Arthur Schopenhauer SCHOPENHAUER (1788-1861) Schopenhauer incomincia il suo capolavoro Il mondo come volontà e rappresentazione (1819), con la celebre affermazione: "Il mondo è mia rappresentazione" (I,1). Che cosa significa questa espressione? Leggiamolo dalle parole stesse di Schopenhauer: "Egli sa con chiara certezza di non conoscere né la terra, ma soltanto un occhio che vede un sole, e una mano che sente il contatto d’una terra; egli sa che il mondo circostante non esiste se non come rappresentazione, cioè sempre e soltanto in relazione con un altro essere, con il percipiente, con lui medesimo" (cfr. Il mondo come volontà e rappresentazione, I §1, trad. it. Milano, Mondadori, 1992, p. 31). Che il mondo sia una nostra rappresentazione, che nessuno di noi possa uscire da se stesso e vedere le cose per quello che sono, che tutto ciò di cui si ha conoscenza certa si trovi dentro la nostra coscienza, è la verità della filosofia moderna da Cartesio in poi, ed è una verità antica perché già detta nei Veda induisti. Il mondo è dunque mia rappresentazione. Ora, la rappresentazione ha due aspetti necessari e inseparabili, il soggetto e l’oggetto. Da ciò segue che il materialismo è in errore perché nega il soggetto riducendolo ad oggetto cioè a materia, ma anche l’idealismo di Fichte è sbagliato perché nega l’oggetto riducendolo al soggetto; d’altra parte, Schopenhauer critica anche il realismo ingenuo, quando sostiene che la realtà esterna si rispecchia per quello che veramente è nella nostra mente. Schopenhauer ritiene invece che la nostra mente, anzi più esattamente e concretamente, il nostro sistema nervoso e cerebrale funzioni inquadrando tutti i fenomeni in tre forme a priori: spazio, tempo e causalità. Mentre Kant aveva elencato dodici categorie, Schopenhauer preferisce ridurle ad una soltanto, quella appunto della causalità, con la motivazione che la realtà di un oggetto si risolve completamente nella sua azione causale sugli altri oggetti. Pur stando così le cose, il nostro intelletto non ci porta oltre il mondo sensibile. Il mondo, che è considerato mia rappresentazione, è pertanto fenomeno, ma non nel senso kantiano del termine. Si ricordi che per Kant il fenomeno era l’unica realtà autenticamente conoscibile, era l’unica realtà accessibile alla mente umana (mentre il noumeno era il concetto-limite che ci rammentava i limiti della nostra conoscenza). Schopenhauer intende invece il fenomeno come una sorta di illusione, di apparenza che vela la realtà delle cose nella loro autentica essenza. Il fenomeno è come il "velo di Maya" della filosofia indiana, che copre il vero volto delle cose. Da questo punto di vista, la vita è come un sogno, cioè un tessuto di apparenze o una sorta di incantesimo. Però, al di là del sogno e del fenomeno, vi è la realtà vera, sulla quale comunque l’uomo non può fare a meno di interrogarsi. Infatti l’uomo è un "animale metafisico", e dunque, a differenza degli altri animali, è portato naturalmente ad interrogarsi sull’essenza ultima della vita. "Ad eccezione dell’uomo, nessun essere si meraviglia della propria esistenza… La meraviglia filosofica … è viceversa condizionata da un più elevato sviluppo dell’intelligenza individuale: tale condizione però non è certamente l’unica, ma è invece la cognizione della morte, insieme con la vista del dolore e della miseria della vita, che ha senza dubbio dato l’impulso più forte alla riflessione filosofica e alle spiegazioni metafisiche del mondo. Se la nostra vita fosse senza fine e senza dolore, a nessuno forse verrebbe in mente di domandarsi perché il mondo esista e perché sia fatto proprio così, ma tutto ciò sarebbe ovvio" (cfr. Op. cit., Supplementi al primo libro, cap. 17, pp. 938-39). Ebbene, questa essenza profonda della realtà (il noumeno che per Kant rimaneva inconoscibile) può essere, per Schopenhauer, raggiunta e svelata. Infatti poiché noi siamo dati a noi stessi anche come corpo, non ci limitiamo a vederci dal di fuori, ma ci viviamo anche dal di dentro, godendo o soffrendo. Più che conoscenza e intelletto, noi siamo, per Schopenhauer, vita e volontà di vivere, cioè un impulso irresistibile che