La “grande crisi”: economia e società negli anni `30

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Prof. Monti – Storia V – a.s. 2016-2017 – La “grande crisi”: economia e società negli anni ‘30
La “grande crisi”: economia
e società negli anni ‘30
(sostituisce il capitolo 9)
1. LA CRISI DEL 1929
Tra le due guerre mondiali l’economia capitalistica si riprese con vigore, ma, all’improvviso, parve
crollare sotto il peso del “giovedì nero”: il 24 ottobre 1929.
Gli indici della borsa di Wall Street ebbero un tracollo e le conseguenze furono devastanti ed
estese, in misura assai maggiore rispetto alle precedenti (cicliche) crisi economiche: la produzione
industriale crollò, mentre disoccupazione, povertà e fame tornarono a farsi sentire un po’ in
tutto l’Occidente.
A innescare la crisi fu lo squilibrio fra domanda e offerta.
Negli ultimi anni, infatti, era andata allargandosi la sproporzione fra salari e profitti industriali:
la gente non era più in grado di acquistare le sempre più abbondanti merci.
Si trattò dunque, come anche per la Grande Depressione di cui già abbiamo detto, di una crisi da
sovrapproduzione. Con enormi quantità di prodotti invenduti, le fabbriche dovettero
ridimensionarsi.
La crisi fu anche borsistica, infatti le quotazioni delle aziende diminuirono insieme alla
produzione, e finanziaria (fallirono numerosi di istituti di credito e banche).
Tra le conseguenze di maggiore impatto vi furono una diminuzione dei salari e un enorme
aumento della disoccupazione: fra il 1932 e il 1933, un quarto della popolazione attiva degli USA
restò senza lavoro.
Anche i prezzi dei prodotti agricoli crollarono.
In pochi anni il commercio mondiale ebbe una contrazione del 60%.
Insieme alle merci, anche i flussi migratori si arrestarono. Per difendere le economie nazionali si
aprì una corsa al protezionismo: si giunse alla cosiddetta autarchia. Ogni paese, cioè, manifestò la
tendenza a rinchiudersi nel proprio mercato nazionale inseguendo l’obiettivo dell’autosufficienza
economica e riducendo la cooperazione internazionale.
Il modello economico liberista mostrò i suoi limiti: si comprese che non ci si poteva
semplicemente affidare ai meccanismi spontanei del mercato, al libero gioco di domanda e
offerta.
D’altro canto il protezionismo rappresentava una soluzione in buona parte inadeguata: le
aziende nazionali erano ormai troppo grandi per rivolgersi al solo mercato interno...
I vari Stati dovettero intervenire per sostenere la domanda industriale e per ammortizzare il
disagio sociale. In che modo? La scelta comune fu questa: finanziamento di grandi opere pubbliche
e politiche di welfare, seppure spesso piuttosto limitate, a sostegno dei disoccupati.
Anche dal punto di vista politico la crisi ebbe effetti di enorme portata: la gravità che essa
assunse in Germania favorì l’imporsi del regime nazionalsocialista di Hitler; l’Italia di Mussolini,
da parte sua, avviò una forte e destabilizzante politica imperialista.
La crisi del ’29 fu dunque, al di là di ogni dubbio, una delle premesse della Seconda guerra
mondiale.
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2. UNO SGUARDO ALL’INDIETRO: PRIMA DELLA CRISI
Già abbiamo detto che, all’indomani della Prima guerra mondiale, gli USA avevano assunto la
leadership economica mondiale. Abbiamo già discusso anche della red scare, del Ku Klux Klan e,
in generale, della chiusura nei confronti dell’immigrazione.
Nonostante la florida economia, la politica americana divenne tendenzialmente conservatrice,
seppure non mancarono significativi elementi di apertura come il suffragio universale che, nel
1920, venne esteso a tutti gli stati.
Sempre nel 1920 il Partito repubblicano tornò al potere e fu, per parecchi anni, fautore di una
politica di tipo isolazionista, ma anche di questo abbiamo già parlato.
