TESI DI APPROFONDIMENTO PER L’AMMISSIONE AL 3°ANNO DELLA SCUOLA DI SPECIALIZZAZIONE IN PSICOTERAPIA COGNITIVA NEUROPSICOLOGICA Anno Accademico: 2010 Corso: C2 Titolo: LO STILE DI PERSONALITÀ TENDENTE AI DISTURBI FOBICI Relatori: Dott.ssa Silvia BOSONI Dott.ssa Alice NATOLI Dott.ssa Stefania PERROTTA INDICE RINGRAZIAMENTI pag. 3 INTRODUZIONE 4 CAPITOLO 1 PREMESSE TEORICHE: SVILUPPO DEL SÉ E STILE DI PERSONALITÀ 6 1.1 Dalle teorie sul Sé al concetto di stile di personalità 6 1.2 Inclinazioni della stabilità personale 1.3 Dallo Stile di Personalità tendente ai Disturbi Fobici alla 10 psicopatologia 16 1.3.1 La modalità Inward nello Stile di Personalità tendente ai Disturbi Fobici 16 1.3.2 La dinamica ipseità-alterità nello Stile di Personalità tendente ai Disturbi Fobici 17 CAPITOLO 2 L’ESPERIENZA EMOZIONALE ED I SUOI CORRELATI NEUROPSICOLOGICI NELLO STILE DI PERSONALITÀ TENDENTE AI DISTURBI FOBICI 20 2.1 La stabilità personale e l’esperienza soggettiva 20 2.2 La sensibilità enterocettiva ed il senso delle condizioni fisiologiche del corpo: breve rassegna di ricerche 23 2.2.1 Il livello di attivazione di base ed i meccanismi neurali coinvolti 2.2.2 Correlazione 23 tra consapevolezza esperienza emozionale e disturbi fobici enterocettiva, 26 2.3 Il pensiero catastrofico legato alla sofferenza 2.3.1 Vertigini psicogene e sensazione di instabilità pag. 31 33 2.3.2 Amigdala, circuiti neurali, instabilità personale: una possibile correlazione nella generazione di credenze distorte? 36 CAPITOLO 3 PSICOPATOLOGIA DELL’ANSIA. ALCUNE CONSIDERAZIONI 3.1 3.2 3.3 40 I disturbi d’ansia in un’ottica fenomenologica. Le polarità Inward/Outward 40 Gli attacchi di panico e la paura della paura 42 3.2.1 Caso clinico 44 L’ansia in psicoterapia. Modelli a confronto 46 49 CONCLUSIONI 2.3 Il pensiero catastrofico legato alla sofferenza CRITICITÀ E SVILUPPI FUTURI DELLA RICERCA 2.3.1 Vertigini psicogene e sensazione di instabilità 2.3.2 Amigdala, circuiti neurali, instabilità nelenze distorte? RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI CAPITOLO 3 2 51 55 RINGRAZIAMENTI Parlando nei ruoli di future psicoterapeute, ma anche con la personale esperienza dell’essere pazienti in terapia didattica, concordiamo con l’idea che ogni esperienza sia “emotiva” (dall’etimologia latina del verbo “e-movere”, muovere da) e sia legata in modo diretto ad una gamma di possibilità di azione, in tutte le situazioni della vita, avendo noi riscontrato questo, in prima persona. A tal proposito, i maggiori ringraziamenti vanno ai nostri formatori e terapeuti didattici: Giampiero Arciero, Davide Liccione e Giorgio Rezzonico, che ci hanno seguito nella supervisione dei casi. Inoltre, un grazie particolare va alle compagne del nostro corso di specializzazione, con le quali è stato molto motivante scambiarsi riflessioni e critiche sui temi trattati. 3 INTRODUZIONE A partire dalla metà degli anni novanta è stato rivisto il concetto di organizzazione di significato personale ed il modello del Sé sotteso a tale costrutto. Da quegli studi deriva il recupero della tradizione fenomenologico-ermeneutica nell’elaborazione di un modello in grado di rendere conto dei diversi modi di costruzione dell’identità personale. Allo stesso tempo gli apporti delle ricerche neuroscientifiche hanno permesso di rielaborare le organizzazioni di significato nell’ambito della psicologia della personalità. Parliamo così di stili di personalità: - Stile di Personalità tendente ai Disturbi Alimentari Psicogeni; - Stile di Personalità tendente ai Disturbi Ossessivo-Compulsivi; - Stile di Personalità tendente a Ipocondria-Isteria; - Stile di Personalità tendente ai Disturbi Fobici; - Stile di Personalità tendente ai Disturbi Depressivi. Gli stili di personalità identificano la preminenza di alcune tendenze a “significare”, sia pre-riflessivamente (nella sfera emotiva e percettiva), sia riflessivamente (nel linguaggio e nella narrazione), la propria esperienza di vivere, delineandone peculiari modalità di regolazione e articolazione, ma rendendo contemporaneamente conto della singolarità e unicità dell’esperienza e della storia individuale di ognuno. Lo scopo di questo lavoro è descrivere le caratteristiche dello Stile di Personalità tendente ai Disturbi Fobici, inquadrandolo alla luce di una cornice teorica in cui affiorano i contributi di diversi discipline, dalla fenomenologia ermeneutica alle neuroscienze. Nella prima parte verranno delineate le premesse teoriche che hanno portato a distinguere le due modalità basiche di sviluppo della costituzione del Sé: inward e outward. Esse definiscono le caratteristiche della dialettica fra il flusso unitario del sé e l’alterità, precisando contemporaneamente i margini della dimensione emozionale. Da qui verrà approfondita la dimensione inward, come modalità tipica di emozionarsi delle persone con Stile di Personalità tendente ai Disturbi Fobici. Le riflessioni e le trattazioni verranno poi supportate dai risultati dei recenti studi 4 neuroscientifici, che hanno permesso di individuare i meccanismi neurali implicati nell’esperienza emotiva dei soggetti con tendenze fobiche. Il capitolo centrale infatti sarà dedicato all’approfondimento dei correlati neuropsicologici e ad una breve rassegna di ricerche che evidenziano come i soggetti con questo stile abbiano anche una maggiore predisposizione a sviluppare disturbi fobici. Le riflessioni e le caratteristiche descritte, infatti, permettono di tracciare un ipotetico continuum tra la normalità e la psicopatologia delle nevrosi. Nella parte finale verranno approfonditi diversi aspetti fenomenologici di alcuni quadri psicopatologici che possono correlare con questo stile di personalità. Seguiranno alcune riflessioni conclusive sul lavoro presentato con spunti di criticità, che ci auguriamo possano orientare la ricerca futura in questo campo. 5 CAPITOLO 1 PREMESSE TEORICHE: SVILUPPO DEL SÈ E STILE DI PERSONALITÀ The Self born in intersubjectivity. (Trevarthen, 1993) 1.1 Dalle teorie sul Sé al concetto di stile di personalità La caratteristica fondamentale dello stile di personalità tendente ai disturbi fobici è “l'ancoraggio della stabilità personale ad una cornice di riferimento che usa prevalentemente un sistema di coordinate centrate sul corpo” per far fronte alla variabilità situazionale, ovvero che adotta una modalità di sentirsi situati definibile come Inward (Arciero, 2009). Occorre inevitabilmente fare un passo indietro per inquadrare l'origine della stabilità personale e le diverse modalità entro le quali essa può esplicarsi identificando le due polarità, quella Inward (utilizzo di un sistema di coordinate centrate su riferimenti corporei) e quella Outward (utilizzo di un sistema di coordinate centrate su riferimenti esterni) che definiscono, in realtà, i margini di un continuum entro il quale il soggetto può oscillare nel corso della vita e che si riflettono in differenti modi in cui l'identità narrativa riconfigurerà l'esperienza del soggetto (Ricoeur, 1980). È quindi necessario parlare di Ipseità (l’essere mio dell'esperienza) per indicare il nostro modo di sentirci sempre gli stessi nel tempo, che non significa sentirsi sempre uguali, ma gli stessi seppur in modi diversi a seconda dei contesti. Questo obiettivo può essere raggiunto in vari modi, o attraverso una modalità più centrata su riferimenti corporei, pertanto un soggetto continua a sentirsi lo stesso 6 attraverso la visceralità oppure attraverso una modalità più centrata su riferimenti contestuali. Questa capacità di coglierci sempre gli stessi, nonostante il passare del tempo e nonostante la variabilità degli eventi, si consolida di pari passo con lo sviluppo del bambino e lo sviluppo delle competenze linguistiche e narrative. Tra i 18 e i 24 mesi il bambino sviluppa la capacità di utilizzare il pronome personale “Io”, riconoscendosi come soggetto-agente delle proprie espressioni verbali e delle proprie azioni, acquisendo la consapevolezza che in qualunque situazione della vita egli è diverso e contemporaneamente lo stesso . L'uso del pronome personale, quindi, non ha una valenza puramente linguistica, ma implica un cambiamento a livello dell' “essere mio dell'esperienza” che si manifesta nella molteplicità degli eventi e pertanto presuppone il raggiungimento di un senso di permanenza del Sè nel tempo (continuità del sé) già a livello pre-riflessivo. Ciò implica che l'esperienza soggettiva, che viene raccontata in prima persona, fa riferimento al percepirsi come gli stessi in ogni situazione. Queste considerazioni fanno riferimento agli studi di psicologia dello sviluppo che ritengono che l'esistenza di un sé corporeo (un sè più sostanziale) si generi da subito nel neonato nel momento in cui egli acquisisce la consapevolezza di essere se stesso, di localizzare il proprio corpo nello spazio, grazie alla reciprocità con il caregiver ed il contatto con la sua corporeità (Meltzoff, 1990). Affinché il corpo diventi significativo, la condizione necessaria è che il bambino acquisisca la capacità di comprendere oggetti e situazioni, partendo dai possibili contesti di azioni ed emozioni. Questa serie di referenze non sono però apprese dal bambino in modo esplicito. La capacità di afferrare sé stesso riflessivamente si genera tra i 18 e i 24 mesi, periodo in cui il bambino inizia a combinare parole all’interno di frasi. Questa fase è caratterizzata dal raggiungimento di tappe chiave nello sviluppo, ad esempio il bambino si riconosce nello specchio, riconosce cioè l'immagine riflessa come identica a se stesso, comprendendo che in ogni momento e nelle differenti situazioni che occorrono ogni giorno egli è sempre diverso, poiché si situa in modi 7 differenti ed il mondo gli fa un effetto diverso a livello di corporeità (del corpo vivo, il “Leib” della fenomenologia), ma contemporaneamente è sempre lo stesso (ipseità). Il concetto del Sé fino alla fenomenologia ermeneutica L'introduzione del concetto del Self, crea una frattura inevitabile rispetto alla tradizione che si basava su una concezione di un Sé duplice, la cui origine risale alla posizione filosofica kantiana relativa all' “Io penso” e a quella proposta da G.H. Mead (1938). Questa tradizione sosteneva l'esistenza da un lato del “Sé soggetto”, il concetto di “Io”, inquadrato come unico ed immutabile nel corso della vita e che dà conto della percezione per cui gli eventi della nostra vita originano dal soggetto che li esperisce; dall'altro lato il “Sè oggetto”, il concetto di “Me”, che corrisponde alla diversità delle nostre esperienze e che varia continuamente in relazione alle interazioni con il mondo e con l'altro. Questa visione propone una nozione di conoscenza che è legata alle possibilità conoscitive del soggetto, ai suoi limiti strutturali: “The ‘I think’ expresses the act of determining my existence. The existence is thereby already given but the manner in which I am to determine it, the way in which I am to posit in myself the manifold pertaining to it, is not yet thereby given” (Kant, 1967). Sulla base di questo costrutto e prendendo come riferimento l’organizzazione del Sistema Nervoso Centrale (SNC) proposta dalla “teoria dei sistemi autoorganizzati”, Guidano (1991) introduce un nuovo concetto del Sé, articolando la teoria delle “organizzazioni di significato personale”; in base ad essa esistono quattro forme invarianti di organizzazione del Sé che rappresentano diversi modi di coerenza interna, cioè operazioni diverse di ordinamento dell’esperienza soggettiva. Il concetto di Sé proposto è interpretato come un processo circolare di mutua regolazione tra l'immediata esperienza di sé, l’“Io”, che agisce e fa esperienza, e un senso di sè più esplicito e astratto che emerge in conseguenza di un atto valutativo su quella esperienza , il “Me”, che valuta e osserva. 