BERGSON (1859-1941) 1 – Vita e opere Henri Bergson nasce a Parigi nel 1859 da famiglia ebrea di origine polacca. Dopo gli studi liceali, durante i quali dimostra già uno spiccato interesse per gli studi scientifici, si iscrive alla Scuola Normale di Parigi, dove segue i corsi del filosofo spiritualista Émile Boutroux, laureandosi sia in filosofia che in matematica. Dopo la laurea approfondisce la sua preparazione filosofica sui testi del filosofo evoluzionista Herbert Spencer. Per il conseguimento del dottorato in filosofia nel 1889 presenta due tesi, una complementare su Aristotele e quella principale intitolata: Saggio sui dati immediati della coscienza, che rappresenta anche il suo primo importante lavoro filosofico. In questo saggio discute criticamente i concetti di spazio e tempo, prendendo le distanze dalla tradizionale impostazione meccanicistica e inaugurando una nuova attenzione alla dimensione qualitativa, tipica della concreta esperienza vissuta. Una nuova teoria dell’esperienza viene infatti elaborata nell’opera del 1896, Materia e memoria, in cui il filosofo affronta l’analisi della vita della coscienza a partire dal presupposto (tipico dello spiritualismo francese) dell’autonomia della coscienza rispetto alla materia. La teoria è “nuova” soprattutto rispetto al paradigma positivistico fino ad allora imperante che, a partire proprio dal fondatore Auguste Comte, aveva escluso la possibilità di una trattazione “scientifica” della vita interiore in quanto oggettivamente “non osservabile”. Dopo la pubblicazione di Materia e memoria (che tra l’altro suscitò l’interesse di Marcel Proust, di cui Bergson sposò una cugina), nel 1897 diventa “Maître de conferences” all’École normale e in seguito, nel 1899, viene chiamato al College de France, dove il suo insegnamento ottiene un grande successo di pubblico. Nel 1900 pubblica, sempre con successo, il saggio Il riso, in cui espone le sue teorie sull’arte. Nell’Introduzione alla Metafisica, del 1903, Bergson mette a punto e rende esplicito il metodo dell’”intuizione”, ovvero il metodo della filosofia che, diversamente dal metodo “analitico” delle scienze, ci permette di accedere ai contenuti interiori della coscienza. Dal 1907, con la pubblicazione de L’evoluzione creatrice, Bergson inaugura una seconda fase della sua riflessione filosofica. Mentre prima il nucleo del suo pensiero era la vita della coscienza, ora è la vita dell’intero universo, concepita come lo slancio di una forza spirituale, libera e creatrice, che si manifesta in tutte le forme dell’esistente. Questa reinterpretazione dell’evoluzionismo (si pensi agli studi su Spencer) è accomunata alla prima fase della sua ricerca (gli studi sul “tempo della coscienza”) dal comun denominatore vitalistico, dall’idea cioè che la realtà è flusso, durata, slancio creatore che si articola in discontinuità qualitative. Successivamente a L’evoluzione creatrice Bergson si dedica ad una sintesi del suo pensiero filosofico con L’energia spirituale (1919) e ad un serrato confronto critico con la teoria della relatività ristretta di Einstein in Durata e simultaneità (1922). A questo proposito bisogna ricordare che il 6 aprile del 1922 Bergson si confrontò pubblicamente con Einstein alla Socièté française de Philosophie, dove ebbe modo di ribadire il suo punto di vista critico nei confronti dell’approccio matematizzante del grande scienziato tedesco. Nel 1928 gli viene assegnato il premio Nobel per la letteratura. Nel 1932 pubblica quella che si può considerare la sua ultima grande opera: Le due fonti della morale e della religione, in cui Bergson, contrapponendosi al clima di intolleranza diffusosi in Europa con l’avvento dei totalitarismi, difende teoreticamente e appassionatamente una società aperta e una religione dinamica, contro le società chiuse e le religioni statiche. La riprova di questo atteggiamento spirituale e politico la troviamo nelle vicissitudini relative all’ultimo periodo della sua vita. Infatti Bergson, di origini