerazione
di
plantule.
Tale
fenomeno
è
ascrivibile
motivazioni:
•
le cellule mutate perdono la capacità rigenerativa;
•
le mutazioni indotte in vitro non sono vitali in vivo.
a
due
possibili
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Attualmente le varianti somaclonali sono di uso decisamente limitato nel
miglioramento genetico delle piante; tuttavia, sono riportati eventi favorevoli
come per esempio il ritrovamento di cloni di patata superiori alla varietà
originaria per produzione, forma del tubero e resistenza alle malattie.
In ogni caso l'utilizzo della tecniche di coltura in vitro sembra destinato a
contribuire sempre più al raggiungimento di specifici obiettivi di miglioramento
genetico, soprattutto se saranno individuati metodi di selezione di cellule
portanti mutazioni utili da cui rigenerare plantule. Allo stato attuale è possibile
esercitare una pressione selettiva a livello cellulare per caratteri che riguardano
la resistenza a tossine, a sostanze chimiche, alla salinità e la resistenza ad
aminoacidi ed analoghi di aminoacidi.
Le tecniche utilizzate per la selezione prevedono l'utilizzo di sostanze o
metaboliti a concentrazioni tali da non fare sopravvivere cellule normali ma
solo mutanti tolleranti/resistenti lo stress indotto:
determinata la concentrazione che previene lo sviluppo delle cellule normali, si
adotta un terreno di coltura selettivo 2-3 volte più concentrato e si effettua
l’allevamento in vitro di un gran numero di cellule selezionando per l'eventuale
insorgenza di mutanti.
Il requisito fondamentale per il successo di tale tecnica è che le cellule
selezionate possano essere capaci di rigenerate plantule in grado di esprimere il
carattere individuato.
FECONDAZIONE IN VITRO
Nei programmi di miglioramento genetico delle piante coltivate al fine
costituire nuovi genotipi spesso è necessario ottenere ibridi derivanti da
fecondazioni che in natura si verificano difficilmente o non si verificano affatto
(incompatibilità). La coltura in vitro è una tecnica che permette di superare
ostacoli che le piante hanno sviluppato per impedire alcuni tipi di incrocio,
quali le ibridazioni interspecifiche.
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Per effettuare una fecondazione in vitro è necessario mettere in contatto
gametofiti
maschili
e
femminili
perfettamente
funzionali
e
definire
le
condizioni di coltura ottimali per assicurare la fusione dei gameti. Inoltre,
bisogna mettere a punto il substrato di coltura che permetterà lo sviluppo del
gametofito femminile dopo la fecondazione fino alla maturità o germinazione
del seme (Devreux & Damiano, 1988).
La fecondazione in vitro può essere realizzata seguendo differenti metodiche.
Nelle piante che possono formare gemme fiorali in vitro, il processo di fioritura
lo si fa avvenire nel contenitore sterile di coltura in vitro dove avviene anche il
differenziamento dei gameti funzionali. Avviene, dunque, la fecondazione, si
sviluppano i semi, a maturità, disseminano sul mezzo di coltura e germinando
sviluppando le plantule ibride. In questo caso si pone solo il problema di
definire le condizioni della fioritura in vitro, che molto spesso è legata alla
scelta dell'espianto iniziale, al mezzo di coltura e ovviamente all'equilibrio
auxine-citochinine. Questa tecnica è applicabile soltanto per le piante autogame
(Devreux & Damiano, 1988).
Un'altra tecnica di fecondazione in vitro conta sulla possibilità di coltivare
l'intero gineceo, ovario, stilo e stimma, effettuando l'impollinazione in vitro
sullo stimma. Operando in condizioni ottimali questa tecnica permette lo
sviluppo dei semi nell'ovario, dove essi arrivati a maturità continuano la loro
evoluzione germinando. In questo modo si possono osservare le plantule che
emergono da diverse parti dell'ovario. Tale fenomeno si osserva in assenza di
maturazione del frutto e permette di superare tutto il periodo di eventuale
dormienza del seme. Tuttavia con tale tecnica di fecondazione in vitro le
barriere naturali alle ibridazioni interspecifiche esistenti a livello di stimma e
stilo non possono essere rimosse (Devreux & Damiano, 1988).
Un' ulteriore tecnica di fecondazione che dovrebbe permettere l’ottenimento di
risultati
incoraggianti,
anche
a
partire
da
differenti
genotipi,
consiste
nell'impollinazione diretta degli ovuli in vitro. Si procede rimuovendo la parete
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dell'ovario per mettere a nudo gli ovuli sulla placenta, quindi si pone
direttamente il polline sugli ovuli (Devreux & Damiano, 1988).
Infine, fra le tecniche utilizzabili per la fecondazione in vitro bisogna anche
citare i recenti tentativi di isolamento dei gameti maschili e femminili in
diverse specie vegetali (mais, spinacio, ecc.).
L'utilizzo di ciascuna di queste tecniche dipende dal tipo di barriera genetica
che impedisce la fecondazione.
Nel
caso
di
incompatibilità
bisogna
distinguere
diverse
situazioni.
Se
l'incompatibilità è gametofitica i grani di polline germinano, ma i tubi pollinici
si
fermano
e
scoppiano
alla
loro
estremità
dopo
aver
percorso
approssimativamente un terzo della lunghezza dello stilo. In questo caso è
evidente che l'autoimpollinazione di un gineceo intero in vitro non potrà dare
risultati utili dal momento che tutti i tubi pollinici soranno fermati nella prima
parte dello stilo anche in vitro. Volendo pertanto ottenere l'autofecondazione in
specie che hanno questo tipo di controllo genetico, si procede raccorciando lo
stilo e microinnestando lo stimma alla base dello stilo, oppure depositando
direttamente il polline sugli ovuli (Devreux & Damiano, 1988).
D’altra parte se l'autoincompatibilità è sporofitica le sostanze di riconoscimento
sono depositate nell'esina del polline durante la gametogenesi e la reazione di
incompatibilità avviene a livello dello stimma. In questo caso affinchè
l'autofecondazione forzata in vitro riesca si dovrà evitare il contatto pollinepapille stimmatiche e procedere ad un apporto diretto del polline sull'ovario o
sugli ovuli, oppure portando il polline, germinato artificialmente, direttamente
sullo stilo decapitato dello stimma (Devreux & Damiano, 1988).
Infine, se l'autoincompatibilità è post-zigotica, l'impollinazione potrà essere
effettuata normalmente in vitro o in vivo, ma sarà necessario ricorrere alla
coltura del pro-embrione appena sviluppato.
Nel caso delle ibridazioni interspecifiche esistono numerose barriere i cui
meccanismi vanno studiati per adottare tecniche specifiche di coltura in vitro.
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Spesso si ricorre alla coltura in vitro dell'embrione immaturo e tale tecnica è
certamente quella che è stata utilizzata più spesso ed ha dato risultati pratici
notevoli nella produzione di ibridi interspecifici ed intergenerici. Inoltre ha
permesso il trasferimento di numerosi geni utili da specie selvatiche a specie
coltivate.
COLTURA DI EMBRIONI IMMATURI
L'embrione, come è noto, rappresenta il primo stadio di sviluppo di un nuovo
genotipo diploide risultante dalla fusione dei due gameti, quello maschie e
quello femminile.
La coltura di embrioni separati dal seme è stata intrapresa per diverse ragioni.
La
prima
vera
applicazione
della
coltura
di
embrioni
a
problemi
di
miglioramento genetico è stata effettuata da Laibach, il quale nel 1925 ha
potuto recuperare ibridi interspecifici tra Lilium perenne e L. austriacum. Dopo
questo primo esempio, numerosi altri incroci sono stati recuperati grazie alla
coltura di embrioni.
Altra applicazione importante dell'embriocoltura è certamente il superamento
della dormienza dei semi di alcune piante, oppure la possibilità di ottenere lo
sviluppo di embrioni che non possono completare da soli lo sviluppo normale
nel seme. Un caso specifico è quello delle specie arboree a maturazione precoce
dei frutti. Notevoli progressi sono stati ottenuti dai costitutori di varietà di
pesco utilizzando la germinazione in vitro di embrioni immaturi derivanti
dall'incrocio di due genitori a maturazione molto precoce (Ramming, 1983;
Fideghelli et al., 1986).
Nelle colture di embrioni è più difficile salvare un embrione molto giovane che
un embrione già differenziato: in generale è più vantaggioso prelevare
l'embrione non maturo il più tardi possibile dall'ovulo fecondato, quando, cioè,
l'embrione ha raggiunto quello che certi autori definiscono "fase autotrofica"
(Zenkteler e Nitzsche, 1985). Quando l'embrione è prelevato molto giovane è
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spesso necessario modificare il mezzo di coltura in relazione allo sviluppo
embrionale o ancora utilizzare un sistema simile a quello sviluppato da Monnier
nel 1978. Questo metodo consiste nel deporre l'embrione al centro di una
capsula Petri che contiene al centro un mezzo agarizzato povero di sostanze
ormonali, il quale a sua volta è circondato da un secondo mezzo più ricco che
diffonde progressivamente nel primo gli ormoni, modificando nel tempo la
composizione del primo mezzo messo a disposizione dell'embrione (Monnier,
1978).
Le tecniche di embriocoltura in vitro sono state avviate anche per studiare le
necessità nutrizionali, fisiologiche e di ambiente dell'embrione per realizzare
colture in vitro embriogenetiche. A partire cioè dalla coltura di un callo in
veloce
proliferazione
o
di
una
sospensione
cellulare
ottenuta
per
sdifferenziamento di un tessuto somatico, è possibile ottenere embrioni somatici
in vitro (Devreux & Damiano, 1988).
Gli embrioni somatici possono essere utilizzati per l'ottenimento di semi
artificiali. Ciascun seme artificiale si ottiene incapsulando un embrione
somatico in un gel di sostanze che ne consentono la conservazione fino alla sua
distribuzione in pieno campo. Le sostanze più diffusamente utilizzate per
l'incapsulamento sono: sodio alginato+CaCl 2 ; sodio alginato +gelatina +CaCl 2 ;
successivamente si procede ad una ricopertura plastica con un polimero
artificiale.
Attualmente nella preparazione dei semi artificiali si incontrano molte difficoltà
legate alla necessità di rendere quiescente il seme per diversi mesi, di
proteggerlo contro il disseccamento, di ottenere piante in elevata percentuale,
di fornire all'embrione il necessario mantenimento, anche se i progressi
tecnologici in questo settore, in questi ultimi anni, sono stati notevoli.
In futuro i semi artificiali potrebbero rivelarsi molto interessanti per la
propagazione clonale di ibridi superiori difficili da ottenere per via sessuale,
per particolari ceppi di piante ingegnerizzate, per riprodurre genotipi sterili o
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meioticamente instabili, per riprodurre clonalmente i parentali di ibridi
superiori per i quali si faccia uso di maschiosterilità, ma non si disponga di
linee
mantenitrici
e,
in
generale,
per
tutte
le
specie
per
le
quali
la
micropropagazione in vitro è possibile.
Tra i vantaggi forniti dall'uso dei semi artificiali si può citare la possibilità di
ottenere su larga scala monocolture di genotipi "elite" e la facilità di inglobare
nel seme artificiale microrganismi utili alla pianta, ormoni e pesticidi.
Bibliografia citata
Devreux M., Damiano C., 1988. Fecondazione in vitro e coltura di embrioni
immaturi. Agricoltura e Ricerca 151, 69-76.
Fideghelli C., Damiano C., Antonelli M., Quarta R., Chiariotti A., 1986. Les
techniques de propagation in vitro appliquees a l'Institut de Fruticulture de
Rome. In: "Colloque Arbres Fruiters et Biotechnologies" Ed. Moet Hennessy.
Paris p.55.
Ramming D., 1983. Embryo culture, In "Methods in fruit breeding". Ed. J.
Moore e J.Janick. Purdue University p.134-144.
Monnier M, 1978. Culture of zygotic embryos.In: "Frontiers of plant tissue
culture 1978". Ed T.H. Thorpe. Calgary. Canada. p.277.
Zenkteler M., Nitzsche w., 1985. In vitro culture of ovules of Triticum aestivum
at early stages of embryogenesis. Plant Cell Reports 4, 168-171.
OTTENIMENTO DI PIANTE APLOIDI DA MICROSPORE
Al
fine
di
ottenere
tessuti
e
plantule
rigenerate
con
un
solo
corredo
cromosomico è possibile allevare in vitro anche tessuti e cellule aploidi (polline
ed ovulo). Le antere ed in particolare microspore allo stadio mononucleato sono
i tessuti utilizzati di frequente. Da questi espianti si possono rigenerare piante
con diverso grado di ploidia, piante diploidi da tessuti somatici dell'antera e
piante androgenetiche dalle microspore. Le androgenetiche possono risultare sia
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aploidi, cioè con un numero cromosomico ridotto che diploidi, dovuto ad una
endoreplicazione cromosomica che precede la prima divisione della cellula
aploide che originerà l'embrione. In questo modo le piante saranno omozigoti,
aventi cioè le stesse forme alleliche in tutti i loci.
L'ottenimento di piante aploidi è di rilevante importanza sia per i programmi di
mutagenesi, per evidenziare in prima generazione le mutazioni, che in quelli di
miglioramento genetico per la possibilità di indurre omozigosi a tutti i loci.
Infatti, mediante tecniche diploidizzanti (uso di colchicina, ecc.), è possibile
raddoppiare il contenuto cromosomico che, non derivando dall'unione di due
gameti, ma da sintesi diretta di un cromatidio su copia di quello fratello, darà in
questo caso linee pure (a differenza che nel breeding tradizionale tutti i loci
risulteranno omozigoti).
I vantaggi offerti da tale tecnica sono la drastica riduzione del tempo per
ottenere linee pure in specie auto-incompatibili o di difficile riproduzione,
fissazione di mutazioni nelle piante ottenute in vitro, ottenimento di diploidi da
allo- e autopopliploidi.
In numerose specie sono state ottenute piante aploidi: solanacee, cereali e
legumi, in piante arbustive ed arboree come vite e limone, arancio trifogliato,
pioppo, ippocastano, albero della gomma, cacao, caffè. Recentemente, in
alternativa alla coltura di antere ed ovari, sono stati ottenuti aploidi da gameti
femminili, sottoposti ad impollinazione controllata con il polline irradiato con
raggi gamma.
LA MICROPROPAGAZIONE
La micropropagazione è un metodo di propagazione clonale delle piante, a
partire
da
materiale
(soprattutto
meristemi
realizzando una coltura di apici vegetativi.
caulinari)
allevato
in
vitro,
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- 36 -
Utilizzando questa tecnica per clone si intende un gruppo di piante originatesi
vegetativamente non solo da una singola pianta ma anche da un singolo gruppo
di cellule.
Ogni parte di pianta può essere impiegata quale espianto iniziale per avviare la
propagazione: porzioni di germogli o di radici, talee uninodali, sezioni di foglia
o di piccioli, in genere, tuttavia, tanto più il materiale è in fase giovanile tanto
più facile è la rigenerazione.
Il materiale di partenza maggiormente utilizzato è rappresentato tuttavia da
meristemi apicali, apici vegetativi e tratti di ramo con una gemma.
Tra i fattori che influenzano la reazione degli espianti alle condizioni di coltura
in vitro si ricordano :
•
la qualità della piantà madre;
•
il tipo di tessuto che si preleva per la coltura;
•
l’età fisiologica e momento del prelievo.
Questa tecnica fino agli inizi degli anni '70 era prevalentemente impiegata per
la propagazione di specie erbacee, a causa delle difficoltà che si incontravano
(e ancora si incontrano) nella fase di radificazione e nel successivo sviluppo
delle plantule in vivo di diverse specie arboree ed arbustive.
Esistono tre possibili strade per la moltiplicazione vegetativa massale in vitro :
•
la proliferazione ascellare dei germogli;
•
l’ottenimento di germogli avventizi per organogenesi;
•
l’embriogenesi somatica.
Il primo metodo, pur essendo più lento (produzione di 4-10 germogli per
espianto messo a proliferare per ogni subcoltura a seconda delle specie), dà
maggiori garanzie di uniformità del prodotto ed è comunque più rapido dei
metodi tradizionali.
In alcuni casi si osserva la formazione di callo. Tale formazione è legata alla
presenza nel substrato di crescita di auxine e citochinine, oltre che di macro e
microelementi, vitamine e saccarosio. Sono importanti il pH (compreso fra 5,0-
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6,5) e lo stato fisico del terreno di coltura (liquido o solido), la luce e la
temperatura.
Per la formazione del callo è comunque fondamentale il rapporto fra i due
gruppi di fitormoni: un alto rapporto citochinine/auxine favorisce, infatti, la
rigenerazione dei germogli, mentre un basso rapporto determina la formazione
di radici e con un rapporto intermedio si ha invece uno sviluppo ottimale del
callo.
Nel processo di morfogenesi a partire dal callo si distinguono quattro fasi:
Fase 1 - sdifferenziazione di cellule parzialmente o totalmente differenziate;
Fase 2 - prime divisioni cellulari con formazione di tessuto (detto anche centro
meristematico);
Fase 3 - differenziazione delle cellule con formazione di un particolare tipo di
organo;
Fase 4 - estensione ed allungamento.
Quindi
durante
la
formazione
del
callo
i
nuclei
subiscono:
mitosi,
endoduplicazione seguita da mitosi, frammentazione nucleare e successiva
mitosi. Questi tre processi, diversamente combinati fra loro, rendono il callo
instabile dal punto di vista genetico. Possono esserci infatti delle mutazioni del
materiale
nucleare
che
determinano
la
formazione
di
nuove
piante
geneticamente e fenotipicamente diverse dalla pianta madre.
