THE “BIG CRASH”. La grande crisi economica del 1929: crisi di sovrapproduzione. Super-sintesi. Finita la Grande guerra, l’inflazione (aumento dei prezzi, diminuzione del valore d’acquisto della moneta) si fece intensissima un po’ ovunque, e soprattutto nei paesi usciti sconfitti dal conflitto. Le industrie dovevano riconvertirsi: avevano prodotto per la guerra; ora dovevano tornare a produrre per una economia di pace. Ma ci voleva tempo e denaro. E le distruzioni materiali e umane erano state immense. In più, in Germania, le riparazioni imposte dai paesi vincitori a Versailles (i miliardi di marchi che dovevano essere pagati come risarcimento per aver causato lo scoppio della guerra) strozzavano l’economia già fragile. In questo paese l’inflazione finì per annullare il valore del marco: nel 1923 il pane giunse a costare 428 miliardi di marchi al chilo, e il burro 5.6000 miliardi (sempre al kg.) [dati Gaeta, Villani]. Che ci crediate o meno, in alcune zone si tornò al baratto naturale, essendo del tutto ridicolo ormai servirsi del denaro. Tuttavia, pian piano, dal 1924, anche l’economia europea riuscì a rimettersi in moto. E questo soprattutto grazie alla iniezione di grandi quantità di denaro proveniente dagli U.S.A. Gli U.S.A avevano una economia in fortissima espansione, e furono gli artefici primi della ripresa economica mondiale, che durò fino al 1929. Ma, al di sotto della floridezza economica e dell’ottimismo produttivo, esistevano alcuni motivi di squilibrio che rendevano precario il boom economico. a) Le banche americane disponevano di enormi quantità di denaro che ristagnava improduttivo nelle loro casse, a bassissimo tasso di interesse per i risparmiatori. Per questo esse avevano dato vita a un flusso enorme di investimenti e prestiti nelle industrie europee (soprattutto –ma non solo- in Germania). Questi investimenti e prestiti avevano consentito la ripresa dell’economia europea, provata dalla guerra. Tuttavia i rapporti finanziari legavano ormai strettamente il mercato mondiale, vecchio e nuovo continente (Europa e U.S.A. e America latina etc.), in un unico sistema ‘a vasi comunicanti’: una eventuale crisi economica in uno dei continenti avrebbe travolto anche il resto dei paesi collegati. Proprio questo successe nel 1929, quando la crisi statunitense travolse anche l’Europa. b) Altro motivo di squilibrio consisteva nel fatto che gli U.S.A, benchè fossero diventati un grande paese creditore, continuavano a proteggere con alti dazi doganali le loro industrie, e impedivano così ai paesi debitori di pagare i loro debiti vendendo in America i loro prodotti finiti. Per ritorsione, i paesi debitori protessero con i dazi doganali la loro agricoltura (soprattutto) dalla concorrenza statunitense. Ma in questo modo i farmers (contadini) statunitensi –che producevano soprattutto per esportare- avevano maggiori difficoltà a vendere il loro prodotto, e avevano sempre meno denaro per acquistare i prodotti industriali del mercato interno U.S.A. La crisi si stava avvicinando. Ricordo che la crisi del 1929 partì proprio dal settore agricolo statunitense. c) L’ultimo motivo di squilibrio era nel fatto che verso il 1921 gli U.S.A. avevano introdotto le quote di immigrazione, limitando fortemente l’immigrazione europea. Il blocco rese ancor più povera l’Europa, afflitta da una eccedenza di popolazione. La crisi economica del 1929 che, scoppiata negli U.S.A., si diffuse in quasi tutto il mondo, è stata la più grave fra tutte le crisi subite dal sistema capitalistico: una catastrofe enorme che ha prodotto traumi enormi. Essa ha 1) contribuito –nell’era “delle catastrofi”- a modificare la mentalità comune spazzando via ogni residuo ottimismo (già messo a dura prova dalla Grande Guerra e dalle rivoluzioni); 2) imposto nuove politiche economiche ai governi (vedremo più avanti il New Deal di F.D. Roosevelt) 3) favorito l’affermazione del nazismo (insignificante fino a prima del 1929) 4) e dunque contribuito a spingere il mondo verso un nuovo conflitto mondiale (quello scatenato dai nazisti). L’epicentro della crisi: gli U.S.A. – La produzione di massa aveva creato una