8 La consapevolezza è per Guidano separata dal mondo dell'esperienza reale, ovvero si origina, si costruisce e ricostruisce nella stanza chiusa dell'intelletto per effetto di un atto riflessivo. Essa è quindi un processo auto-organizzato che attribuisce significati, sulla base dei propri limiti strutturali, ai cambiamenti interni (i cambiamenti strutturali del sistema), effetto delle perturbazioni ambientali. Se pensiamo però a quanto accade in ogni istante, ci rendiamo conto che questa concezione non rende conto di tutta una gamma di eventi che accadono costantemente nella nostra vita, e che non necessitano di nessun tipo di riflessione per acquisire significato, e che supportano la concezione proposta da Heidegger per cui “conoscere è esistere” e solo una piccola parte di questa conoscenza può essere verbalizzata. Questo vuol dire che, per esempio, l'esperienza dell'avere caldo in un pomeriggio d’estate, non è subordinata ad una riflessione, ma è da subito per me significativa, cioè la consapevolezza di Sé emerge dall'essere nel mondo, dall'essere in relazione con il mondo e con gli altri ed è “incarnata” in un corpo che agisce ed è agito dal mondo. L'ipseità (l’essere mio dell'esperienza) è un processo pre-riflessivo che prende vita proprio dall'incontro con il mondo e con gli altri (Heidegger, 1988), si riflette nelle cose come in uno specchio, torna a sé ed è conscia di sé in modo pre-riflessivo, grazie al fatto di essere da subito aperta all’alterità, apertura che avviene attraverso il corpo. Con il passaggio alla fenomenologia ermeneutica, quindi, si assiste ad un radicale mutamento della concezione del Sé che da “Cosa”, una sorta di “ens creatum”, cioè una cosa creata attraverso una riflessione cognitiva, a cui si possono attribuire le stesse categorie utilizzate per concettualizzare le cose e gli oggetti, diventa un “Chi”. Il fondamento di questa nuova concezione, quindi, prende in considerazione “l'esserci”, cioè una ipseità che non è data una volta per tutte come fosse un oggetto, ma che è sempre nell'atto di farsi. L'ipseità è fondata sull'esperienza fattuale e ha come componente strutturale l'intenzionalità, intesa come apertura al mondo e agli altri, l'essere sempre “in 9 relazione con”; questo determina il fatto che nell’agire o nel comportarsi in un certo modo, ci si situi emotivamente in un modo o in un altro sulla base dell'effetto che il mondo o gli altri ci fanno; e dalla continua relazione con il mondo, dal nostro continuo essere presso le cose, origina la continuità del senso di sé. Fare esperienza vuol dire quindi essere presso le cose e, pertanto, la coscienza di sé implica un elemento costitutivo e fondamentale che è la relazione col mondo, con l'altro e col corpo stesso, in una costante dialettica tra ipseità ed alterità; alterità rappresentata tanto dal corpo quanto dal mondo e dall'altro. Questa prospettiva ribaltata sul Sé si evidenzia anche quando consideriamo il concetto di riconfigurazione narrativa della nostra esperienza. La concezione del Self come “cosa” identificava una sovrapponibilità tra Sé ed identità personale in quanto il significato originava dalla riflessione, mentre la concezione del Self come un “Chi” separa il piano dell'essere mio dell'esperienza da quello dell'identità narrativa. 1.2 Inclinazioni della stabilità personale Possiamo ora ritornare ad indagare le possibili modalità di sentirci gli stessi ogni volta e nelle diverse circostanze, le diverse modalità di costruzione della nostra stabilità personale, la cui origine si situa nell'intersoggettività. Questo costrutto viene ad assumere un valore ontologico grazie agli studi di Trevarthen, che ribaltarono la concezione tradizionale, secondo cui il bambino piccolo sarebbe stato incapace di contribuire alla comunicazione se non per rispondere a bisogni di natura biologica. Trevarthen infatti propone la teoria della “intersoggettività innata” secondo cui gli esseri umani non imparerebbero ad essere responsivi e ad entrare in relazione con l'altro, ma lo sarebbero da subito, come del resto già esplicitato dalla concezione di stampo fenomenologico. A tal proposito il concetto di intersoggettività è stato successivamente meglio specificato nei termini di intersoggettività primaria e secondaria. 10 Per intersoggettività primaria si intende una fase in cui il bambino ha una consapevolezza intuitiva e preriflessiva di sé dall’interno, attraverso l’interazione con il caregiver, che si può osservare sin dalla nascita. Dai nove mesi inizia la fase dell’intersoggettività secondaria, che si sviluppa con il progressivo interesse del bambino verso il mondo esterno, con manifestazioni di una vera e propria intenzione comunicativa che comporta la consapevolezza del bambino che le altre persone funzionano come entità psicologiche; prova ne è, ad esempio, la comparsa dell’attenzione condivisa. Il bambino quindi ha una precoce capacità di essere consapevole di una presenza umana, di seguire gli stati mentali dell’altro e di comunicare con essi. Questo ci dimostra come la consapevolezza di sé derivi dalla manifestazione della mente di una persona che da subito è “con l’altro”, “aperta al mondo e all'incontro con l'altro”. Secondo Trevarthen la genesi della reciprocità avviene grazie ad una modalità ritmica e armonica che si esplica negli scambi comunicativi tra i due partner e che contribuirà allo sviluppo delle reti neurali in un determinato modo. Nella teoria dell'intersoggettività innata, Trevarthen fa riferimento al concetto di “campo emotivo” che può essere descritto dalla persona denominando tutte le emozioni che ha sperimentato nel corso delle relazioni. Si capisce, quindi, come la mancata reciprocità possa assumere un ruolo importante nel determinare ritardi nello sviluppo sia emotivo che cognitivo del bambino. Questo risulta evidente nei casi di autismo infantile dove si assiste ad un restringimento del campo emotivo (Kanner, 1943) ed anche nelle situazioni in cui l'ambiente non risponde e non è di sostegno, come avviene per i figli di madri con depressione post natale, incapaci di sincronizzarsi sul loro bambino (Murray, 1992). L’importanza dell’intersoggettività è evidente pertanto sia sull’effetto che produce sulle reti neurali, che si sviluppano in modo diverso a seconda della qualità, della sincronia e della ritmicità degli scambi, sia per gli effetti sul dominio emotivo, ovvero la nostra modalità dello stare con. 11 Lo studio delle proto-conversazioni tra madre e bambino hanno permesso di evidenziare come da subito il bambino sia in grado di partecipare all’interazione con l’altro in uno scambio intersoggettivo basato sulla consapevolezza da parte di ciascuno dei partecipanti della partecipazione intenzionale dell’altro; e quindi fin dalla nascita i bambini sono capaci di impegnarsi in interazioni ritmiche con il proprio caregiver. Negli studi condotti da Trevarthen (1988) sullo sviluppo del sistema nervoso centrale (SNC) del bambino, in cui si effettuava la registrazione dei parametri fisiologici, quali elettroencefalogramma (EEG), elettrooculogramma (EOG) e indici di conduttanza cutanea durante l’interazione madre-bambino, è stata rilevata una sincronia tra l’EEG della mamma e quello del bambino, quando veniva ad instaurarsi una ritmicità durante l’interazione; usando una metafora di Tevarthen, questa armonia rende i due partner simili a due ballerini di tango, che compiono movimenti non identici, ma adeguati alla relazione. E quando la situazione sperimentale viene perturbata (squillo del telefono) il bambino è a disagio, piange, perché la madre si è desincronizzata, e questo stato di disagio persiste finchè la madre non torna nuovamente a “ballare” con il bambino, a sintonizzarsi in modo armonico ed adeguato. Gli studi sull'intersoggettività hanno quindi inevitabilmente orientato le ricerche delle neuroscienze che hanno ben inteso come fosse necessario, ai fini di comprendere il comportamento umano, non separare l'individuo dall'ambiente e dall'altro, perchè ogni processo cognitivo ed ogni comportamento è sempre “situato” entro un certo contesto ed “incarnato” in un corpo, quello proprio del soggetto, che diventa il teatro dell'incontro con l'altro. Appare quindi chiaro come l’elemento cardine da cui partire sia il fatto che non ci si possa emozionare senza un corpo, perché l’emozione correla di fatto con una modificazione corporea . Questo concetto non può prescindere dal prendere in considerazione che la modalità con la quale ci si emoziona sia collegata al modo con cui, nei primi scambi intersoggettivi, si vengono a conoscere e differenziare gli stati emotivi. 12 Ciò che è evidente a questo punto è che l'esperienza che facciamo è un modo possibile di incontrare l'altro e il mondo attraverso “il nostro corpo proprio” nel quale siamo incarnati. Il concetto di essere incarnati identifica il modo in cui ci avvertiamo nelle diverse occasioni, il nostro modo di sentirci ed il modo in cui il mondo ci appare. L'origine delle inclinazioni della stabilità personale si situa proprio a partire dalla relazione corpo proprio-alterità, che determina anche diverse modalità di regolare le proprie emozioni. Di fatto, è grazie alla sedimentazione delle modalità invarianti attraverso cui entriamo in relazione con l’altro che si determina il senso di una stabile configurazione del Self, che costituisce l'origine della sua medesimezza. Le due inclinazioni, quella Inward e quella Outward, riflettono modi diversi attraverso cui l'identità narrativa riconfigurerà l'esperienza soggettiva e rappresentano due polarità di un continuum di strutturazione del nostro dominio emotivo; esse corrispondono a differenti modi in cui viene a costruirsi la relazione con l'altro significativo. Sebbene queste differenti modalità di strutturazione del dominio emotivo derivino dalla reciprocità dei primi scambi, esse non sono assimilabili ai pattern d'attaccamento, che rappresentano invece le regolarità della relazione con il caregiver e non ciò da cui origina la strutturazione del nostro dominio emotivo. In realtà, tanto i pattern d'attaccamento quanto le diverse modalità di organizzazione del dominio emotivo sono conseguenti ai nostri diversi modi di essere “in relazione con”. La variabile che incide sul modo in cui il bambino svilupperà differenti modalità di esperire le emozioni è connessa alla tipologia di stimoli ricorrenti a cui il bambino sarà soggetto nel corso delle relazioni interpersonali significative. Può essere di più immediata comprensione l'esempio di un bambino che sperimenta le coliche per la prima volta, stato viscerale a cui corrisponderà uno specifico stato emotivo. Se il caregiver dà una risposta che sarà sempre la stessa ogni volta in cui il bambino sperimenterà quello stato viscerale e quindi quella specifica emozione, 13 questo consentirà al bambino di associare quello specifico stimolo fisiologico a quella contingente risposta da parte del caregiver. Ciò inevitabilmente offrirà al bambino la possibilità di sviluppare una prevedibilità rispetto alle risposte che riceverà dall'esterno, oltre che la capacità di differenziare in modo adeguato i propri stati interni, perchè ad ognuna delle condizioni fisiologiche (viscerali) esperite, il bambino sperimenterà una risposta coerente e regolare da parte del caregiver. Sappiamo che le emozioni di base costituiscono modalità di risposta con cui l'organismo è biologicamente preparato a far fronte a specifici stimoli, definiti trigger universali (fame, sete etc.), con la finalità ultima di garantire la propria sopravvivenza (Ekman, 2003). Esse sono quindi elicitate, come una sorta di risposta riflessa, ogni volta che l'organismo si imbatte in stimoli ambientali verso i quali risulta sensibile; questo è possibile perchè l'organismo è dotato di meccanismi definiti di “appraisal automatico” che determinano l'attivazione della risposta emozionale indipendentemente da qualsiasi valutazione cognitiva. Per questa ragione, quindi, tanto più la relazione con la mamma eliciterà trigger universali tanto più il bambino imparerà ad associare quello specifico stato delle sue viscere ad una specifica emozione, con una conseguente “ipercognitivizzazione delle emozioni di base”. La modalità appena descritta definisce la tendenza Inward che, a partire dai primi scambi interattivi, si stabilizza nel tempo definendo una modalità di conseguimento della stabilità personale attraverso la focalizzazione sull'aspetto viscerale delle emozioni; questo porta l’individuo a sviluppare una modalità di mantenere la stabilità personale nella relazione con l’alterità, mantenendo la stabilità delle condizioni fisiologiche del suo corpo. Più gli scambi con il caregiver sono orientati ad una precoce e ricorrente attivazione delle emozioni di base e più la percezione della stabilità personale del bambino coinvolgerà un sistema di riferimento che impiegherà prevalentemente coordinate centrate sul corpo, andando poi ad influenzare il modo in cui verrà a determinarsi la riconfigurazione narrativa della propria esperienza . 14 Ora ritorniamo all'esempio del bambino che sperimenta le coliche e prendiamo in considerazione uno scenario completamente diverso, quello in cui il caregiver fornisca in risposta a quella condizione viscerale una risposta sempre diversa e incostante; questo creerebbe una condizione nella quale sarebbe come se l'evoluzione non avesse dotato l'organismo di quel meccanismo di “appraisal automatico” citato precedentemente grazie al quale rispondere a stimoli rilevanti per la sopravvivenza obbligando il bambino ad una valutazione cognitiva sul contesto, non potendosi fidare della propria visceralità come sistema di previsione, rendendo cioè necessario l'ancoraggio ad un sistema di riferimento che impiegherà prevalentemente un sistema di coordinate centrate sull'esterno. In questa seconda dimensione, la stabilità personale si genererà in una modalità definita Outward dove le emozioni “ipercognitivizzate” non saranno più quelle di base, ma le emozioni definite “socialmente consapevoli” ovvero colte dall'esterno sulla base della relazione con l'altro e del contesto entro cui questa relazione viene ad esplicarsi. Pertanto queste emozioni, solo limitatamente viscerali, subiranno cambiamenti più rapidi e genereranno una maggior flessibilità al punto che la stabilità personale del soggetto sarà il risultato del tentativo di sincronizzare la propria emotività con quella dell'altro, generando una dimensione più cognitiva delle emozioni; in tal senso è possibile comprendere come si possa manifestare un sentimento di “vuoto” quando l'altro, che funge da punto di riferimento su cui ancorare la propria stabilità personale, viene a mancare. 