Nella coltura di apici vegetativi, pertanto, per mantenere geneticamente stabili
le successive generazioni è consigliabile non utilizzare germogli derivanti da
callo.
FASI DELLA MICROPROPAGAZIONE
L'international Association for Plant Tissue Culture (I.A.P.T.C.) distingue nel
processo di micropropagazione le seguenti fasi:
Fase 0: selezione e preparazione della pianta madre;
Fase 1: stabilizzazione o organizzazione della coltura asettica;
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Fase 2: moltiplicazione;
Fase 3: radicazione;
Fase 4: ambientamento;
Fase 0: Selezione e preparazione della pianta madre
La scelta della pianta da cui prelevare il materiale o espianto di partenza è
importante per assicurare, a fine ciclo propagativo, una produzione di buona
qualità.
La pianta madre che può essere allevata sia in serra che in campo deve
rispondere
allo
standar
varietale,
deve
essere
indenne
da
patogeni
(in
particolare per i fruttiferi, esente da virus), deve essere vigorosa e non deve
aver subito stress ambientali.
Per ridurre il livello di contaminazione possono essere eseguiti trattamenti
fitosanitari, mentre per incentivare la successiva crescita e proliferazione in
vitro degli espianti è utile somministrare fitoregolatori all'intera pianta o a parti
di essa.
In serra è più facile mantenere le piante sane perchè si possono controllare i
fattori che determinano lo sviluppo dei patogeni e quindi le infezioni. Di grande
importanza è il controllo della percentuale di umidità ambientale, che deve
essere il più basso possibile.
Il materiale di partenza può essere prelevato da piante in attiva crescita o
dormienti a seconda della specie, dell'età e del metodo di coltura; deve essere
comunque reattivo alla coltura in vitro quindi le gemme, se dormienti, vanno
trattate, ad esempio con il freddo, per rimuovere la dormienza.
Il comportamento della futura coltura di meristemi, come precedentemente
sottolineato, è influenzato da:
•
la stagione di prelievo dell'espianto: le condizioni ambientali di temperatura
e luce (intensità e fotoperiodo) determinano nei tessuti della pianta un
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diverso contenuto di carboidrati di riserva, di proteine, ma soprattutto di
ormoni;
•
lo stato fisiologico della pianta madre: un'apice vegetativo in attiva crescita
si sviluppa in vitro più rapidamente rispetto ad uno proveniente da una
gemma, anche se è più difficile conseguire la sua sterilizzazione;
•
l’età della pianta madre: per certe specie, prevalentemente forestali, è
indispensabile
partire
da
materiale
fisiologicamente
giovane,
poichè
l'adattabilità della pianta alla coltura in vitro viene spesso perduta con l'età.
Al fine di ottenere un ringiovanimento del materiale di partenza si possono fare
innesti su giovani semenzali, oppure si ricorre alla potatura di ringiovanimento.
Fase 1: Organizzazione della coltura asettica
Questa fase prevede la raccolta del materiale, la sua sterilizzazione, il prelievo
e la messa in coltura
Raccolta del materiale
Generalmente la coltura parte da meristemi o da apici vegetativi, i quali sono
costituiti da un cono vegetativo, comprendente il meristema, e da alcuni
primordi fogliari subapicali. Gli apici vegetativi possono trovarsi all'estremità
di un germoglio in attiva crescita, oppure possono essere ottenuti da una gemma
indotta a germogliare in vitro. Di conseguenza il materiale di partenza può
essere: erbaceo, semilegnoso, legnoso.
Le gemme devono essere in fase di germogliamento e non vanno private delle
perule. Il materiale raccolto va conservato in sacchetti di plastica per evitare la
disidratazione e, se è conservato per più giorni , va tenuto in frigorifero a 34°C.
I periodi migliori per prelevare gemme in riposo vegetativo sono: l'autunno
(prima dell'entrata in dormienza ) e la fine dell'inverno (prima della ripresa
vegetativa). Preferibilmente vanno prelevate gemme a legno.
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Sterilizzazione
La sensibilità del materiale durante la fase di sterilizzazione è influenzata dallo
stadio di vegetazione. Un apice vegetativo di un germoglio in attiva di crescita
è infatti più sensibile delle sottostanti gemme ascellari, che sono parzialmente
lignificate.
È molto importante che l'agente sterilizzante entri in contatto con tutta la
superficie dell'espianto, sopratutto se questo è dotato esternamente di peli o/e
cere.
In alcuni casi la sterilizzazione di superficie non elimina contaminazioni
interne di batteri patogeni o non patogeni. Se l'espianto contaminato riesce a
sopravvivere manifesta comunque un rallentamento della crescita e della
proliferazione.
Stabilizzazione
Gli espianti sterili, provenienti dalla fase precedente, vengono trasferiti in
opportuni substrati di coltura. La grandezza degli espianti varia da meno di 1
mm a pochi centimetri: se derivano infatti da meristemi apicali, provenienti da
gemme dormienti o in attività, hanno una lunghezza compresa tra 0,1-1,5 mm,
mentre se derivano da germogli la loro lunghezza è compresa fra 1-3 cm.
L'apice gemmario che viene prelevato contiene una zona di cellule in attività di
crescita ed alcuni primordi fogliari all'ascella dei quali si differenziano le
gemme ascellari. Dalla crescita ed allungamento di questi abbozzi si ottiene il
germoglio iniziale, più o meno sviluppato, che prende il nome di rosetta.
I fitoregolatori che vengono impiegati in questa fase e che favoriscono lo
sviluppo degli espianti, sono gli stessi utilizzati durante la moltiplicazione e
comprendono nella maggior parte dei casi, una auxina ed una citochinina; la
loro concentrazione dipende dalla specie che si propaga e dal tipo di espianto .
Fra le citochinine quella più utilizzata è la benzilamminopurina (BAP).
Generalmente la concentrazione di citochinina impiegata per i meristemi è 0,1
mq/l, mentre per i germogli apicali è pari ad 1 mq/1. Le stesse concentrazioni
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vengono utilizzate per le auxine: acido 3-indolbutirrico (IBA), o meno
frequentemente, acido naftalenacetico (NAA). Durante la fase di stabilizzazione
sono importanti le condizioni di luce e temperatura presenti nella camera di
crescita. Per la maggior parte delle specie il fotoperiodo è di 16 ore e la
temperatura è compresa fra 23-27° C. La durata di questa fase è di 3-6
settimane. La stabilizzazione è spesso difficile e richiede particolari procedure,
sopratutto per evitare la produzione di sostanze che impediscono lo sviluppo
dell'espianto. Questi composti non sono stati ancora classificati chiaramente,
spesso tuttavia sono tannini condensati o idrolizzabili, o altri composti fenolici,
la cui biosintesi è complessa, ma sembra comunque iniziare dall'acido
scichimico. Sono naturalmente presenti nei vegetali, in quantità più o meno
abbondante a seconda
dello stadio fenologico e dell'etàdella pianta, come ad
esempio la lignina. L'incremento della produzione di fenoli è associata ad una
diminuizione
dell'accrescimento,
della
sintesi
proteica
e
ad
un'alta
concentrazione di zuccheri.
In generale la concentrazione dei polifenoli aumenta con l'età dei germogli. Nel
castagno la concentrazione di tannini è bassa all'inizio del ciclo vegetativo, è
massima nel mese di maggio e a fine estate (prima dell'entrata in riposo),
mentre è minima nel periodo compreso fra gennaio e marzo.
Poichè la riuscita della crescita in vitro è legata al momento del prelievo
dell'espianto, nel pesco, per evitare una notevole produzione di tannini dopo il
taglio, questo viene eseguito nel mese di giugno, quando i germogli sono in
attiva crescita. In questo periodo è minore la concentrazione di perossidasi e
polifenolossidasi, mentre è elevato il contenuto di auxine.
Altri composti fenolici, contenuti sopratutto nel vacuolo, sono: flavonoidi,
tannini idrolizzabili, acido caffeico. Tutte queste sostanze svolgono un ruolo
importante perchè favoriscono i processi di cicatrizzazione e sono, inoltre, un
mezzo di difesa contro molti parassiti. I prodotti di ossidazione dei fenoli sono
composti bruni, detti chinoni, tossici e che inibiscono l'attività di alcuni enzimi
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provocando il deperimento ed il graduale imbrunimento dell'espianto fino alla
morte. L'ossidazione è favorita, oltre che dall'aria, dalla presenza di enzimi
quali perossidasi e polifenolossidasi e causa l'imbrunimento oltre che dei tessuti
anche del substrato. Questo problema è sentito sopratutto in alcune specie
particolarmente ricche di sostanze polifenoliche, come ad esempio il noce, il
castagno ed il pesco, limitanto l'utilizzazione della micropropagazione nei
laboratori commerciali.
Sono state sperimentate diverse tecniche per ridurre la produzione di queste
sostanze da parte degli espianti coltivati in vitro.
Fase 2: Moltiplicazione o proliferazione.
In questa fase i singoli germogli ottenuti precedentemente vengono posti in
opportuni substrati che favoriscono il loro rapido accrescimento e l'attività
delle gemme ascellari e/o avventizie, in modo tale che da ciascuna di esse si
sviluppino altrettanti germogli in un periodo di tempo compreso fra 3-5
settimane a seconda delle specie e delle condizioni di coltura.
I nuovi germogli possono essere:
•
inviati direttamente alla successiva fase di radicazione;
•
sottoposti ad una fase di allungamento per ottenere una maggiore uniformità
dei germogli che vengono successivamente posti a radicare;
•
nuovamente
moltiplicati
su
un
substrato
fresco
per
ottenere
altri
(subcoltura). In questo modo al termine di questa fase si può ottenere un
numero molto elevato di germogli.
Il rapporto fra il numero di germogli ottenuti al termine di una subcoltura ed il
numero di quelli posti a proliferare prende il nome di coefficiente di
moltiplicazione, che dipende dal tipo di substrato, dalle condizioni ambientali
di coltura, dalla specie o cultivar moltiplicata. Prolungando la fase di
proliferazione
e,
conseguentemente
il
numero
di
subcolture
si
possono
manifestare sintomi di invecchiamento, quali: ingiallimento, perdita delle foglie
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basali e necrosi apicale. Ciò può essere legato ad una formulazione non corretta
del substrato di coltura per quanto riguarda i macro ed i microelementi e/o gli
ormoni. Se le condizioni di sviluppo dell'espianto non sono ottimali può esistere
anche il rischio di mutazioni, sopratutto per le specie che non hanno una buona
stabilità genetica. Esperimenti eseguiti su Actinidia chinensis Pl. hanno
evidenziato che questa specie è adattabile alla coltura in vitro e non perde la
capacità morfologica anche se mantenuta per un lungo periodo nella fase di
moltiplicazione. Inoltre, nelle successive subcolutre, rimane inalterato il
numero cromosomico e, quindi, l'actinidia dimostra anche una buona stabilità ed
è perciò una specie rispondente alla micropropagazione. Una conferma a quanto
affermato è data dal confronto di germogli derivati rispettivamente da 28 e 3
subcolture successive. I primi mostrano un coefficiente di moltiplicazione più
elevato, producono meno callo ed un numero di radici maggiore rispetto ai
secondi, che hanno invece una maggiore altezza. Ciò può essere legato a fattori
ambientali, come il limitato volume dei va più che nutrizionale. Se le tecniche
di trapianto non sono eseguite correttamente, o se le condizioni di sterilità
dell'ambiente o degli strumenti di lavoro non sono ottimali, si può avere
inquinamento della coltura da funghi o da batteri.
Le contaminazioni da funghi sono facilmente identificabili per lo sviluppo di
muffe, che si evidenziano dopo alcuni giorni. Più difficile è il riconoscimento
delle infezioni batteriche, perchè solo alcune si evidenziano precocemente con
la formazione di colonie ben delimitate sulla superficie del terreno, o di
intorbidamento diffuso del substrato. Le più subdole si manifestano con aloni
alla base dei germogli dopo 20 o più giorni dalla messa in coltura, perciò è
possibile diffondere la contaminazione alle successive subcolture.
Fase 3: Radicazione
Come precedentemente accennato, la fase di radicazione può essere preceduta
da un periodo di 15-20 giorni, detto periodo di allungamento, in modo da
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ottenere germogli ben sviluppati: Il substrato utilizzato è lo stesso della fase 2,
ma con una concentrazione molto ridotta di citochinine ed una più elevata di
acido giberellico, in modo da evitare l'attività delle gemme ascellari ma
favorire l'allungamento dei germogli. Successivamente ha inizio la fase di
radicazione vera e propria.
Nel processo rizogeno si possono distinguere tre fasi:
•
fase di induzione (4 giorni), durante la quale non si osservano variazioni
istologiche;
•
fase
iniziatrice
o
di
differenzazione
(4°-6°giorno),
una
cellula
parenchimatica comincia a modificarsi aumentando il proprio volume;
•
fase di attività meristematica.
Nella
seconda
fase
diminuisce
la
concentrazione
di
perossidasi
e
conseguentemente aumenta il livello di auxine endogene. La radicazione è
influenzata dalla concentrazione degli elementi minerali e dello zucchero, dalla
presenza di carbone attivo, dalla natura del substrato, dal tipo di auxina, dalla
sua concentrazione e dalla interazione con le altre sostanze ormonali e non
presenti nel terreno di coltura. Fra i fattori fisici e ambientali che influenzano
la
radificazione
rivestono
notevole
importanza
l'intensitàluminosa
ed
il
fotoperiodo. Per quanto riguarda la composizione minerale del substrato di
radificazione, ad esempio nel melo, la concentrazione dei macroelementi viene
dimezzata.
Tra gli ormoni vengono utilizzate soltanto le auxine in concentrazione variabile
a seconda della specie micropropagata e del metodo di somministrazione agli
espianti.
I germogli possono infatti restare in un substrato contenente acido 3indolbutirrico, acido naftalenacetico o acido indolacetico per tutto il periodo
necessario alla emissione delle radici, oppure essere trasferiti dopo circa una
settimana (quindi al termine della fase di induzione alla radicazione) in un
mezzo di coltura privo di acido 3-indolbutirrico.
Tecniche di Colture Cellulari - Università degli Studi della Basilicata – A.A. 2000-2001
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Nel primo caso per il pesco (una specie che radica con difficoltà "in vitro" per
l'elevato contenuto di tannini) la concentrazione ottimale di acido indolacetico
e acido naftalacetico è pari a 2,5x10-6 M (dosi maggiori causano deformazione
dei
germogli),
mentre
quella
di
acido
3-indolbutirrico
è
1,5x10-5
M
(concentrazioni maggiori hanno un effetto tossico).
Per il pecan, che presenta le stesse difficoltà di radificazione del pesco, Lazarte
ha impiegato il substrato WPM (Woody Plant Medium) aggiungendovi 3 mq/l di
acido 3-indolbutirrico e il 2% di glucosio.
Nel secondo caso il castagno la dose ottimale da aggiungere al substrato iniziale
è di lmq/l e lo sviluppo delle prime radici si ha dopo 2-3 settimane.
La rizogenesi è possibile limitando il contatto dei germogli con le auxine ad
una sola settimana perchè queste svolgono una azione favorevole nell'indurre il
processo di radicazione, ma inibiscono l'accrescimento delle radici neoformate.
Ciò è dimostrato dalle percentuali di radificazione che si ottengono in Actinidia
chinensis immergendo i germogli in una soluzione di acido 3-indolbutirrico
(19mg/l) per un breve periodo di tempo e coltivandoli poi in un substrato privo
di auxina, oppure utilizzando per tutta la fase di radificazione un terreno di
coltura contenente 1mg/l di acido 3-indolbutirrico, che rispettivamente sono
pari al 75% ed al 37,5%.
Un'altra conferma della capacità delle auxine di indurre la radicazione è data
dalle modificazione anatomiche della parte basale di germogli di noce dopo
l'aggiunta di acido 3-indolbutirrico. Si osserva, infatti, un inspessimento della
corteccia, l'estroflessione dei fasci parenchimatici e del cilindro centrale; anche
le
cellule
fusiformi
del
cambio
(cellule
meristematiche)
subiscono
modificazioni. Questo effetto è evidente aggiungendo 500 pmm di acido 3indolbutirrico, anche se il massimo effetto si ottiene aggiungendo 2000 ppm.
Un altro metodo per favorire l'emissione delle radici è l'immersione della parte
basale dei germogli (1 cm circa) in una soluzione contenente acido 3-
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indolbutirrico ed il successivo trasferimento dei germogli in un substrato privo
di auxine per l'emissione delle radici.
Sempre nel castagno, si consegue una ottima radicazione lasciando immersi i
germogli per un tempo variabile fra 2-15 minuti a seconda della concentrazione
di auxina (rispettivamente 1-0,5 mg/l).
In Pinus radiata si è visto che il GA 3 inibisce la radificazione se somministrato
all'inizio della prima fase e ciò è forse dovuto ad una diminuizione della
concentrazione di auxine endogene in questo periodo, mentre stimola la
formazione delle radici se somministrato successivamente.
La rizogenesi è influenzata negativamente dalla presenza di tannini e altre
sostanze fenoliche. Sopratutto nelle specie dove la produzione di questi
composti è notevole, per favorire l'emmissione delle radici al substrato si
aggiunge carbone attivo, che assorbe anche altre sostanze tossiche.
