GESTALT

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GESTALT
Contrari al metodo elementista di Wundt, per il quale la psicologia deve “scomporre
ogni fenomeno nei suoi aspetti elementari per ottenere unità semplici e non
ulteriormente riducibili”1, la psicologia della Gestalt pensa che la qualità di un
fenomeno psicologico non sia data dagli elementi singolarmente presi di cui esso è
composto, ma dalle relazioni che intercorrono fra di essi, dalla loro struttura: “Il
vero passo dei gestaltisti è l’abbandono programmatico di qualsiasi teoria che faccia
leva su entità, aspetti o caratteristiche di tipo elementare”2. La scuola della Gestalt
sostiene quindi una forma radicale di olismo psicologico: le Gestalten (e le
configurazioni strutturate in genere) precedono i loro costituenti e non sono fondate
su elementi psicologici a esse precedenti. La psicologia della Gestal, perciò, mette in
dubbio l’esistenza stessa delle sensazioni (gli “atomi psichici”).
Max Wertheimer aveva effettuato nel 1910 una serie di esperimenti sulla percezione
del movimento apparente, o movimento phi, com’egli stesso lo aveva chiamato. Gli
esperimenti consistevano sostanzialmente nel proporre a breve distanza di tempo ad
un soggetto in una stanza buia l’immagine di un medesimo oggetto, ora alla sua
destra, poi alla sua sinistra. Ciò che il soggetto percepiva non erano due immagini
distinte, ma lo spostamento di uno medesimo oggetto dalla sua destra alla sua sinistra.
Tramite siffatti esperimenti, i gestaltisti addivengono a formulare alcuni principi
teorici, volti ad evidenziare la non-sommatività degli elementi psicologici. Essi
mettono in luce la priorità che le globalità hanno nel determinare il ruolo delle parti
che lo compongono:
1) “Il tutto è più della somma delle parti” (nell’esempio sopra: il soggetto percepisce
qualcosa di più che non due immagini a sé stanti);
2) Una medesima parte ha caratteristiche diverse se presa singolarmente o se inserita
in un tutto ed ha anche caratteristiche diverse quando inserita in due totalità
differenti.
1
2
P. LEGRENZI (a cura di), Storia della psicologia, Il Mulino, Bologna 1982, p.111
ibidem, p.114
1
Inizialmente gli studi dei gestaltisti si sono occupati soprattutto di evidenziare i
processi di auto-organizzazione dell’esperienza percettiva3, ovvero mostrare
“l’inadeguatezza di tutte quelle spiegazioni che potrebbero essere definite ‘teorie del
mosaico’, quei modelli cioè in cui il risultato percettivo è dato dalla giustapposizione
di parti generate da sensazioni tra loro svincolate e non interagenti, come appunto
possono essere le tessere di un mosaico”4. Se per i comportamentisti è solo tramite
l’esperienza che costruiamo la nostra visione del mondo, cosicché identifichiamo
tavoli, seggiole, ecc. in virtù delle numerose esperienze che abbiamo avuto con questi
oggetti nella vita quotidiana, per i gestaltisti gli oggetti si originano “in base ad
autoditribuzioni dinamiche dell’esperienza sensoriale”5.
Buozzi (1966) individuò i seguenti aspetti che caratterizzano la psicologia della
Gestalt:
a) l’atteggiamento fenomenologico, che consiste nell’assunzione dell’esperienza
come verità prima. L’esperienza diretta che io ho, poniamo, della sedia che mi sta
di fronte non è riconducibile ad una serie di sensazioni elementari o ad altro, ma
va presa come realtà autentica e genuina.
b) Il concetto di teoria di campo: la Gestalt pensa che l’ordine presente nelle cose sia
di tipo dinamico. La Gestalt utilizza termini come teoria dinamica, distribuzione di
forze, condizioni di equilibrio, interazioni tra parti, vettori, ecc. Si tratta dunque
per la Gestalt di individuare quelle regole (espresse in termini dinamici) che
sovrintendono l’interazione fra le parti.