mentalità orientata verso l’industria: in U.S.A. il risparmiatore (anche operai, impiegati etc.) ottimista riguardo alla solidità del sistema industriale, investiva i suoi risparmi in azioni industriali, ben più che in titoli di Stato. Le borse diventavano il luogo in cui le industrie, attraverso le commissioni bancarie, rastrellavano il denaro della gente comune per poter aumentare la produzione. La Borsa di Wall Street, a New York, era diventata il cuore dell’economia mondiale. Ma i farmers americani, indebitati con le banche e sempre meno capaci di esportare all’estero, stavano cominciando a limitare i loro acquisti di beni industriali statunitensi. Insomma, il mercato interno americano manifestava sintomi di sovrapproduzione (over-production). Il valore dei titoli azionari (le azioni ) industriali erano sempre più alti, mentre la povertà dei contadini cresceva. La crisi venne improvvisa e catastrofica. Il “giovedì nero” (24 ottobre 1929) le azioni a Wall Street persero gran parte del loro valore. D’un tratto, ci si rese conto che il mercato non era più in grado di assorbire la produzione dell’industria (e dell’agricoltura ): era arrivata la crisi di sovrapproduzione. C’era ormai un eccesso di prodotto rispetto alle capacità di assorbimento del mercato. Colti dal panico, all’udire che alcuni grandi detentori di titoli azionari avevano precauzionalmente iniziato a vendere, i risparmiatori statunitensi si riversarono nelle banche dando ordine di vendere le loro azioni. In poco tempo, a Wall Street le azioni (i titoli industriali quotati in borsa) si ridussero a carta-straccia o poco più. Nell’arco di pochi giorni o settimane, i risparmi di milioni di famiglie sfumarono nel nulla. Il valore dei titoli, dopo il primo fortissimo scossone, continuò a scendere fino al 1932. Esempio: nell’arco di poco tempo, il valore di ogni singola azione della Chrysler automobili scese da 135 dollari a 5 dollari. Significava la povertà. Molti furono in quei giorni i suicidi. Da Wall Street la crisi si diffuse ovunque. I risparmiatori, rovinati, non potevano più comprare, e la situazione di sovrapproduzione si aggravava sempre più. L’arresto delle vendite fece crollare i prezzi, ma il denarto in circolazione per comprare era ormai pochissimo. Il Crash economico travolse anche l’Europa: le banche americane cercarono di rimediare alla scarsezza di denaro ritirando i prestiti fatti negli anni precedenti in Europa. Ma questo provvedimento mise in crisi l’economia europea, che si ritrovò anch’essa priva di capitali. - Il crollo travolse i piccoli produttori e i contadini indebitati (che vennero spesso espropriati dalle banche: si veda il film FURORE, di J. Ford, e si legga –soprattutto il libro di J. Steinbeck da cui il film prende spunto). - I grandi produttori cercarono di frenare il crollo dei prezzi distruggendo o lasciando marcire i raccolti (in Brasile il caffè usato come combustibile per le locomotive), abbattendo il bestiame (Argentina, olanda, Danimarca etc.), distruggendo migliaia di automobili nuove di zecca per recuperare materie prime e non pagare costi di stoccaggio troppo alti (U.S.A.), diminuendo o bloccando la produzione (assurdo produrre in una situazione di sovrapproduzione) e licenziando gli operai. Nel 1932 la produzione industriale mondiale era scesa di circa il 40% rispetto al 1929! - 13 milioni di disoccupati in U.S.A.; 6 in Germania, 1 in Italia. - La crisi fu terribile negli U.S.A. (dove la gente comune faceva la fila per un piatto di minestra alle mense pubbliche e nascevano ovunque ‘bidonvilles’, e si diffondevano forme di vagabondaggio di gruppo, e si faceva la fame mentre enormi quantità di beni venivano distrutti per frenare la caduta dei prezzi) e in Germania. In Germania Adolf Hitler, facendo leva sul malcontento dei ceti medi rovinati, salì al potere e instaurò il criminale regime nazista. L’Inghilterra se la cavò disponendo di un vasto impero con il quale essa aveva rapporti economici privilegiati; l’U.R.S.S. se la cavò meglio ancora, visto il relativo stato di isolamento politico ed economico. Altre conseguenze della crisi del 1929. 