Conferenza Pavia - Psicoterapia.it

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Conferenza su "I disturbi alimentari" della dottoressa Donatella De Marinis all'Università di Pavia
Nel parlarvi della Gestalt applicata ai disturbi alimentari tenderò a riferirmi, seguendo il credo
gestaltico che si riconosce maggiormente in un modello esperienziale che in riflessioni teoriche,
ad un lavoro clinico attivato nella sua totalità dal 97 in poi per alcuni anni nello studio milanese di
psicoterapia di cui sono co.responsabile.
La matrice dell’ipotesi con cui abbiamo affrontato la nostra ricerca di intervento sui disturbi
alimentari è stata improntata alla luce della terapia della Gestalt .
E dico questo non tanto parlando della scuola in cui l’equipe terapeutica si era formata nel suo
insieme , infatti il nostro intervento ha visto terapeuti della gestalt accostarsi ed alternarsi con
terapeuti di altre scuole, ma nella costruzione e nella progettazione della struttura stessa
dell’intervento ideata a partire dalla concezione olistica della gestalt confrontata con la letteratura
sui disturbi alimentari psicogeni.
Mi spiego meglio.
La gestalt partendo dall’ olismo di Smuts che vede “ l’evoluzione come lo sviluppo e la
stratificazione graduale di serie progressive di totalità che si estendono dall’inorganico fino ai livelli
più elevati della creazione spirituale “ applica per merito ed intenzione di Perls, il suo padre
fondatore, questo concetto scientifico filosofico alla pratica clinica.
Nella pratica clinica il concetto di “ sbucciare la cipolla “ indica proprio il lavorare su questi strati
isomorfi che formano l’identità di ogni individuo.
Il lavoro terapeutico consiste quindi nell’affrontare i vari livelli del sé dagli aspetti apparentemente
più superficiali a quelli più profondi.
Dovendo comunque definire quali livelli privilegiare nella pratica terapeutica la gestalt ne indica
cinque.
Questi livelli, definiti da Ginger, nel pentagramma della Gestalt, sono: il livello corporeo,
emozionale/relazionale, cognitivo, sociale e spirituale. La nostra riflessione ha riformulato i cinque
livelli in:
Corporeo (nelle sue istanze cenestesiche e senso percettive)
Emozionale
Cognitivo
Relazionale/familiare
Socio/culturale/spirituale
Ed è in questo modo che noi abbiamo considerato il fenomeno del disturbo alimentare.
Una sofferenza che si esprimeva nell’essere umano attraverso queste sue realtà interagenti e quindi
la realtà corporea, quella emozionale, quella cognitiva, quella relazionale/ familiare, quella culturale
e sociale, cercando di non ignorare anche elementi di richiesta spirituale che si configuravano con
il senso dell’esistere e del contatto con il sistema allargato.
Ci è stato utile nell’intervento tenere in considerazione la relazione tra la componente
emozionale/affettiva e quella cognitiva alla luce dalla psicologia degli Enneatipi di Claudio
Naranjo.
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Altra analisi che ha condotto la costruzione dell’intervento è stata la lettura dei meccanismi di
blocco del ciclo gestaltico attivati in questi tipi di disturbo e con quale frequenza ed in quale
relazione si trovassero tra loro.
Credo di dover dire due parole in più sul ciclo gestaltico affinché anche i meno esperti in questo
linguaggio possano farsene un’idea.
La gestalt intende il Sé, ossia l’identità di ogni individuo, non tanto come un’istanza ma come una
funzione. La funzione di contatto tra il mondo interno ed il mondo esterno di ognuno di noi.
Il modo in cui questo contatto avviene è appunto il ciclo del contatto visto da taluni autori come un
cerchio che si riattiva, da altri come una spirale inesausta: il mio punto di vista si accosta
maggiormente a quest’ultima lettura.
Ma vediamo quali sono i punti di osservazione del ciclo del contatto definito da Perls come il modo
in cui l’organismo si mette in relazione:
-
Il distacco corrispondente all’ individuo a riposo
-
La sensazione che inizia con una perturbazione vaga del sistema che indica l’emergere di un
bisogno
-
La consapevolezza che mette a fuoco di quale bisogno si tratti
-
La mobilizzazione che indica l’inizio della ricerca che ha come obbiettivo la soddisfazione
del bisogno
-
L’azione che porta alla soddisfazione del bisogno
-
Il contatto finale con la soddisfazione del bisogno che riporta nuovamente al riposo e quindi
al distacco
Naturalmente come ho già avuto modo di sottolineare incontriamo questo ciclo a partire dalle
istanze fisico/corporee più evidenti fino alle più elevate istanze psichiche e spirituali.