Gli
effetti positivi del carbone presente nel mezzo di coltura sono stati evidenziati
sia sull'accrescimento in vitro che sulla successiva fase di radificazione dei
germogli in Sequoiadendron giganteum.
Un'altra tecnica che favorisce la radificazione dei germogli è l'eziolamento
degli stessi per 1-2 settimane all'inizio della fase di radicazione. Nel melo si
ottengono risultati positivi mantenento gli espianti al buio per 4-7 giorni.
Il mantenimento al buio del materiale vegetale ed il carbone attivo hanno un
effetto sinergico sulla radicazione. Mantenendo infatti germogli di melo al buio
per 8 giorni in un substrato contenente sia acido 3-indolbutirrico che carbone si
ottiene una percentuale di radicazione pari all'86,2% mentre in assenza di
carbone questa percentuale scende al 65%.
Tuttavia durante il periodo di eziolamento è bene che nel substrato non sia
presente il carbone attivo perché può assorbire l'acido 3-indolbutirrico. Come
supporto fisico per i germogli possono essere impiegati substrati agarizzati,
terreni liquidi, torba, vermiculite e agriperlite. Questa fase ha una durata di 3-5
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settimane e l'emissione di radici funzionali si può rilevare dalla formazione di
nuove foglie.
Fase 4: Ambientamento
È l'ultima fase della micropropagazione: le piantine vengono trasferite dalla
camera di accrescimento alla serra quando presentano un apparato radicale
sufficiente a garantire l'attecchimento "in vivo".
L'ambientamento si distingue in due stadi:
•
attecchimento delle piantine nel nuovo substrato di trapianto;
•
ambientamento vero e proprio alle condizioni della serra e del campo.
Il primo stadio si favorisce mantenendo umidità e temperatura simili a quelle in
vitro. Dopo alcuni giorni, se gli apici mostrano attività di crescita, inizia il
secondo stadio durante il quale temperatura e umidità vengono portate
lentamente a quelle naturali.
L'ambiententamento è reso difficile dalle caratteristiche dei tessuti in vitro
cresciuti in un ambiente caratterizzato da temperatura uniforme, umidità elevata
e costante. Per permettere ai diversi organi di riacquistare la normale attività,
l'acclitamento deve quindi essere graduale. Il livello di umidità del substrato di
trapianto rappresenta un fattore importante sia per l'accrescimento delle radici
che per un eventuale attacco di patogeni; perciò devono essere impiegati
substrati capaci di assicurare una sufficiente permeabilità ed areazione del
mezzo e contemporaneamente trattenere una quantità soddisfacente di acqua. I
componenti del terriccio più comunemente utilizzati sono: torba, sabbia e
perlite, in rapporti diversi a seconda delle esigenze delle specie. Attualmente
vengono sperimentate anche schiume sintetiche inerti. Per avere un’umidità
atmosferica simile a quella dei vasi di coltura può essere impiegato un sistema
di spray che incrementa gradualmente gli intervalli di erogazione dell’acqua.
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Con questo metodo si raggiunge spesso un livello di umidità del substrato
eccessivo che può causare asfissia radicale. Perciò è preferibile l'impiego di
tunnel di plastica posti sopra i bancali, nei quali l'elevato livello di umidità è
assicurato dalla evaporazione dell'acqua contenuta nel terreno. La luce e la
temperatura vanno mantenute allo stesso livello della fase precedente. Tuttavia
le diverse tecniche presentano vantaggi e svantaggi in base ai costi delle
strutture ed al fabbisogno di umidità e temperatura delle singole specie.
L'ambientamento determina delle variazioni della struttura e della funzionalità
dei tessuti. La pianta coltivata in vitro presenta, infatti, un metabolismo diverso
rispetto ad una pianta cresciuta in condizioni normali: è essenzialmente
eterotrofa poichè per il suo accrescimento utilizza il saccarosio presente nel
substrato di crescita e fissa solo piccole concentrazioni da anidride carbonica.
Uno dei primi problemi incontrati dalle piante ex vitro è l'eccessiva perdita di
acqua. Questo fenomeno è legato alla consistenza delle foglie dei germogli
sviluppatesi in vitro che sono sottili, con scarsa formazione del mesofillo e con
il tessuto a palizzata che presenta grandi spazi intercellulari. Presentano anche
poche cere epicuticolari poichè all'interno del contenitore esiste una elevata
umidità relativa. Gli stomi sono caratterizzati da una scarsa funzionalità. Per
favorire il graduale aumento dello spessore del mesofillo e la riduzione degli
spazi intercellulari e quindi evitare stress di trapianto e difficoltà nel
successivo sviluppo, la pianta va inizialmente mantenuta in condizioni il più
possibile vicine a quelle della camera di crescita.
In alcune specie le radici formate su substrato agarizzato non presentano un
capillizio radicale e muoiono dopo il trapianto e se ne sviluppano altre ex novo
che assicurano la sopravvivenza della pianta.
Prove eseguite su Acacia koa hanno evidenziato che le radici sviluppatesi su
substrato liquido presentano invece peli radicali ed un sufficiente sistema
vascolare.
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Anche nel noce, sono stati ottenuti migliori risultati utilizzando come substrato
per i germogli, precedentemente immersi per 15" in una soluzione di IBA (10
pmm), la vermiculite.
In questo modo si ottiene anche un vantaggio economico poichè le operazioni
inerenti le fasi di radicazione, di trapianto e di ambientamento richiedono un
impiego elevato di manodopera con un costo relativo che si aggira intorno al
56% di quello totale.
Se la radicazione è avvenuta in un substrato agarizzato, le piantine vanno
sciacquate in acqua per eliminare residui del mezzo di coltura che favoriscono
lo sviluppo di batteri e funghi patogeni.
Fattori che influenzano l'attività proliferativa
La fase di moltiplicazione è una delle più importanti della micropropagazione
perchè
influenza
direttamente
l'economia
delle
colture
in
vitro.
Una
caratteristica di questo metodo di propagazione è, infatti, la possibilità di
produrre in tempi brevi un numero elevato di germogli. L'attività proliferativa
degli espianti è legata a :
•
la composizione del substrato di proliferazione;
•
fattori fisici,
•
caratteristiche genetiche della specie o della cultivar;
•
contaminazioni batteriche latenti;
•
vitrificazione dei tessuti;
•
giovanilità.
VANTAGGI E SVANTAGGI DELLA MICROPROPAGAZIONE
Le tecniche tradizionali di propagazione sono in genere piuttosto lente; la
moltiplicazione in vitro delle piante arboree mira a moltiplicare rapidamente ed
a
costi
contenuti
cultivars
e
selezioni
di
particolare
interesse.
moltiplicazione più rapida si ottiene per la combinazione di più fattori :
La
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•
- 50 -
elevato tasso di moltiplicazione in vitro, che per alcune specie è di 1:20 ogni
4-5 settimane;
•
il ciclo di ogni generazione è molto breve e la divisione dei germogli in
proliferazione avviene ogni mese;
•
la vegetazione è svincolata dai cicli stagionali;
•
le colture hanno la massima resa perchè non sono soggette a parassiti,
patogeni e avversità climatiche presenti, invece, nell'ambiente esterno e
prelevando porzioni di tessuto meristematico apicale con spessore fra 0,2-0,5
mm si ottengono piante virus-esenti.
Inoltre:
•
lo spazio richiesto per ottenere la moltiplicazione dei germogli è limitato;
•
il materiale può ssere frigoconservato, perciò si può razionalizzare la
produzione in funzione delle esigenze del mercato;
•
è necessario un numero limitato di piante madri per moltiplicare genotipi
selezionati;
•
è facilitato lo scambio tra i diversi paesi del materiale che, essendo sterile,
rende più semplici le operazioni di quarantena o di ispezioni;
•
vengono semplificati i programmi di miglioramento genetico perchè i
risultati sono evidenziabili in tempi più brevi;
•
le piante ottenute sono omogenee essendo la micropropagazione un metodo
di clonazione;
•
è possibile propagare specie di difficile moltiplicazione con le tecniche
tradizionali.
Tuttavia esistono ancora dei problemi che limitano l'utilizzazione delle colture
in vitro. È infatti difficile applicare convenientemente questa tecnica per la
rigenerzione di colture di specie importanti come leguminose e cereali. Inoltre
in
vitro
può
caratteristiche
essere
diverse
indotta
la
(resistenza
formazione
a
parassiti
di
o
mutanti
a
interessanti
condizioni
per
ambientali
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- 51 -
estreme), ma è possibile che in coltura le piante non conservino queste
caratteristiche e quindi viene meno la possibilità di rigenerarle.
Un altro problema è la valutazione della stabilità genetica delle piante
micropropagate. La conta del numero dei cromosomi permette di individuare il
livello di ploidia (il passaggio in vitro della coltura può determinare un
aumento del livello di ploidia, negativo sopratutto per i genotipi selezionati),
ma non è possibile stabilire il fenotipo e, per le specie arboree in particolare, la
valutazione fenotipica in campo richiede un lungo periodo.
Se il materiale di partenza presenta contaminazioni i germogli possono non
svilupparsi in vitro, oppure dopo alcune subcolture , i virus o i batteri passano
dalla fase
di latenza a quella infettiva, con la conseguente perdita degli
espianti. Nelle specie che radicano con difficoltà, dopo l'induzione alla
radicazione, è necessaria una ulteriore fase di crescita su un substrato senza
ormoni per consentire ai primordi radicali di fuoriuscire, allungando cosi' il
periodo di coltura ed incidendo sui costi di produzione. In alcuni casi c'è
vitrificazione dei germogli e nella fase di ambientamento dopo il trapianto in
terriccio sono possibili infezioni fungine per l'elevata umidità ambientale.
È
quindi
auspicabile
un
ulteriore
miglioramento
delle
tecniche
di
micropropagazione attuali in modo da ottenere piante di qualità superiore,
perchè controllate geneticamente, esenti da patogeni e con un omogeneo
comportamento agronomico. Ciò è reso indispensabile per i costi che si devono
sostenere nei laboratori di micropropagazione sia per l'organizzazione dei
laboratori stessi, sia per l'acquisto di tutti i costituenti del substrato di crescita.
Un'altra voce importante di costo è quella riguardante il personale richiesto nei
laboratori, che deve essere altamente specializzato.
CONSERVAZIONE DEL GERMOPLASMA
In un'ottica di conservazione delle risorse genetiche vegetali è di rilevante
importanza la messa a punto di tecniche che consentano la conservazione di
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specie a propagazione vegetativa e di specie che presentano semi recalcitranti
(cioè non facilmente disidratabili).
Per quanto attiene le metodologie di conservazione in vitro, schematicamente
distinguiamo :
•
coltura di tessuti a crescita normale;
•
coltura di tessuti a crescita minima;
•
crioconservazione.
Le colture di tessuti possono essere mantenute in condizioni normali di crescita
in modo, virtualmente, indefinito, a condizione che siano forniti i nutrienti
necessari e venga garantito un ambiente ottimale. Si hanno condizioni di coltura
a crescita minima quando gli espianti si accrescono ad un tasso molto ridotto. I
metodi utilizzati per indurre una crescita minima possono comprendere:
-
l'alterazione
delle
condizioni
fisiche
di
coltura,
più
frequentemente,
mediante una riduzione della temperatura, oppure abbassando la pressione
atmosferica;
-
la modificazione del mezzo di coltura riducendo od eliminando uno o più
fattori di crescita;
-
l'utilizzazione dei composti ritardanti la crescita come l'acido abscissico o
composti ad azione disidratante, in grado di abbassare il potenziale
osmotico.
La conservazione a basse temperature offre, infine, altri vantaggi. Le basse
temperature rallentano la crescita e lo sviluppo in modo naturale e riducono il
numero di subcolture da effettuare. Inoltre il numero di mutazioni che si
verificano sembra essere più basso rispetto a quelle che si verificano in
condizioni normali ad ogni subcoltura.
Inoltre,
la
conservazione
per
congelamento
(criocoservazione)
è,
tradizionalmente, impiegata per le coltura di cellule animali (spermatozoi,
ovari,
tessuti
embrionali),
mentre
risulta
essere,
relativamente
recente,
l'applicazione alle cellule vegetali. Le potenzialità di un tale metodo di
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- 53 -
conservazione, a lungo termine, sono ampie, benchè le ricerche e gli studi, in
questo campo, siano ancora in una fase di messa a punto e verifica della
tecnica.
La crioconservazione si basa sulla riduzione e, conseguente, arresto delle
funzioni
metaboliche
temperature.
di
Attualmente
crioconservazione
ed
materiale
è
biologico
possibile
applicarle
a
sottoposto
combinare
differenti
differenti
specie
a
bassissime
tecniche
vegetali.
di
La
crioconservazione comprende molte fasi, delle quali il congelamento è solo una.
Molta cura deve esere rivolta alla scelta del materiale, il quale deve essere
sano, e nel caso di materiale allevato in vitro i parametri di coltura e i
meccanismi legati alla rigenerazione devono essere attentamente ottimizzati
prima di procedere alla crioconservazione.
Sono necessarie alcune forme di crioprotezione del materiale per assicurare il
minimo danno agli espianti alle basse temperature. Durante il congelamento,
infatti, si verifica la formazione di cristalli di ghiaccio, i quali possono
danneggiare i tessuti. Questo tipo di problema è stato risolto utilizzando
sostanze con proprietà crioprotettrici. La prima sostanza chimica con tali
proprietà ad essere stata scoperta e stata il glicerolo, e, successivamente, il
dimetil solfossido (DMSO). I composti ad azione crioprotettrice devono avere
un'alta solubilità ed una bassa tossicità. Essi sono di solito classificati in due
categorie:
-
penetranti
-
non penetranti.
Al gruppo dei penetranti appartiene il DMSO, il metanolo, il glicerolo, al
secondo gruppo appartengono alcuni zuccheri, ed alcuni composti ad elevato
peso molecolare come il polivinilpirrolidone, il destrano. Tra i composti
penetranti il DMSO penetra nelle cellule più rapidamente del glicerolo,
richiedendo in questo modo trattamenti di più breve durata. Solitamente queste
sostanze
esibiscono
vari
gradi
di
tossicità
se
utilizzate
ad
elevate
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concentrazioni. Le concentrazioni più adeguate sono del 5-10% per il DMSO e
del 10-20% per il glicerolo. Aggiungendo al mezzo di coltura sostanze ad
azione osmotica come il mannitolo, sorbitolo, saccarosio o prolina si riesce ad
incrementare
la
resistenza
al
congelamento.
Tali
sostanze
svolgono,
principalmente, un'effetto disidratante. Se le cellule sono sufficientemente
disidratate
resistono
all'immersione
in
azoto
liquido
senza
un
ulteriore
applicazione di sostanze crioprotettrici.
Tali sostanze, tuttavia, a basse concentrazioni non assicurano un sufficiente
grado di crioprotezione, per questo motivo sono stati messi a punto alcuni
trattamenti al fine di aumentare la sopravvivenza del materiale dopo la fase di
congelamento. Dopo tali trattamenti , gli espianti possono essere portati alla
temperatura
dell'azoto
liquido
senza
dover
ricorrere
ulteriormente
all'applicazione di sostanze ad azione crioprotettrice.
Il congelamento dei tessuti si ottiene attraverso un'immersione diretta in azoto
liquido, oppure attraverso un raffredamento progressivo fino alla temperatura
desiderata.
Un aspetto che deve essere preso in considerazione riguarda il mantenimento
dell'integrità genetica degli espianti conservati in vitro. Tale stabilità genetica
si mantiene durante la conservazione, se si introducono in coltura meristemi,
apici di germogli ed embrioni. Inoltre, questo tipo di espianti rispetto ad altri
sembra mantenere più a lungo il potenziale rigenerativo.
La temperatura alla quale gli espianti vengono scongelati dipende dal metodo di
congelamento
utilizzato.
Solitamente
lo
scongelamento
si
ottiene
previa
immersione dei campioni in acqua sterile mantenuta a 40-45°C. In altri casi,
invece, lo scongelamento avviene a temperatura ambiente.
COLTURE CELLULARI
Le colture di cellule in sospensione vengono utilizzate per moltiplicare
rapidamente le cellule di una pianta in modo da ottenere compounds su scala
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industriale
senza
passare
dalla
coltura
di
pieno
campo.
- 55 -
Le
colture
in
sospensione si ottengono prevalentemente da callo e le parti friabili vengono
disperse (singole, a coppie o in piccoli aggregati) in un terreno di coltura
liquido. Tali cellule in sospensione possono mantenere o meno la capacità di
rigenerare la pianta. Per il miglioramento genetico hanno interesse solo le
colture nelle quali le cellule hanno conservato la loro capacità rigeneratrice. Al
momento sono stati messi a punto numerosi protocolli per coltivare le cellule in
sospensione in un mezzo liquido.
MANIPOLAZIONE DI PROTOPLASTI
I protoplasti si ottengono a partire da tessuti/cellule vegetali sottoposte ad
azione di enzimi (cellulasi e pectinasi) che digeriscono la parete cellulare. I
protoplasti si possono ottenere direttamente dai tessuti della pianta (ad es. dal
mesofillo) oppure dalle cellule dei calli o dalle sospensioni di cellule. La
quantità e la qualità dei protoplasti isolati sono influenzate dal tipo di tessuto
utilizzato e dallo stato fisiologico della pianta donatrice.