15 1.3 Dallo Stile di Personalità tendente ai Disturbi Fobici alla psicopatologia 1.3.1 La modalità Inward nello Stile di Personalità tendente ai Disturbi Fobici Come già esposto sopra, nello Stile di Personalità tendente ai Disturbi Fobici la modalità di emozionarsi definita “Inward”, che viene a costituirsi nella storia personale del soggetto, conduce l'individuo a focalizzarsi nella relazione con gli altri e con il mondo sull'aspetto viscerale delle sue emozioni, con la conseguenza che la stabilità personale andrà a coincidere con la stabilità delle proprie condizioni interne. In questo processo gioca un ruolo chiave la consapevolezza enterocettiva, fungendo sia da “campo di gravitazione”, costituito da un livello di base le cui fluttuazioni oltre una certa soglia genererebbero uno stato d'allarme, sia da sistema di riferimento attraverso cui regolare la propria posizione rispetto al mondo e agli altri, mediante una serie di azioni finalizzate al mantenimento di quella condizione basale su cui si erge la propria stabilità personale e quindi il proprio modo di sentirsi situati. Sono da considerare in questa gamma di potenzialità d’azione i comportamenti di evitamento che sono intrapresi allo scopo di respingere o allontanarsi da situazioni o persone che potrebbero costituire una minaccia alla propria stabilità personale. Esistono diversi studi che mostrano una correlazione tra strategie di coping orientate all'evitamento e aumento dei livelli di ansia in risposta a sensazioni del proprio corpo; è stata inoltre osservata una tendenza a ricorrere a strategie di evitamento da parte delle persone che soffrono di attacchi di panico (Zvolensky e coll., 2004). In queste ricerche viene studiato il fenomeno dell'evitamento esperienziale, che occorre quando una persona cerca di controllare una propria condizione interna (sensazione corporea, emozioni, pensieri, immagini, predisposizioni caratteriali), evitando di affrontare situazioni che potrebbero alterarla. Viene sottolineato inoltre come questa strategia di coping, centrata sull’evitamento emozionale, venga osservata in una vasta gamma di problemi clinici che possono andare dal campo 16 dell'abuso di sostanze, dove si assiste all'utilizzo della sostanza come conseguenza di uno stressor psicologico, ai Disturbi d’Ansia. Ritornando allo stile di personalità oggetto della trattazione del nostro lavoro, Zvolensky e colleghi (2004) affrontano anche il tema dell'agorafobia e sottolineano come i soggetti agorafobici ricorrano in modo massiccio all'utilizzo di strategie di coping orientate all'evitamento, sviluppando peraltro nel tempo più disturbi d'ansia rispetto ai soggetti che utilizzano queste strategie in modo meno marcato. Il comportamento di evitamento, comunque, è solo una delle possibili modalità adottate per mantenere stabile il proprio livello di attivazione; esistono infatti comportamenti volti ad un controllo diretto della propria condizione emozionaleenterocettiva (distrazioni, soppressione delle emozioni) allo scopo di limitare l'intensità emozionale, al punto di sopprimerla. Da ciò emerge una focalizzazione esclusiva su questi stati interni e la concomitante perdita d'attenzione sulle circostanze che li hanno elicitati, determinando nel soggetto la percezione del proprio corpo come fonte primaria di pericolo. 1.3.2 La dinamica ipseità-alterità nello Stile di Personalità tendente ai Disturbi Fobici Quanto sopra esposto ci fornisce una precisa indicazione, quella cioè per cui è a partire dal corpo che occorre pensare tanto alla psicologia, quanto alle neuroscienze, ma anche e soprattutto alla psicopatologia, interpretandola nei termini di eccessiva attivazione fisiologica del corpo. Questo non può escludere il fatto di considerare l’ipseità, che come abbiamo visto rappresenta il nostro modo di sentirci sempre gli stessi nel tempo, che non significa sentirsi sempre uguali, ma gli stessi seppur in modi diversi a seconda dei contesti. Abbiamo anche visto come la stabilità personale possa essere raggiunta in vari modi, ovvero attraverso una modalità più centrata su riferimenti corporei, pertanto un soggetto continua a sentirsi lo stesso attraverso la visceralità oppure attraverso una 17 modalità più centrata su riferimenti contestuali, che sono i vari modi di intendere la relazione tra corpo proprio ed alterità. Ritornando al caso specifico dello Stile di Personalità tendente ai Disturbi Fobici esiste una dialettica tra ipseità ed alterità del tutto particolare; infatti l'alterità (mondo-altri) viene, per così dire, ridotta all'ipseità, cioè l'alterità viene percepita focalizzandosi sui segnali del corpo. Questo comporta che il significato attribuito tanto alla propria esperienza quanto agli eventi in corso dipenda dalla valutazione condotta sull'intensità di questi segnali. Nella sua teoria periferica delle emozioni William James afferma che “i cambiamenti a livello corporeo derivano immediatamente dalla percezione di un fatto elicitante e che la nostra percezione dei medesimi cambiamenti nel momento in cui avviene, è ‘l'emozione’” (James, 1884). Il segnale corporeo è pertanto interpretato come l'informazione che il corpo genera per far fronte alle perturbazioni ambientali, mentre la consapevolezza di quel segnale è l'emozione. Nel caso specifico di questo stile di personalità, la predominante attenzione enterocettiva porta il soggetto a prestare una grande attenzione a tutti quegli aspetti situazionali che potrebbero innescare un cambiamento al livello emozionaleenterocettivo di base del soggetto, generando una serie di azioni finalizzate al mantenimento di quella condizione basale che determina la stabilità personale. Nel capitolo successivo vedremo come le neuroscienze hanno inoltre dimostrato che l'enterocezione gioca un ruolo fondamentale nella percezione delle emozioni; ovvero, la modalità di emozionarsi tipica di questo stile di personalità, si riflette in una più accurata capacità di cogliere le risposte viscerali, che influenza a sua volta l'intensità emozionale. Damasio (2000) ha identificato l'esistenza di una correlazione tra una precisa capacità enterocettiva ed una esperienza emozionale più intensa, con il coinvolgimento di strutture neurali parzialmente sovrapponibili sia nella regolazione enterocettiva che nella generazione dei processi emozionali (Critchley e coll., 2004). 18 Un ulteriore studio (Pollatos, Traut-Mattausch, Schroeder, 2006) ha confermato l'esistenza di una relazione tra consapevolezza enterocettiva, ansia e intensità delle emozioni spiacevoli, confermando come la percezione dei segnali viscerali giochi un ruolo importante nella eziopatogenesi dei Disturbi d'Ansia. Nello studio sono state indagate le variabili dell' ansia di tratto e della consapevolezza enterocettiva in 102 soggetti sani a cui venivano mostrate immagini neutre e spiacevoli, chiedendo di quantificare l'intensità emozionale percepita ed il livello di arousal. I risultati hanno evidenziato come sia la consapevolezza enterocettiva sia l'ansia di tratto correlavano con i punteggi relativi allo stato di arousal forniti dal soggetto in riferimento alle immagini spiacevoli . Nello Stile di Personalità tendente ai Disturbi Fobici, quando l'evento esterno produce una alterazione del livello emozionale-enterocettivo, che viene interpretato come un segnale che esce dalla gamma delle sensazioni fisiche familiari, nel soggetto si genera un senso di pericolo imminente o possibile, che si traduce in una sensazione di forte ansia. Questo avviene per qualunque tipologia di emozione a causa del fatto che il soggetto inizia a focalizzarsi esclusivamente sulla condizione interna, perdendo di vista l'evento scatenante; pertanto, il battito cardiaco accelerato in risposta ad un evento che ha prodotto una gioia intensa, viene ad essere posto sotto la lente d'ingrandimento e, slegato dalla situazione elicitante, viene interpretato come sintomo e quindi come nocivo. In conseguenza di questa interpretazione viene a generarsi un forte stato d'ansia, che muta il modo in cui la persona percepisce se stessa entro il proprio corpo, alterandone la situatezza. Quello a cui si assiste è la focalizzazione dell'attenzione alle perturbazioni corporee, che aumenta il senso di fragilità soggettiva e la propria percezione di instabilità, innescando quella che viene definita “paura della paura”. 19 CAPITOLO 2 L’ESPERIENZA EMOZIONALE ED I SUOI CORRELATI NEUROPSICOLOGICI NELLO STILE DI PERSONALITÀ TENDENTE AI DISTURBI FOBICI L’essere-nel-mondo, in quanto tale, è un essere-corpo, ma non solo un esser-corpo. (Heidegger, 1987) 2.1 La stabilità personale e l’esperienza soggettiva L’esperienza vissuta del proprio corpo è uno degli aspetti fondamentali per capire la relazione tra il senso di stabilità personale ed i modi dell’individuo di sentirsi situato in un contesto di riferimento. La persona non può avere un’esperienza di sé, se non è un corpo. Nella possibilità dell’esperienza, il corpo, inteso come Leib, il corpo vivo, è un principio costitutivo in quanto è implicato nella nostra relazione con il mondo, configurandola come un insieme di potenzialità di azione. Essere situati nel mondo non significa semplicemente avere una collocazione spaziale da qualche parte nell’ambiente fisico, ma essere in rapporto con le circostanze che sono significative da un punto di vista corporeo (Gallagher e Zahavi, 2009). L’indagine fenomenologica del corpo cerca di comprendere fino a che punto la nostra esperienza del sé, degli altri, del mondo sia formata e influenzata dalla nostra corporeità. In questa parte si cercherà di analizzare l’esperienza emozionale dei soggetti con Stile di Personalità tendente ai Disturbi Fobici, il cui modo di emozionarsi è 20 prevalentemente centrato sui segnali interni del corpo. Dato che l’esperienza corporea risulta qui fondamentale per avere un senso di stabilità personale, ci siamo chieste come il corpo struttura l’esperienza, ossia come plasma il modo primario di essere nel mondo di questi soggetti. Abbiamo cercato di rispondere a questo interrogativo partendo dall’esperienza soggettiva della persona ed avvalorandoci del contributo delle recenti evidenze neuroscientifiche. Nella prima parte di questo lavoro, abbiamo visto come la caratteristica fondamentale dello Stile di Personalità tendente ai Disturbi Fobici sia l’ancoraggio della stabilità personale ad una cornice di riferimento che usa prevalentemente un sistema di coordinate centrate sul corpo per far fronte alla variabilità situazionale (Arciero, 2009). Ciò significa che il senso della permanenza nel tempo del soggetto, nei confronti del contesto di riferimento, è focalizzato sulle condizioni corporee, in particolare sull’aspetto “viscerale” delle emozioni. Questa forma di inclinazione della stabilità personale, tipica della personalità Inward, è caratterizzata da una dialettica in cui la percezione dell’alterità, cioè degli altri e del mondo in generale, coincide con l’ipseità. È come dire che la stabilità personale coincide con la stabilità delle condizioni del proprio corpo. Nel soggetto con questo stile di personalità, il suo modo di sentirsi situato è focalizzato in prevalenza sulla percezione degli stati interni, trascurando quel “pezzo” di mondo con cui questi stati interni sono in relazione. In questa dialettica un ruolo chiave è determinato dalla consapevolezza enterocettiva, cioè dalla maggiore predisposizione a percepire le alterazioni fisiologiche del proprio corpo. La consapevolezza enterocettiva determina il modo di sentirsi, all’interno di un livello di attivazione fisiologica basale, le cui fluttuazioni, oltre il livello base, generano uno stato di allarme. È attraverso la percezione dell’intensità e della configurazione di questi segnali corporei che il soggetto attribuisce significato alla propria esperienza emotiva. L’esperire questo senso di stabilità alterata porta ad una forte percezione di fragilità, una sorta di diminuzione dell'auto-efficacia, che fa aumentare la vigilanza verso le 21 sensazioni corporee, amplificandole e contribuendo all’ aumento della sensazione generale di pericolo. Dato che il senso di permanenza del self è prevalentemente centrato sul corpo in questo stile di personalità, maggiore è l'instabilità percepita, maggiore sarà la vigilanza del corpo e la probabilità di percepire sensazioni minacciose. Dall'altra parte, la persona che sente di essere in uno stato di fragilità progressivamente distanzia la sua esperienza dal suo oggetto intenzionale. Al fine di mantenere la stabilità, il soggetto sposta il focus della sua attenzione dalla situazione in corso alle sue sensazioni corporee. Per esempio, l'aumento della frequenza cardiaca che si verifica quando il soggetto sale qualche rampa di scale non sarà più percepito come qualcosa relativo allo sforzo fisico ma potrà essere sentito esclusivamente come evento somatico, che viene amplificato attraverso il focus attenzionale e rimosso dalla condizione che lo ha generato. Attraverso questa operazione, che separa il corpo della persona dal mondo, un caso semplice di tachicardia provocato dallo sforzo, viene ad essere sentito come un