Nonostante il disimpegno nei confronti dell’Europa, gli USA fornirono sostegno economico a
molte nazioni europee, particolarmente alla Germania, con lo scopo di favorire una ripresa
internazionale dell’economia. In generale, poi, il controllo statale sull’economia fu in questo
periodo assai blando.
Un significativo aspetto di chiusura, influenzato anche da ambienti religiosi, è legato al
proibizionismo: si pensava che il divieto di produzione, importazione e vendita di alcolici
potesse contribuire a migliorare la capacità dello Stato di controllare la società, ma il
provvedimento portò effetti negativi, come la diffusione dello spaccio illegale e della malavita. Non
a caso gli anni Venti furono gli anni dei famosi gangster, parecchi dei quali erano di origine
italiana. Il proibizionismo sarà abolito nel 1933.
Il liberismo economico dei repubblicani favorì l’accumularsi di enormi fortune nelle mani di
pochi grandi industriali, con un processo di accentramento capitalistico, mentre gli agricoltori
si impoverirono notevolmente.
Si assistette al trionfo del sistema Taylor-Ford (che riguardò soprattutto l’industria dell’auto) che
era stato avviato, come sappiamo, all’inizio del ‘900. Aumentò di molto anche l’acquisto di
elettrodomestici per la casa.
La società americana, prima del ’29, appariva sempre più ricca: il consumismo si diffuse in ampi
strati della società, coinvolgendo anche ambiti, come quello culturale (si pensi al cinema), che in
precedenza avevano sempre avuto una connotazione di elitarismo.
Le città americane divennero sempre più grandi e sfarzose: simbolo della potenza americana
furono i grattacieli, costruiti in numero sempre maggiore.
La situazione evidentemente, era meno florida di quanto potesse sembrare.
Quella crescita senza limiti, sogno della borghesia ottocentesca che pareva ormai realizzarsi
concretamente, era caratterizzata da contraddizioni che si manifestarono, all’inizio, proprio con il
crollo della borsa di New York.
Il “giovedì nero” fu caratterizzato da enormi flussi di vendita di azioni e obbligazioni con il
conseguente crollo dei prezzi delle medesime. Negli anni successivi, il valore delle azioni di
numerose aziende si sarebbe pressoché azzerato.
Quale la causa? Già lo abbiamo accennato: l’eccessiva distanza fra la crescita dei profitti
capitalistici e la crescita dei salari.
L’eccessiva crescita degli anni precedenti aveva portato l’industria americana a raggiungere una
potenzialità produttiva che il mercato interno non poteva assorbire, soprattutto per ciò che concerne
i beni durevoli. Ecco che le industrie si trovarono a produrre assai più di quanto occorresse.
A questo aggiungiamo il boom delle speculazioni finanziarie: gli anni di crescita convinsero molti
della possibilità di facili guadagni tramite l’acquisto, anche attraverso prestiti bancari, di titoli
azionari.
Il problema è che all’aumento del valore del mercato azionario sempre meno corrispondeva un
aumento dell’economia reale, questo sino al punto di rottura.
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Lo scoppio della crisi spinse i risparmiatori a recuperare la maggior parte possibile del proprio
denaro: il ritiro di capitali causò una crisi di liquidità e il fallimento di numerose banche.
Negli USA tra 1929 e 1932 la produzione industriale si dimezzò. Moltissime aziende chiusero i
battenti e, nel 1933, si giunse alla cifra record di 15 milioni di disoccupati.
L’allora presidente Herbert Hoover (1874-1964), intervenne con aiuti alle imprese, mentre
l’aiuto alle famiglie fu lasciato alle sole associazioni filantropiche.
Si rialzarono i dazi protettivi e si favorirono i grandi istituti di credito. Questa politica esacerbò il
conflitto sociale, con un grande aumento degli scioperi.
3.
IL NEW DEAL
Alle elezioni del novembre 1932, l’America ancora ricca era tutta con Hoover, mentre quella
dei poveri si schierò con il democratico Franklin Delano Roosevelt (1882-1945).
Quest’ultimo, vinse nettamente le elezioni e la rotta cambiò repentinamente: eccoci al New
Deal, la politica economica inaugurata da Roosevelt, significava proprio “nuovo corso”.