Nella maggior parte delle dicotiledoni, vengono generalmente utilizzate per
l'isolamento di protoplasti le giovani foglie, ottenute preferibilmente, da colture
di apici di germoglio.
Nelle monocotiledoni e nelle specie legnose si preferiscono calli embriogenetici
o sospensioni cellulari derivate da embrioni immaturi. I tessuti utilizzati
vengono, generalmente, digeriti con un trattamento iniziale in pectinasi che
dissolve la lamella mediana, mentre le cellulasi o emicellulasi degradano la
parete cellulare.
Successivamente
i
metodi
di
purificazione
dei
protoplasti
includono
la
filtrazione e la centrifugazione, al fine di rimuovere i tessuti e i frammenti
cellulari non digeriti ed, eventualmente, per selezionare i protoplasti. La
vitalità dei protoplasti appena isolati può essere valutata attraverso fluoresceina
diacetato oppure con la fenosafranina. Per ottenere la rigenerazione della parete
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cellulare, i protoplasti purificati devono essere piastrati ad una densità ottimale,
che solitamente oscilla tra 5x10 3 e 10 5 protoplasti/mL. Secondo alcuni autori, i
protoplasti possono essere piastrati su un substrato liquido o semisolido, oppure
una combinazione di entrambi. Per la solidificazione si ottengono i risultati
migliori con agarosio piuttosto che con agar. La composizione dei mezzi di
coltura dipende dal genotipo utilizzato, specie per quanto riguarda l'equilibrio
ormonale. In condizioni ottimali, i protoplasti originano colonie cellulari in
grado di formare callo. La rigenerazione dei germogli generalmente si ottiene
modificando la composizione del mezzo e variando le condizioni ambientali. Le
piante rigenerate ottenute da colture di protoplasti possono mostrare variabilità
che può essere utilizzata nei programmi di miglioramento genetico.
La fusione di protoplasti appartenenti a specie diverse consente l'ottenimento di
piante ibride, difficilmente ottenibili per altra via. L'obiettivo di questa tecnica
è la combinazione, attraverso la fusione di cellule somatiche, di cromosomi di
specie sessualmente incompatibili.
Quando la distanza evolutiva tra le specie parentali aumenta e, con essa,
l'incompatibiltà genetica, l'ottenimento di piante ibride diventa più difficile,
poichè se è facile fondere cellule e produrre ibridi cellulari, non altrettanto è
ottenere che questi crescano per successive divisioni mitotiche. La maggior
parte dei problemi è legata alla mancanza di sincronia operativa dei due genomi
parentali. Per superare questo tipo di problemi in alcuni casi si è pensato di
inserire solo parte del DNA della specie donatrice, cercando di ottenere ad
esempio ibridi contenenti il DNA nucleare di una sola specie ed il DNA degli
organelli citoplasmatici di un'altra (ibridi citoplasmatici). L'utilità di tale
procedura deriva dal fatto che certi caratteri economicamente importanti, sono
il risultato di una interazione tra il genoma nucleare e quello citoplasmatico,
come ad esempio la maschiosterilità genetico-citoplasmatica che è utile nella
produzione commerciale di seme ibrido. Fino a questo momento sono stati
studiati ibridi ottenuti con queste tecniche nel genere Nicotiana e casi di
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- 57 -
combinazione del genoma di colza (Brassica napus) con il citoplasma di
ravanello (Raphanus sativus).
È necessario fornire ai protoplasti condizioni osmotiche di equilibrio fra il
citoplasma e il substrato, addizionando una molecola non polare osmoattiva
(saccarosio, glucosio, mannitolo, sorbitolo), per evitare danni alla membrana
che, nelle cellule intatte, è protetta dalla parete.
I protoplasti possono fondersi spontaneamente durante la digestione enzimatica
della parete. Tale fenomeno è dovuto all'espansione del plasmodesma delle
cellule contigue e genera protoplasti con due o più nuclei dentro un citoplasma
comune (omocarionti).
Per
fondere
protoplasti
di
specie
differenti
si
devono
applicare
delle
metodologie specifiche miranti a questo scopo. Per quanto riguarda la
metodologia i protoplasti ottenuti da specie diverse possono essere fusi per
mezzo di sostanze chimiche o di impulsi elettrici
Fusione Chimica
Per quanto riguarda la fusione chimica la prima sostanza impiegata con questa
finalità è stata il nitrato di sodio, ormai abbandonata perchè produce fusioni con
frequenze
bassissime
(0,01%).
Successivamente
è
stato
utilizzato
il
polietilenglicole (PEG), molecola solubile in acqua, di peso molecolare
variabile fra 1500 e 6000. Tale sostanza viene utilizzata in soluzione con sali di
calcio, a pH alcalino. Il suo meccanismo di azione è legato al fatto che
trattandosi di una molecola assai lunga con cariche negative libere, si è pensato
che essa agisca da ponte tra protoplasti contigui. Il Ca ++ , invece, in soluzione
formerebbe un ponte tra le proteine di membrana polarizzate negativamente e il
PEG. Quando quest'ultimo viene asportato mediante diluizione, le molecole
ponte vengono disperse. Questo creerebbe una ridistribuzione delle cariche
elettriche su zone di unione di membrane di protoplasti contigui, tali da indurre
la fusione.
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Elettrofusione
Nel 1979 sono noti i primi reports relativi all'applicazione di campi elettrici per
fondere singole coppie di protoplasti. Nel 1981 alcuni importanti gruppi di
ricerca europea migliorarono tale tecnica. Si avvalsero di un fenomeno chiamato
dielettroforesi e fu dimostrato che era possibile portare in stretto contatto
grandi
quantità
di
protoplasti
simultaneamente
prima
dell'applicazione
dell'impulso per la fusione. L'elettrofusione massiva si ottiene in due tappe
successive. Nella prima i protoplasti vengono portati a contatto tramite la
dielettroforesi, nella seconda si produce il collasso elettrico delle membrane
mediante un impulso di corrente continua. Normalemente per effetto del
movimento Browniano e delle forze elettrostatiche create dalla carica negativa
delle membrane, i protoplasti in sospensione non vengono in contatto fra loro.
La dielettroforesi consente, invece, un intimo contatto tra protoplasti in un
campo di corrente alternata non uniforme. Infatti quando il campo elettrico è
uniforme il potenziale è uguale in entrambi i poli dei protoplasti, per cui non
esiste una forza e non si verifica movimento. In un campo non uniforme, invece,
si polarizzano disugualmente e si muovono verso la zona con maggiore
potenziale, formando catene a contatto tra le membrane. Le catene di protoplasti
si formano solo in una soluzione con conduttività minore a quella del
citoplasma. La presenza di elettroliti crea problemi di riscaldamento e
turbolenza che influenza negativamente la formazione delle catene. Solitamente
si aggiungono al mezzo, oltre a componenti non polari osmoattivi come
mannitolo o sorbitolo, tracce di Ca ++ per stabilizzare le membrane. La forza
dielettroforetica deve eccedere le forze di diffusione proprie delle cellule in
sospensione,
ma
le
catene
di
protoplasti
devono
formarsi
a
voltaggi
relativamente bassi per evitare il danneggiamento del citoplasma. In questa fase
si cerca di avere un gran numero di catene di soli due protoplasti ciascuna.
Questo tipo di catene si ottiene con sospensioni di bassa densità e con
potenziali deboli.
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Il collasso elettrico nella zona di contatto delle membrane è il primo processo
responsabile della fusione. Esso si verifica quando lo spessore della membrana
raggiunge circa il 10-20% di quello originario e avviene perchè le forze
elettriche di compressione cambiano più velocemente
di quelle elastiche di
restaurazione. In questo modo si formano piccolissimi pori attraverso i quali,
negli esperimenti di elettroporazione, che hanno come fine l'introduzione di
DNA esogeno, avviene l'incorporazione di materiale genetico. La fusione,
invece, si verifica quando i pori delle membrane si formano nei punti di
contatto di due o più protoplasti. Il potenziale necessario per provocare il
collasso della membrana dipende dalla dimensione del protoplasto e dall'angolo
di un punto della membrana rispetto alla direzione del campo elettrico.
Successivamente alla fusione se i protoplasti vengono incubati in un idoneo
mezzo di coltura, rigenerano le pareti e, attraverso successive divisioni, danno
origine ad una popolazione mista di eterocarionti (prodotti di fusione fra le due
popolazioni), omocarionti e cellule parentali non fuse. Il problema è, allora
individuare gli eterocarionti e distinguerli dalle altre cellule. Per raggiungere
questo scopo è possibile ricorrere a diversi tipi di approccio. Il sistema più
utilizzato si basa sulla complementarità di due popolazioni di protoplasti,
ciascuna delle quali da sola non riuscirebbe a sopravvivere su un mezzo di
coltura selettivo.
In alcuni casi si fa ricorso a linee mutate e fra le linee mutanti le più utilizzate
negli esperimenti di fusione sono quelle che, per sopravvivere, dipendono dalla
presenza, nel mezzo di coltura, di un determinato componente nutrizionale
perchè sono privi di qualche enzima che ne consente il metabolismo.
Dopo aver individuato i prodotti di fusione, essi non possono essere considerati
ibridi o cibridi fino a che non si ha la certezza della loro origine. Per averne la
conferma
esistono
diversi
metodi
che
composizione nucleare o citoplasmatica.
servono
a
caratterizzare
la
loro
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Tra le tecniche molecolari è possibile utilizzare la tecnica degli RFLP.
Utilizzando opportuni enzimi dei restrizione i parentali dovrebbero produrre
frammenti specifici discriminabili nel gel, mentre l'ibrido, dovrebbe evidenziare
la presenza di quelli di entrambi. Inoltre è possibile fare ricorso alla
citogenetica o alla determinazione del DNA. Il conteggio dei cromosomi e la
misurazione citofotometrica del DNA nucleare sono dei potenti strumenti per
accertare la natura ibrida e la stabilità citologica di un ibrido somatico.
L'ibridazione somatica comporta normalmente la sommatoria dei cromosomi di
enrambi i parentali per cui si formano individui euploidi. In altri casi si
verificano perdite di cromosomi di uno o entrambi i parentali per cui si formano
individui aneuploidi. Il metodo di studio più utilizzato ed attendibile è quello
usato per lo studio del cariotipo. Inltre si è potuto osservare che esiste una
buona correlazione tra il numero di cromosomi di una cellula e il contenuto
totale di DNA misurato mediante citometria di flusso. La tecnica utilizzata
prevede la colorazione dei nuclei con coloranti fluorescenti specifici che si
legano selettivamente al DNA, la cui fluorescenza è linearmente correlata al
contenuto di DNA.
Infine per l'identificazione degli ibridi somatici un metodo molto diffuso è il
ricorso al polimorfismo degli isoenzimi. Gli ibridi, normalmente , esprimono le
bande caratteristiche dei due parentali più una banda ibrida, che non si ottiene
con la miscela fisica degli estratti di tessuto dei parentali.
RISANAMENTO DI PIANTE DA VIRUS
Le colture in vitro possono essere utilmente sfruttate per l'ottenimento di
materiale virus-esente. La procedura di risanamento consiste nel prelevare dalle
piante virosate espianti quanto più piccoli possibile per diminuire la carica
vitale e il numero di cellule differenziate invase dal virus e con infezione ormai
stabilizzata. Per questo motivo, quando è possibile, si prelevano i soli apici
meristematici con i primi due abbozzi fogliari. Tali espianti vengono allevati su
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substrato artificiale (liquido o solido), oppure vengono microinnestati su
semenzali, sempre ottenuti in vitro.
Attraverso l'espianto degli apici si effettua di fatto una selezione nell'ambito
della pianta malata nell'intento di prelevare solo i tessuti (meristemi) non
raggiunti
dal
virus
che,
separati
dalla
pianta
madre,
grazie
alle
loro
caratteristiche di totipotenza, ne rigenerano un'altra sana. Questo metodo
funziona anche nel caso non raro che gli espianti (meristemi inclusi) siano
infetti perchè è la differenziazione degli apici che comporta gli esiti terapeutici
a
seguito
dell'antagonismo
che
si
instaura
tra
metabolismo
cellulare
e
replicazione virale nel corso dell'evoluzione dell'apice in plantule.
In realtà i meccanismi molecolari di tale antagonismo non sono noti ma è
possibile che il trauma stesso della dissezione provochi profonde turbe nel
metabolismo dell'espianto e sia responsabile, almeno in parte, degli effetti
inibitori.
Infine
non
si
può
escludere
che
qualche
composto
chimico
indispensabile alla differenziazione dell'apice interferisca sul rapporto viruscellula sfavorendo la replicazione virale.
Il risanamento da virus può essere ottenuto utilizzando pratiche diverse, talora
usate in combinazione tra loro. Ad esempio è possibile aggiungere inibitori
della moltiplicazione virale (ribavirina ad es.) ai substrati di crescita degli
espianti, oppure allevare gli espianti a temperature relativamente elevate e poco
confacenti alla replicazione virale (termoterapia).
Un'applicazione del tutto particolare delle colture in vitro è il microinnesto.
Questo
metodo,
messo
a
punto
da
Murashige
et
al.,
(1972),
consiste
nell'innestare sull'epicotile decapitato di un semenzale allevato sterilmente in
vitro un espianto di 0,4-1,5 mm di lunghezza e lasciarvelo sviluppare.
L'interesse per questa tecnica è cresciuto in relazione alla possibilità di
sfruttare questa tecnica per l'eliminazione dei virus. Tale tecnica, infatti, è stata
dapprima utilizzata per il risanamento degli agrumi per i quali oggi costituisce
uno dei sistemi terapeutici più diffusi, successivamente tale tecnica è stata
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applicata anche ad altre specie arboree. Anche con questa tecnica è possibile
incrementare la percentuale di risanamento allevando i semenzali microinnestati
a temperature moderatamente elevate. Il microinnesto rispetto alla coltura di
tessuti in vitro tradizionale è, sicuramente, più macchinoso nella esecuzione,
ma offre un considerevole vantaggio e cioè mette al sicuro da possibili
modificazioni
indotte
nelle
piante
dalla
coltura
in
vitro.
Infatti,
nel
microinnesto l'apice meristematico non è mai a diretto contatto con il substrato
artificiale il quale, peraltro, è meno complesso e ricco di fattori di crescita dei
substrati che si adoperano comunemente per indurre la differenziazione degli
espianti messi in coltura.
Quando si procede al risanamento gli esiti terapeutici del microinnesto e della
coltura in vitro tradizionale non possono essere dati per scontati. Per questo è
sempre necessario procedere alla verifica della sanità delle plantule cosi'
ottenute, attraverso accertamenti diagnostici sperimentali (saggi biologici e
sierologici).
LA TRASFORMAZIONE GENETICA
CONSIDERAZIONI GENERALI
IN
PIANTA:
ASPETTI
E
Introduzione
Nel settore vegetale si intende per trasformazione genetica l’ottenimento
dell’integrazione stabile di un frammento di DNA estraneo nel genoma della
cellula vegetale (Bains, 1993). La trasformazione genetica può indurre nelle
piante rigenerate, che vengono definite transgeniche, dei cambiamenti fenotipici
senza alterare i caratteri preesistenti ed il DNA introdotto, normalmente costituito
dalla porzione codificante di uno o più geni, viene detto transgene.
Occasionalmente il termine trasformazione viene utilizzato quando il transgene
viene introdotto nella cellula ma non riesce ad integrarsi stabilmente nel genoma.
Malgrado ciò il transgene può comunque esprimersi per un tempo limitato dando
luogo a quel fenomeno definito espressione transitoria, che si descriverà
dettagliatamente in seguito.
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La trasformazione richiede pertanto l’utilizzo di tecniche di ingegneria genetica
per l’isolamento di geni di interesse, la loro clonazione in vettori di espressione in
pianta (in genere sono di origine plasmidica o virale) e l’utilizzo di tecniche di
manipolazione in vitro che rendono possibile l’introduzione del gene isolato e la
sua integrazione stabile nel genoma vegetale. L’obiettivo è ottenere un’intera
pianta trasformata e fertile che conservi i caratteri dell’individuo di partenza e la
presenza del carattere d’interesse espresso dal transgene.
La trasformazione genetica viene utilizzata soprattutto nel campo del
miglioramento genetico delle piante ed in generale richiede la disponibilità di:
• geni marcatori e metodi di selezione affidabili;
• vettori adeguati per il trasferimento e l’integrazione del DNA esogeno;
• tecniche efficienti di trasformazione;
• tecniche di rigenerazione di piante transgeniche.
La storia
Le prime piante transgeniche sono state ottenute negli anni ottanta a partire da
protoplasti di tabacco infettati con Agrobacterium tumefaciens (Horsch et al.,
1984; De Block et al., 1984). Nella solanacea, utilizzata per la sua elevata risposta
al trattamento in vitro, è stato introdotto il gene chimerico della neomicina
fosfotransferasi (NPTII), che si esprimeva stabilmente e conferiva resistenza
all’antibiotico kanamicina sia alle trasformate primarie sia alle loro progenie. Lo
sviluppo di successive metodiche di trasformazione mediate da Agrobatterio, a
partire da foglie, stelo o altro espianto di rigenerazione, meno complicato dei
protoplasti (Horsch et al., 1985), permise l’utilizzo di tale metodica in molte
specie vegetali, in particolare dicotiledoni, quale tecnica di routine. Altri metodi
di trasformazione diretta del DNA, come il trattamento dei protoplasti con
glicolepolietilenico (Krens et al., 1985), l’elettroporazione (Fromm et al., 1985),
la microiniezione (Neuhaus et al., 1987) e il bombardamento con microparticle
“biobalistico” (Klein et al., 1987, Wang et al., 1988) permisero di ampliare il
numero delle specie vegetali trasformabili anche a quelle definite recalcitranti alla
trasformazione con Agrobacterium tumefaciens, quali le graminacee (GordonKamm et al., 1990).