cuore tachicardico che minaccia l'organismo, aumentando così ulteriormente il senso di fragilità della persona. Lo stato emotivo innescato da una situazione perde, così, il suo riferimento alla situazione e si riduce a segnale corporeo che, andando oltre il livello basale, è percepito come un pericolo per la stabilità personale. Questo primato dell'enterocezione si manifesta in modo piuttosto inaspettato nel caso delle emozioni. Per esempio, prendiamo il caso dell’iperventilazione associata ad uno stato di paura che segue l'evitamento di un incidente. Una volta che l'iperventilazione è rimossa dalla situazione che l'ha scatenata (attraverso un aumento del focus dell'attenzione sul corpo), essa è percepita come il sintomo di una respirazione alterata. L'iperventilazione derivante dalla manifestazione di paura diventa allora il sintomo di una condizione alterata che espone l'integrità del soggetto a rischio. In conclusione, nello Stile di Personalità tendente ai Disturbi Fobici, l’alterità è ridotta al mantenimento della permanenza del sé, definendo la gamma di 22 modulazioni enterocettive e di azioni possibili che rendono sicura e stabile la l’integrità della persona; ciò spiega perché il soggetto tende a prevedere, ed eventualmente a evitare, le situazioni contingenti, ritenute come circostanze eccessivamente attivanti dal punto di vista emotivo e viscerale. Ogni sensazione ed emozione, quindi, la cui intensità va oltre un certo limite, può essere percepita come nociva e genera uno stato di ansia che cambia il modo stesso in cui la persona percepisce se stessa all'interno del suo corpo. La consapevolezza enterocettiva è strettamente legata alla esperienza emozionale del soggetto che esperisce la situazione e le attivazioni fisiologiche concomitanti. Dal punto di vista esperienziale, i soggetti con questo stile di personalità non solo sembrerebbero avere una maggiore percezione dei loro stati viscerali ma riportano anche resoconti verbali di esperienze emozionali più intense. La correlazione tra consapevolezza enterocettiva e questo tipo di esperienza emotiva è stata anche confermata dai risultati dei recenti studi neuroscientifici. 2.2 La sensibilità enterocettiva ed il senso delle condizioni fisiologiche del corpo: breve rassegna di ricerche 2.2.1 Il livello di attivazione di base ed i meccanismi neurali coinvolti L’essere umano, nel percepire le sensazioni provenienti dal suo corpo, che sono in relazione con i suoi stati emotivi, trae il senso delle condizioni fisiologiche dell’intero organismo. Da un punto di vista convenzionale, oltre alle sensibilità specifiche, dotate di un organo sensoriale localizzato, esistono nell’organismo altri tipi di sensibilità, che potrebbero essere definite “a recettori diffusi”, poiché non sono dotate di un solo sito recettoriale specifico, ma sono caratterizzate da innumerevoli recettori, distribuiti su tutto il corpo. Fanno parte di questo gruppo la sensibilità esterocettiva, la sensibilità enterocettiva e quella propriocettiva (Marchetti e Pillastrini, 1997). 23 La sensibilità esterocettiva fornisce informazioni dettagliate riguardanti il mondo esterno, quella enterocettiva o viscerale informa sullo stato degli organi viscerali deputati alle funzioni metaboliche dell’organismo, mentre la sensibilità propriocettiva riguarda l’insieme delle informazioni sulla posizione ed il movimento del corpo. In questa classificazione le sensazioni più discriminate, per esempio, quelle della temperatura, del prurito e del dolore erano associate ad un sistema somatosensoriale “esterocettivo”, mentre le sensazioni meno discriminate dell’attività vaso-motoria, come quelle della fame e della sete erano associate ad un sistema separato “enterocettivo” (Craig, 2003). Tuttavia, da un punto di vista esperienziale, la suddivisione tra un aspetto esterocettivo ed uno enterocettivo della sensibilità ha portato a trascurare il ruolo dell’esperienza del soggetto che sente le sensazioni e le emozioni nel corpo in un certo modo. Recenti scoperte, che inducono un cambiamento concettuale, risolvono queste questioni mostrando come tutte le sensazioni del corpo siano “rappresentate” in un sistema filogeneticamente nuovo, che si è evoluto dall’antico sistema omeostatico che mantiene l’integrità del corpo. Tale sistema si è originato dalle afferenze del sistema limbico, che, da un punto di vista evolutivo, è il sistema che mantiene l’integrità del corpo. Le sensazioni viscerali organizzate da questo complesso neurale, permettono alla persona di avere un senso delle condizioni fisiologiche dell’intero corpo e ridefiniscono la categoria “enterocezione”. Questo sistema omeostatico afferente, implicato nell’enterocezione, coinvolge principalmente i nuclei mediali ventrali che proiettano alla corteccia enterocettiva nel margine dorsale dell’insula che, a sua volta, ha connessioni con la corteccia anteriore del cingolo, con l’amigdala, con l’ipotalamo e con la corteccia orbitofrontale. Studi di neuroimaging hanno rivelato che la corteccia enterocettiva è attivata in gran parte da stimoli nocivi (dolore), dalla temperatura (Craig, 2002), dal solletico, dall’esercizio muscolare (Williamson e coll., 2001), dall’attivazione cardio-respiratoria, dalla fame, dalla sete e dal tocco sensuale (Olausson e coll., 2002). Tale zona corticale è ben delimitata dall’architettura per i recettori dei fattori 24 di rilascio della corticotropina, ricoprendo un importante ruolo nell’omeostasi, come la corteccia sensoriale limbica (Craig, 2003). Già il fisiologo americano Walter Bradford Cannon (1939) aveva riconosciuto che i processi neurali che mantengono l’equilibrio fisiologico ottimale nel corpo, o omeostatico, dovevano ricevere afferenze che riportavano la condizione dei tessuti del corpo (Canali e Pani, 2003). La regolazione nell’attivazione emozionale dell’organismo, che permette il mantenimento della stabilità personale, è coinvolta nell’attivazione fisiologica basale, le cui fluttuazioni oltre il livello soggettivo di base, e quindi non famigliare al soggetto, generano uno stato di allarme. Questo meccanismo caratterizza lo Stile di Personalità tendente ai Disturbi Fobici. Le evidenze neuroscientifiche riportate, non solo ci permettono di capire come l’organismo possa avvertire uno stato di allarme in presenza di un’alterazione della stabilità personale e quindi, dal punto di vista neurale, del sistema omeostatico, ma anche come una stessa sensazione possa essere interpretata in modo differente dallo stesso soggetto, spiegando la natura distinta del dolore, della temperatura, del solletico del tocco sensuale e di altre sensazioni corporee dalla semplice meccanoricezione cutanea (tocco somatosensoriale). In uno studio di fMRI, Bingel e colleghi (2003) mostrano come la sensazione del dolore attivi aree cerebrali diverse, indicando la complessità della percezione del dolore. Le aree coinvolte nella codifica del lato di una stimolazione dolorosa riguardano la corteccia somatosensoriale primaria e secondaria, l’insula e il talamo, confermando che in una sensazione dolorifica si distingue l’attivazione di una corteccia enterocettiva dalla corteccia somatosensoriale vicina. Diverse ricerche hanno indagato il ruolo dell’insula e della corteccia del cingolo nella consapevolezza enterocettiva e nel controllo volontario dell’arousal. Damasio (2003) ipotizza che le basi neurali della consapevolezza siano legate anche al meccanismo enterocettivo che implica l’attivazione della parte destra dell’insula. In uno studio di fMRI, in cui si cercavano di individuare le basi neurali implicate nel controllo volontario dell’attivazione autonomica, Critchley e colleghi (2001) hanno 25 osservato un’attivazione dei circuiti della corteccia cingolata anteriore, dell'amigdala e dell’insula in un compito di controllo enterocettivo in cui i soggetti venivano addestrati a modulare attivamente l’eccitazione corporea mediante la tecnica di rilassamento del biofeedback; inoltre, sono state riportate variazioni dell’attività dell'insula anteriore correlate alla precisione ed alla sensibilità del feedback. Phillips e collaboratori (2003) hanno dimostrato l’esistenza di una forte correlazione tra l’attivazione dell’insula anteriore destra e della corteccia cingolata anteriore e l’aumento dell’ansia prodotta dalla distensione viscerale durante la visione di facce che esprimevano paura. I risultati di queste ricerche, il cui obiettivo era quello di individuare i meccanismi neurali implicati nella sensibilità enterocettiva ed i circuiti deputati al mantenimento dell’equilibrio emotivo-viscerale, hanno portato a sollevare l’ipotesi secondo cui la consapevolezza enterocettiva abbia un ruolo primario nell’intensità dell’esperienza emozionale soggettiva, soprattutto nella predisposizione ai disturbi ansiosi e fobici. 2.2.2 Correlazione tra consapevolezza enterocettiva, esperienza emozionale e disturbi fobici In un articolo piuttosto recente di Stefan Wiens, dal titolo L’enterocezione nell’esperienza emozionale (Wiens, 2005), l’autore, dopo aver analizzato alcune teorie sulle emozioni e le evidenze emerse dagli studi di brain imaging, propone un modello di relazione ipotetica tra l’enterocezione e l’esperienza emozionale. Il modello descritto mette in relazione tre aspetti dell’enterocezione (percezione di cambiamenti fisiologici illusori, percezione di cambiamenti fisiologici reali, integrazione a livello centrale dei feedback corporei) e due livelli dell’esperienza emozionale (livello fenomenologico pre-riflessivo e livello della consapevolezza) e potrebbe servire come guida per la ricerca sul ruolo dell’enterocezione nelle modalità di esperire le proprie emozioni. Negli ultimi anni le ricerche nel campo delle neuroscienze hanno cercato di individuare i meccanismi neurali coinvolti nella consapevolezza enterocettiva ed 26 hanno osservato come questa tendenza a percepire in un certo modo i segnali corporei sia legata ad un determinato tipo di esperienza emotiva del soggetto che vive una certa situazione. In uno studio di fMRI, Critchley e collaboratori (2004) hanno individuato le regioni cerebrali coinvolte in un compito di consapevolezza enterocettiva, dove i soggetti dovevano rilevare il timing del loro battito cardiaco. Lo stimolo era costituito da un segnale (visivo o sonoro), innescato dal battito cardiaco del soggetto, la cui presentazione al soggetto era fatta con un intervallo di tempo variabile. Il compito del soggetto era di dire quando il feedback era sincrono con la propria frequenza cardiaca. L’accuratezza della prestazione del soggetto era un indice di maggiore consapevolezza enterocettiva e sensibilità. È stato chiesto inoltre di riportare la propria esperienza emozionale relativa alla propria sensibilità enterocettiva, mediante questionari che indagavano la predisposizione ai sintomi dell’ansia (Hamilton Anxiety Scale, HAMA), della depressione (Beck Depression Inventory, BDI) e sull’esperienza emotiva positiva e negativa (PANAS). Le persone classificate come “viscerally aware” avevano ottenuto una prestazione migliore nel rilevamento dei propri battiti cardiaci e sono state descritte come più espressive dal punto di vista emotivo; questi soggetti potrebbero provare emozioni di intensità più elevate e predire le conseguenze del comportamento alla presentazione di stimoli subliminali. Condizioni psicologiche particolari, specialmente come i Disturbi d’Ansia, sono caratterizzate dall’aumento dell’attenzione sui segnali corporei. Gli individui con alti livelli di ansia basale hanno una performance migliore nei compiti di consapevolezza enterocettiva. I risultati neuroanamotici hanno mostrato che quando il soggetto dirige l’attenzione sull’informazione relativa agli stati interni del proprio corpo, si attivano le regioni della corteccia insulare ed orbitofrontale. La precisione del soggetto nel rilevamento del battito cardiaco correla con l’attività dell’insula anteriore destra e con resoconti di esperienze emotive personali negative. Inoltre è stato osservato che l’attivazione dell’insula anteriore è coinvolta nella motilità viscerale, cioè nelle emozioni basiche, quali, per esempio, la paura. 