ci spinge ad esistere e ad agire. Il nostro stesso corpo non è che la manifestazione esteriore delle nostre brame interiori: l’apparato digerente non è che l’aspetto fenomenico della volontà di nutrirsi, l’apparato sessuale non è che l’aspetto fenomenico della volontà di accoppiarsi e di riprodursi ecc. Il corpo è dunque volontà resa visibile. L’essenza del nostro essere è tuta volontà. Ma nel momento in cui noi ci rendiamo conto di essere volontà, squarciamo il "velo di Maya" dell’illusione e ci rendiamo conto di essere parte di quell’unica Volontà, di "quel cieco ed irresistibile impeto" che pervade tutte le cose. Essa è appunto l’essenza segreta di tutte le cose, ossia la cosa in sé del mondo, finalmente svelata. Essa è "la sostanza intima, il nocciolo di ogni cosa particolare e del tutto" (cfr. I, § 21). In altri termini, la coscienza del nostro io e del nostro corpo come volontà ci porta a riconoscere che anche tutti gli altri fenomeni, pur così diversi nelle loro manifestazioni, hanno una sola essenza: quella che da noi uomini è conosciuta più direttamente e prende il nome di Volontà. Quali sono le caratteristiche della Volontà? Essa, essendo al di là dei fenomeni, non può essere legata allo spazio, al tempo e alla causalità. Essa è poi inconscia perché la coscienza e l’intelletto costituiscono soltanto una delle sue possibili manifestazioni (è tale solo nell’uomo): per cui essa non si identifica con la nostra volontà cosciente ma è, si ricordi, una sorta di energia o impulso, che, in questo senso, è presente dovunque, anche nella materia inorganica e nei vegetali. Essa è unica perché non è legata ai singoli individui. E’ eterna nel senso che non dipende dal tempo. E’ una forza cieca, senza un perché e senza uno scopo al di fuori di se stessa : la volontà vuole la volontà, la vita vuole la vita, e ogni motivazione ricade nell’orizzonte del vivere e del volere. Affermare che l’essere è la manifestazione di una Volontà equivale allora a dire che la vita è dolore per essenza. Se volere infatti significa desiderare, e desiderare significa essere in uno stato di tensione, per la mancanza di qualcosa che non si ha e si vorrebbe avere, la vita è per definizione assenza, vuoto, indigenza ossia dolore. E poiché nell’uomo la Volontà è cosciente, e quindi più "affamata", egli risulta il più bisognoso e mancante di tutti gli esseri, ed è destinato a non trovare mai un appagamento definitivo. "Non c’è nessun fine ultimo al tendere: dunque, nessuna misura e nessuna fine al soffrire". Per di più, quello che gli uomini chiamano godimento e gioia non è altro che cessazione del dolore, ossia lo scarico di uno stato precedente di tensione, che ne rappresenta la condizione indispensabile. Di conseguenza, mentre il dolore, identificandosi col desiderio, che è la struttura stessa della vita, è un dato primario e permanente, il piacere è solo una funzione derivata dal dolore, che vive unicamente a spese di esso. Accanto al dolore, che è realtà durevole, ed al piacere, che è momentaneo, Schopenhauer pone, come terza situazione esistenziale di base, anche la noia, la quale subentra quando viene meno il desiderio o quando si sta senza far nulla e non si hanno preoccupazioni. "Col possesso, svanisce ogni attrattiva; il desiderio rinasce in forma nuova e, con esso, il bisogno; altrimenti, ecco la tristezza, il vuoto, la noia, nemici ancor più terribili del bisogno". Di conseguenza, la vita umana oscilla, come un pendolo, tra il dolore e la noia. Il dolore però non riguarda soltanto l’uomo ma investe ogni cosa. Tutto soffre, dal fiore che appassisce all’animale ferito; e se l’uomo soffre di più è perché, avendo maggiore consapevolezza, è destinato a patire maggiormente l’insoddisfazione del desiderio e le offese dei mali. Per la stessa ragione il genio, avendo maggiore sensibilità rispetto agli uomini comuni, è votato ad una maggiore sofferenza. In tal modo, Schopenhauer perviene ad una delle più radicali forme di pessimismo cosmico di tuta la storia del pensiero, ritenendo che il male non sia solo nel mondo ma nel principio stesso da cui tutto dipende. Egli critica spietatamente anche le varie teorie