Il notevole sviluppo delle tecniche di trasformazione genetica in piante modello
quali tabacco e Arabidopsis può permettere oggi un’efficace analisi funzionale di
nuovi geni clonati. D’altra parte, l’espressione del gene si può controllare
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mediante l’impiego di sequenze promotrici e terminatrici adeguate, che
restringono l’espressione a determinati tessuti (Mariani et al., 1990) . Geni
chimerici sono stati legati anche a peptidi di transito che veicolano il prodotto
proteico a determinati organuli cellulari (Forsman e Pilon 1995). La possibilità di
integrazione del gene estraneo in punti concreti del genoma vegetale per
ricombinazione omologa (“gene targeting”) (Offringa et al., 1990) o mediante
l’impiego di MARs (“Matrix Attachmant Regions”) (Mlynàrovà et al., 1996)
risulta ugualmente interessante.
Bisogna infine ricordare i notevoli progressi compiuti nel settore
agrobiotecnologico nei trascorsi venti anni, ma solo negli anni ’90 sono iniziate le
produzioni di sementi transgeniche che adesso sono in continua espansione. Le
prime piante transgeniche sono stati commercializzate nella Comunità Europea a
partire da metà degli anni ‘90. Dal pomodoro “Flavr Savr” che presenta un ritardo
nella maturazione, alla soia “Roundup-Ready” resistente ad un erbicida
glucosinato fino al mais resistente al lepidottero piralide. Migliaia di genotipi
transgenici sono attualmente in valutazione, per ottenere il requisito preliminare
ed indispensabile per l’approvazione e la successiva commercializzazione (APHIS,
1997). Il settore delle agrobiotecnologie, secondo stime di società multinazionali,
vede crescere il fatturato dai 2.7 miliardi di dollari del 1989 ai 14 nel 1994 e si
prevede che debba raggiungere i 60 miliardi di dollari nel 2000 ed i 150 nel 2005.
Nel 1997 si sono stimati circa 14 milioni di ettari coltivati con specie
geneticamente modificate (mais, soia, colza, cotone, tabacco, riso, patate, diverse
specie di ortaggi come: pomodoro, fragole, angurie etc.). Tali coltivazioni sono
concentrate soprattutto negli U.S.A. ed in Canada. Negli U.S.A. la produzione di
mais e di soia transgenica ha raggiunto nel 1997 rispettivamente il 14,8% ed il
13,4% della totale quantità raccolta (246 e 73 milioni di tonnellate).
Estese superficie si riscontrano anche in Cina (tabacco, riso, pomodoro, angurie)
ed in misura minore anche in altri paesi asiatici (es. Giappone). Nei paesi
dell’Europa dell’est si riscontrano coltivazioni di colture transgeniche in
Bulgaria.
Nel campo vegetale gli aspetti studiati tendono ad una vasta gamma di
applicazioni:
Piante resistenti (soia, riso, colza, patate, mais, frumento, albicocco, tabacco,
carciofo) ad erbicidi e/o parassiti (virus, batteri, insetti);
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• Piante con prodotti a lunga conservazione (pomodoro, melone, anguria);
• Piante con rendimenti produttivi maggiori (soia, colza, barbabietola);
• Piante resistenti alla salinità e alle gelate (riso, molte specie ortive);
• Piante con spiccate caratteristiche organolettiche dei frutti (fragole).
Nel settore delle biotecnologie operano circa 700 aziende in Europa e 1300 in
U.S.A. che hanno suscitato enorme interesse nel mondo finanziario. Solo nel 1996
le aziende europee hanno raccolto nelle varie borse in giro per il mondo 1.2
miliardi di dollari. Si prevede un notevole sviluppo
del settore in virtù
dell’interesse posto dalle grandi aziende farmaceutiche che tendono a collaborare
con i vari istituti di ricerca finanziandone la sperimentazione per assicurarsi lo
sfruttamento delle scoperte. Infatti la posta della nuova corsa alla frontiera
biologica, sia nella produzione alimentare sia in quella farmaceutica, è costituita
dagli enormi profitti che derivano dal diritto allo sfruttamento commerciale della
scoperta per 20 anni. I prodotti vegetali transgenici mostrano una crescita
esponenziale perché le colture costituiscono un'innovazione di rilievo in grado di
produrre notevoli effetti sulle rese unitarie (si stima che consentono aumenti medi
del 20% rispetto alle colture tradizionali) e sui costi (si stima che consentano
riduzioni nei costi di produzione fino al 40%) e di rappresentare inoltre
opportunità per l’agricoltura sostenibile. Con l’introduzione e la rapida diffusione
di queste moderne tecniche sarà possibile a breve tempo incrementare velocemente
le produzioni mondiali di cibo, di fibre e mangimi.
Le differenti tecniche di trasformazione
Esistono diverse metodologie di trasformazione che possono essere raggruppate in
due categorie principali: la trasformazione indiretta o mediata da agenti o vettori
biologici e la trasformazione diretta non mediata da vettori biologici. In Fig.
sono riportati i metodi maggiormente utilizzati nella trasformazione genetica delle
piante e che richiedono l’uso di tecniche di rigenerazione in vitro.
I geni marcatori: hanno un ruolo molto importante nel processo di trasformazione.
La loro integrazione nel genoma della cellula vegetale ospite conferisce alla stessa
un fenotipo diverso dalla cellula non trasformata, permettendo l’identificazione
delle cellule trasformate e la successiva valutazione di questi geni (Bower, 1993).
Si distinguono due classi di marcatori per la trasformazione:
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•
Geni marcatori di selezione, che conferiscono alla cellula trasformata la
possibilità di svilupparsi in presenza di un agente selettivo (antibiotico,
erbicida, ecc.) incluso nel mezzo di coltura;
• Geni marcatori informatori, che conferiscono alla cellula una caratteristica
morfologica distinguibile.
Un altro aspetto importante è la scelta della sequenza promotrice, ossia la
sequenza di DNA che
accende il gene e che ne controlla l’espressione
distinguendo tra: promotori costitutivi (gene sempre attivato), tessuto-specifici ed
inducibili (attivo solo in risposta a fenomeni quale luce, freddo, siccità o lesioni)
(Sala, 2000). La maggior parte dei geni negli organismi superiori è controllata da
promotori inducibili. I primi esempi di piante o organismi geneticamente
modificate (OGM) avevano transgeni con promotori costitutivi, mentre
l’orientamento attuale è quello di produrre piante con promotori tessuto-specifici
e/o inducibili da stress biotici. Tra i promotori costitutivi più utilizzati ricordiamo
il CaMV35S isolato dal virus del mosaico del cavolfiore (Benfey e Chua, 1990; Ho
et al., 1999) e il promotore NOS del gene della Nopalina sintetasi (HerreraEstrella et al., 1983). Il promotore costitutivo permette di esprimere il trangene
con alta efficienza, ma spesso tale fenomeno implica problemi etico-ambientali.
Nel caso del mais-Bt (con introdotto un gene mutagenizzato di Bacillus
thuringiensis anti lepidottero) l’alta espressione della tossina-Bt potrebbe alterare
gli equilibri delle popolazioni dell’insetto bersaglio con relative conseguenze per
la biodiversità, oppure potrebbe favorire la selezione di insetti resistenti. In altre
occasioni è preferibile limitare l’espressione del gene marcatore a certi tessuti, ed
è quello che si ottiene ponendo il gene sotto un promotore specifico del tessuto
prescelto (Ozcan et al., 1993). Sono in corso diversi programmi di ricerca
finalizzati all’isolamento di promotori che attivano i geni in seguito ad infezione
da parassiti, in dati stadi di sviluppo della pianta o in particolari tessuti (Saxena
et al., 1999).
a) marcatori di selezione
L’utilizzo dei geni marcatori di selezione è consigliabile in modo da
per lo meno di limitare, lo sviluppo di individui non trasformati
escapes).Esiste un numero considerevole di questi geni (Croy, 1993)
più utilizzati è il gene per la neomicina fosfotransferasi II (NPTII),
trasposone Tn5 di E. coli, che conferisce resistenza ad
impedire o
(in inglese
ed uno dei
isolato dal
antibiotici
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aminoglicosidici, come kanamicina, neomicina, gentamicina (G418) poiché
codifica per una proteina che inattiva per fosforilazione tali antibiotici.
I geni marker di resistenza ad antibiotici presentano lo svantaggio di dare origine
a piante trasformate selezionate per la resistenza a tali sostanze agenti nel mezzo
di coltura. Pertanto l’eliminazione dei geni marker dopo la fase di selezione
diviene auspicabile (ancorché molto complessa geneticamente) sia in vista della
commercializzazione dei prodotti transgenici sia per utilizzare lo stesso marcatore
di selezione in successivi programmi di trasformazione della medesima linea
transgenica o da linee derivate da sue progenie (Yoder e Goldsbrough, 1994).
Esistono diversi sistemi di trasformazione che permettono l’eliminazione dei geni
marcatori, come la cotrasformazione (Mc Knigth et al., 1987), l’utilizzazione di
elementi trasponibili (per esempio la famiglia Ac/Ds del mais; Goldsbrough et al.,
1993) o l’utilizzo di sistemi di ricombinazione specifica (per esempio, il sistema
Cre/lox del fago P1; Russel et al., 1992). Tutti questi metodi richiedono la
realizzazione di incroci successivi per eliminare il gene di selezione. Il sistema di
selezione positivo (Joersbo and Okkels, 1996) evita l’utilizzo di geni di resistenza
ad antibiotici o ad erbicidi. Il sistema prevede l’introduzione del gene uidA o GUS
come agente doppio (informatore e selettivo), realizzando la selezione in un
terreno contenente un glucuronide di benziladenina. Altro sistema è quello della
“MultiAutoTrasformazione” (MAT) (Ebinuma et al., 1997) che utilizza il gene
chimerico ipt, inserito nell’elemento trasponibile Ac del mais, come gene di
selezione visiva (perdita di dominanza apicale), che permette l’eliminazione
spontanea del gene in certi individui rigenerati senza la necessità di ottenere
progenie per la sua eliminazione.
T a b ella 2 . Elenco dei principali g e n i m a r c a t o r i ( ma r k e r ) di selezione.
Gene marcatore
E n zim a c o d i f i c a t o
R e s is t e n za a d a n t ib io t ic i
N p tI I
n e o mi c i n a f o s f o t r a n s f e r a s i
k a n a mi c i n a , n e o mi c i n a ,
p a r o mo mic in a , G 4 1 8
( g e n t a mic i n a )
Hpt o aph IV
D h f r d a b a tte r i o
ig r o mic in a f o s f o tr a n s f e r a s i
diidrofolato riduttasi
i g r o mic in a
m e th o tr e x a te
to p o
A C C 3 e A A C 3 ( 3 ) g e n ta mi c i n a 3 N a c e t i l t r a n s f e r a s i g e n t a mic i n a
Aad A
a min o g lic o s id e 3 ’
s t e p to mi c i n a , s p e c t i n o mi c i n a
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adeniltransferasi
Resistenza ad erbicidi
Bar
Aro A
f o s f i n o tr i c i n a a c e t i l t r a n s f e r a s i
Geni als
acetoidrossiacido sintetasi o
acetolattato sintetasi
mo d if ic a ti
5 - e n o lp ir u v ils h ik ima to 3 fosfosintetasi
f o s f in o tr ic in a
g lyp h o s a to
c h lo r s u lf u r o n o imid a z o lo n e
b) marcatori informatori
I geni marker informatori permettono di distinguere le cellule, i tessuti e/o intere
piante che hanno incorporato ed espresso il transgene da quelle che non lo
contengono con un semplice saggio. Tra i geni di questo tipo disponibili (Croy,
1993), il più utilizzato ad oggi è il gene della β-glucuronidasi (uidA o GUS)
isolato da E. coli. La β-glucuronidasi idrolizza β-glucuronidi in acido glucuronico
e altri prodotti facilmente saggiabili (Jefferson, 1987). L’analisi della detenzione
e dell’espressione del gene può essere tanto qualitativa (istologica) che
quantitativa (fluorimetrica).
Nel caso di molte specie legnose, l’impiego dei geni marcatori informatori è
indispensabile, vista l’alta frequenza di escapes durante il processo di
trasformazione genetica anche in presenza di agente selettivo (James et al., 1989;
Pena et al., 1995a,b; Mourgues et al., 1996).
Sebbene il gene Gus abbia molte proprietà utili, uno degli svantaggi del suo
utilizzo è che la colorazione istochimica per l’espressione di GUS è distruttiva e i
tessuti transgenici non possono essere recuperati per un'ulteriore proliferazione
del callo e la rigenerazione di piante dopo la loro identificazione. Un gene
reporter alternativo che fornisce l’opportunità di recuperare i tessuti trasformati
dopo l’identificazione è il gene Luc che codifica per l’enzima luciferasi nelle
lucciole. (Chia et al.1994). Esistono diverse tecniche che permettono il
rilevamento dell’attività del gene luciferasi trattando piante intere o parti con il
substrato luciferina e successivamente visualizzando la luce prodotta o per
fotografia a contatto (Ow et al., 1986; Schneider et al., 1990) o tramite un
sistema video di amplificazione di immagine (Wick, 1989; Kay et al., 1994).
Attualmente il gene marcatore alternativo al GUS, più utilizzato che presenta i
vantaggi di una colorazione vitale e la semplicità del suo rilevamento nel
materiale trasformato è il gene GFP (“Green Fluorescent Protein”). Il gene per la
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proteina fluorescente verde GFP, isolato da Aequorea victoria, una medusa, che
emette una luce verde fluorescente (λ m a x = 509nm, con un picco minore a 540nm),
si analizza semplicemente irradiando con luce ultravioletta (λ m a x = 395nm) o blu
(λ m a x = 475nm) (Heim et al., 1994; Chalfie et al. 1994; Baulcombe et al 1995,
Elliott et al., 1999).Le proprietà fluorescenti associate al gene GFF lo rendono un
marcatore ideale per i processi di trasformazione. Il basso livello di espressione
genica e una scarsa produzione della proteina wild-type ha limitato la sua
applicazione nelle piante. Questi inconvenienti hanno portato allo sviluppo di
molte versioni modificate del gene gfp con una sequenza alterata per migliorare
l’espressione e la sostituzione di aminoacidi per spostare le proprietà spettrali o
aumentare la solubilità (Chiu et al., 1996, Heim e Tsien, 1996; Haseloff et al.,
1997, Davis e Vierstra, 1998). La fluorescenza del gene GFP è stata visualizzata
in protoplasti di arancio (Niedz et al., 1995), mais (Hu e Cheng, 1995; Sheen et
al., 1995) e in cellule di foglie e radici bombardate di Arabidopsis (Chiu et al.,
1996; Davis e Vierstra, 1998; Sheen et al., 1995).
Il principale vantaggio dell’utilizzo di GFP come gene reporter consiste nel fatto
che non è necessario fornire substrati esogeni e cofattori per la fluorescenza,
diversamente da quanto accade con GUS e Luc (Ow et al., 1986).
T a b ella 3 . Elenco dei g e n i i n f o r ma t o r i ( r e p o r t e r ) più utilizzati.
Gene informatore
E n zim a c o d i f i c a t o
CAT
c l o r a mf e n ic o l o a c e t i l t r a n s f e r a s i
GUS
β - g lu c u r o n id a s i
luc
luciferasi
β-gal
β-galattosidasi
GFP
p - h yd r o x yb e n z ylid e n e - imid a z o - lid in o n e
c r o mo f o r o
Trasformazione indiretta
Trasformazione mediata da Agrobacterium tumefaciens. Il metodo di
trasformazione più efficace e più diffuso è quello che utilizza come vettore i
batteri del genere
Agrobacterium (tumefaciens e rhizogenes). Di fatto la
trasformazione genetica nei vegetali cominciò ad essere praticata quando le
conoscenze della biologia e della genetica molecolare dei plasmidi Ti e Ri,
presenti in questo genere, rivelarono l’esistenza di un flusso di geni dal batterio
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alla pianta. Questo sistema batterico svelò che l’ingegneria genetica vegetale era
stata già inventata dalla natura.
L’Agrobacterium tumefaciens è un batterio fitopatogeno gram-negativo del suolo
con capacità di invadere piante suscettibili all’infezione attraverso ferite e
determinare la formazione di tumori del colletto in numerose specie vegetali. Il
genoma batterico è costituito da due strutture: cromosoma e plasmide. Durante il
processo di infezione, l’Agrobacterium tumefaciens trasferisce una porzione del
plasmide Ti (Tumor inducing), denominato T-DNA (DNA transfer) al nucleo della
cellula vegetale integrandolo in maniera stabile nel genoma della pianta.
L’integrazione e l’espressione di alcuni geni inclusi in questo frammento
(oncogeni) inducono la formazione del tumore nella pianta ospite (Zambrynski,
1992). L’Agrobacterium rhizogenes dispone di un meccanismo di infezione simile,
con delle differenze che riguardano gli oncogeni trasferiti; questi provocano,
infatti, una sintomatologia diversa dall’A. tumefaciens nella pianta infettata,
determinando nel punto di infezione una proliferazione di radici avventizie
conosciuta come “hair root” in alcune dicotiledoni. Il plasmide specifico di A .
rhizogenes è detto Ri (Root inducing), e comprende il frammento di DNA che si
trasferisce nel processo di infezione (T-DNA) (Hooykaas e Schilperoort, 1992).