27 Altri ricercatori hanno ipotizzato che le persone con maggiore consapevolezza enterocettiva tendano ad utilizzare i segnali interni (gut feelings) per predire le conseguenze di stimoli subliminali. In una ricerca di Katkin e collaboratori (2001) è stata confermata l’ipotesi secondo cui in compiti di condizionamento subliminale, i buoni rilevatori del battito cardiaco avrebbero previsto l’avvenimento di uno shock rispetto ai rilevatori non accurati. Quando ai soggetti erano mostrati stimoli subliminali, consistenti in immagini mascherate di eventi paurosi (ragni e serpenti), alcune di queste associate in modo coerente a scosse elettriche, essi potevano prevedere il verificarsi di shock, anche se non erano consapevoli delle immagini che avevano visto. I ricercatori avevano ipotizzato che i soggetti erano in grado di utilizzare la percezione di stimoli viscerali innescati dalla risposta condizionata della paura per facilitare la previsione di shock. In questo studio, la capacità di rilevare il battito cardiaco è stato utilizzato come indice della sensibilità ai segnali viscerali. È stato riscontrato che i soggetti in grado di rilevare i loro battiti cardiaci avevano un rendimento migliore nel predire la possibilità di ricevere uno shock, anche se non avevano ricevuto uno shock durante l'attività di condizionamento. I risultati confermano l'idea che le esperienze emotive di paura e ansia anticipatoria si basano in parte sulla percezione di stimoli viscerali. Diversi studi hanno cercato di esaminare la relazione tra i resoconti di esperienze emozionali e le differenze individuali nella percezione viscerale dei propri stati emotivi. Per esempio, in una ricerca di Wiens e colleghi (2000) ai soggetti, che prima si erano sottoposti ad un compito di rilevazione del proprio battito cardiaco per poter essere classificati come accurati rilevatori e non accurati rilevatori, venivano presentati due set di video filmati che elicitavano una delle tre valenze emozionali (gioia, paura, rabbia). I soggetti poi dovevano riportare le loro risposte emotive ai video filmati su una scala a 9 punti che indicava l’intensità e la piacevolezza. Gli accurati rilevatori del battito cardiaco riportavano emozioni più intense rispetto ai rilevatori meno accurati in tutte e tre le valenze emotive, ma non sono state trovate differenze significative sulla valutazione della piacevolezza tra i gruppi. 28 Molte evidenze neuroscientifiche sembrano suggerire quindi non solo che esiste una correlazione tra la sensibilità delle persone ai segnali viscerali e l'intensità della loro esperienza emozionale, ma anche che questa correlazione è responsabile del diverso modo in cui sono percepiti gli stati emozionali da certi soggetti. Ciò sembrerebbe indicare una correlazione tra la predisposizione ad alcune esperienze emozionali come paura e ansia, legate all'attivazione della motilità viscerale, e lo sviluppo di una maggiore sensibilità verso i segnali enterocettivi. Una spiegazione possibile della correlazione tra un'enterocezione più accurata e un'esperienza emozionale più intensa è il fatto che le strutture neurali responsabili per la regolazione enterocettiva sembrano anche essere implicate nella generazione dei processi emozionali (Damasio, 2000). Questo comporta una parziale sovrapposizione tra il sistema neurale enterocettivo e le aree associate con l'attivazione emozionale. L'insula anteriore rappresenta il substrato comune sia della consapevolezza enterocettiva sia delle emozioni. Vediamo in che modo. L’insula o, più propriamente, il lobo dell’insula, si trova nel fondo della scissura laterale o del Silvio. Se esaminiamo le sue connessioni con la corteccia cerebrale e i centri sottocorticali, possiamo suddividere l’insula in due settori dotati di proprietà funzionali differenti: una regione anteriore “viscerale” (che coincide con l’insula agranulare e la parte anteriore dell’insula disagranulare) e una regione posteriore polimodale (che comprende la parte posteriore dell’insula disagranulare e l’insula granulare). La regione anteriore è fortemente connessa con i centri olfattivi e gustativi; inoltre, riceve informazioni dalla regione anteriore della parete ventrale del solco temporale superiore, un’area in cui vi sono molti neuroni che rispondono alla vista delle facce. Di contro, la regione posteriore è contraddistinta da connessioni con le aree corticali uditive, somatosensoriali e premotorie. Di recente si è scoperto che l’insula rappresenta l’area corticale primaria non solo per l’esterocezione chimica (olfatto e gusto), ma anche per l’enterocezione, ovvero la ricezione dei segnali relativi agli stati interni del corpo. Questi segnali, dopo esser transitati per il midollo spinale, raggiungono specifici settori del talamo, i quali, a loro volta, proiettano in maniera topografica a vari settori dell’insula. Tutto ciò è 29 ancora più interessante se teniamo presente che l’insula, e in particolare la sua regione anteriore, è un centro di integrazione viscero-motoria: se stimolata elettricamente produce, infatti, una serie di movimenti corporei che, a differenza, però, di quelli indotti dalla stimolazione delle aree motorie, sono accompagnati da una varietà di risposte viscerali quali, per esempio, aumento del battito cardiaco, dilatazione delle pupille, conati di vomito, ecc. (Rizzolatti e Sinigaglia, 2006). Questo elemento condiviso potrebbe spiegare perchè, nel caso di molti soggetti tendenti a fobia, l'attivazione emozionale coincide con una percezione più acuta delle condizioni fisiologiche del corpo. Un altro tratto ugualmente significativo che mostrano le persone con Stile di Personalità tendente ai Disturbi Fobici - che tendono a preservare il senso di permanenza nel tempo attraverso la stabilità dell'attivazione enterocettiva - è il bisogno di far fronte e di anticipare le condizioni che possono alterare la stabilità, generando campi di azione per affrontare lo stimolo ambientale. È stato dimostrato come alcuni soggetti (che sono più in grado di altri di percepire i loro battiti cardiaci) possano anticipare stimoli negativi attraverso la percezione dei loro segnali enterocettivi, e quindi prepararsi ad anticipare gli eventi che destabilizzerebbero il loro senso di stabilità personale (Katkin e coll., 2001). I risultati di queste ricerche sono in linea con l’ipotesi di Bertolino, Arciero e collaboratori (2005) secondo cui soggetti con differenti stili di personalità hanno generato nel corso dell’ontogenesi diverse modalità di strutturazione del dominio emotivo (in particolare la paura) e di ordinamento e coerenza semantica della storia personale; pertanto, la valenza emotiva che uno stesso stimolo è in grado di elicitare deve variare in relazione al tipo di personalità in esame. Nei soggetti con stile di personalità tendente ai disturbi fobici, essendosi strutturata una maggiore consapevolezza enterocettiva, il senso di sé è regolato dalla capacità di fronteggiare i pericoli che vengono dal mondo fisico (ivi compreso il corpo). La perdita di controllo su questi parametri fa scattare l’allarme suscitando la paura e alterando il senso di sé. Temi di libertà, di sfida del pericolo, di invincibilità sono comunemente 30 intrecciati con tematiche che riguardano la salute, l’amicizia, la stabilità affettiva (Arciero, 2006). Dal punto di vista neuro-fisiologico per i soggetti inward con tendenze fobiche c’è il reclutamento di circuiti neurali primariamente associati alla paura in generale e ai correlati viscerali (amigdala e, come abbiamo visto nella consapevolezza enterocettiva, l’insula) che predispongono questo tipo di personalità ad una sensibilità più pronunciata agli stimoli allarmanti. I dati disponibili suggeriscono che la sensibilità enterocettiva più precisa potrebbe essere considerata un fattore predisponente nello sviluppo di alcuni Disturbi d’Ansia. 2.3 Il pensiero catastrofico legato alla sofferenza Nel capitolo “Il cervello pensoso del corpo” della sua opera L’errore di Cartesio, Antonio Damasio spiega l’importanza delle sensazioni corporee, dell’aspetto “viscerale”, nel dare un certo significato al proprio modo di sentirsi situati nel mondo, e quindi di attribuire un dato significato al contesto di riferimento: “E per tutelare la sopravvivenza del corpo con la più grande efficacia possibile, la natura – io credo – si imbattè in una soluzione molto potente: rappresentare il mondo esterno in termini di modificazioni che esso provoca nel corpo, cioè rappresentare l’ambiente modificando le rappresentazioni primordiali del corpo ogni volta che si ha un’interazione tra organismo e ambiente” (Damasio, 1994). Abbiamo visto come lo Stile di Personalià tendente allo sviluppo di Disturbi Fobici sia caratterizzato da una maggiore sensibilità enterocettiva a percepire i segnali corporei interni per regolare e mantenere il senso di stabilità personale. Un aspetto legato a questo modo di sentirsi situati è il fatto che una condizione di ansia acuta, oltre il livello base, percepita quindi come minaccia per l’integrità dell’organismo (che dal punto di vista neurale attiva anche i meccanismi legati alla paura), simultaneamente corrisponde alla generazione di pensieri e immagini volte ad anticipare i possibili sviluppi della situazione in corso. 31 Momenti particolarmente impegnativi nella vita emotiva di una persona corrisponderebbero ad un aumento dell'attenzione, e quindi ad una acuta amplificazione delle sensazioni corporee, oltre ad un aumento della reattività dell'amigdala, probabilmente tramite una via diretta spino-talamica. Mentre questo aumento dell'attenzione verso le perturbazioni corporee fa incrementare le possibilità di percepire segnali enterocettivi come minacciosi, esso contribuisce alla percezione di una condizione di instabilità, facendo sentire l'individuo più vulnerabile, e così più predisposto a considerare eventi fisici innocui come pericolosi (per la propria stabilità). La condizione di stabilità alterata genera simultaneamente una gamma di anticipazioni concernenti le possibili conseguenze della situazione (di pericolo) in corso. Dal punto di vista della persona che sta provando una profonda alterazione del suo senso di permanenza cioè, l’interpretazione catastrofica dei propri segnali corporei, rappresenta un tentativo di prevedere i possibili sviluppi della situazione. Si può sostenere, pertanto, che la previsione serve come un mezzo per far fronte alla situazione, anticipandone i possibili esiti. Una volta percepito l’aumento dell’attivazione fisiologica oltre il livello di base, il soggetto si sente particolarmente fragile. Questa condizione di stabilità alterata genera una gamma di anticipazioni concernenti le possibili conseguenze della situazione percepita come pericolosa per la propria condizione di vulnerabilità. Per esempio, in uno sforzo fisico, se la tachicardia è percepita come sintomo, separandola dal contesto in cui si è verificata, e se questa sensazione causa una acuta sensazione di pericolo che riguarda l’intero organismo, l’anticipazione degli esiti della tachicardia non può che essere un attacco di cuore e ciò che segue ad esso: l’arrivo dell’ambulanza, l’ospedalizzazione ed eventualmente la morte. Vari approcci hanno cercato di spiegare l’origine di questa interpretazione distorta delle proprie sensazioni corporee. In diversi campi lo studio di questo tipo di credenze è considerato un elemento chiave per la comprensione della psicopatologia dei Disturbi d’Ansia. L'approccio comportamentista suggerisce che la causa dell’ansia sta nel processo del 32 condizionamento, per cui, per esempio, la fobia è considerata una risposta condizionata ai segnali enterocettivi che hanno preceduto il panico in passato. (Pensiamo al caso del piccolo Albert studiato dallo psicologo comportamentista John Watson). Da un punto di vista cognitivista, le fobie emergerebbero come conseguenza di inappropriate credenze di minaccia (pensieri catastrofici) sulle perturbazioni corporee (Clark, 1986). Il filone della terapia razionale emotiva di Albert Ellis (1962), per esempio, concentra l’intervento clinico sulle “idee irrazionali” che conducono alla patologia, in quanto in esse le distorsioni o bias cognitivi sono legate alla generazione di significati disfunzionali correlati allo sviluppo del disturbo. Secondo il modello dei disturbi affettivi proposto da Wells (2000) nei Disturbi d’Ansia le informazioni vengono elaborate in modo disfunzionale (per esempio favorendo le valutazioni negative e l’elaborazione autocentrata), con una riduzione della flessibilità necessaria per poterli modificare (Bara, 2005). Le questioni che questi approcci sollevano, che tuttavia sono senza risposta, sta nel perchè una volta percepita, la sensazione corporea sarebbe interpretata in un modo catastrofico (Arciero, 2009). Analizzando i risultati delle recenti ricerche neuroscientifiche, ci siamo chieste perché la maggiore sensibilità enterocettiva ai propri stati corporei porta ad avere credenze catastrofiche circa gli esiti di quei segnali interni. Ed inoltre, qual è l’esperienza soggettiva legata a questo pensiero catastrofico? Un'evidenza interessante, rispetto a ciò, emerge dagli studi sulle basi neurologiche della stretta collaborazione tra i disturbi dell'equilibrio e l'ansia. I dati anatomici e fisiologici possono rendere più chiara la genesi di un sintomo in particolare, le vertigini psicogene. 