Nel disturbo psichico che la gestalt, nella sua matrice filosofica che si rifà alla fenomenologia e
all’esistenzialismo, vede come un mal di vivere nel qui ed ora, la patologia non è altro che una
difficoltà dell’essere nel suo contatto sia col mondo interno che con quello esterno e quindi ogni
disturbo può essere riconnesso ai blocchi che si verificano nel ciclo del contatto in taluna se non in
ognuna delle sue tappe.
Vediamone ora quindi le possibili disfunzioni del ciclo cui abbiamo accennato:
-
confluenza ossia la membrana di contatto è iperpermeabile ed ha difficoltà a discriminare tra
l’organismo/individuo e l’ambiente e quindi tra i bisogni interni del soggetto e gli stimoli
che gli pervengono dall’esterno
-
egotismo, chiusura rigida alle istanze del mondo esterno, perdita della capacità di contatto
con l’ambiente soprattutto nelle direzione di entrata
-
retroflessione, anche qui c’è perturbazione del contatto con l’ambiente ma nella direzione di
uscita, il soggetto tende a rivolgere a sé ciò che vorrebbe direzionare verso l’ambiente
attuando comportamenti inibitori della soddisfazione
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-
proiezione, operazione in cui il soggetto pone nell’altro da sé qualcosa che gli è proprio,
disconoscendo ed alienando quindi da sé questa parte
-
proflessione, un misto tra proiezione e retroflessione, ossia manovra in cui il soggetto
indirizza ad altri i comportamenti che desidererebbe ricevere
-
deflessione, manovra per distogliersi dal contatto diretto con l’ambiente per mezzo di
circonlocuzioni ed astrazioni
Quelle che ho definito e trattato ora come possibili disfunzioni sono state nella formazione
dell’individuo anche modelli funzionali, diventano disfunzionali e quindi negative per l’individuo
nella rigidità della loro radicalizzazione o nell’ interferenza attuale con la creazione, il
riconoscimento e la soddisfazione dei bisogni.
Mentre in talune patologie non compaiono necessariamente tutte le disfunzioni del contatto, nei
disturbi alimentari esse si situano tutte nelle varie fasi del pentagramma.
Vedremo ora la loro lettura nella fase funzionale ed il senso che ha avuto ill trattarle all’interno del
nostro modello di intervento nell’intento di correggerne l’utilizzo distorto e farlo virare verso una
più sana modalità.
La confluenza nella sua condizione fisiologica è elemento ineludibile e vitale sia nella gravidanza
(relazione feto/madre) che nelle fasi precoci di crescita del bambino piccolo. In ambedue questi
momenti del ciclo di vita il piccolo non ha ancora raggiunto a livello biologico-tissutale una
sufficiente differenziazione per cui deve ancora avvalersi sia degli anticorpi che delle cure materne
per sopravvivere al contatto con l’ambiente.
L’egotismo è fondamentale come possibile chiusura selettiva, ed è quindi fondamentale nella
crescita proprio per la capacità di differenziarsi con il no, di superare la fase della simbiosi con la
madre e sviluppare un capacità di riconoscere il proprio territorio e difenderlo da aggressioni e
invasioni dell’ambiente.
La retroflessione, intesa nel suo esercizio sano, consente un contenimento degli impulsi e la
capacità di dilazionarne la soddisfazione in tempi e situazioni più adatte al loro soddisfacimento.
La proflessione rappresenta la stessa capacità di sperimentare, stavolta in uscita, la soddisfazione
del proprio bisogno come un bisogno legittimo ed attuabile nelle relazioni.
La deflessione può avere la sana funzione di creare un sufficiente distacco dal proprio bisogno in
modo tale da poterne conseguire la soddisfazione ma non una fissazione compulsiva.
Vediamo quindi in questa panoramica di un modello più sano delle funzioni di contatto come, sia
nella conoscenza della letteratura che nell’osservazione diretta dei portatori di disturbi alimentari,
emerga l’evidenza della problematicità di tutte le fasi del ciclo del contatto che appaiono più nella
funzione negativa che in quella fisiologicamente sana dell’esprimersi.