Generalmente, questi plasmidi (Ti, Ri) sono molto grandi, approssimativamente
100-200 kb dei quali solo 20-23 kb si integrano nel genoma della pianta,
apparentemente a caso.
Plasmide Ti. Come mostra la figura 2 il DNA del plasmide di Agrobacterium può
essere suddiviso in due regioni: la prima regione, corrispondente al T-DNA, è
compresa tra due sequenze ripetute di 24-25 paia di basi che costituiscono gli
estremi del T-DNA (RB: Right Border, LB: Left Border). Dall’estremità destra
inizia il processo di trasferimento (Wang, 1984a), la sua perdita, infatti, inibisce
la capacità oncogena che è, invece, attenuata dall’inversione del bordo stesso. Nel
bordo sinistro il numero di nucleotidi può variare e questa sequenza sembra
portare il solo messaggio di fine trasferimento.
La seconda regione del T-DNA comprende varie sub-regioni: a) sequenze geniche
codificanti per il metabolismo di opine e citochinine b) sequenze di origine e
replicazione del plasmide, c) sequenze con funzioni di coniugazione, d) regione
Vir codificante per la virulenza .
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Le opine sono dei composti, sintetizzati dal tumore del colletto o da quello della
radice e utilizzati dal batterio invasore come fonte di carbonio e azoto (Tempè e
Goldmann, 1982). In base al tipo di opine che sono sintetizzate dalla pianta
trasformata, i plasmidi sono classificati come di tipo octopina o nopalina,
identificati rispettivamente come pTiAch5 o pTiC58. Il plasmide Ri induce
principalmente la sintesi di agropina.
Gli oncogeni sono implicati nella sintesi di auxine e citochinine che
destabilizzano l’equilibrio ormonale delle cellule vegetali, inducendo la loro
sdifferenziazione e proliferazione in modo da formare callo nel caso del plasmide
Ti. I tessuti vegetali neoformati trasformati da Agrobacterium tumefaciens e
rhizogenes si caratterizzano, infatti, rispetto agli altri tessuti vegetali, per la loro
capacità di continuare l’accrescimento in mezzi di coltura in assenza del batterio e
senza l’apporto di auxine e citochinine.
La regione Vir codificante per la virulenza del batterio è prossimale al bordo
sinistro del T-DNA, è costituita da circa 40 kb e contiene i geni Vir, implicati
nella rottura e trasporto del T-DNA. Nel caso del plasmide Ti di tipo octopina ,
questa regione è composta da operoni che vanno dal Vir A al Vir H. I prodotti
degli operoni Vir A, Vir B, Vir D, Vir G, si riscontrano nella formazione del
tumore in tutte le piante infettate, mentre quelli codificati daVir C, Vir E, VirF,
VirH, sono complementari alla funzione oncogena degli altri e non sempre sono
presenti. Nei plasmidi di tipo nopalina mancano gli operoni Vir F e Vir H
(Melchers et al., 1990). Nel plasmide Ri di Agrobacterium rhizogenes è presente
una regione omologa ai geni Vir del plasmide Ti, conosciuta come regione rol,
coinvolta con il T-DNA nella proliferazione delle radici (Spena et al., 1987;
Capone et al., 1989; Mariotti et al., 1989; Rugini et al., 1991).
Processo di infezione e trasferimento. Il processo di infezione e trasferimento
genetico dal batterio alla cellula vegetale richiede: il T-DNA, i geni di virulenza
Vir entrambi inclusi nel plasmide Ti, e i geni cromosomici di virulenza chv (chvA,
chvB), localizzati nel cromosoma di Agrobacterium.
La formazione del tumore del colletto implica un gran numero di tappe tutte
importanti per ottenere la trasformazione. In primo luogo è necessaria la presenza
di una ferita nella pianta che faciliti l’entrata del batterio nella pianta (Braun
1947) che libera nell’ambiente composti fenolici che inducono l’interazione tra
pianta e batterio (Lyppincott and Lippincott, 1969; Lippincott, et al.1977),
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dirigendo il batterio verso la zona danneggiata della pianta. Questo fenomeno è
noto come chemiotassi.
Una volta che si è stabilito il contatto tra batterio e cellula lesionata, è necessaria
l’espressione dei geni cromosomici di virulenza chvA (Cangelosi et al.), chvB
(Zorreguieta and Ugalde, 1986). Questi geni producono esopolisaccaridi essenziali
per l’ancoraggio del batterio alla parete cellulare vegetale (Douglas et al., 1982;
1985). Inoltre tra i composti fenolici che si liberano dalle cellule vegetali
danneggiate, abbonda l’acetosiringona (AS), che stimola l’espressione dei geni di
virulenza Vir A e Vir G (Stachel and Zambriski, 1986a).Occorre ricordare che a
seconda del composto fenolico sintetizzato dalla pianta ospite si hanno condizioni
di induzione all’infezione diverse per i diversi ceppi di Agrobacterium. Oltre
all’acetosiringona infatti le piante possono sintetizzare altri composti induttori
quali: la α-idrossiacetosiringona (Stachel et al., 1985), l’alcool coniferilico e
sinapilico, l’acido sinaninico e siringico, la siringaldeide, il dimetossifenolo e
diversi flavonoidi (Spencer et al., 1988; Melchers et al., 1989; Zerbak et al.,
1989, Song et al., 1991).
L’inizio della trasposizione della maggior parte dei loci della regione Vir è
coordinato e controllato dall’espressione dei geni Vir A e Vir B. La proteina VirA
è associata alla membrana interna del batterio e si considerò capace di percepire e
riconoscere il segnale extra cellulare di natura fenolica (Leroux et al., 1987;
Winans et al., 1989) e trasmetterlo all’interno della cellula fosforilando la
proteina citoplasmatica codificata dal gene Vir G (Jin et al., 1990). La proteina
Vir G fosforilata agisce da attivatore trascrizionale sul resto dei loci della regione
Vir (Pazour and Das, 1990; Tamamoto et al., 1990). L’attivazione della regione
Vir comporta l’apparizione di un unico filamento lineare di DNA (Fig. ). Questo
ha origine da ciascun taglio dopo la separazione a partire dai bordi RB e LB
(Albright et al., 1987; Wang et al., 1987). Due prodotti del gene Vir D sono
responsabili dell’attività endonucleasica specifica (Yanofsky et al., 1986). In
effetti i bordi delle copie di T-DNA si tagliano grazie all’azione della proteina Vir
D2 con l’aiuto della Vir D1 (Lessl e Lanka, 1984). La proteina Vir C incrementa
l’efficienza della reazione di taglio del bordo RB unendosi ad una sequenza che
intensifica la reazione, localizzata al lato del bordo RB, cio può incrementare il
numero di piante infettate (Toro et al., 1988). Il taglio comporta la formazione di
un legame covalente tra il lato 5’ del T-DNA e la proteina Dir D2 che dirige e
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orienta il materiale genetico durante il trasferimento fino al nucleo vegetale
(Tinland et al., 1992; 1995; Rossi et al., 1993; Hooykaas and Berjersbergen,
1994). La proteina Vir E2 si trasferisce insieme al filamento unico del T-DNA
proteggendolo da attacchi enzimatici (Citovsky et al., 1989, 1992; Guralnick et
al., 1996; Rossi et al., 1996). Il meccanismo di trasferimento del T-DNA nella
cellula vegetale può realizzarsi mediante un meccanismo simile alla coniugazione
tra batteri (Winans et al., 1987). Il T-DNA sembra lasciare l’Agrobacterium grazie
a un poro transmembrana prodotto dall’espressione dei geni Vir B e Vir D4
(Hooykaas and Berjersbergen, 1994). La maggioranza delle 11 proteine codificate
dall’operone Vir B sono localizzate nella membrana (Berjersbergen et al., 1994), a
eccezione della proteina Vir B1 tutte servono essenzialmente alla tumorogenesi
(Berger and Christie, 1994).
Le proteine Vir F e Vir H sono anch’esse coinvolte da alcune specie batteriche
nel trasferimento
del T-DNA ma la loro funzione non è ancora del tutto
conosciuta. La proteina Vir F è probabilmente trasportata alle cellule vegetali e
sembra sia necessaria al trasporto del T-DNA in alcune specie (Regensburg-Tuink
and Hooykaas, 1993).
Si è dimostrato, infine, che la regione Vir oltre che a promuovere normalmente la
trasmissione genetica del T-DNA contenuto nello stesso plasmide Ti (in posizione
Cis), è anche attiva quando le regioni sono separate e presenti in plasmidi diversi
(in posizione trans) (Herrera-Estrella et al., 1983). Il processo di infezione,
trasferimento e integrazione del T-DNA nel genoma di piante esposto è simile
nelle due specie di Agrobacterium.
Limiti del processo di trasformazione con Agrobacterium. Nel trasferimento di
geni basato sull’utilizzo del sistema Agrobacterium esistono parametri di carattere
biologico che interessano sia il processo di trasferimento del T-DNA che il
processo di integrazione nella cellula ospite, pertanto il materiale vegetale risulta
spesso un fattore determinante per l’ottenimento della pianta transgenica.
Il tessuto vegetale o espianto è costituito da un insieme di popolazioni di cellule
delle quali solo alcune sono totipotenti, né rispondono in maniera uguale a segnali
esterni. In tal senso l’ottenimento di una pianta transgenica risulta possibile solo a
partire da cellule competenti alla rigenerazione ed alla trasformazione, simultanea
o conseguente.
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Si considera pertanto l’esistenza di quattro distinte popolazioni cellulari
(Potrykus, 1991):
- popolazioni costituite da cellule competenti sia per la trasformazione sia per la
rigenerazione;
- popolazioni con una frazione di cellule competenti o per la trasformazione o per
la rigenerazione;
- popolazioni costituite da cellule potenzialmente competenti (dopo trattamento
adeguato raggiungono lo stato di competenza);
- popolazioni costituite da cellule non competenti, cellule che in nessun caso
raggiungerebbero lo stato di totipotenza.
Le dimensioni delle popolazione cellulari suddette in un tessuto sono determinate
dalla specie, dal genotipo, dall’organo considerato e dallo stato di sviluppo del
frammento di tessuto che si considera, infine bisogna anche considerare la storia
della pianta utilizzata nella sperimentazione.
Nella trasformazione genetica mediata da Agrobacterium affinché cellule
potenzialmente competenti guadagnino lo stato di competenza si utilizza lo stress
meccanico da ferita che provoca una serie di eventi enzimatici che sono alla base
dei processi di rigenerazione e proliferazione delle cellule somatiche. Inoltre la
ferita provoca la sintesi di composti fenolici che sono importanti nell’interazione
pianta-Agrobacterium. In considerazione che differenti cellule di una stessa pianta
rispondono in maniera diversa allo stress meccanico da ferita, diversi specie
rispondono in modo diverso a questo tipo di stress anche in relazione al tessuto
utilizzato quale espianto.
Infatti le monocotiledoni, ed in particolare le graminacee, forniscono una risposta
biochimica molto rudimentale allo stress meccanico da ferita che potrebbe
spiegare il perché queste piante non sembrano interagire con Agrobacterium.
Questa ipotesi non si può generalizzare visto che nel mais si sono individuate
delle opine nel punto di infezione con Agrobacterium, senza però la formazione
del tumore (Graves and Goldman, 1986); in un'altra monocotiledone, la cipolla,
(Allium cepa) si è osservata formazione di tumore sia del colletto sia dalla radice
dopo che è stata inoculata con Agrobacterium (Dommisse, 1990). In ogni caso,
con l’utilizzo dei vettori superbinari si sono ottenuti piante transgeniche di riso
(Ranieri et al., 1990; Hiei et al., 1994; Komari et al., 1996).
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In base a quanto esposto, la maggioranza delle specie monocotiledoni cosi come le
gimnosperme, sono abbastanza recalcitranti a questo sistema di trasformazione,
anche se probabilmente con l’acquisizione di nuove conoscenze sugli aspetti
molecolari dell’interazione si potrà ampliare il numero di specie vegetali
suscettibili alla trasformazione con questo sistema (Hooykass and Shilperoort,
1992).
Trasformazione diretta
Trasformazione diretta utilizzando protoplasti
Viste le limitazioni dei sistemi di trasformazione indiretta, si sono sviluppate altre
tecniche per trasferire il materiale genetico esogeno in pianta. In alcuni casi si
tratta di adattamenti di protocolli messi a punto per trasformare cellule animali e
pertanto per la loro utilizzazione si richiede l’ottenimento di protoplasti.
I protoplasti sono cellule vegetali nelle quali manca la parete cellulare, si
ottengono a partire da frammenti di tessuto fogliare o sospensioni cellulari,
utilizzando trattamenti enzimatici con pectinasi e cellulasi. Le cellule prive di
parete sono ideali per la trasformazione genetica visto che l’accesso all’interno
della cellula è limitato solo dal plasmalemma. Il processo enzimatico di
isolamento dei protoplasti a livello cellulare fornisce stimoli simili a quelli della
ferita che avviene durante il processo di infezione con il batterio. Pertanto,
l’eliminazione della parete induce le cellule in stato di potenziale competenza a
trasformarsi in competenti per la rigenerazione o trasformazione. Inoltre, poiché
si opera con popolazioni cellulari, si incrementa la probabilità che si abbiano
degli eventi di trasformazione indipendenti. E’ importante inoltre sottolineare che
l’introduzione del DNA esogeno nei protoplasti è un processo fisico, pertanto non
soggetto alle limitazioni della trasformazione mediata da vettori (Paszkowski et
al., 1984; Karesch, 1991; Potrykus, 1991).
L’ottenimento di cellule trasformate a partire da protoplasti può essere definita
come una tecnica abbastanza semplice, mentre le limitazione sono legate alle
tecniche di rigenerazione in vitro a partire da tali espianti difficile per molte
specie.
Esistono diversi trattamenti fisici e chimici per facilitare l’entrata del DNA nei
protoplasti:
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- trattamento con glicolepolietilenico (PEG); questa molecola interagisce con i
fosfolipidi della membrana plasmatica rendendola permeabile, facilitando in
questo modo l’entrata del DNA esogeno (Paszkowski et al., 1988).
- elettroporazione; si tratta di un metodo che impiega scariche elettriche di breve
durata per creare pori transitori nella membrana plasmatica. E’ una tecnica
utilizzata frequentemente, efficiente negli esperimenti di trasformazione dei
protoplasti (Fromm et al., 1986; Shillito et al., 1985). Richiede solo
l’ottimizzazione di due variabili, l’intensità del campo elettrico e la costante del
tempo che determina quanto tarda la d.d.p. ad abbassarsi del 37% rispetto al suo
valore iniziale (Lindsy and Jones, 1990).
- sonicazione; tecnica sviluppata inizialmente da Joersbo (1990), utilizza
ultrasuoni per alterare la permeabilità della parete plasmatica facilitando l’entrata
degli acidi nucleici sia nei protoplasti che in cellule vegetali con parete (Joersbo
et al., 1992).
- trasferimento con liposomi; il trasferimento del DNA avviene mediante fusione
di protoplasti vegetali con liposomi che includono il DNA da trasferire (Caboche
1990).
Trasformazione tramite microiniezione
Questo metodo consiste nell’utilizzazione di un ago avente un diametro sufficiente
per il passaggio della molecola di DNA, ma minore del diametro cellulare. E’ una
tecnica che necessita di un’apparecchiatura sofisticata che introduce il DNA e un
numero limitato di cellule. Il vantaggio di questa tecnica è che il DNA non ha
nessuna barriera per poter entrare nella cellula nella quale si possono quindi avere
elevate concentrazioni di plasmide nel citoplasma, questo provoca alti livelli di
espressione transitoria e parallelamente la possibilità di integrazione stabile (Kost
et al., 1995).
Trasformazione genetica mediata da vettori fisici
Metodo Biobalistico
Questa tecnica relativamente semplice consiste nello sparare con appositi
apparecchi (particle gun) su tessuti bersaglio (cellule, callo, foglie, radici,
germogli, meristemi, embrioni, ecc…) il DNA esogeno che si vuole introdurre o
altre particelle biologiche (RNA, virus, Batteri). Il DNA viene adeso ad un
veicolo solido fisicamente capace di attraversare la parete cellulare. I fori prodotti
devono essere sufficientemente piccoli, perché le cellule non subiscano danni
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irreparabili. La tecnica messa a punto da Sanford e coll. nell’Università di Cornell
si sviluppò nella metà degli anni ottanta, come mezzo per introdurre geni esogeni
nel genoma vegetale; attualmente il metodo è secondo per utilizzo solo
all’Agrobacterium. Inizialmente l’apparato era molto semplice, l’accellerazione
delle particelle si otteneva sparando con una pistola ottenuta modificando una
membrana di plastica (macroproiettile), sulla quale si collocava una particella di
tungsteno ricoperta di DNA. Il macroproiettile si sosteneva mediante un anello
che permetteva l’uscita delle particelle di tungsteno ad alta velocità sul tessuto
vegetale. Tuttavia con questi mezzi rudimentali il tasso di sopravvivenza degli
espianti dopo lo sparo risultava molto basso. Klein et al. (1987) con un apparato
simile ad un piccolo cannone utilizzarono microparticelle di tungsteno ricoperte di
DNA con risultati più incoraggianti, fino alla comparsa in commercio di apparati
molto sofisticati ed efficienti. Attualmente si utilizzano microparticelle d’oro che
si sparano grazie ad un sistema che sfrutta la depressurizzazione brusca di un gas
inerte compresso che generalmente è l’elio (Sanford, 1990 - Biolistic PDS!000/He, Bio-Rad)
o una scarica elettrica (ACCELL T M , Agracetus). Questa
tecnica è risultata particolarmente utile in studi di espressione transitoria e nella
trasformazione di meristemi e semi di piante recalcitranti e difficilmente
rigenerabili (Campbell et al., 1992; Aronen et al., 1995; Rey et al., 1996; Galum
et al., 1997).