2.3.1 Vertigini psicogene e sensazione di instabilità Il riconoscimento di una stretta associazione tra ansia e vertigini è stato un elemento integrante della letteratura medica fin dall'antichità. Una stretta associazione tra 33 ansia e capogiri è stata sottolineata anche da Sigmund Freud in un documento iniziale sulla nevrosi d'ansia, una componente importante nella formulazione psicodinamica delle vertigini psicogene (Balaban e Jacob, 2001). Più di recente, è stata riconosciuta una maggiore specificità della situazione in cui si presentano alcuni sintomi. In mancanza di una nomenclatura uniformemente accettata, molti termini sono stati utilizzati in modo incoerente per indicare questo fenomeno; essi includono “vertigini soggettive”, “vertigine posturale fobica”, “vertigini psichiatriche”, “vertigini psichiche”, “vertigini psicogene”, “capogiri” o “vertigini psicofisiologiche” (Staab, 2006). Dal punto di vista clinico le vertigini psicogene si caratterizzano generalmente per una sensazione vaga o dissociata di instabilità dell’equilibrio a causa della compromissione a livello centrale dell’ integrazione sensoriale e dei segnali motori nei pazienti affetti da ansia acuta e cronica. La sensazione vertiginosa è tipicamente persistente (cioè, spesso della durata di mesi o di più), protratta (cioè, della durata di ore), con periodiche riacutizzazioni, spesso segnate da episodi di iperventilazione pre-sincope (ad esempio, con affanno, iperpnea, parestesie e anche spasmo carpopedale, cioè spasmo simultaneo degli arti superiori e inferiori) (Staab e Ruckenstein, 2007). Possono essere provocate da specifici fattori, come ad esempio la presenza di folle, l’essere alla guida o il trovarsi in luoghi confinati (ad esempio, ascensori). Gli episodi sono spesso descritti male, ma alcuni pazienti possono segnalare una svolta "all'interno della testa" o "sensazioni a dondolo" mentre camminano, piuttosto che un senso di rotazione della testa o del mondo che gira intorno alla testa. Esse possono essere accompagnate da manifestazioni evidenti di ansia, tra cui apprensione, paura, nervosismo, tensione, agitazione e manifestazioni autonomiche (ad esempio, tachicardia, ipertensione e freddezza delle estremità), senza uno stimolo chiaramente identificabile. Le vertigini sono considerate "psicogene" solo se rientrano in una manifestazione clinica di carattere psichiatrico e non possono essere spiegate da un disturbo vestibolare (Jacob, 2004). 34 Proprio perché i pazienti si lamentano di vertigini croniche aspecifiche, senza una apparente causa fisica non vuol dire che il problema non abbia una diagnosi. In un recente studio (Levin, 2007) condotto su 2.400 pazienti, con una sintomatologia varia comprendente vertigini, capogiri e sensazioni di squilibrio, i ricercatori hanno studiato in modo prospettico 345 pazienti per i quali inizialmente non era stata riconosciuta alcuna causa medica di vertigine. Ogni paziente si è sottoposto a tre tipi di esami: esami neurologici e audiometrici, compresi i test di funzionalità dell’equilibrio; esami di risonanza magnetica funzionale; valutazione di sintomi psichiatrici mediante una somministrazione dell’Intervista Clinica Strutturata per il DSM. Al termine di queste valutazioni, a quasi tutti i pazienti (n = 339) sono stati diagnosticati disturbi psichiatrici o neurologici. Dei 345 soggetti studiati, quasi il 60% era affetto da disturbi d'ansia e il 33% dei soggetti con vertigine psicogena aveva una diagnosi principale psichiatrica. Diversi studi hanno confermato una correlazione tra disturbi d’ansia e vertigini psicogene. In una ricerca di Eckhardt e colleghi (2003) condotta su 202 pazienti affetti da vertigini e valutati con test otoneurologici ed esame psichiatrico, tra cui la somministrazione di interviste strutturate del DSM-IV e dello State-Trait Anxiety Inventory (STAI), è stato riscontrato che nel 28% dei pazienti le vertigini avevano origine organica, in più del 70 % erano di origine psicogena e in più del 16% sono state trovate cause organiche associate a concomitanti disturbi psichiatrici. I risultati indicano che i disturbi psichiatrici, soprattutto i Disturbi d'Ansia, dovrebbero essere inclusi nella diagnosi differenziale in pazienti con una lunga durata di vertigini. Come questi soggetti sono particolarmente dipendenti dai segnali dell'equilibrio propriocettivo per mantenere il loro equilibrio, mentre prestano poca attenzione all'informazione visiva e vestibolare dell'equilibrio (Jacob e coll., 1997, 2001; Staab, 2006; Ruckenstein, 2007; Ruckenstein e Staab, 2009), essi possono percepire un'esperienza di inadeguata stabilità in situazioni dove il senso delle condizioni fisiologiche dell'intero corpo è alterato (come nel caso di uno stato di paura). Un ruolo chiave potrebbe essere qui giocato dal nucleo parabrachiale, che rappresenta 35 un'area di convergenza dei segnali vestibolari e somatici e del processamento dell'informazione sensori-viscerale nelle vie che sembrano essere coinvolte nel condizionamento dell'evitamento, l'ansia e la paura condizionata (Balaban e Thayer, 2001; Balaban, 2004). 2.3.2 Amigdala, circuiti neurali, instabilità personale: una possibile correlazione nella generazione di credenze distorte? La maggiore sensibilità enterocettiva porta alcuni soggetti a sentirsi più frequentemente vulnerabili ai segnali del corpo, sviluppando una sorta di paura delle sensazioni legate all'ansia. Questi individui possono sviluppare una forma acuta o cronica di ipocondria, accompagnata da agorafobia o da attacchi di panico. Molti studi suggeriscono un ruolo dell'amigdala nell'iniziale processamento rapido e automatico degli stimoli rilevanti per la paura (LeDoux, 1998; Ohman e Mineka, 2001; Larson e coll., 2006). Altre evidenze rivelano che, in alcuni casi, gli individui ansiosi mantengono di più l'attenzione agli stimoli legati alla minaccia rispetto ad altre persone (Fox, Russo, Dutton, 2002). In una ricerca di Stein e colleghi (2007) è stata riscontrata una maggiore reattività dell’amigdala durante l’elaborazione di alcuni tipi di stimoli emotivi (ad esempio, paura e rabbia) in pazienti con Disturbi d'Ansia. Tra i soggetti reclutati sono stati individuati quelli che presentavano ansia di tratto. I soggetti si sono sottoposti a risonanza magnetica funzionale durante un compito di valutazione dell’emozione di un volto; è stata riscontrata l’attivazione della parte posteriore sinistra dell’amigdala e delle relative strutture limbiche. I risultati suggeriscono che nei soggetti tendenti all’ansia vi è una maggiore attivazione dell'amigdala bilaterale e dell’insula anteriore bilaterale ai volti che esprimono emozioni negative. C'è una ricchezza di elementi che dimostrano che gli individui con alti livelli di ansia di tratto prestano maggiore attenzione agli stimoli di minaccia rispetto a quelli con bassi livelli di ansia di tratto. A questo proposito Koster e colleghi (2006) hanno studiato se questo bias attenzionale è legato alla predisposizione a dirigere 36 l’attenzione alla minaccia oppure ad una difficoltà a svincolare l'attenzione dalla minaccia. I risultati ottenuti forniscono elementi di prova per modelli differenziali di bias ansia-correlati nel processamento attentivo dello stimolo di minaccia nelle fasi iniziali rispetto a successive operazioni di elaborazione delle informazioni. Altri studi, inoltre, hanno riportato un'assenza dell'attivazione dell'amigdala durante periodi protratti di provocazione di sintomi; ciò lascia ipotizzare che il processamento prolungato degli stimoli fobici e le corrispondenti reazioni emotive sia basato sull'attivazione di altre regioni cerebrali (Mountz e coll., 1989; Fredrikson e coll.,1993; Rauch e coll., 2000; Paquette e coll., 2003; Straube e coll., 2006). Ci sono quindi buone ragioni per credere che non solo l'amigdala (attraverso vari modi di attivazione) ma anche il reclutamento di altre aree del cervello, giochi un ruolo chiave nella sintomatologia che caratterizza sia l'ipocondria sia l'attacco di panico. Alcuni studi si sono concentrati sul ruolo delle altre reti neurali che contribuiscono ad attivare automaticamente la paura e a catturare l'attenzione su stimoli minacciosi (Ohman, 2005). Questo effetto è probabilmente mediato da una rete neurale sottocorticale centrata sull’amigdala. Quando le condizioni dello stimolo permettono un’elaborazione cosciente, la risposta dell'amigdala agli stimoli legati alla paura aumenta e si attiva una rete corticale che comprende la corteccia cingolata anteriore e l'insula anteriore. Tuttavia, quando ad un soggetto è presentato uno stimolo rilevante per la paura, ma non da lui temuto (ad esempio le immagini di ragni per una persona che ha paura dei serpenti) scompare l’attivazione della amigdala e la rete corticale non è attivata. Vi è invece l'attivazione della corteccia orbito-frontale dorsolaterale, che sembra inibire la risposta dell'amigdala. Un fattore importante nel processamento degli stimoli della paura è giocato dalle differenze individuali nella reattività dell'amigdala modulata dal polimorfismo del neurotrasmettitore della serotonina (5-HTT) (Hariri, 2002). Le differenze individuali nell'attività dell'amigdala – manifestate come aumento della sensibilità agli stimoli legati alla paura – possono sorgere come una proprietà emergente dall'associazione tra fattori genetici e psicologici. In altre parole, l'allele del 5-HTT predispone ad un 37 sistema di attivazione più reattivo che, attraverso l'esperienza, oltre che ad altri fattori genetici e ambientali, può manifestarsi tra certi soggetti nella forma della tendenza fobica (Bertolino e coll., 2005). Al fine di prevenire, o limitare, quelle situazioni che potrebbero alterare il proprio senso di stabilità personale e quindi di permanenza nel tempo, il soggetto può adottare un numero di comportamenti di evitamento che, mentre riducono temporaneamente la gamma di sensazioni negative, a lungo andare possono aumentare la sua precarietà fisiologica-emozionale, contribuendo ad una condizione stabile di fobia. Differenti circostanze nella vita e, più in generale, differenti stimoli rilevanti per l'ansia, non compromettono il grado di sensibilità all’ansia del soggetto attraverso l'alterazione delle sue credenze; piuttosto, lo fanno alterando il suo livello di stabilità enterocettiva. Dati empirici suggeriscono che è a causa della loro maggiore sensibilità alle variazioni corporee che i soggetti con un’alta sensibilità all’ansia rispondono con forte panico, paura e disagio ai meccanismi di sollecitazione biologica, come l'iperventilazione (Sturges, 1998), la caffeina (Sturges e Goetsch, 1996) e il biossido di carbonio (Forsythe e coll., 1999; Schmidt e Trakowski, 1999; Zwolensky e coll., 2001). Conclusioni simili sono state raggiunte negli studi condotti in ambienti naturalistici da Schmidt (1997; 1999). Prendendo molti campioni non clinici, questi studi hanno trovato che i soggetti con un’alta predisposizione all’ansia sono molto più predisposti a sviluppare panico spontaneo in particolari condizioni stressanti. Ciò che rende questi soggetti predisposti a percepire le loro sensazioni corporee come nocive è il modo in cui essi costruiscono e mantengono il loro senso di stabilità personale. Può darsi che ciò che le teorie più cognitive chiamano “credenza”, più che rappresentare il nucleo dell'interpretazione di sensazioni legate all'ansia, può effettivamente essere una conseguenza dello stato di ansia del soggetto. La “credenza” o il “pensiero catastrofico” dovrebbe essere considerato semplicemente un modo di afferrare la propria esperienza – che sarebbe già in 38 possesso di significato in modo pre-riflessivo – piuttosto che come il metodo primario di generazione di significato, ad un livello riflessivo, come presa di coscienza delle proprie azioni. 39 CAPITOLO 3 PSICOPATOLOGIA DELL’ANSIA. ALCUNE CONSIDERAZIONI “Ansia. Una manifestazione fondamentale dell’essere nel mondo.” (Heidegger, 1976) 3.1 I disturbi d’ansia in un’ottica fenomenologica. Le polarità Inward/Outward I disturbi d'ansia (attacco di panico, fobie, disturbo ossessivo-compulsivo, disturbo post-traumatico da stress, disturbo d'ansia generalizzato, ecc.) sono tra le sintomatologie incontrate più frequentemente nella pratica clinica. La maggior parte degli studi sembra indicare che circa il 3,5% della popolazione rischia di ammalarsi di Disturbo di Panico (con o senza agorafobia) nel corso della vita e che per le donne il rischio è maggiore. Bisogna tuttavia tenere presente che ricorrere alla categoria nosografica tout-court, così come indicato nel Manuale Diagnostico Statistico IV TR (DSM IV-TR, APA, 2000), espone al rischio di uniformare i meccanismi eziopatogenici senza prendere in adeguata considerazione il contesto entro cui tali disturbi vengono a prendere forma. In questo capitolo vedremo come il co-percepire l’alterità attraverso la focalizzazione sui propri segnali corporei (ipseità) sia strettamente connesso all’emergenza della sintomatologia ansiosa nella personalità tendente ai Disturbi Fobici. L'ansia costituisce un fenomeno diffuso, eterogeneo e influenzato dalla varietà dei modelli teorici e dei riferimenti culturali di volta in volta adottati (Perugi e Toni, 40 2002), nonché condizione fondamentale e imprescindibile, intrinsecamente legata all'esperienza umana. Tale posizione si giustifica in un’ottica filo-evoluzionistica dove l'ansia possiede un valore adattivo che risulta funzionale tanto alla preservazione della specie quanto alla preservazione individuale. L’ansia, infatti, segnala visceralmente un pericolo possibile (Arciero, 2002). Il suo emergere comporta un aumento della vigilanza, avviando un meccanismo fisiologico di allarme che predispone l'organismo alla difesa e all'azione (Nisita e Petracca, 2002) a fronte di pericoli reali o presunti. Anche nel pensiero heideggeriano l'ansia è esperienza costitutiva dell’essere nel mondo; l’angoscia viene sperimentata dall'individuo non in relazione ad un qualunque oggetto concreto e definito, ma per il solo fatto di esistere. Si tratta dunque, secondo il fenomenologo, di una modalità d’essere dell’individuo. Fattivamente essa dis-vela l’inautenticità e l’insignificatività dell’esserci nella quotidianità, colto a partire da fonti di determinazione del sé esterne. Si è così esposti alla vacuità dell’esperienza e all’angoscia dovuta a tale vacuità. In quest’ottica è possibile rileggere parte della psicopatologia contemporanea. Non esiste infatti alcun disturbo in cui non compaia in qualche fase del suo decorso clinico una componente ansiosa, dai disturbi dell’area nevrotica ai disturbi dell’area psicotica. Si passa dalle fasi profonde di depressione alle fasi di eccitamento maniacale, fino alle intense esperienze di angoscia dell’acuzie schizofrenica, dalla vacuità sperimentata nei disturbi alimentari e nei disturbi correlati all’uso di sostanze alla quota d’ansia secondaria dei disturbi sessuali. Come abbiamo visto nei capitoli precedenti, le modalità di strutturazione del dominio emotivo conseguono ai diversi modi di “essere con” e prendono forma a partire dalle prime interazioni emotive. E in particolare, la modalità Inward si focalizzerà nella relazione con l’altro a partire dagli aspetti più viscerali delle emozioni laddove la modalità Outward, invece, mantiene la stabilità del senso di sé a partire dal contesto. Alla collocazione individuale lungo il continuum Inward/Outward corrisponderanno modi differenti di sentire l’ansia; ed in particolare, le identità sul versante inward 41 svilupperanno una centralità più precoce e profonda di quelle emozioni basiche inscritte nel tessuto stesso della vita, mentre le identità che rimandano al polo outward, che sin dalle prime fasi dello sviluppo si sono organizzate sul primato dell’esterno, risentiranno di una indifferenziazione più o meno accentuata degli stati emozionali (Arciero, 2002). 