Prof. Diego Manetti
Storia
LA CRISI DEL 1929 E IL NEW DEAL
Crisi e trasformazione
Alla fine degli anni Venti l’Europa e il mondo vivono una fase di distensione internazionale,
caratterizzata dalla ripresa delle relazioni diplomatiche delle grandi potenze con la Germania.
L’economia occidentale, trainata da quella statunitense, si sviluppa considerevolmente. In questo
quadro così positivo si abbatte, imprevista, la crisi economica del 1929, la cosiddetta “grande crisi”
che, compromettendo gli equilibri internazionali, porterà al secondo conflitto mondiale.
Durante la Grande Guerra gli Usa avevano concesso ingenti prestiti alle potenze europee, portando così
il dollaro a essere la più forte moneta dell’economia mondiale postbellica. Sulla produzione americana
avevano inciso fortemente la produzione in serie e l’organizzazione del lavoro ispirata ai principi del
taylorismo. Agli aumenti della produttività fa però riscontro la disoccupazione tecnologica: gli
sviluppi della tecnica rendono sempre minore la quantità di manodopera necessaria per ottenere una
certa quantità di prodotto, creando dunque un surplus di lavoratori. Parallelamente, aumenta
l’occupazione nel settore dei servizi. Cresce il tenore di vita, cambiano le abitudini: si diffondono le
automobili, gli elettrodomestici (frigorifero, radio, aspirapolvere) e crescono i consumi.
Negli anni Venti la leadership politica spetta al Partito Repubblicano: sostenitori di un rigido liberismo
economico, i repubblicani mantengono la spesa pubblica a livelli molto bassi, favorendo la nascita di
corporations industriali e finanziarie e trascurando i gravi problemi sociali emergenti, legati
soprattutto alle misere condizioni di vita e di lavoro degli operai comuni, degli immigrati e dei
lavoratori di colore. Diffusasi la red scare (paura rossa) nei confronti del socialismo e del “diverso” in
genere, vengono varate leggi restrittive sull’immigrazione per preservare la popolazione yankee da
eventuali contaminazioni. Vertice di questa xenofobia è il processo-farsa che conduce alla morte con
accusa di omicidio gli anarchici italiani Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti nel 1927. Nuovo vigore
riprende anche il Ku Klux Klan (Kyclos = Cerchio: “il clan del cerchio”, a indicare l’esclusione del
diverso), organizzazione razzista nata negli stati del Sud all’indomani della guerra di Secessione. Anche
cattolici ed ebrei sono guardati con sospetto.
Si diffonde il proibizionismo: il divieto di produrre, commerciare, consumare alcolici in vigore dal
1920 al 1934 per combattere l’ubriachezza, ritenuta vizio tipico della gente di colore e dei proletari.
La “grande crisi” del 1929
Aldilà di questi elementi di contraddittorietà, nella società americana si respira un grande ottimismo,
tutto improntato alla prospettiva di facile guadagno ispirata dalla Borsa di New York, Wall Street (così
chiamata dal nome della via in cui è ubicata).
Il mercato americano ha però un fragile fondamento: l’aumento di produzione ha infatti saturato il
mercato interno, portando gli Usa a cercare nuovi sbocchi in Europa. Si è dunque venuta a creare una
sorta di interdipendenza tra economia Usa ed economia Europea: la prima finanzia la ripresa del
Vecchio Continente, la seconda alimenta con le importazioni lo sviluppo degli Usa. Nel 1928 accade
però che la maggior parte dei capitali americani sia dirottata in Borsa, con la prospettiva di
speculazioni ben più remunerative: il calo di finanziamenti all’Europa provoca una contrazione delle
importazioni europee con conseguente crisi della produzione industriale americana già a metà del
1929. In seguito a tale rallentamento della produzione industriale degli Usa, la maggior parte degli
speculatori preferisce rivendere le proprie azioni per realizzare subito i guadagni preventivati, evitando
eventuali ribassi. Ma la corsa in massa alla vendita di tali azioni provoca il crollo del loro prezzo in
quello che è stato ribattezzato il “giovedì nero” di Wall Street, il 24 ottobre 1929. A metà novembre
le quotazioni si stabilizzano su valori più o meno dimezzati, ma intanto vere e proprie fortune sono state
bruciate, mandando in rovina una moltitudine di piccoli e grandi risparmiatori.
Prof. Diego Manetti
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La Borsa
E’ utile ricordare il meccanismo della Borsa per meglio comprendere la dinamica della “grande crisi”.