Inoltre la tecnica biobalistica si utilizza in combinazione con altri metodi di
trasformazione, in particolare con il sistema mediato da Agrobacterium. Si è
dimostrato infatti che la frequenza di piante transgeniche si incrementa
realizzando piccole lesioni nell’espianto con il bombardamento di microparticelle
(Bidney et al., 1992, Brasileiro et al., 1996) seguite dall’infezione con A.
tumefaciens. La ferita prodotta dalla particella sparata incrementa probabilmente
il numero di cellule competenti utili per la rigenerazione o trasformazione. Questa
tecnica si impiega anche per introdurre materiale genetico esogeno nei granuli di
polline da utilizzare come vettore naturale, in modo da evitare il processo di
rigenerazione in vitro (Leonne et. al., 1995).
In generale il sistema biobalistico presenta una serie di vantaggi rispetto alla
trasformazione con Agrobacterium :
• permette la trasformazione efficiente di specie recalcitranti all’infezione con
Agrobacterium come le monocotiledoni;
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•
•
si utilizza per studi di espressione transitoria;
semplifica la costruzione del plasmide non richiedendo gli estremi del T-DNA,
né i geni che partecipano alla sua replicazione e trasferimento;
• consente un alto tasso di co-trasformazione (inserzione di differenti plasmidi
simultaneamente);
• consente l’eliminazione di possibili falsi positivi per crescita batterica;
• semplifica i protocolli di trasformazione eliminando i fattori di interazione
pianta-patogeno.
Tale sistema contempla ovviamente anche degli svantaggi di seguito elencati:
• basso tasso di trasformazione stabile;
• alta variabilità nell’efficienza tra diversi esperimenti;
• inserzione di copie multiple nel genoma, con problemi di cosoppressione o
silenziamento che tale fenomeno comporta e possibile frazionamento del
plasmide;
•
costo economico e dipendenza tecnologica.
LA TRASFORMAZIONE GENETICA
BIOTECNOLOGIA VEGETALE
NEL
CONTESTO
DELLA
La trasformazione genetica consente di inserire singoli caratteri di interesse in
specie coltivate non modificando l’assetto genico preesistente (Gardener, 1993).
Tale tecnica consentirebbe pertanto di evitare lunghi programmi di selezione
normalmente utilizzati nel miglioramento genetico classico. Ad oggi, benchè i
tempi necessari sono di medio-lungo periodo, le metodiche di breeding
tradizionali sono state utilizzate per trasferire con successo caratteri di interesse
agronomico in specie coltivate (Van Wettstein, 1989). La trasformazione genetica
si propone non solo quale alternativa ai metodi di miglioramento tradizionali, ma
come metodica che amplia la fonte di variabilità genetica fino ad includere
praticamente tutti gli organismi viventi (Goodmann et al., 1987). In questo modo
si superano limitazioni quali le barriere riproduttive tipiche del miglioramento
genetico classico, che impediscono in molti casi, l’utilizzo di specie donatrici di
geni di interesse. Variabilità genetica può essere indotta durante la manipolazione
in vitro di cellule e tessuti vegetali che occasionalmente danno luogo a varianti
genetiche (variabilità somaclonale). L’insorgenza di tali fenomeni è stata
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sollecitata mediante l’utilizzo di agenti chimici o fisici durante la coltura in vitro
al fine di utilizzare l’ampia variabilità in programmi di miglioramento genetico
(Gavazzi et al., 1987). Gli svantaggi rispetto alla trasformazione genetica sono
evidenti in quanto i nuovi genotipi appaiono a caso e pertanto non sono
prevedibili.
Dai risultati ottenuti nei primi dieci anni di esperimenti avanzati di
trasformazione genetica su vegetali si può affermare che molti geni di interesse
che sono stati introdotti in diverse specie coltivate e tali caratteri sono stati
ereditati nelle progenie delle piante trasformate e quindi potenzialmente
utilizzabili per l’ottenimento di nuove varietà. I geni introdotti hanno migliorato
caratteri di resistenza/tolleranza a stress biotici (agenti patogeni ed insetti) e
abiotici (salinità, inquinanti, freddo, diserbanti) o aspetti dell’habitus vegetativo,
della capacità di radicazione, del controllo della maturazione del frutto, del
controllo
della
partenocarpia
(finora
realizzato
in
solanacee)
e
dell’autoincompatibilità fattorale (delle pomacee). Tantissime sono le strategie
che si attuano per raggiungere tali scopi e altrettante sono le pubblicazioni in
merito, in questo contesto se ne segnaleranno solo alcune.
Strategie di trasformazione per introdurre la tolleranza/resistenza a stress
biotici
Resistenza ad insetti
E’ stato possibile ottenere piante resistenti a differenti famiglie di insetti
mediante l’introduzione di geni isolati da Bacillus thuringiensis che codificano
per una tossina definita comunemente Bt. Si tratta di una famiglia di tossine
provenienti da differenti ceppi del batterio suddetto che pur non mostrando
tossicità per uccelli e/o mammiferi, agiscono selettivamente contro le larve di
insetti quali i lepidotteri, i ditteri ed i coleotteri (Fishoff et al., 1987). La tossina
Bt esplica la sua azione in presenza di un enzima proteolitico, in un ambiente
fortemente alcalino, quale quello dell'intestino (mesentero) di molti insetti
fitofagi. Si è dimostrato che il cristallo è una prototossina e che la vera tossina è
una molecola di peso minore prodotta in seguito a proteolisi nell'intestino
dell'ospite. Le larve degli insetti fitofagi sensibili a queste tossine, una volta
ingeriti i cristalli batterici, cessano di alimentarsi, anneriscono diventano flaccide
e muoiono nell'arco di pochi giorni .per setticemia. L'effetto tossico aumenta con
l'aumentare della dose ingerita, mentre la sensibilità maggiore si riscontra nelle
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larve giovani. Allo stato attuale, sono noti vari ceppi di Bacillus thuringiensis
classificati comunemente in base alle proprietà antigeniche. Il ceppo più attivo su
diversi lepidotteri è noto come Kurstaki. Il ceppo israeliensis è invece attivo sui
ditteri mentre i ceppi tenebrionis e San Diego, risultano attivi contro coleotteri.
Nella fase vegetativa il Bacillus thuringiensis produce anche una esotossina
termostabile (Beta esotossina), alla quale sono sensibili molti insetti fitofagi e
sembra avere anche effetti mutagenici, sui mammiferi. Negli anni ’90 esistono
differenti esempi di introduzione in pianta dei geni codificanti per le tossine Bt;
gli esempi forse più significativi sono stati l’introduzione di geni anti-lepidotteri
in mais (Koziel et al, 1993), cotone (Benedict et al, 1996) e pomodoro (Van der
Salm et al., 1994) e di geni anti-coleotteri in patata (Perlak et al., 1993) e
melanzana (Hamilton et al., 1997; Arpaia et al., 1997). Le attività di ricerca sono
state portate avanti dai differenti gruppi di ricerca fino alla valutazione in campo
dei nuovi genotipi (es. Acciarri et al., 2000), nonché alle ricerche sul cosidetto
pest managment (McGaughey and Whalon 1992).
Nonostante la strategia che utilizza le tossine Bt sia al momento la più studiata,
esistono molte altre famiglie di geni coinvolti in meccanismi di
resistenza/tolleranza ad insetti delle quali si ricordano gli inibitori delle
proteinasi (es. Graham et al., 1986), le lipossigenasi e polifenolossidasi (es.
Hildman et al., 1992), nonché le chinasi, le chitinasi e le perossidasi. In questo
contesto si ricordano le attività di ricerca molto avanzate sugli inibitori della
proteinasi, che interferiscono con la digestione dell’insetto. I geni che codificano
per tali proteine sono stati isolati e clonati da molte specie vegetali tra le quali
patata, pomodoro, pisello, tabacco (es. Farmer and Ryan 1990; Farmer et al.,
1992; Bolter, 1993; Kort and Dixon, 1997), nonché in Vigna sp. (Hilder et al.,
1987; 1989). I primi studi sul controllo degli insetti grazie all’espressione
transgenica in pianta di tali geni sono stati eseguiti sul tabacco contro le larve di
Manduca sexta e Heliothis virescens (Vaeck et al., 1987; Hilder et al., 1987).
Nelle piante arboree simili risultati sono stati ottenuti nel noce contro larve di un
lepidottero (Dandekar et al., 1994).
Resistenza a funghi patogeni
Una delle strategie utilizzate è rappresentata dalla sovraespressione dei geni delle
chitinasi o delle glucanasi nelle piante trasformate. Entrambe le proteine,
interferiscono, degradando la parete, con lo sviluppo del fungo. Questo
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meccanismo ha prodotto in alcuni casi resistenze parziali (Broglie et al., 1991.
Melchers et al., 1993). Si potrebbero ingegnerizzare sequenze che codificano per
chitinasi, (Jaynes et al., 1993), per osmotina oppure per la proteina inibitrice della
poligalatturonasi (PGIP) (Cervone et al., 1989; Toubart et al., 1992; Stotz et al.,
1994).
Resistenza a virus
Dall’osservazione (Sequeira, 1984) che la proteina del capside virale gioca un
ruolo determinante nel proteggere una pianta infettata da un determinato virus
contro le superinfezioni da parte di altri virus correlati (cross protection), sono
stati sviluppati numerosi geni chimerici codificanti per capsidi virali (Bevan et
al., 1985). In generale , mediante la trasformazione genetica, è stato pertanto
possibile creare le prime piante resistenti al virus del mosaico del tabacco (TMV)
(Bevan et al., 1985; Powell-Abel et al., 1986), al virus del mosaico dell’erba
medica (AIMV) (Tumer et al., 1987), al virus del mosaico del cetriolo (CMV)
(Cuozzo et al., 1988). Nelle piante arboree da frutto, dove questo approccio è
stato esteso recentemente, sono stati introdotti il gene per la resistenza al virus
PPV (“Plum Pox Virus”) in albicocco e susino (Laimer et al., 1991; Scorza et
al.,1994), quello per la resistenza al virus PRV (“Papaya Ringspot Virus”) in
papaya (Fitch et al., 1993), quelli per la resistenza ai virus GFLV (“Grapevine
Fanleaf Virus”) e GCMV (“Grapevine Chroma Mosaic Nepovirus”) nella vite (Le
Gall et al., 1994; Mauro et al., 1995; Krastanova et al., 1995) e quelli per la
resistenza al CTV (“Citrus Tristeza Virus”) in Citrus (Gutierrez-E et al., 1997).
Tali risultati sono stati ottenuti utilizzando differenti strategie:
- inserimento di geni per la produzione del capside virale (protezione incrociata
modificata), (Powell-Abel et al., 1986; Van Der Wilk et al., 1991).
- inserimento di geni per la produzione di forme mutate di replicasi;
- tecnica dell’ RNA antisenso e senso (Young e Gerlach, 1990; Tavladoraki et al.,
1993).
- alterazione delle proteine per il movimento del virus tra le cellule e per la
diffusione sistematica. La protezione incrociata modificata è stata quella
maggiormente adottata con un meccanismo di azione ancora non del tutto chiaro
(Camara Machado et al., 1994; Le Gall et al., 1994; Scorza et al., 1994, 1995).
Recentemente un altro meccanismo, basato sull’espressione in pianta dell’RNA
satellite del virus, è stato adottato per ottenere resistenza al virus del mosaico del
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cetriolo (CMV) in piante di tabacco (Harrison et al., 1987; McGarvey et al., 1995;
Yie et al., 1995; Nguyen et al., 1996; Kaniewski et al., 1999). La tecnica del
silenziamento genico si è impiegata anche per ottenere resistenza a virus, come
nel caso di piante di patata resistenti al virus X (Hemenway et al., 1988).
Resistenza a batteri patogeni
Tali forme di resistenza si sono realizzate attraverso l’espressione di proteine di
origine batterica che determinano resistenza verso la tossina prodotta dallo stesso
batterio. E’ il caso della “tabtossina” (acetiltransferasi ttr) e del gene argk la cui
espressione provoca una riduzione dei sintomi prodotti dall’infezione di ceppi
diversi di Pseudomonas syringae (Anzai et al., 1989; De la Fuente-Martinez et al.,
1992). Nel caso di piante di tabacco, l’espressione di geni di peptidi litici naturali
(Cecropina B), conferisce resistenza verso Pseudomonas solanacearum (Jaynes et
al., 1993). Geni di peptidi litici naturali (Norelli et al., 1994; 1996), quali quelli
individuati nell’emolinfa di lepidotteri (cecropina) o nell’endosperma di orzo e
frumento (thionina) sono utilizzati nella lotta a Pseudomonas e soprattutto ad
Erwinia .
Sono state adottate inoltre strategie multigeniche che provocano un accumulo di
lignina e un incremento della sintesi di antibiotici del tipo fitoalessine (Lamb,
1992).
Altre applicazioni
Resistenza agli erbicidi
Molti erbicidi usati in agricoltura interferiscono con le normali funzioni cellulari
attraverso il blocco di vie metaboliche specifiche, in genere implicate nella
fotosintesi. In questi ultimi anni le ricerche si sono concentrate soprattutto nella
creazione di erbicidi ad alta selettività, bassa tossicità, bassa mobilità nel suolo e
rapida biodegradazione, con uno spettro di azione esteso ad un elevato numero di
erbe infestanti (Gasser and Fraley, 1989). Uno di questi erbicidi, il Glifosate
(commercialmente conosciuto come Roundup), è capace di bloccare la sintesi
degli aminoacidi aromatici ed anni fa è stato identificato in un batterio un enzima
alterato insensibile all’azione di questo erbicida (Comai et al., 1985). E’ stato
quindi possibile ottenere piante transgeniche resistenti al Glifosate mediante
l’espressione del gene batterico mutato (Fillatti et al.,, 1987). Le strategie per
ottenere piante resistenti a tali prodotti consistono quindi: (a) sovraprodurre
l’enzima che viene inibito dall’azione dell’erbicida (Shah et al., 1986); (b)
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introdurre geni che detossificano l’erbicida (D’Halluin et al., 1990). Seguendo
queste strategie, si sono ottenute piante transgeniche resistenti a distinti erbicidi
come il glifosate (Fillatti et al.,, 1987) già citato, il glufosinato e bialafos
(D’Halluin et al., 1992), 2,4-D (Bayley et al., 1992; Streber e Willmitzer, 1989),
clorsulfuron (Mikiet al., 1990), sulfonilurea (McSheffery et al., 1992) e
bromoxinil (Stalker et al., 1988).
Controllo della maturazione del frutto
La qualità e la maturazione dei frutti sono fattori molto importanti dal punto di
vista economico e quindi, tenuti in grande considerazione nel miglioramento
genetico delle piante arboree da frutto. Molti studi sono inoltre dedicati alla
fisiologia del frutto post-raccolta per ridurre i problemi di manipolazione,
conservazione e trasporto (Pratella, 1994).
Durante la maturazione dei frutto vengono attivati geni, che regolano determinate
vie metaboliche e una di queste, molto studiata, porta alla produzione di un
ormone fondamentale in questo processo, l’etilene. Piante transgeniche, in grado
di produrre frutti con basso contenuto di etilene, potrebbero risolvere i problemi
di eccessiva maturazione del frutto, che spesso continua anche durante la frigo
conservazione. La via di biosintesi dell’etilene passa attraverso la decomposizione
dell’acido 1-ammino-ciclopropano-1-carbossilico (ACC) sintetizzato dall’enzima
ACC sintetasi. Inibendo la sintesi di etilene si ottiene un rallentamento della
maturazione di frutti climaterici. Questo si è realizzato inibendo a vari livelli
l’ACC sintetasi (Oeller et al., 1991), la ACC ossidasi (Shuch et al., 1989;
Hamilton et al., 1990) o attraverso l’espressione di enzimi che degradano alcuni
precursori della sintesi di etilene (Klee et al., 1991). Altre strategie prevedono
l’inibizione di enzimi idrolitici (poligalatturonasi, cellulasi o pectinasi) di parete,
usando RNA antisenso, che producono un ritardo del rammollimento del frutto
(Sheehy et al., 1988: Smith et al., 1988).
Modificazioni dell’habitus vegetativo
La forma, la statura e l’architettura sono importanti per la produttività degli alberi
da frutto. Razionalizzare gli impianti attraverso, ad esempio, l’introduzione di
portinnesti nanizzanti o che inducono un habitus colonnare può far aumentare la
produzione e riduce i costi di potatura, diradamento e raccolta (Turini et
al.,1998). Numerosi sono i geni coinvolti nella modificazione dell’habitus, in
parte isolati e clonati in vettori binari dal T-DNA di A. tumefaciens e A.