c) Postulato dell’isomorfismo. Non semplice da comprendere, il postulato
dell’isomorfismo critica – di nuovo – un paradigma della psicologia
associazionistica, e cioè l’ipotesi della costanza6, in virtù del quale ci dev’essere
una corrispondenza costante fra stimolo e percezione. Per l’associazionismo,
3
Vedi a questo proposito: R. CANESTRARI, La percezione visiva, in Psicologia generale, Clueb, Bologna 1984, pp
145-173
4
ibidem, p.117
5
ibidem, p.119
2
infatti, per dirla con le parole del suo celebre esponente Thorndike, apprendere
significa connettere stimoli ambientali e risposte dell’organismo: la mente non è
che un articolatissimo sistema di connessioni, per indagare la quale occorre
scoprire le specifiche connessioni di intensità variabile esistenti fra gli stimoli
ambientali e le risposte manifeste dell’organismo. Ora, con il fenomeno phi la
Gestalt aveva scoperto che esistono risposte dell’organismo che non
corrispondono a stimoli ambientali. Dal rifiuto dell’ipotesi di costanza, nasce la
teoria dell’isomorfismo, per la quale non esiste una corrispondenza puntuale fra
stimolo e risposta, ma, piuttosto, una più generale somiglianza strutturale fra
complessi gestaltici di stimoli da un lato e fenomeni psichici globali dall’altro. La
percezione, come è già stato detto sopra, non è semplicemente un’interpretazione
a partire da stimoli esterni (collegati in seguito da complessi processi inferenziali e
associativi), ma è caratterizzata fin dal principio da una tendenza alla globalità. La
teoria dell’isomorfismo viene presentata da Köhler in un articolo del 1920 come
teoria generale delle strutture fisiche (per esempio un magnete avvicinato ad altri
magneti ne altera la configurazione spaziale complessiva) il cui uso in psicologia
non ne è che un’applicazione particolare: le Gestalt psicologiche, come le Gestalt
fisiche, obbediscono a leggi di organizzazione.
Nella sua versione più radicale, l’ipotesi isomorfista prevede che determinate
configurazioni di stimoli corrispondano a configurazioni strutturalmente simili nel
campo elettrico del cervello. Tale postulato è stato il terreno di feroci critiche alla
teoria della Gestalt.
Nell’ambito della psicologia del pensiero, la Gestalt ha sottolineato gli aspetti creativi
dell’intelligenza contrariamente al solo procedimento per “prove ed errori” caro ai
comportamentisti.
I
gestaltisti
parevano
propendere
per
una
concezione
dell’apprendimento che avviene in maniera subitanea e discontinua rispetto
6
Cioè: tanto varia lo stimolo, tanto varia la percezione.
3
all’esperienza passata (insight), pur senza che questa venga negata. Wertheimer
parlerà in tal senso di pensiero “produttivo” (1960).
Kurt Lewin applicò le teorie olistiche della gestalt alla psicologia sociale, utilizzando
concetti derivati dalla matematica e dalla topologia (campo, valenza, tensione,
vettore).
Lewin utilizza ad esempio il costrutto di ‘regione’ (indicato graficamente come uno
spazio racchiuso da un confine, detto ‘barriera’) per indicare situazioni di tipo
psicologico. Fra le diverse situazioni psicologiche (cioè fra le diverse ‘regioni’) si
possono instaurare tensioni di tipo attrattivo o repulsivo, che lewin indica con dei
vettori. La mente non è un “sistema unitario”, ma un insieme di ‘regioni’ con gradi
di coerenza estremamente diversi: la persona è una sorta di gerarchia di regioni
alcune tra loro fortemente connesse e funzionalmente dipendenti, altre meno, altre
infine solo debolmente o per niente collegate.
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