più o meno ottimistiche. "L’ottimismo … mi sembra un’opinione, non soltanto assurda, ma veramente empia; un odioso dileggio di fronte alle inesprimibili sofferenze dell’umanità" (cfr. IV, § 59, pag. 460). Schopenhauer è polemico nei confronti di quelle religioni e filosofie che vedono il mondo come un organismo perfetto, governato provvidenzialmente da un Dio oppure da una ragione immanente, come in Hegel. Questa visione, pur essendo consolatrice (ed ecco il perché della sua persistenza nei secoli), per Schopenhauer risulta palesemente falsa, poiché la vita è al contrario un’esplosione di forze irrazionali, ed il mondo, anziché essere il regno della logica e dell’armonia, è il teatro dell’illogicità e della sopraffazione. da questo punto di vista, Schopenhauer non può che rifiutare ogni Dio, in qualsiasi modo venga pensato. Egli fu – come scrisse Nietzsche - "il primo ateo dichiarato e irremovibile che noi tedeschi abbiamo avuto". Infatti dove trovare il posto per un Dio buono, se tutto è sofferenza, dolore, caos, assurdo, non senso? "Per parte mia – dice Schopenhauer – devo confessare che alla mia ragione un tale pensiero è impossibile, e che nelle parole, che lo qualificano, io non posso pensare niente di preciso". Così egli mina alle fondamenta la classica prova ontologica: non avendo il concetto di Dio, non può affermarne l’esistenza, neanche implicitamente. Gli dèi – continua Schopenhauer – sono l’espressione e il sintomo del doppio bisogno che spinge l’uomo da un lato verso la ricerca di un aiuto e sostegno, dall’altro verso l’occupazione e il passatempo. Però tutto questo è inutile : invano l’uomo chiede aiuto agli dèi, poiché rimane implacabilmente in preda al suo destino. Gli dèi sono quindi superflui e del resto l’ipotesi di un Dio persino nella religione non è così essenziale, visto che per esempio il Buddhismo non la contempla. Espressione del dolore universale non è solo l’anelito frustrato della Volontà, ma anche la lotta crudele di tutte le cose. Infatti, dietro le cosiddette "meraviglie del creato", si cela una lotta continua degli uni verso gli altri, tutti protesi alla propria autoconservazione. E in questa vicenda l’individuo appare soltanto un mero strumento per la specie, fuori della quale non ha valore. Alla natura interessa solo la sopravvivenza della specie e null’altro. Per questo essa parla all’uomo dell’amore. Se l’amore è così forte da fare di Cupido "il signore degli dèi e degli uomini", dietro le sue lusinghe e il suo incanto sta in realtà il freddo genio della specie che mira soltanto alla perpetuazione della vita. In breve, l’unico fine dell’amore è l’accoppiamento, la riproduzione, dunque non vi è amore senza sessualità. Ed è per questo che l’amore procreativo viene inconsapevolmente avvertito come "peccato" e "vergogna": non tanto per motivazioni religiose quanto perché esso commette il peggiore dei crimini, cioè la perpetuazione di altre creature destinate anch’esse a soffrire ! L’amore non è altro che "due infelicità che si incontrano, due infelicità che si scambiano ed una terza infelicità che si prepara!". L’unico tipo d’amore di cui si potrebbe tessere l’elogio non è certo quello generativo dell’eros bensì quello disinteressato della pietà (cfr. Metafisica dell’amore sessuale nei Supplementi, cap. 44, in Op.cit. pp. 1430-1479). Un’altra menzogna contro cui Schopenhauer si scaglia di frequente è la tesi della presunta bontà e socievolezza dell’uomo. Per lui, la regola dei rapporti umani è al contrario basata sul conflitto e sul tentativo di sopraffazione reciproca. Regola che è rimasta sostanzialmente la stessa da sempre, anche nelle nostre civiltà più raffinate; tant’è vero che basta un nonnulla perché anche gli individui in apparenza più mansueti si rivelino dei "felini rabbiosi". "Vi è dunque, nel cuore di ogni uomo, una belva, che attende solo il momento propizio per scatenarsi ed infuriare contro gli altri" (cfr. Parerga e paralipomena, II, 114). Se esiste qualcosa come lo Stato e le leggi è solo per una necessità di difesa e di regolamentazione degli istinti aggressivi degli individui. Si badi bene però: il dipingere l’umanità e il