Tecniche di Colture Cellulari - Università degli Studi della Basilicata – A.A. 2000-2001
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rhizogenes. Nel caso dei geni derivanti da A. tumefaciens si è osservato che la
trasformazione con il gene ipt (isopentenil transferasi) porta ad un innalzamento
del rapporto citochinine auxine con formazione di teratomi, perdita di dominanza
apicale e inibizione della formazione di radici (Smigocki and Owens, 1989). I
geni rolB e rolC dell’ A. rhizogenes sono quelli più interessanti per cambiare
l’architettura di una pianta. E’ stato infatti notato che le piante infettate con A.
rhizogenes, oltre ad avere radici aeree, presentano anche un fenotipo accestito con
accorciamento degli internodi e conseguente abbassamento della taglia (Zambryski
et al., 1989), cosi come una entrata in ritardo nella fioritura e un apparato radicale
molto abbondante e solo parzialmente geotropico (Cardarelli et al., 1987; Spena et
al., 1987). I geni rolB e rolC codificano per attività β-glucosidasiche che liberano
nelle cellule transgeniche auxine (rolB) e citochinine (rolC) responsabili degli
effetti morfogenetici (Estrush et al., 1991). Da queste osservazioni sono emerse
potenziali applicazioni della trasformazione di piante arboree con geni rol per
aumentare la rizogenesi (rolB) del portinnesto (Rugini et al., 1991; Lambert and
Tepfer, 1992; Negri et al., 1991; 1998) o per ridurre la nanizzazione (rolC) (Negri
et al., 1991).
PROBLEMATICHE
LEGATE
GENETICAMENTE MODIFICATI
ALL’USO
DEGLI
ORGANISMI
L’argomento è di estrema attualità e certamente per il cittadino comune non è
facile orientarsi nel dedalo delle informazioni e disinformazioni inerenti gli
organismi geneticamente modificati.
Alcuni lo chiamano cibo di Frankenstein e affermano che le piante transgeniche
(etichettate collettivamente come OGM, ossia organismi geneticamente
modificati o più propriamente, piante GM), sono pericolose per la salute,
attentano alla biodiversità del mondo vegetale e uccidono insetti come la
farfalla monarca. Affermano che solo i paesi ricchi ne trarranno vantaggio,
mentre i paesi poveri saranno ancor più asserviti alle multinazionali che
producono le sementi. Il dissenso sulle piante transgeniche tocca le
amministrazioni comunali (vi sono Comuni che si definiscono “deingegnerizzati “), regionali (alcune regioni italiane vietano la coltivazione di
piante ingegnerizzate) e i governi dell’Unione Europea (che proibiscono di
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coltivarle). Ma non è cosi nel resto del mondo dove vi è una sostanziale
accettazione. Tra i paesi più attivi nella ricerca e coltivazione di piante gm vi
sono gli Stati Uniti, il Canada ed il Sud America. Nel 1999 la superficie
mondiale coltivata con piante GM è aumentata del 43.5 % rispetto all’anno
precedente arrivando ad occupare 39.9 milioni di ettarri di terreno. E nei
prossimi 5 anni queste cifre sono destinate ad aumentare vertiginosamente dal
momento che numerose piante GM sono ormai pronte per la coltivazione in Cina
e in India.
Nell’Unione Europea la ricerca nel settore è stata sinora molto attiva, specie
nelle Università e nei centri di ricerca pubblici. L’Italia stessa ha sviluppato
una notevole attività di ricerca applicata alla protezione e alla valorizzazione
dell’agricoltura mediterranea. Tuttavia, in Europa, le licenze di coltivazione
non vengono più accordate, le prove sperimentali controllate sono scoraggiate o
addirittura distrutte, la superficie coltivata è ridotta a pochi ettari, tutti in
Spagna e Portogallo.
Come si è arrivati alle piante transgeniche
Dall’inizio del secolo tradizionalmente gli approcci al miglioramento genetico
delle colture sono stati l’incrocio tra piante sessualmente compatibili e la
selezione di mutanti. Dall’inizio degli anni ‘80 la scienza ne ha aggiunto uno
nuovo basato sull’integrazione, nel genoma della pianta, di geni clonati da altri
organismi viventi come piante non sessualmente compatibili, batteri, animali,
funghi o virus. Quest’ultimo approccio è reso possibile dal fatto che il codice
genetico è universale: non esistono strutture geniche specifiche per ciascun
regno tassonomico. L’uomo è uomo non perché fatto da geni umani, ma perché
l’insieme dei suoi geni ne determina il differenziamento in un organismo dalle
caratteristiche umane. Tuttavia, un gene clonato dal genoma dell’uomo può
essere trasferito ed espresso in un batterio, in un lievito o in una pianta. Per
esempio, tutta l’insulina umana per uso medico è oggi prodotta da lieviti
geneticamente modificati.
Presente e futuro delle piante transgeniche
Ad oggi le specie più importanti che sono state geneticamente modificate sono
mais, soia, cotone, colza, patata, pomodoro e alcune altre orticole; per più del
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57% dei casi si tratta di modificazioni che hanno riguardato la resistenza ad
alcuni diserbanti (che ha permesso un uso selettivo delle sostanze chimiche e
una maggiore efficacia degli interventi), per il 31% la resistenza ad insetti, per
il 14% la resistenza a virus, mentre solo per 1% del totale riguarda
modificazioni delle caratteristiche qualitative e nutrizionali degli alimenti
(semi oleosi con una composizione degli acidi grassi migliorata, pomodori e
altri ortaggi a migliore conservabilità ecc.). In tab. sono riassunte le attività di
ricerca, i controlli e le analisi necessari per la produzione di piante
transgeniche.
E’ importante notare che si tratta del primo caso nella storia
dell’agricoltura, in cui c’è l’obbligo di analizzare tossicità ed effetti
sull’ambiente delle nuove varietà.
Sono ancora pochi i geni integrati nelle piante di grande interesse. Come già
detto si tratta di geni che conferiscono resistenza a insetti, virus e diserbanti o
che mantengono i frutti al giusto grado di maturazione. Ma siamo solo agli
albori delle biotecnologie vegetali, presto si disporrà di una vasta gamma di
geni e di promotori che, grazie a metodologie di trasferimento genico
semplificate, permetteranno le più diverse applicazioni. In tabella sono elencati
alcuni dei benefici già attualmente percepibili o promessi per il prossimo futuro
delle piante “GM”.
La produzione di cibo non sarà l’unico sbocco di tali tecnologie avanzate, anzi,
la previsione è che tra 15-20 anni il maggior numero delle applicazioni sarà in
altri settori. In Cina il pioppo-bt, resistente agli insetti produrrà legname già
dal prossimo anno. Applicazioni in altri settori, come quelli connessi alla
sintesi di composti di interesse chimico e farmaceutico saranno di grande
attrazione. E’ stato già brevettato un riso-bt capace di produrre albumina del
siero umano, alfa-1-antitripsina e antitrombina III, proteine oggi prodotte da
cellule umane in coltura. I geni per la loro sintesi, dotati di promotore delle
alfa-amilasi, permettono la produzione delle proteine corrispondenti
nell’endosperma dei semi in germinazione. La produzione di vaccini in pianta
sarà un’altra area di grande interesse, così come saranno economicamente
vantaggiose le applicazioni alle piante ornamentali alle quali si potranno
conferire forme innovative e diversi colori.
Quali rischi dalle piante GM ?
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Affrontando questo scottante argomento occorre fare una premessa: agricoltura
non è natura. Da quando è nata, ma soprattutto nell’ultimo secolo, agricoltura
significa distruzione di foreste e di luoghi naturali per far posto ai campi,
riduzione dellla biodiversità, sovvertimento degli equilibri biologici,
inquinamento ambientale. L’aumentata coscienza di tutto ciò ci porta oggi a
cercare di limitare gli aspetti negativi dell’agricoltura intensiva. Le piante
transgeniche non sfuggono a questa logica e pertanto possono essere utilizzate
per risolvere problemi colturali. Nonostante ciò, il messaggio che arriva
dall’opinione pubblica europea è che le piante transgeniche sono troppo
pericolose e quindi inaccettabili.
Bisogna ammettere che non esiste tecnologia esente da rischi. Accettiamo
un’innovazione quando riteniamo che i rischi siano inferiori ai benefici. Non
sfugge a questa regola l’agricoltura: avvelena ed inquina l’ambiente con
fitofarmaci e fitoregolatori, scatena allergie, trasmette veleni e tossine fungine,
riduce la biodiversità vegetale. L’agricoltura biologica sembrerebbe esente da
alcuni di tali rischi, la realtà è che i rischi dell’agricoltura fino a questo
momento sono stati sempre considerati accettabili in rapporto ai benefici.
Perché dunque si pretende che solo le piante transgeniche siano assolutamente
esenti da rischi? Sarebbe opportuno che si stabilisca che il massimo livello di
rischio accettabile per tale tipo di piante sia lo stesso delle piante tradizionali.
Si potrebbe chiedere alle nuove tecnologie di abbassare questo livello, ma è
utopistico pretendere che le piante transgeniche siano assolutamente esenti da
rischi, questo paradigma in biologia non può esistere !!
In tabella vengono riportati i possibili effetti, immediati e a lungo termine,
connessi
all’immissione
nell’ambiente
di
piante
GM
e
all’uso
nell’alimentazione umana di prodotti da esse derivate.
Tabella. Effetti causati dall’utilizzo di piante GM.
- Effetti tossici sull’uomo;
- Danni per l’ambiente;
- Inutilità per i paesi ricchi;
- Incapacità di risolvere il problema della fame nel
mondo;
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- Pericolosa gestione commerciale.
Per quanto riguarda i dubbi relativi alla salute dell’uomo, le piante transgeniche
vengono accusate di scatenare allergie alimentari. In realtà, ad oggi in tutto il
mondo il 2-4% dei bambini e l’1-2% degli adulti soffre di allergie scatenate da
proteine contenute nel cibo, soprattutto soia, latte vaccino, uova, farina riso,
noci, arachidi, pesci e crostacei. L’unica cura efficace è evitare il cibo a cui si
è allergici. Nel caso delle piante transgeniche, il gene esogeno potrebbe
effettivamente codificare per una proteina allergenica, ma le legislazioni dei
vari paesi prevedono che si analizzino preventivamente:
- la fonte del gene (è derivato da organismo che può implicare effetti allergenici
?);
- i parametri chimico-fisici della proteina specificata dal gene (somiglianza con
proteine allergeniche, stabilità alla digestione e alla cottura);
- gli effetti del gene esogeno sulla produzione degli allergeni endogeni della
pianta ospite;
- i risultati dei saggi in vitro (RAST, ELISA) e in vivo (test cutanei,
simulazione alimentare).
L’efficacia dei controlli è dimostrata dal caso – molto pubblicizzato - di una
varietà di soia in cui era stato integrato un gene di noce brasiliana codificante
per l’albumina 2S. La soia risultava migliorata dal punto di vista nutrizionale,
ma aveva acquisito le proprietà allergeniche dell’albumina. In base alle analisi
è stato negato il permesso di coltivazione.
Al contrario, le piante GM possono addirittura essere progettate per ridurre il
potenziale allergenico degli alimenti. A tale scopo si applica la metodologia del
“gene antisenso”: scoperto il gene responsabile dell’attività allergenica della
pianta, lo si costruisce con la sequenza di basi invertita e lo si integra nel
genoma della pianta. Con questo approccio è stato già prodotto riso non
allergenico.
Per quanto riguarda la resistenza agli antibiotici, in effetti tutte le piante GM
coltivate sono dotate, oltre che del gene di interesse, anche di un gene di
selezione che conferisce la resistenza ad antibiotici quali kanamicina,
neomicina e derivati. Ciò permette la selezione di cellule trasformate capaci di
crescere in un terreno contenente antibiotico, che non consente la proliferazione
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di cellule non trasfromate e quindi sensibili. Questa procedura ha fatto pensare
che il gene per la resistenza possa trasferirsi dalla pianta ai batteri
dell’intestino, o peggio al genoma umano, rendendo quindi inefficace
un’eventuale terapia con quell’antibiotico. L’accusa manca di realismo
scentifico: il fatto che un gene presente in un vegetale e dotato di un promotore
vegetale inattivo nei batteri, possa essere trasferito ai batteri del nostro
intestino, e da questi passare a batteri patogeni, ha una rilevanza quasi nulla.
Infatti nel nostro intestino esistono centinaia di miliardi di batteri, mentre la
frequenza di mutazione naturale per la resistenza a un antibiotico è di circa uno
su dieci milioni. Possiamo quindi calcolare che, in ogni momento, nel nostro
intestino vi siano milioni di batteri resistenti alla neomicina.
Pertanto questi geni potrebbero prendere il sopravvento nella popolazione
batterica solo se vi fosse la spinta selettiva determinata dalla somministrazione
dell’antibiotico. Sappiamo che spesso i medici abusano di antibiotici, ma è
meno noto che il 50 % degli antibiotici oggi prodotti nel mondo è usato
nell’alimentazione animale. Con tale trattamento gli animali crescono meglio,
ma sono contaminati da una flora batterica selezionata per la resistenza agli
antibiotici. Tutte le carni crude o insaccate convogliano nel nostro intestino i
batteri contenenti geni di resistenza.
Nonostante si possa comunque dibattere scientificamente sui problemi legati ai
gene marker di resistenza, l’uso di antibiotici per la selezione di piante GM è
oggi superato da approcci più moderni come la crescita delle cellule
transgeniche in zuccheri che possono essere utilizzati selettivamente o grazie ad
altri meccanismi.
Quanto al rischio che il gene di resistenza o altri geni esogeni passino dalla
pianta GM al genoma umano, basti pensare che ogni giorno il nostro intestino è
esposto a miliardi di genomi assunti con l’alimentazione. Si sa che il DNA si
mantiene integro, ma non attivo nell’inestino per alcune ore prima di essere
digerito; in effetti, se cerchiamo un gene di bue o di mela nelle nostre cellule
non è possibile individuarlo.
Un’altra preoccupazione molto sentita riguarda la diffusione del polline e dei
semi nell’ambiente. In effetti molte piante in natura sono sessualmente
compatibili con piante transgeniche e vi è quindi possibilità che il loro polline
possa fecondarle trasferendovi il gene esogeno.
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Tali fenomeni sarebbero deleteri in particolare per geni quali terminator, che
causa sterilità o di geni di resistenza agli erbicidi; ma in ogni caso bisogna
tenere in considerazione tale fenomeno caso per caso e giudicare la pericolosità
in relazione alla possibile trasmissibilità in specie selvatiche.
L’insorgenza di resistenza ad erbicidi in piante infestanti è un evento già
verificatosi negli Stati Uniti dove è stato necessario ricorrere alla sostituzione
dell’erbicida. In generale, sono tre le condizioni in cui piante transgeniche
indesiderate possano infestare l’ambiente naturale o i campi coltivati; il polline
deve essere in grado di spostarsi a opportuna distanza; nel raggio di
distribuzione del polline deve essere presente una pianta sessualmente
compatibile che acquisisca con il gene un vantaggio selettivo rispetto alla
popolazione esistente.
Esistono differenti strategie per evitare la diffusione del gene esogeno
attraverso il polline. Si può scegliere un integrazione del gene esogeno nel DNA
del cloroplasto e non in quello nucleare (la maggior parte delle piante coltivate
trasmette i cloroplasti esclusivamente per via materna, quindi il polline non
sarà GM). Si può ipotizzare l’utilizzo di piante maschio-sterili (ovviamente non
nel caso di piante da seme ma in caso di piante che si riproducono per talea
come il pioppo, banano, canna da zucchero). In ogni caso è buona norma il
rilascio del permesso di coltivazione solo in zone ritenute sicure per distanza da
piante sessualmente compatibili con la pianta GM. E’ dunque importante che le
conseguenze della diffusione del polline transgenico nell’ambiente vengano
attentamente valutate, ma sarebbe utile che queste precauzioni venissero prese
anche nel caso di piante non transgeniche.
Esaminiamo ora i rischi in relazione alla biodiversità, senza però confondere
piante naturali e coltivate. Le prime sono messe in pericolo dall’urbanizzazione
e dalle altre attività umane, inclusa la trasformazione di foreste in terreni
agricoli. Ma ciò non dipende certo dalle biotecnologie vegetali, non vi è nulla
nel concetto di piante GM che le renda nemiche della biodiversità naturale.
Al contrario, il fatto che esse promettano un maggior raccolto per unità di
superficie fa ritenere che la loro diffusione possa restituire terreni agricoli alle
foreste. Nell’ambito delle piante coltivate la biodiversità è posta a rischio già
da molto prima dell’avvento delle piante GM, basta osservare che, mentre una
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volta si disponeva di più di 200 varietà di mele, ora la scelta è ridotta a 3 o 4.
Ma, anche in questo caso, sono esigenze di mercato a minare la biodiversità.
E’ del tutto evidente che, se i rischi delle piante GM sono quelli descritti dalla
letteratura scentifica, non vi sono elementi per chiedere una moratoria globale
sulla sperimentazione in campo e sulla coltivazione di questo tipo di piante.
Certo si dovranno sviluppare strategie di coltivazione che evitino la diffusione
dei geni esogeni e che riducano gli effetti sugli equilibri ecologici. Nel
dibattito sulle piante GM, siamo di fronte a una situazione socio-politica molto
complessa in cui solo una piccola parte della partita è giocata dalla scienza. Gli
argomenti scientifici sono messi troppo spesso in secondo piano da problemi
culturali, politici e psicologici. Per ora si è ottenuto l’effetto di bloccare la
ricerca scientifica in Europa, soprattutto quella pubblica.