Una azienda ha un valore di mercato che deriva principalmente dal fatturato da essa realizzato. Se
l’incremento di fatturato da un anno all’altro è, poniamo, del 5%, si può stimare in una analoga
percentuale l’aumento del valore della azienda. Perché allora seguendo le quotazioni in borsa capita di
vedere oscillazioni di banda assai più ampia, spesso non proporzionali alle reali variazioni di fatturato?
Questo dipende dal fatto che le “azioni” – cioè le quote in cui una azienda può esser divisa, quote che
vengono poi poste sul mercato per essere acquistate da soci diversi, dai grandi investitori al piccolo
risparmiatore – hanno un valore “virtuale” piuttosto che reale, nel senso che il valore dipende dalla
domanda. Se ad esempio un’azienda ha registrato un modesto aumento di fatturato, ma ci sono grandi
aspettative per il futuro, oppure un grande gruppo finanziario vuol investire nel suo sviluppo, ecco che
cresce la domanda per partecipare a quella data impresa, con la diretta conseguenze dell’aumento del
valore delle azioni. Viceversa, quando un’azienda perde di interesse agli occhi del mercato e molti dei
soci vendono le relative azioni, ecco che un eccesso di offerta rispetto alla domanda porta a una
perdita di valore delle azioni. E’ quest’ultima la dinamica che determinò la grave crisi di Wall Street
del 1929.
Effetti della crisi negli Usa e in Europa
Subito dopo la crisi gli Usa cercarono di difendere la propria produzione industriale, inasprendo il
protezionismo e sospendendo l’erogazione di fondi all’Europa. Quest’ultima misura in particolare
causò una contrazione del valore del commercio mondiale tra il 1929 e il 1932 di oltre il 60% dando
vita a un circolo vizioso: la contrazione degli scambi portava alla chiusura di una data azienda i cui
prodotti non erano richiesti a sufficienza, i lavoratori disoccupati e senza salario erano costretti a ridurre
i loro consumi, portando a loro volta alla crisi e alla chiusura di altre aziende. Questo porta a circa 14
mln di disoccupati negli Usa e 15 mln in Europa.
INGHILTERRA - La crisi finanziaria in Austria e in Germania, Paesi dove ingenti erano gli
investimenti britannici, portò insicurezza sul mercato inglese dal quale vennero ritirati moltissimi
capitali stranieri, con la richiesta di conversione delle sterline in oro. Esaurite le riserve auree nel
settembre 1931, la Banca d’Inghilterra sospese la convertibilità sterlina/oro, provocando la
svalutazione della moneta inglese nella speranza che ciò favorisse le esportazioni. Il programma di
austerità fu varato dal laburista Mac Donald che, scontrandosi con l’opposizione delle Trade Unions
(della stessa area politica laburista) decise di lasciare il proprio partito per accordarsi con i liberali
per la formazione di un governo nazionale di cui lo stesso Mac Donald assunse la presidenza. Venne
dunque svalutata la sterlina e per la prima volta abbandonata la tradizione libero-scambista,
inaugurando una politica di tariffe doganali che favorissero gli scambi all’interno del Commonwealth.
GERMANIA - In Germania il governo di coalizione guidato dal PSD andò in crisi per la volontà degli
alleati moderati di ridurre gli interventi e le spese dei servizi sociali statali. La crisi si consumò con il
cambio della guida politica e il governo del centro cattolico (marzo 1930) che attuò una severissima
politica di sacrifici con lo scopo di mostrare al mondo quanto insostenibile fosse la situazione della
Germania ancora costretta a pagare le spese di riparazione. Una conferenza internazionale nel 1932
decise di sospendere per tre anni i pagamenti (che non furono mai più ripresi) per cui si può dire che
l’obiettivo fu raggiunto. Ma al prezzo di ben 6 mln di disoccupati, in uno scenario che vedeva sempre
più in ascesa il movimento nazionalsocialista.
FRANCIA - In Francia la crisi durò più a lungo degli altri Paesi a causa della profonda instabilità
politica: dal 1929 al 1936 si succedettero ben 17 governi diversi, di destra e di sinistra.
In tutti i Paesi europei toccati dalla crisi il primo rimedio fu la contrazione della spesa pubblica,
seguendo i principi dell’economia classica che poneva il pareggio di bilancio come primo obiettivo.