Ma torniamo ora al nostro intervento con una descrizione di come sia nato all’interno del nostro
gruppo di lavoro.
Seguirò per descriverlo le fasi stesse del ciclo del contatto.
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All’inizio eravamo un gruppo di collaboratori che operavano nello stesso studio e che hanno
iniziato a sentire il bisogno di creare assieme oltre che su un piano esclusivamente del confronto
culturale anche su un piano di collaborazione clinica fattiva.
Da questo primo sentire siamo passati alla consapevolezza di volerci costituire come equipe
terapeutica ed abbiamo iniziato a confrontarci verso quale direzione si muoveva il nostro interesse
di intervento clinico.
Ciò che ha unificato la nostra scelta verso l’interessarsi ai disturbi alimentari è stata da una parte la
sempre più grande diffusione che tali disturbi avevano nel sociale e tra i nostri pazienti ma anche
l’interesse che suscitava in noi la complessità stessa di questi disturbi.
Per un anno la nostra equipe si è ritrovata collaborando alla costruzione dell’ipotesi terapeutica ed
affrontando per la prima volta ( in contemporanea con gli studi di Ruggeri presso l’Università di
Roma) l’ipotesi di aggiungere ai modelli terapeutici più conosciuti e sperimentati per queste
patologie il lavoro sul e con il corpo.
Da bravi gestaltisti abbiamo anche sperimentato e attraversato noi stessi almeno parzialmente una
serie di esercizi dell’area corporea che avremmo poi proposto ai nostri pazienti per comprendere
tramite l’impatto con noi stessi come poterli ritarare per poterli riproporre a loro.
Terminata questa parte della nostra ricerca interna soprattutto quella di lavoro corporeo che era
forse la più innovativa, confrontate e confortate queste nostre ipotesi in una trasferta a Roma per
metterci in contatto con la sperimentazione di Ruggeri, ci siamo apprestati a coniugarla con gli altri
modelli più conosciuti per efficacia terapeutica verso questi disturbi.
Naturalmente non abbiamo dimenticato di attivare in tutte le fasi che descriverò in seguito la
ristrutturazione positiva del ciclo del contatto.
E quindi eccoci a riflettere su come assemblare e verso chi attivare i vari interventi che ritenevamo
utile prendere in considerazione per rispondere ai complessi bisogni terapeutici presenti in questo
tipo di pazienti:
-- ovviamente in primo luogo l’intervento verso la persona portatrice dei sintomi nella sua totalità
mente/corpo
-- e quindi verso la famiglia,con la sua visione del mondo ed i suoi modelli di relazione
-- verso la cultura con i suoi stereotipi e la sua sempre maggiore penetrazione ed influenza nelle
fasce giovanili tramite i mass media
-- verso la scuola, con la sua difficoltà evolutiva tra l’educare e l’informare, che non sempre riesce a
coniugare, anche in assenza di collaborazione con la famiglia, modelli adolescenziali e modelli
adulti
-- verso il mondo della cura, di cui abbisognano questi disturbi, con le sue possibili strutture
istituzionali laddove cessava la nostra competenza: Ospedali o cliniche specializzati in questo tipo
di disturbo, altri colleghi specialisti nelle aree internistiche, ginecologiche, dietologiche,
endocrinologiche ecc.
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Nell’area psichiatrica la scelta della presa in carico da parte della nostra equipe o da servizi o
colleghi esterni avveniva come possibile strategia terapeutica o qualora i pazienti arrivassero da noi
con già uno psichiatra di riferimento con cui ci mettevamo in contatto.
.
Tralascio per ora di menzionare le parti più rivolte alla prevenzione, (ascolto telefonico,
conferenze nelle scuole e nei consigli di Zona) che pure ci hanno visti attivi, per focalizzarmi su
quelli dell’intervento vero e proprio di cura.
Ed appunto quale cura e rivolta a chi? Abbiamo cercato di cogliere gli aspetti salienti di questi
disturbi per immaginarne una risposta.
Non credo sia il caso di ricordare in questa sede i criteri diagnostici dei DSM, ma altresì ripetere
che per noi non esistono l’anoressia e la bulimia in sé, ma persone distinte e differenti che soffrono
di questi disturbi con tutte le sfaccettature che ciò comporta.