3.2 Gli attacchi di panico e la paura della paura Gli approcci teorici che ad oggi hanno cercato di inquadrare e spiegare gli attacchi di panico ben si iscrivono all’interno del più ampio concetto di “paura della paura”. Nell’attacco di panico lo stato d'ansia associato alle emozioni che il soggetto interpreta come nocive, diventa causa stessa di paura. Ovvero, le sensazioni viscerali risultano così intense da elicitare un segnale di allarme per l'intero organismo che si traduce nella risposta panicale. Inoltre, quando l’individuo ha sperimentato più attacchi di panico, sviluppa una condizione di arousal dove qualunque segnale enterocettivo viene interpretato come la possibile imminenza di un nuovo attacco. È stato infatti evidenziato da uno studio del 2003 come i soggetti che soffrivano di attacchi di panico fossero particolarmente abili nello stimare la variazione dei propri segnali enterocettivi (Richards, Cooper, Winkelman, 2003). Lo studio aveva preso in esame 20 soggetti con panico non clinico e 36 soggetti di controllo, ai quali veniva chiesto di stimare i cambiamenti dei parametri enterocettivi; i risultati ottenuti hanno dimostrato come i soggetti del primo gruppo avessero una più accurata abilità enterocettiva. Inoltre lo studio aveva anche osservato come la Sensibilità all'Ansia (Reiss, 1985) e l'ansia di tratto fossero legate ad una più accurata enterocezione, soprattutto nei soggetti che avevano sperimentato attacco di panico seppur senza una rilevanza clinica. Sembra inoltre che proprio l'innescarsi della paura relativa ad un proprio stato d'ansia sia da ricondurre al costrutto della Sensibilità all'Ansia (Reiss e McNally, 1985), che identificherebbe una disposizione individuale variabile tanto nello stesso 42 individuo nel corso della vita, quanto tra diversi individui, distinta sia dall'ansia di tratto che dall'ansia anticipatoria (Reiss, 1991; McNelly, 2002 ). Nel suo articolo Reiss (1991) propone una distinzione tra la “paura semplice” (ovvero la fobia specifica), riferendosi ad esempio alla paura dei volatili, che è una paura irrazionale seppur criticata, e la “paura fondamentale” (ovvero la paura della paura), che invece è razionalmente collegata ad esempio alla paura dei volatili. Traducendo, il soggetto con fobia specifica potrebbe dire: “So che non c’è nessun motivo reale per temere, ma sono spaventato dall’idea che un volatile possa avvicinarsi a me” laddove la persona con attacco di panico potrebbe dire: “Io sono spaventato dai volatili perché sono spaventato dal fatto di poter avere un attacco di panico se incontro questi stimoli”. È stata inoltre dimostrata l'esistenza di una correlazione tra gli indici della Sensibilità all'Ansia e lo sviluppo di attacchi di panico in uno studio che aveva operato una rilevazione longitudinale (Shmidt e Lerew, 1997; Reiss 2002). Nel 1997 Shmidt e Lerew, basandosi sulle teorie che indicavano il costrutto della Sensibilità all'Ansia come un fattore di rischio per lo sviluppo dei Disturbi d'Ansia (Reiss, 1991), condussero uno studio nel quale un campione di giovani adulti non clinici vennero seguiti per un periodo molto stressante di 5 settimane (training militare), dimostrando una correlazione tra alti indici di Sensibilità all'Ansia e conseguente sviluppo di attacchi di panico entro le 5 settimane di studio. Come visto precedentemente la maggiore sensibilità all'ansia quindi renderebbe conto dell'evitamento di tutte le situazioni che potrebbero esporre il soggetto a quegli stimoli capaci di innescare una variazione emozionale-enterocettiva da lui rilevata come nociva. Sembra che la paura dell'ansia sia correlata a una serie di credenze distorte circa la pericolosità delle conseguenze legate alla sperimentazione di determinate perturbazioni corporee (McNally, 2002) e questo renderebbe conto della sua variabilità tra gli individui, in funzione del fatto che posseggano o meno queste credenze. 43 Adottando una prospettiva fenomenologica, le “credenze” del soggetto vengono interpretate nei termini di differenti modi di situar-si nel tempo e di afferrare la propria esperienza, significativa da subito, a livello pre-riflessivo. Secondo questa prospettiva la consapevolezza di sé deriva dal nostro essere costantemente in relazione con il mondo e con l'altro. 3.2.1 Caso clinico Federica è una ragazza di 15 anni, studentessa al primo anno del liceo linguistico. Vive con i genitori e i due fratelli. Il padre della paziente ha 53 anni ed è elettrotecnico in uno studio privato. La madre, anch’ella di 53 anni, lavora come operaia nel settore della ristorazione. Federica ha due fratelli, Stefano di 19 anni, iscritto alla facoltà di Ingegneria, e Giancarlo di 21 anni, elettrotecnico. Giancarlo presenta un lieve ritardo mentale con difficoltà dell’apprendimento, movimenti ticcosi e difficoltà fono-articolatorie secondarie a storia di ipossia perinatale. In quarta superiore viene bocciato e, d’accordo con la madre, decide di non informare dell’evento i familiari più prossimi. La famiglia viene definita da Federica come “una famiglia all’antica, che protegge”. In occasione del primo colloquio, la madre, richiudendo dietro di sé la porta dello studio, congeda la figlia chiedendo al terapeuta di ricordarle quanto sia cattivo e imprevedibile il mondo. Federica giunge presso il nostro studio in seguito all’insorgenza di una sintomatologia ansiosa che comincia a manifestarsi l’anno precedente, soprattutto durante le lezioni pomeridiane in aula e alla sera mentre si trova in casa con la famiglia. Inizialmente, i primi episodi vengono vissuti come assolutamente casuali, caratterizzati da crescente irrequietezza, dispnea, sudorazione intensa e senso di costrizione. Non passa molto tempo che a questi primi segnali cominciano a seguire numerosi attacchi di panico, caratterizzati da mancanza d’aria, soffocamento, sensazioni di oppressione toracica e svenimento, tachicardia e paura di impazzire. L’inizio dell’attacco è improvviso e in pochi minuti raggiunge l’apice. 44 Al colloquio riferisce che il disturbo si è fatto negli ultimi mesi sempre più intenso con la comparsa di paure bizzarre e timore di un nuovo attacco, tanto da impedirle di prendere autonomamente i mezzi pubblici fino a renderle difficile il salire in macchina con persone diverse dai genitori. Nonostante cerchi di evitare le situazioni che più la mettono a disagio, Federica arriva a perdere numerosi giorni di scuola e continua a soffrire di attacchi di panico frequenti. Abbiamo visto come le condotte di evitamento di tutte le situazioni in cui si possono incontrare difficoltà o imbarazzo per il presentarsi della crisi, rappresentino in questo caso, la necessità di controllare la paura della paura. Il primo episodio viene fatto risalire ad una sera dell’aprile 2009, mentre si trovava a Firenze per il matrimonio di un cugino e si stava dirigendo verso il centro città con il fratello minore ed altri amici. Il cugino, al volante, prende un dosso ad una velocità che per Federica si rivela troppo forte. In quel momento comincia a sudare, il cuore batte all’impazzata, sente di svenire, non riesce più a parlare. Dopo pochi minuti riprende il controllo. Rientrata a Milano, comincia ad eseguire una serie di esami specialistici. Nello stesso periodo cominciano a comparire forti e ricorrenti attacchi emicranici, a causa dei quali viene presa in carico dal Centro Cefalee di un noto ospedale. Con la collusione della madre, spaventata e spaventante, Federica si convince ad ogni attacco emicranico di avere una malattia grave e pericolosa per la sua vita. In seduta i primi colloqui vengono dedicati alla ricostruzione del contesto entro cui prendono forma i sintomi. Vengono indagati l’ambito familiare, l’ambito affettivo relazionale e l’ambito scolastico. Riportando i disturbi di Federica, dalla sua storia emergono così due temi centrali. Da un lato, la necessità di regolare la relazione con l’altro significativo e dall’altro la paura di perdere il controllo. Diventa paradigmatico l’approccio ad amiche ed amici: “Ad un certo punto scappo, sempre, altrimenti rischio di farmi sfuggire la situazione di mano”. 45 3.3 L’ansia in psicoterapia. Modelli a confronto Il caso di Federica ben si adatta ad un intervento di tipo psicoterapico. In questa parte del nostro lavoro cercheremo di mettere in luce due differenti modalità terapeutiche: l’approccio cognitivo comportamentale e l’approccio ermeneutico fenomenologico. Riconosciuta dal lavoro di Chambless e collaboratori, all’interno della Task Force on Psychological Interventions della Division 12 (Clinical Psychology) dell'APA, la Terapia cognitivo-comportamentale per il Disturbo di Panico con e senza agorafobia (Barlow et al., 1989; Ciark et al., 1994) viene attualmente considerata lo standard in psicoterapia, in quanto trattamento ben consolidato. Sulla spinta della Evidence-Based Medicine si è infatti avvertita come sempre più pressante l'esigenza di sottoporre a rigorose prove sperimentali anche i singoli trattamenti psichiatrici e psicologici (De Girolamo, 1997). Da qui, l’identificazione di psicoterapie evidence based, come tecniche psicoterapeutiche la cui efficacia è stata dimostrata in studi sperimentali controllati con una elevata validità interna. L’approccio cognitivo classico fonda le sue basi sull’idea che determinate credenze disfunzionali, maturate nel corso delle esperienze di vita, siano alla base di emozioni e comportamenti: emozione, corpo e comportamento vengono trattati come conseguenze ed effetti del pensiero. Il trattamento trova il suo fondamento nella riflessione come metodo per comprendere il problema e si esplica nell’aiuto alla persona a divenire sempre più edotta su se stessa, circa gli automatismi dei suoi pensieri e le conseguenze spiacevoli e disturbanti che da quel tipo di organizzazione cognitiva ne conseguono. Il terapeuta accompagna il paziente verso consapevolezze progressive circa il proprio sistema di convinzioni e di interpretazioni della realtà. L'assunto di base è che la persona deve divenire consapevole del fatto che da come vede il mondo deriva coerentemente il come sente le emozioni, e d’altro canto, la consapevolezza da sola non può determinare il cambiamento del sistema di convinzioni. Di conseguenza lo psicoterapeuta vigila e accompagna nello svolgersi 46 del trattamento, attento a come il paziente, soggettivamente, riesce a gestire la progressiva presa di coscienza della propria responsabilità nella patologia. Utilizzando le categorie ontologiche, il sé viene inteso come ciò, che attraverso la molteplicità dei comportamenti, si mantiene identico nel tempo. Appare evidente che l’approccio fin qui descritto concettualizza il Sé come un oggetto presente, un sé che è nessuno (Ricoeur, 1990; 2000), di cui è possibile comprenderne il significato esclusivamente attraverso un atto riflessivo, ovvero nella spiegazione metacognitiva dell’esperienza stessa, aprendo - così facendo - un processo di regresso all’infinito, dove si rende necessario uno stato di ordine superiore, un deus ex machina, per poter dare significato, appropriarsi ed identificare uno stato mentale come effettivamente proprio (Arciero, 2002). In un’ottica ermeneutica fenomenologica, invece, l’essere mio dell’esperienza (ipseità) è un processo pre-riflessivo, sempre nell’atto di farsi, già dato nel momento dell’esperire. Diventa chiaro, quindi, che il Sé narrativo emerge attraverso il linguaggio come ri-appropriazione dell’esperienza che si dispiega nel tempo. In terapia dunque il sé viene colto a partire dalla comprensione dei suoi modi effettivi di esistere nella sua quotidianità, andando ad afferrare l’unicità di una persona a partire dai suoi modi di essere che non sono più riducibili o riconducibili alla dinamica interna di un sistema chiuso e sempre uguale a se stesso. Il problema di una psicologia delle emozioni che trovi fondamento in una ontologia del corpo e che sia in grado di aprire un dialogo con la ricerca neuroscientifica, parte dall’esperienza fattuale. Quando parliamo di ipseità parliamo di una dimensione preriflessiva che riguarda sempre il significato sentito di una certa situazione ed un modo di disporsi in relazione a quella circostanza. L’emozionarsi non può esserne separato come se quel rapporto originario non ne facesse parte, come se l’emozione fosse una condizione causata da questo e da quello e che si presenta di per sé. Con l’ipseità si affaccia inoltre una forma nuova di intendere la relazione fra l’esperienza di sé e la permanenza di sé nel tempo. Non più la variabilità dell’esperienza ricondotta a ciò che resta identico, ma un trovar-si di volta in volta come il medesimo. Introduciamo qui un altro elemento che gioca un ruolo 47 fondamentale nella nostra prospettiva: la medesimezza. Questa nozione, che attraversa tutta la fenomenologia fino a giungere in Ricoeur, costituisce insieme all’ipseità (e spesso sovrapposta ad essa) una delle due polarità dell’esperienza antipredicativa e trova la sua prima concettualizzazione in Heidegger nelle Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele del 1922. 