1) Il malessere provocato dalla crisi fu cancellato del tutto solo dopo la 2° guerra mondiale. Il culmine della crisi fu raggiunto nel 1932-33. A partire dal 1935 le cose cominciarono a migliorare lentamente ovunque. Nella Germania (ormai nazista) del 1935 la disoccupazione era ormai scomparsa (assieme alla democrazia e alle libertà civili): il regime nazi aveva puntato sul riarmo e la produzione industriale bellica, e nessuno fece nulla per impedirlo. Negli U.S.A. la crisi fu definitivamente superata solo molto più tardi, ma almeno si fece di tutto per salvaguardare le istituzioni liberali e democratiche. 2) La crisi fece definitivamente scomparire ogni traccia di euforia e ottimismo, e portò in primo piano quel senso di angoscia e precarietà evidente nelle nuove filosofie dell’esistenzialismo (Camus, Sartre, Heidegger –per certi aspetti). Cessarono i divertimenti fragorosi e la moda divenne più severa. 3) Cambiarono pure le teorie economiche, e le politiche economiche dei governi. Nella vecchia concezione liberista ottocentesca, l’economia doveva essere regolata solo dalle leggi del mercato, e gli interventi dei governi erano giudicati nocivi. Certo, durante la 1° g. mondiale i governi avevano diretto le economie nazionali, ma solo per causa di forza maggiore, e come fatto eccezionale. Ora invece si cambiò modo di pensare. E’ stato grande merito di John Maynard Keynes (economista inglese) aver compreso che, dopo la crisi del 1929, il capitalismo non poteva più funzionare senza sistematici e organici interventi dei governi, interventi statali capaci di garantire il full employment (pieno impiego= lavoro per tutti), i problema centrale delle moderne società occidentali. Lo Stato –secondo Keynes- doveva promuovere lavori pubblici e favorire investimenti, insomma STIMOLARE il mercato, senza però PIANIFICARLO e negare la libera iniziativa –come invece in Unione Sovietica e nella Germania nazista) per diminuire la disoccupazione. Keynes aveva scritto nel 1936 “Teoria generale dell’impiego”, e la sua opera divenne realmente influente solo a partire dal 1940, quando divenne consulente economico del governo inglese. E’ vero però che numerosi governi, dopo il 1932, imboccarono una politica economica simile a quella teorizzata dal Keynes, e centrata sull’intervento dello Stato. Ci soffermeremo solo sul New Deal di Roosevelt. IL NEW DEAL (= IL NUOVO CORSO, IL ‘NUOVO METODO’). Nel 1932 Franklin Delano Roosevelt , del partito democratico, divenne presidente degli Stati Uniti d’America (e rimase in carica fino al 1945 !!! –morì poco prima della fine della 2° g. mondiale). Grandissima personalità democratica e liberale, egli seppe –con la sua politica economica (detta “the New Deal”)- risollevare il paese dalla crisi economica, creando un nuovo clima di fiducia nell’opinione pubblica nei riguardi del governo federale. Roosevelt affrontò con un “nuovo metodo” la crisi. Egli prese provvedimenti per: - ridurre le ore lavorative (massimo 36 ore settimanali per gli operai): se si lavora tutti un po’ di meno, ci sarà più gente che potrà avere un posto di lavoro e guadagnare qualcosa! - porre sotto il controllo federale tutte le banche; - eseguire con soldi dello Stato grandi lavori pubblici (per diminuire la disoccupazione e creare infrastrutture –ponti, dighe, canali etc.- utili allo sviluppo economico): ricordo la costruzione di una enorme centrale idroelettrica nella valle del Tennessee; - fornire sussidi pubblici ai disoccupati e sovvenzioni ai contadini. Fu così creato un sistema di pensioni per la vecchiaia e di assicurazioni contro la disoccupazione: insomma, un principio di Stato sociale-assistenziale. Idee che non piacquero ai conservatori americani, che accusarono il presidente di simpatie ‘comuniste’! Assurdo! Tuttavia solo le spese per la 2à g. mondiale fecero scomparire del tutto la disoccupazione. Il NEW DEAL resta comunque il più grande tentativo fatto per riformare il capitalismo consolidando insieme la democrazia! In Germania –ho già detto- si fece molto prima, ma… al costo della libertà e della democrazia. Fonti: Carocci, M. Revelli, Gaeta,/Villani/ Petraccone. Mario Gamba.