L'assunto di fondo da cui mi piace partire (e con cui concordo con Pierrette Lavanchy nel suo testo
"Il Corpo In Fame") è che queste persone sono portatrici di "una ferita, di uno strappo, di una
rottura precoce tra loro stesse e le persone a loro vicine. Questa rottura, dapprima subita, è stata poi
assunta e rivendicata dalla persona che in qualche modo la riproduce all'interno di se stessa,
lottando con il proprio corpo che è diventato il simbolo del tradimento".
Il risultato di ciò è che abbiamo a che fare con un individuo dall'identità incerta e/o non ancora
formata, con cui è spesso difficile fare contratti terapeutici per gli aspetti scarsamente adulti della
sua capacità emozionale e relazionale. E' un soggetto incapace di entrare nella vita adulta da tutti i
punti di vista, sia psicologici che fisici. Ha inoltre scarsa consapevolezza di questa difficoltà che
tende disperatamente a negare, in una difesa strenua dalle proprie e dalle altrui emozioni, per cui la
vita viene vissuta in modo robotico e distaccato. L'incertezza è tale che neanche la naturalezza della
propria fisiologia è qualcosa cui potersi naturalmente affidare come sostegno sicuro.
Il corpo, che per la maggior parte di noi è un luogo di rassicurazione, talvolta di piacevole ritiro e
alla cui naturalità ci possiamo affidare riguardo alla scansione del nostro quotidiano (ritmi di
sonno/veglia, fame/sazietà, attività/riposo, piacere/fatica, ecc.) per questi soggetti non solo non
rappresenta cio’, ma diventa unicamente un luogo di ritiro, ma di un ritiro tormentato e tormentoso,
in cui tutto è da controllare e non esiste una naturalità che non sia minacciosa. In questa situazione
in cui il corpo diventa un carcere ed il paziente ne è il carceriere/carcerato, il cibo - che da sempre
rappresenta il primo contatto col mondo e la cui assunzione simbolizza contemporaneamente le
leggi della natura e della società - assume l'aspetto del desiderio e della trasgressione e diventa una
sorta di oggetto transizionale privo di valenze evolutive, a cui le pazienti si rivolgono
ossessivamente.
Come affrontare tutto ciò?
Dopo lunghe riflessioni fatte sulle nostre e altrui esperienze terapeutiche e sulla letteratura, ecco le
nostre conclusioni:
intervento sull'individuo che prevede una serie di fasi, di cui la prima, per coloro che si rivolgono a
noi in prima persona, consiste in una serie di sedute individuali di conoscenza ed accoglimento. E
sottolineo la parola accoglimento nel senso più espressivo della sua funzione materna. Le pazienti non
vengono assolutamente colpevolizzate per il loro sintomo ed i loro eccessi alimentari: l'attenzione viene
posta non solo sui disturbi, ma su tutta la loro vita, viene valorizzata e incentivata l'espressione di tutto
ciò che fa parte della loro esistenza oltre al sintomo. Questa funzione materna accettante costituisce, a
nostro avviso, l'unica possibilità di aggancio terapeutico con persone la cui insicurezza, e quindi
diffidenza, verso il mondo, è totale. Ciò non vuol dire che tutti i loro comportamenti debbano essere
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approvati dal terapeuta, specie quelli sintomatici, ma che l'eventuale critica al comportamento sia
chiaramente ed esplicitamente disgiunta dall'accettazione e dalla valorizzazione della persona che lo
agisce.
Questa prima fase è quella che, se ben costruita, ci permette di avviare, in un secondo tempo, le altre
fasi del progetto terapeutico che sono il trasferimento dalla terapia individuale alla terapia di gruppo
e l'inizio del lavoro corporeo.
Il gruppo di terapia è a cadenza settimanale e di tipo omogeneo e prevede 3 sedute mensili di
gruppo e il mantenimento di una seduta individuale. Il lavoro corporeo avviene con la cadenza di
una giornata al mese ed avviene sempre nel gruppo.
Ogni gruppo, nel nostro centro, avviene sempre in co-conduzione.
La co-conduzione ha il senso di riprodurre ad un livello meta una corretta funzione della struttura
familiare con le rappresentazioni della funzione materna e paterna che i terapeuti si apprestano a
impersonare. E' come se nel nostro approccio ci fosse, metaforicamente parlando, una riproduzione,
prima della relazione duale con preminenza materna, poi un oltrepassare la relazione diadica con la
presenza del coterapeuta e del gruppo e con l'inizio di una più sottolineata funzione paterna
all'interno del contratto terapeutico che man mano viene attivato nel passaggio in gruppo.