48 CONCLUSIONI In questo lavoro abbiamo parlato dello Stile di Personalità tendente ai Disturbi Fobici ma il nostro obiettivo è stato quello di non trascurare il fatto che le persone che hanno modi di apparire sovrapponibili alle caratteristiche di questo stile, hanno una loro storia personale, unica e autentica, che non può essere ricercata nei testi didattici . Il problema che ogni paziente ci pone in psicoterapia è di rendere manifesta l'ipseità: far emergere quel self esperienziale che ognuno di noi è, prima di ogni narrazione. Rendere questo fenomeno evidente significa rendere conto dei differenti modi di esperire la continuità-discontinuità, non a livello di narrazione, ma già a livello preriflessivo. Quando in terapia, e quindi in un setting dove si lavora su un piano riflessivo, con gli strumenti dell’ermeneutica, il paziente ci parla del suo “attacco di panico” non basta sapere ricondurre quell’etichetta ad un insieme di sintomi, ma è necessario tentare di cogliere quella sua autentica esperienza vissuta nel corpo e inserita in un determinato contesto. La trattazione di questo argomento ci ha dimostrato come il passaggio dalla concettualizzazione del Sé come un “cosa” alla sua concettualizzazione come un “Chi”, abbia reso necessario un cambiamento nella concezione sia della psicologia della personalità sia della psicopatologia. Il recupero della tradizione fenomenologica ed il confronto con le neuroscienze hanno permesso di chiarire l’importanza della dimensione corporea, del “corpo proprio” dell’esperienza del soggetto, nelle diverse modalità con cui egli entra in relazione con l'alterità. Nello Stile di Personalità tendente ai Disturbi Fobici il corpo gioca un ruolo fondamentale nel mantenimento della stabilità personale del soggetto. L’ipercognitivizzazione delle emozioni basiche e la maggiore consapevolezza enterocettiva ai segnali corporei, in alcune circostanze, possono correlare con la comparsa di disturbi fobici. I dati neuroscientifici hanno permesso di individuare i meccanismi neurali implicati, confermando questa correlazione. Negli ultimi anni gli approcci terapeutici, soprattutto quelli di stampo cognitivo-comportamentale, 49 hanno approfondito gli aspetti psicopatologici delle fobie e dell’ansia, sviluppando tecniche e strategie per gestire questi fenomeni. Gli esiti positivi di tali trattamenti potrebbero essere letti come l’esito del tentativo di spostare la polarità inward nella direzione opposta: cioè, creare le condizioni per sperimentare nuovi modi di emozionarsi, attraverso lo spostamento del focus dell’attenzione verso il contesto esterno. L’auto-osservazione e la prescrizione di compiti cognitivi o comportamentali non devono però essere intesi come modi per ristrutturare a posteriori e riflessivamente il significato che il soggetto attribuisce alla sua esperienza. La sua esperienza è di per sé dotata di significato. La sperimentazione di nuove possibilità di azione nelle situazioni legate all’ansia, attraverso queste tecniche, permette al fobico di riappropriarsi della sua esperienza in un nuovo modo, un modo che tuttavia è presente da sempre nell’esistenza della persona. 50 CRITICITÀ E SVILUPPI FUTURI DELLA RICERCA Analizzando i modi di concettualizzare la persona negli approcci teorici tradizionali e nella psicopatologia è facile notare come siano stati numerosi i tentativi di focalizzarsi sulle caratteristiche individuali invarianti nel tempo, che portano ad inserire il soggetto in un ritratto statico del suo modo di essere e di agire. Questo purtroppo è un rischio insito nelle modalità di teorizzare il comportamento e la sofferenza dell’essere umano, così come lo è quello di adottare, seppur in forma inconsapevole, una forma mentis che privilegi l’ottica causale. Non vogliamo dire che questi modi di analizzare la persona non possano essere fatti. Se pensiamo alla psicopatologia, per esempio, ci rendiamo conto come sia indispensabile avere un background comune, un linguaggio condiviso dall’intera comunità scientifica, per capire di “cosa” stiamo parlando. Oppure, l’individuazione dell'organizzazione di significato personale o dello stile di attaccamento sicuramente ci guida nella formulazione di ipotesi metodologiche sul lavoro da intraprendere col paziente ma con il rischio di sovrapporre quell’etichetta alla sua identità personale, che invece è qualcosa che si caratterizza per l’unicità. In questo modo, l'esperienza soggettiva viene vista attraverso una seconda persona, quella del terapeuta che, sospendendo il vissuto emotivo dell'esperienza reale, metodologicamente simile ad una sorta di epochè husserliana, per afferrare l'organizzazione che ne sta dietro, trasforma la persona in un ritratto stabile del Self. È possibile pensare all’effetto che l’approccio al Sé come “cosa” produceva in campo neuroscientifico, dove un’ esperienza soggettiva veniva ridotta all’attivazione di uno specifico substrato neuronale (i cosiddetti “problemi semplici” spiegati da David Chalmers). David Chalmers (1995) riferiva che, per spiegare una condizione fisiologica come il sonno o la veglia, era sufficiente far riferimento ai processi neurofisiologici di un dato gruppo di neuroni. Questo modo di studiare l’esperienza umana eliminava però l’unicità dell’individuo, trattandolo come un organismo anonimo e rendendo l’evento mentale impersonale. Questo è l’approccio in “terza persona” all’esperienza, cioè la descrizione dell’esperienza in termini neurali, escludendo da questa spiegazione quel link 51 originario all’esperienza propria della persona. È necessario cioè fare riferimento “all’essere mio dell’esperienza” quindi, all’effetto che fa al soggetto nel trovarsi ad esperire quella data condizione fisiologica in quella data situazione. L’articolo di Thomas Nagel (1974) “Che effetto fa essere un pipistrello?” è assolutamente chiarificatore a tal proposito. L’autore infatti, riferendosi al tema della coscienza, afferma che un organismo possiede un’ esperienza conscia perchè fa un certo effetto essere proprio quell'organismo. L'esperienza soggettiva, cioè, è legata necessariamente al punto di vista dell'organismo che la esperisce. Ovvero, facendo l'esempio del pipistrello, Nagel sottolinea che, per quanto possiamo in termini impersonali ed oggettivi spiegare alcuni modi dell'esperienza percettiva del pipistrello, non sapremo mai che effetto faccia percepire il mondo nel modo del pipistrello. Cessando di considerare l'esperienza soggettiva come oggetto di riflessione e iniziando a considerarla come un modo di essere sé, si comprende da subito che le storie sono vissute prima di essere narrate (MacIntyre, 1981). Quando ci troviamo di fronte alla sofferenza di un paziente dobbiamo necessariamente cessare di pensare che basti cambiare “il suo racconto di sè” per eliminare la sofferenza, ma dobbiamo invece lavorare sui suoi modi di fare esperienza. Per realizzare ciò, dobbiamo fare in modo che l'ipseità (l’essere mio del paziente) venga ricollegata al mondo, perchè il percepirsi del soggetto in un modo o in un altro è sempre legato all'essere in rapporto al mondo, all'altro e alle cose attraverso la corporeità. Parlando di corporeità però non si intende il corpo come medium (Körper), ma il corpo inteso come Leib, il corpo vivo senza il quale la persona non può avere un’ esperienza di sé, che è implicato nella nostra relazione con il mondo, configurandola come un insieme di potenzialità di azione. Esiste un piano dell' “essere nel mondo”, cioè il come mi vivo a livello di ipseità, e un piano narrativo, il come mi racconto. Il lavoro terapeutico è quello di rintracciare i collegamenti esistenti tra i due livelli. Lo strumento che il terapeuta ha a disposizione è l’ermeneutica, ovvero un lavoro di traduzione del testo del paziente. 52 Ricoeur dice che “c’è un rapporto tra l’esperienza vissuta e la vita raccontata, tra l’attività di raccontare una storia e il carattere temporale dell’esperienza umana”; ed è possibile la riconfigurazione narrativa della nostra storia di vita solamente in ragione del fatto che possediamo una coscienza tematica. Non sarebbe possibile raccontarci se non avessimo una visione prospettica di noi, del nostro passato e del nostro futuro, se non fossimo capaci di muoverci nel tempo. Quando il paziente si presenta al colloquio si deve sempre ricordare che il racconto che ci porta è la riconfigurazione narrativa della sua esistenza e che esiste una discrepanza tra l’azione e la sua riconfigurazione nel racconto, ovvero tra l’ipseità e il racconto di sé. L’azione del terapeuta non è quella di modificare il racconto del paziente o il suo punto di vista, ma è quella di perturbare strategicamente, facendo sentire al paziente le incongruenze o le omissioni tra il livello riflessivo e il livello esperienziale. Le varie tecniche di conduzione di un colloquio, ispirate dagli approcci tradizionali, per esempio come quella guidaniana della “moviola”, sono sensate se vengono utilizzate come un tentativo di riconfigurare narrativamente l’esperienza del soggetto e non come un modo di dare significato, con un atto teoretico, all’esperienza, che in realtà ha già un senso, prima di ogni riflessione. Nel caso dei Disturbi d’Ansia, gli approcci terapeutici che prescrivono compiti al soggetto, per esempio quelli di stampo cognitivo-comportamentale, hanno un senso ed un’efficacia in quanto agiscono sul modo di fare esperienza del soggetto attraverso l’auto-osservazione nelle situazioni di vita, permettendo di afferrare nuove possibilità d’azione. Nello Stile di Personalità tendente ai Disturbi Fobici la polarità Inward gioca un ruolo fondamentale nella possibile correlazione con i Disturbi d’Ansia, dove il corpo è il teatro su cui si manifesta l’alterità. Così le tecniche che hanno l’obiettivo di spostare il focus dell’attenzione dal corpo al contesto dell’esperienza hanno un effetto terapeutico, dettato da un insieme di fattori aspecifici, in quanto permettono alla persona di volgere lo sguardo preriflessivamente verso altri aspetti del mondo, come potenzialità d’azione. Quello su cui vogliamo riflettere è il presupposto da cui dovrebbe partire il percorso 53 terapeutico: considerare l’esperienza umana come dotata immediatamente di significato dal momento in cui la persona è nel mondo (nel senso heideggeriano di “esser-ci”). Questo dato, o riflessione filosofica, trova un suo riscontro nelle scoperte neuroscientifiche degli ultimi anni. Il comportamento di alcune popolazioni di neuroni, come quelli canonici visuo-motori di fronte alla visione di oggetti, o come quelli mirror nel caso della relazione con gli altri, conferma l’esistenza di meccanismi neurali di anticipazione automatica delle possibilità d’azione nell’esperienza, il cui significato è comprensibile immediatamente. Purtroppo è molto facile cadere nel bias di considerare l’esistenza di una persona come un complementum possibilitatis, cioè come un completamento delle sue possibilità, così come sostenuto dal filosofo tedesco Christian Wolff. Prendere consapevolezza di ciò è la base su cui instaurare la relazione terapeutica. Come dire, prima del percorso di cura è necessario fare una cura del percorso. 54 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI American Psychiatric Association, (2000). DSM-IV-TR. Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali. Text Revision. Masson Arciero, G. (2002). Studi e dialoghi sull'identità personale. Bollati Boringhieri. 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