ebraiche, negli ultimi anni si era avvicinato al cristianesimo (cattolico), ritenuto più coerente con le sue posizioni filosofiche, ma rinuncia ad una vera e propria conversione proprio di fronte all’avvento del nazismo, alle leggi razziali e alla conseguente ondata di antisemitismo, preferendo “restare tra quelli che domani saranno perseguitati”, come dichiarò nel testamento redatto in data 8 febbraio 1937. Durante l’invasione tedesca di Parigi, nel 1939, Bergson rifiuta qualsiasi trattamento di favore, che pure gli era stato offerto in virtù della sua fama, per condividere il destino della restante comunità ebraica. Muore, infatti, il 4 gennaio 1941 nel settore ebraico di un ospedale di Parigi occupata dai nazisti. Nel frattempo, nel 1934, aveva pubblicato una raccolta di saggi e conferenze, dal titolo Il pensiero e il movimento, contenente l’Introduzione alla Metafisica del 1903. 2 – Tra “spiritualismo” e “positivismo” Anche se lo stereotipo “scolastico” e le comprensibili esigenze tassonomiche ci presentano generalmente un Bergson “spiritualista” e anti-scientifico, la realtà del suo pensiero è più complessa. Certamente di matrice spiritualista (da Maine de Biran a Boutroux) è la difesa del primato e della libertà della coscienza rispetto alla materia, l’indefinibilità del rapporto tra l’io e le sue azioni, ma è altrettanto certo, come si evince dal breve quadro biografico, l’interesse del filosofo per la matematica e le scienze fin dagli studi giovanili in un ambito culturale positivista. Il successivo allontanamento dal positivismo non deriva dall’esigenza spiritualista francese di difendere la religione cristiana, ma dalla convinzione che il riduzionismo meccanicistico, tipico del positivismo, non riesce a dare una spiegazione dei “dati immediati della coscienza”, ovvero della vita interiore del soggetto. La cultura positivista, adottando la metodologia delle scienze, aveva privilegiato una visione del reale tutta centrata sulle relazioni quantitative tra i fenomeni, poiché la loro conoscenza è funzionale all’azione e, quindi, alla manipolazione della realtà: “scienza, donde previsione; previsione, donde azione” era il motto della dottrina della scienza comtiana. Ma, così facendo, l’intelligenza scientifica, nel ridurre la realtà alla sola dimensione quantitativa (o “spaziale”) con fini pratici, non si pone nei confronti di essa in termini di verità o falsità, ma di utilità ai fini della sopravvivenza e dell’accrescimento del dominio dell’uomo sulla natura. Quindi Bergson non contesta alla scienza il legittimo scopo di migliorare l’azione dell’uomo sul mondo, ma la pretesa (in virtù della sua capacità di costruire strumenti e macchine a tal fine) di porsi come “vera” rappresentazione del mondo, oltrepassando così i limiti della sua legittima funzione. Questa critica, non tanto alla scienza, ma alle sue pretese totalizzanti, non viene mossa però dal punto di vista di un ingenuo “introspezionismo”, bensì liberando il terreno dalla confusione, comune sia ai deterministi che ai loro avversari, tra durata e estensione, successione e simultaneità, qualità e quantità. Prendendo in considerazione le ricerche che si svolgevano nei nuovi laboratori di psicologia sperimentale o “psicofisica” (Wundt, Fechner, Helmoltz), Bergson si rendeva perfettamente conto di questa confusione concettuale. In particolare egli contesta l’uso della nozione di intensità per descrivere sia gli stati psichici sia i fenomeni fisici. Come osserva Adriano Pessina: <<Prendendo in esame diversi stati psichici, Bergson mostra come alcuni di essi (tra cui il sentimento di sforzo) siano solidali con aspetti fisiologici, mentre altri, come il senso estetico, i sentimenti morali o le passioni, non si lasciano facilmente ricondurre ad un mutamento fisiologico preciso. In ogni caso, comunque, le variazioni della coscienza sono sempre di natura qualitativa e differiscono da quelle corporee che possono averle suscitate, o a cui sono legate: i due fenomeni rimangono