La nostra esperienza ci ha dimostrato come molto gradita dalle pazienti la presenza nel gruppo
settimanale omogeneo; più difficile e più da accompagnare da parte dei terapeuti la presenza nel
gruppo a mediazione corporea. Ciò ovviamente in quanto l'esperienza parlata fa più parte delle
capacità e risorse di queste pazienti, piuttosto che l'entrare direttamente in contatto con il proprio
corpo dapprima, ed in seguito anche con il corpo altrui. Questo è infatti uno tra i più insuperabili
tabù per chi è soggetto di un disturbo alimentare. Appunto perciò l'inizio di questo lavoro deve
avvenire quando l'aggancio e la fiducia nel terapeuta sono sufficientemente consolidati per non
costituire causa di elevati drop-out.
Vediamo ora come affrontare l'altro soggetto terapeutico di questi disturbi, ossia la famiglia, anche
questa spesso inconsapevole o negante la sofferenza e le difficoltà, ma soprattutto la propria
implicazione se non con la funzione di vittima nel disturbo delle figlie.
Anche in questo caso l'attenzione da dare ai familiari dipende da come avviene la richiesta
terapeutica. Non sempre infatti sono le pazienti che chiedono terapia, bensì, talvolta, la famiglia. In
questo caso la nostra risposta avviene con la convocazione della famiglia intera o di coloro che ci
hanno contattato. Il modello adottato oltre naturalmente a quello gestaltico è quello
sistemico/relazionale. Nel corso di questo primo incontro si raccolgono informazioni su chi e come
è disponibile a collaborare e quindi anche a proporre o meno fin dall'inizio il nostro approccio
globale.
Talvolta la terapia continua anche solo con la famiglia se il paziente è indisponibile e si possono
avere risultati anche in questo modo; talvolta dopo i primi incontri le pazienti iniziano il nostro iter
terapeutico individuale ed allora avviene la valutazione se continuare ancora le sedute di terapia
familiare oppure suggerire ai genitori, alla cui collaborazione noi siamo assolutamente favorevoli e
che giudichiamo indispensabile, di proseguire il loro rapporto con noi in "gruppi di supporto per
genitori", tenuti a cadenza trisettimanale da colleghi che non abbiano in terapia le loro figlie. Questo
allo scopo di iniziare un processo di separazione all'interno del nucleo familiare e di assunzione
delle proprie difficoltà personali.
Nel caso che siano invece le pazienti a contattarci, la possibilità di vedere o vederle con la famiglia
o di interessare quest'ultima alla terapia od ai gruppi di sostegno fa parte integrante dei temi
terapeutici ed è spesso un successo l'ottenere l'interessamento della famiglia stessa, sia da parte
delle pazienti che dei loro familiari.
Fanno parte del nostro approccio terapeutico polivalente, come già accennato, la presenza dello
psichiatra per sostegno farmacologico, dell'esperto nutrizionista ed un contatto privilegiato con un
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ospedale, dai reparti specializzati, in caso di ricovero. Il nostro modo di lavorare avviene
valorizzando tutti gli aspetti della cura dei disturbi alimentari anche se quello psicoterapico ci
caratterizza elitariamente. Il nostro gruppo è formato da psichiatri, psicologi, psicoterapeuti e da un
terapeuta della riabilitazione. I casi vengono seguiti dall'intera équipe con riunioni a cadenza
trisettimanale o mensile e con contatti specifici tra i terapeuti interessati ogni volta che se ne
presenta l'esigenza. Le scuole o formazioni cui facciamo capo sono, per l'approccio individuale e di
gruppo oltre alla già citata Terapia della Gestalt, l'Analisi Transazionale, la P.N.L. e l'Approccio
Sistemico Relazionale e questo nella miglior tradizione gestaltica aperta a tutti i supporti e le scuole
di pensiero che abbiamo possibilità di integrazione.
Le modalità utilizzate nel gruppo sono l'elicitazione di interventi comunicativi e di confronto che,
partendo dal quotidiano (problemi di studio, di lavoro, affettivi), vengono dai terapeuti ricongiunti
con i grandi temi che sottendono il disturbo cercando il difficile superamento della dualità
dicotomica del vissuto e dell'agito delle pazienti. La rielaborazione verbale o la drammatizzazione
dei temi trattati possono svolgersi o come un intervento individuale nel gruppo o come una
partecipazione corale laddove l'argomento abbia aspetti di coinvolgimento collettivo. Talvolta
vengono dati anche compiti o prescrizioni.