mondo come "inferno di egoismi" è comunque finalizzato alla via della liberazione da ciò; infatti solo chi ha la sensibilità di avvertire come i rapporti umani avvengono per lo più nell’ingiustizia, può sentire il desiderio di quei "fiori dell’eccezione" che sono la giustizia e l’amore. Schopenhauer polemizza inoltre contro ogni forma di storicismo. In primo luogo, egli ridimensiona la portata conoscitiva della storia, affermando che essa non è una vera e propria scienza, in quanto si limita alla catalogazione dell’individuale. Inoltre, se andiamo al di là delle apparenze, non possiamo fare a meno di scoprire che "non vi è nulla di nuovo sotto il sole" (cfr. Qoelet o Ecclesiaste, 1,9). Il destino dell’uomo, nei suoi tratti essenziali, è sempre uguale. Dallo studio degli avvenimenti passati, risulta evidente per Schopenhauer la costante uniformità e ripetitività della storia, nella quale non cambia l’essenza delle cose, ma solo la loro facciata accidentale e superficiale. Di conseguenza, se prendiamo coscienza che essa esiste solo perché l’umanità si trova nel dolore e spera di metterlo a tacere mutando le condizioni o inseguendo un illusorio progresso, possiamo concludere che l’unico vero compito della storia è quello di offrire all’uomo la coscienza di sé e del proprio destino. Quando l’uomo arriva a capire che la realtà è Volontà e che egli stesso è Volontà, allora egli è pronto per la sua redenzione, e questa può darsi solo "col cessare di volere". Ci si può liberare dal dolore e dalla noia e sottrarsi alla catena infinita dei bisogni attraverso varie tappe, che vanno dal suicidio, all’arte, alla pietà, all’ascesi. Diciamo subito che egli rifiuta il suicidio come tentativo di sopprimere la Volontà per due motivi fondamentali: 1) perché è un atto di forte affermazione della Volontà, in quanto il suicida vuole la vita ed è solo scontento delle condizioni che gli sono toccate; 2) il suicidio sopprimerebbe soltanto un individuo, ossia una sola manifestazione fenomenica della Volontà, lasciando però intatta la Volontà presente altrove, la quale, pur morendo in un individuo, rinasce in mille altri, ed è pertanto un gesto inutile. In quanto all’arte, essa è per Schopenhauer conoscenza pura e disinteressata, che si rivolge alle idee, ossia alle forme pure o ai modelli eterni delle cose. proprio per questo suo carattere contemplativo e per questa sua capacità di muoversi in un mondo di forme eterne, l’arte riesce a sottrarre l’individuo alla catena dei bisogni e dei desideri. Tra le arti spicca la tragedia, che "esprime e oggettiva il dolore senza nome, l’affanno dell’umanità…", e, ancora di più, la musica : essa è l’immediata rivelazione della volontà a se stessa, ci mette a contatto , al di là dei limiti della ragione, con le radici stesse della vita e dell’essere. Ogni arte è quindi liberatrice, catartica, però la sua liberazione è pur sempre temporanea e parziale: i momenti felici della contemplazione estetica sono istanti brevi e rari, e sono solo di conforto alla vita stessa ma non sono la redenzione definitiva. La morale è un altro tentativo di superare l’egoismo e l’ingiustizia e quindi di abbattere la Volontà. essa nasce da un sentimento di pietà, in cui noi compatiamo il nostro prossimo e giungiamo ad identificarci col suo tormento. Grazie alla pietà, noi sperimentiamo l’unità metafisica di tutti gli esseri, facendoci capire che ad es. il tormentatore e il tormentato, distinti fenomenicamente, sono, noumenicamente, la stessa realtà. la pietà si concretizza in due virtù: la giustizia (che ha un carattere negativo, in quanto consiste nel non fare il male e nell’essere disposti a riconoscere agli altri ciò che siamo pronti a riconoscere a noi stessi) e l’amore o carità (che è la volontà positiva di fare del bene al prossimo in maniera disinteressata). Comunque, anche se vi è una vittoria sull’egoismo, essa è una vittoria voluta, dunque dipendente da atti di volontà, per cui la carità rimane pur sempre all’interno della vita e presuppone un qualche attaccamento ad essa. La liberazione totale dalla Volontà si potrebbe ottenere completamente solo con l’ascesi. L’ascesi è l’esperienza