Roosevelt cercò di creare un clima di collaborazione nazionale per riorganizzare l’economia,
in modo da evitare ulteriori squilibri. Risanamento finanziario, riassetto di industria e agricoltura,
miglioramento delle condizioni economiche delle classi meno agiate furono i suoi obiettivi.
Per dare competitività alle merci americane sui mercati esteri, il dollaro venne svalutato
(addirittura del 60% nel 1934). Anche gli aiuti alle banche si ridussero fortemente: a questo punto
solo quelle sane sopravvissero e l’intero sistema finanziario venne posto sotto il controllo statale
(Federal Reserve Bank). Venne imposto anche il divieto di esportare o tesaurizzare la valuta.
Venne, poi, disciplinata la concorrenza fra i vari settori industriali, prevedendo anche un ampio
progetto di lavori pubblici (che si basava sull’abbandono del dogma del “pareggio di bilancio”).
“ Io credo [è Roosevelt a parlare] che i singoli dovrebbero avere intera libertà di azione onde poter
esplicare la propria attività nel modo più vantaggioso; ma non credo che nel nome di quella parola
sacra, individualismo, un limitato numero di potenti interessi debbano avere il permesso di fare
carne per il cannone industriale con la metà della popolazione degli Stati Uniti. […] Dobbiamo
ritornare ai principi primi; dobbiamo far sì che l’individualismo americano sia ciò che si
supponeva fosse: l’opportunità di lavoro e di successo offerta a tutti, il diritto di sfruttamento
negato a chiunque.”
Le misure di Roosevelt ebbero un ampio appoggio popolare e il consenso delle organizzazioni
sindacali. Nacquero, in questo periodo, i primi tratti caratteristici del cosiddetto Welfare State
(“Stato del benessere”): sistema assicurativo per disoccupati, vecchi e invalidi, minimi salariali,
orario di lavoro ridotto a otto ore...
In soli tre anni della politica di Roosevelt, nel 1936, l’economia USA tornò al livello del 1929,
seppure vi erano ancora molti disoccupati. Il fatto di non aver gravato sulle classi più povere attirò
sul presidente i favori di queste classi (sindacati, lavoratori, operai, immigrati). L’America
“reazionaria” invece, che si era riconosciuta in Hoover, mal sopportò “l’invadenza” statale:
imprenditori, movimenti antisemiti, movimenti razzisti nel Sud, filofascisti... Si trattò di una
corrente variegata, ma assai forte, che rese più prudente la seconda fase del New Deal.
Il New Deal, questa nuova politica economica, non si richiamava in maniera diretta e precisa
ad una qualche teoria economica, pure è possibile accostarla alla figura di John Maynard
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Keynes. Questo famoso economista britannico riteneva che il liberismo economico andasse
superato proprio attraverso l’intervento pubblico.
La politica economica di Keynes fu, in effetti, assunta da un po’ tutti i paesi dell’Occidente
sino a dopo la Seconda guerra mondiale: lo Stato poteva e doveva contenere le spinte
autodistruttive insite nel sistema capitalistico.
Keynes riteneva che la domanda dei prodotti industriali andasse sempre sostenuta: vuoi
tramite i lavori pubblici, vuoi tramite l’aumento dei salari e le politiche di welfare (come i sussidi di
disoccupazione).
È meglio, sosteneva Keynes, che lo Stato assuma lavoratori e che li paghi al solo scopo di far loro
scavare delle inutili buche nel terreno, piuttosto che lasciarli in uno stato di disoccupazione.
Alla recessione (diminuzione del PIL) e alla deflazione (diminuzione generale dei prezzi) è
preferibile il debito pubblico e una modesta inflazione.
4. UNO SGUARDO ALL’EUROPA
La crisi colpì duramente anche l’Europa, dove particolarmente drammatica si rivelò la piaga
della disoccupazione. Le prime reazioni del governo americano, poi, ovvero il protezionismo ed il
ritiro dei prestiti ai paesi europei, fecero precipitare ulteriormente la situazione nel vecchio
continente.