Le sedute individuali che intervallano il gruppo hanno il significato di non perdere la relazione
diadica privilegiata e di continuare o più verosimilmente creare, un continuum nella narrazione di
sé.
Per il lavoro sul corpo seguiamo con particolare attenzione ogni aspetto riguardante la dinamica
respiratoria, come elemento-base che compartecipa sia alla dimensione affettivo-emotiva, sia a
quella più squisitamente fisico-posturale allo stesso tempo.
L'intervento diretto in questo campo non arriva che dopo una serie di sedute che precedono e
preparano il "terreno" sia da un punto di vista transferale, sia per quanto riguarda l'iniziale sviluppo
di consapevolezza e capacità introspettiva da parte delle pazienti. Uno dei terapeuti del gruppo
corporeo è anche uno dei terapeuti del gruppo settimanale per sottolineare l’accompagnamento
nella consapevolezza e la continuità terapeutica.
Nella fase iniziale (3-6 mesi), del gruppo corporeo, abbiamo operato soprattutto con tecniche che
mirano ad una vera e propria rieducazione sensoriale e percettiva; poi, creato il gruppo e la
confidenza, si procede all'approfondimento, utilizzando tecniche gestltiche od altre che meglio si
raccordano con queste tra cui:
:
1. "tecniche di contatto", sviluppate da Garda Alexander nell’eutonia;
2. tecniche di rilassamento e di controllo tonico (Jakobson);
3. esercizi mirati allo sviluppo della autofiducia (es. di caduta, disequilibrio, movimenti nello
spazio a occhi bendati, ecc.);
4. esercizi "espressivi" : come
rabbia, “l’aggressività");
il gesto relazionale ("L’abbraccio", "il ricevere", "il dare"," la
5. tecniche di rilassamento e utilizzo di fantasie guidate;
6. tecniche di respirazione :
a)ascolto/percezione della dinamica respiratoria senza apportare
alcuna modifica;
b) respirazione in varie posizioni del corpo nello spazio;
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c) attivazione della respirazione costo-diaframmale;
d) respirazione e comunicazione: uso della voce;
7. tecniche di psicodramma.
Siamo talvolta ricorsi anche al lavoro davanti allo specchio e del rivedersi nelle riprese con la
videocamera.
La chiusura di ogni giornata corporea avviene con il feed-back immediato sull'esperienza: le
riflessioni successive vengono elaborate nella terapia settimanale.
Per la terapia familiare ci riferiamo prevalentemente all'approccio sistemico/relazionale
soprattutto sul modello di Whitaker, il più gestaltico dei sistemici od il più sistemico del
gestaltisti.
Per il gruppo genitori l’intervento si basava oltre che su elementi di Gestalt Counselling
sull’utilizzo di A.T. e dell'approccio psico-educazionale.
Piuttosto che seguire un'unica scuola il nostro gruppo, cui appartengono terapeuti con più
formazioni, ha preferito integrare elementi provenienti da scuole diverse, ma che, a nostro
avviso, meglio rispondono di volta in volta all'esigenza dei D.A.P. in generale e dei casi specifici
in particolare.
Le esperienze di cui ci riteniamo maggiormente soddisfatti sono i gruppi settimanali omogenei
ed il gruppo di lavoro corporeo, che hanno dato risposte positive massicce ed, in alcuni casi,
immediate. Sono ancora aperte riflessioni sulla messa a punto della metodologia del gruppo
genitori che, pur avendo apportato buoni risultati in alcuni casi, riguardo al
distacco/individuazione genitori/figli ha avuto il più elevato numero di drop-out.
Ci siamo chiesti se questo sia un elemento positivo o negativo. Negativo se rappresenta il
disimpegno riguardo alla propria responsabilità, positivo se rappresenta quel distacco parentale
talvolta auspicato in questi tipi di famiglie.
Per tirare delle conclusioni generali, dopo anni di riflessione ed intervento terapeutico, il nostro
gruppo non può non ritenersi soddisfatto da questa esperienza e soprattutto motivato alla
continuazione/diffusione di questo modello di lavoro ed alla riflessione sui suoi risultati al nostro
interno e all'esterno.
Con questo concluderei la mia presentazione, lieta se questa sarà stata in grado di muovere qualche
interesse ed una vostra riflessione - dibattito sulla nostra metodologia nell'affrontare questi disturbi.
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