per la quale l’individuo, cessando di volere la vita e cessando lo stesso volere, si propone di estirpare il proprio desiderio di esistere, godere e, appunto, volere. Il primo passo verso l’ascesi è la castità, che libera dall’impulso alla generazione e alla propagazione della specie. Allo stesso scopo tendono la povertà, il sacrificio, il digiuno ecc. Si ricordi che per Schopenhauer la soppressione della volontà di vivere è in pratica l’unico vero atto di libertà possibile all’uomo. Infatti se l’individuo come fenomeno è un anello della catena causale ed è necessariamente determinato (non esiste per Schopenhauer la libertà intesa come libero arbitrio), quando egli riconosce la Volontà come cosa in sé, si sottrae alla determinazione dei motivi che agiscono su di lui come fenomeno e dunque prepara la sua liberazione. La coscienza del dolore come essenza del mondo si trasforma da motivo (che implica sempre una domanda, quindi una esigenza, un bisogno, una mancanza, insomma un ricorso alla volontà) in un quietivo del volere. E’ così che l’uomo diventerebbe veramente libero, si rigenerebbe ed entrerebbe in uno "stato di grazia". Allora "vedremo la pace più preziosa di tutti i tesori della ragione, l’oceano di quiete, la profonda calma dell’animo, l’imperturbabile sicurezza e serenità…" (Op.cit., IV, § 71,p. 575). La volontà stessa si trasformerebbe in nolontà, e l’uomo giungerebbe al nulla, in un oceano di pace e serenità in cui si dissolverebbe la nozione stessa di io e si soggetto. "Per coloro che sono ancora animati dal volere, ciò che resta dopo la totale soppressione della volontà è il vero e assoluto nulla. Ma, viceversa, per coloro in cui la volontà si è convertita e soppressa, è proprio questo mondo così reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, ad essere il nulla" (Ibidem, p. 576). Le parole conclusive di Schopenhauer lasciano intravedere come sia una meta difficile se non impossibile; ed in effetti è così: se esiste ancora il mondo, se esistiamo ancora noi, vuol dire che la Volontà non è ancora stata sconfitta e dunque il pessimismo è sempre e comunque l’ultima parola. NOTA BIOBIBLIOGRAFICA Arthur Schopenhauer nacque a Danzica il 22 Febbraio 1788 da Heinrich Floris, uomo ricco e potente, e da Henriette Trosianer, amante delle belle lettere. Ricevette un’ottima educazione ed ebbe l’opportunità di viaggiare molto imparando diverse lingue straniere. Il padre voleva che il figlio gli succedesse a capo dell’impresa commerciale ma Arthur aveva altre mete: era portato infatti per le materie umanistiche. Nel 1805 il padre morì e lasciò così libero il figlio di seguire la sua vocazione. Il giovane si trasferì con la madre a Weimar e qui ella aprì un salotto letterario che ebbe tra i suoi ospiti le più illustri personalità del tempo, quali Goethe, Wieland, i fratelli Schlegel ecc. Intanto Schopenhauer si dedicava a molteplici discipline (medicina, scienze naturali, letteratura, storia, filosofia ecc.) ma alla fine decise di laurearsi in filosofia, presso l’Università di Jena, con la tesi Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente(1813). Grazie all’eredità lasciatagli dal padre, poté, d’ora in poi, vivere di rendita e dedicarsi completamente allo studio e alla ricerca. Nel dicembre del 1818 pubblicò il suo capolavoro più famoso, Il mondo come volontà e rappresentazione. Pensò quindi di dedicarsi all’insegnamento universitario e scelse apposta Berlino, dove "imperversava" Hegel, come luogo dove poter diffondere la sua filosofia. Naturalmente le sue lezioni saranno disertate da tutti e, poco tempo dopo, Schopenhauer lasciò perdere e si trasferì a Francoforte, dove rimase in pratica per tutto il resto della vita. Continuò comunque a scrivere e a pubblicare (Sulla volontà nella natura, La libertà del volere umano, Il fondamento della morale ecc. ), sperando sempre in un riconoscimento che non gli arrivò se non molto tardi, a 63 anni, quando apparve Parerga e paralipomena, una raccolta di saggi che gli darà la fama. Morì il 21 Settembre 1860 e la sua tomba si trova nel cimitero di Francoforte, senza epigrafi ma con il semplice nome: Arthur Schopenhauer.