Questa misura non fece però che aggravare recessione e disoccupazione, tanto che solo dopo il 1933
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inizierà una lenta ripresa dell’economica europea che culminerà solo con lo sviluppo dell’industria
bellica in vista del secondo conflitto mondiale.
Roosevelt e il New Deal
Nel novembre 1932 si tennero le elezioni presidenziali negli Usa. Il presidente uscente Herbert
Hoover, repubblicano, incapace di affrontare la crisi del ’29, viene sconfitto dal candidato
democratico Franklin Delano Roosevelt, dotato di grande comunicativa, capace di infondere speranza
e coraggio nella popolazione.
Nel discorso inaugurale del marzo 1933 Roosevelt annuncia il New Deal (nuovo patto, nuovo corso)
che intende inaugurare sostenendo un più energico intervento dello Stato nell’economia (in contrasto
con le precedenti amministrazioni repubblicane che si affidano agli automatici aggiustamenti del libero
mercato). Il New Deal fu avviato nei “primi cento giorni” di presidenza con la ristrutturazione del
sistema creditizio (oltre 5.000 erano stati i fallimenti bancari successivi alla “grande crisi”), con la
svalutazione del dollaro (per incrementare le esportazioni), con l’aumento dei sussidi di
disoccupazione.
Inoltre si stabilirono premi in denaro per i contadini che limitavano la sovrapproduzione (Agricoltural
Adjustment Act – AAA) e si stabilirono dei codici ci comportamento per le industrie rispetto ai
lavoratori a fronte di sostegni economici statali (National Industrial Recovery Act – NIRA). I due
provvedimenti ebbero anche effetti contraddittori poiché se l’AAA portava a un effettivo controllo dei
prezzi dei prodotti agricoli, causava anche la disoccupazione di moltissimi contadini; dall’altra parte, il
NIRA celava la tutela delle grande industrie a discapito delle piccole imprese.
Per far fronte a questo vennero varati programmi di lavori pubblici (per creare posti di lavoro), fu
allargato il flusso di spesa pubblica e fu varata una legge sulla sicurezza sociale che garantì la pensione
di vecchiaia alla maggior parte dei lavoratori. Con tali misure Roosevelt si guadagnò il sostegno dei
movimenti sindacali (in espansione) ma non riuscì a evitare il formarsi di una colazione di oppositori
che puntavano il dito sui risultati non brillanti e spesso contraddittori del New Deal che non riuscì in
effetti a ridare slancio all’iniziativa economica privata, rendendo l’economia degli Usa dipendente
per tutti gli anni Trenta dal sostegno finanziario statale. La ripresa si sarebbe completata, come per
l’Europa, solo con l’avvento del secondo conflitto mondiale che accrebbe enormemente la produzione
bellica.
Le teorie Keynesiane
Se già in precedenza lo Stato aveva assunto un ruolo attivo nell’economia dei Paesi occidentali nei
momenti di crisi, dopo il 1929 lo Stato diventa un vero e proprio soggetto attivo dell’espansione
economica tramite politiche doganali, controllo di scambi e prezzi, acquisizione di partecipazioni
industriali. Dopo la Crisi del 1929 le convinzioni dell’economia classica, fondate sulla libera iniziativa
del privato e sulle dinamiche spontanee del libero mercato, lasciano spazio all’idea del capitalismo
diretto: è lo Stato a dover intervenire a sostegno dell’economia, bilanciando eventuali restrizioni alle
scelte dei privati con il proprio indispensabile aiuto, sempre nell’ottica del miglior profitto economico.
Tali idee vennero sviluppate da John Maynard Keynes in Occupazione, interesse, moneta. Teoria
generale del 1936 in cui l’economista inglese confuta l’idea classica dello spontaneo equilibrio tra
domanda e offerta nel libero mercato e prospetta l’intervento dello Stato come correttivo dell’instabilità
dell’economia capitalistica. Prima misura efficace in tal senso sarebbe stato l’aumento della spesa
pubblica, al fine di sostenere la creazione di posti di lavoro e la ripresa dei consumi, abbandonando il
mito del pareggio di bilancio per una politica di deficit che avrebbe avuto effetti benefici di grande
rilievo per redditi e produzione sulla media scadenza.
Se il New Deal di Roosevelt già rispecchiava nelle proprie linee le teorie Keynesiane, tali idee saranno
poi adottate da quasi tutti i governi occidentali all’indomani della Seconda Guerra Mondiale per
sostenere il processo di ripresa economica.