Anche i paesi dell’Europa, per reazione, introdussero misure protezionistiche, cosa che
provocò una ulteriore e pesante contrazione del commercio internazionale. Una seconda reazione fu
la svalutazione della sterlina da parte della Gran Bretagna (con l’abbandono della cosiddetta “parità
aurea”), presto imitata da un po’ tutti gli altri stati.
Si può dire che il sistema capitalistico, pur non crollando, subì una notevole trasformazione.
La crisi economica, già vi abbiamo fatto cenno, ebbe conseguenze anche sugli equilibri politici
e sulle forme di governo. Come negli USA, anche in Europa ci fu grande instabilità in seguito alla
crisi del ‘29. Come in tutti i momenti di crisi, emersero pulsioni violente, in buona parte
eredità della non lontana Prima guerra mondiale.
Come vedremo, furono soprattutto i movimenti dell’estrema destra a sfruttare, a proprio vantaggio,
questa situazione.
In Francia gli effetti della crisi giunsero in ritardo e attenuati, ma investirono comunque le
istituzioni.
Il governo diretto da Poincaré si ritira del 1929, sostituito da governi di esponenti conservatori. Poi,
si susseguirono diverse coalizioni di partiti: le elezioni del 1932 videro la vittoria delle sinistre (i
due successivi governi hanno radicali alla maggioranza), poi vi furono due governi di “unità
nazionale” (con tutti i partiti salvo le sinistre!) e, nel 1936, il Fronte popolare (tutte le forze di
sinistra!).
Risalgono proprio agli anni ’36-’37 gli interventi più significativi contro la crisi: il
riconoscimento di contratti collettivi di lavoro, la maggiorazione dei salari, le quaranta ore di lavoro
settimanale.
Il Fronte popolare fu un’esperienza significativa, ma breve. Ampi strati della popolazione,
soprattutto i ceti medi urbani, manifestavano infatti insofferenza nei confronti della
democrazia parlamentare, giudicata corrotta e non efficiente, e spesso si lasciavano sedurre
da possibili soluzioni autoritarie.
Le forze di sinistra, poi, erano divise di fronte all’opposizione (opposizione nella quale si
riconosceva tutto il blocco economico dominante).
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Il governo di Léon Blum subì il colpo di grazia dal cosiddetto “sciopero del capitale”: il padronato
cominciò ad esportare capitali all’estero, bloccando gli investimenti.
Nel 1938 il nuovo governo (Daladier), sconfessò gli accordi sindacali di Matignon.
In Gran Bretagna furono i laburisti a dover affrontare la crisi, dopo la vittoria nelle elezioni del
maggio 1929. Il loro leader, Ramsay MacDonald, era in dissenso con la maggioranza del suo
partito e decise di ricorrere alla formula dei “governi nazionali”: coalizioni di partiti
ideologicamente eterogenei.
I suoi primi provvedimenti furono improntati a una severa austerità: riduzione di salari ai
dipendenti pubblici e riduzione dei sussidi di disoccupazione.
Per mantenere la concorrenzialità dei prodotti inglesi all’estero, nel 1931 avviò una forte
svalutazione della Sterlina. Contemporaneamente, si stabilirono una serie di accordi economici per
proteggere i paesi del Commonwealth.
Superata la fase peggiore della crisi, l’esperienza dei “governi nazionali” si concluse e primo
ministro divenne il conservatore Stanley Baldwin, nel 1935, a cui subentrò Neville
Chamberlain (1937). Ambedue si trovarono ad affrontare una nuova emergenza: l’ascesa del
nazismo.
Chamberlain elaborò la cosiddetta “politica dell’appeasament”, ovvero della “pace a tutti i costi”.
Questa politica, seguita dalla Gran Bretagna dal 1935 fino al 1939, era tesa ad evitare che le
tensioni sfociassero in una guerra, anche a costo di concessioni alla Germania.
Chamberlain era convinto di poter limitare i progetti espansionistici di Hitler nel quadro
tradizionale degli equilibri europei, senza giungere a scontri armati: purtroppo, si trattava di una
drammatica sottovalutazione...
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