tra loro irriducibili e non ci sono ragioni sufficienti per applicare alla coscienza i criteri con cui si analizzano le realtà corporee. … quella che la psicofisica tratta come una variazione quantitativa è in realtà una trasformazione qualitativa: tra la percezione di una puntura e il dolore c’è una differenza qualitativa, che rischia di essere misconosciuta quando, per consuetudine linguistica, parliamo di passaggio dall’una all’altra come se avessimo a che fare con un fenomeno omogeneo>>1. Ogni vissuto della coscienza (che già dal primo Saggio si chiamerà “durata”) può manifestarsi all’uomo non attraverso le categorie dell’intelletto “spazializzante”, ma grazie ad un atto di intuizione o “simpatia”. Quest’ultima, anche se troverà la sua giustificazione gnoseologica solo più tardi (con l’Introduzione alla Metafisica del 1903) è già in atto, nella prima riflessione filosofica di Bergson, come strumento metodologico per trasportarci all’interno del fenomeno esperito, fin quasi a coincidere con esso e coglierne ciò che ha di essenziale ed unico. 3 – Tempo della scienza e tempo della vita La “confusione” tra quantità e qualità tipica delle scienze, in particolare della Psicologia sperimentale, viene trattata in riferimento al problema del tempo nel Saggio sui dati immediati della coscienza (1889). Se si riflette approfonditamente sulla nozione di tempo della fisica (che risale ad Aristotele), e sull’uso degli orologi nella vita pratica quotidiana, si “scopre” che esso è essenzialmente spazio o, come si esprime Bergson, “tempo spazializzato”. Infatti, le esigenze di calcolo della meccanica e l’organizzazione della vita quotidiana hanno prodotto una concezione del tempo strettamente dipendente dal problema della sua misurabilità. Ora, da questo punto di vista, il tempo non è altro che la misura del movimento, ovvero di un punto che si sposta uniformemente nello spazio. La divisione dello spazio percorso in un certo numero di intervalli tutti uguali, piccoli a piacere, fornisce le cosiddette unità di tempo, con relativi multipli e sottomultipli che rendono possibile la calcolabilità matematica. 1 Adriano Pessina, Introduzione a Bergson, Laterza, Bari, 1994, pp. 7-8 Dalle più antiche meridiane (che si basavano sul rapporto tra il moto rotatorio della Terra e il Sole) alla clessidra, fino alle lancette dell’orologio che scorrono sul quadrante, sempre si tratta di linee o punti (o “corpi puntiformi”) che percorrono con velocità uniforme uno spazio (curvo o rettilineo) che viene poi suddiviso in intervalli regolari. In questo modo il tempo della scienza risulta un prodotto dell’intelletto che, astraendo dalle differenze qualitative, fa di esso una successione ordinata nello spazio di istanti (o intervalli) omogenei e uniformi, anche se distinti gli uni dagli altri. Infatti, per poter “contare” le unità di tempo che passano, bisogna fare astrazione dalla loro individualità qualitativa e trattarle tutte come identiche, proprio come accade quando si contano raggruppamenti di oggetti più o meno diversi fra loro (gli alunni di una classe, un gregge di pecore, ecc.) trascurando le loro differenze individuali e distinguendoli solo per il fatto che occupano diverse porzioni dello spazio. Diversamente da quanto sosteneva Kant nella Critica della ragion pura, per Bergson lo spazio, come prodotto spontaneo dell’attività intellettiva, non svolge una funzione unificatrice dei dati sensibili, ma permetta l’analisi e la distinzione. Inoltre questo tempo quantitativo è discontinuo, ripetibile e reversibile. Discontinuo poiché le unità che lo compongono (secondi, minuti, ecc.) sono “discrete”, ovvero separate spazialmente e non formano un flusso continuo, come accade per esempio in una melodia musicale. Ripetibile perché ogni unità è qualitativamente identica all’altra e quindi priva di individualità e unicità. Reversibile in quanto, tornando indietro nella serie temporale, non si incontra una realtà passata qualitativamente diversa dalla realtà presente, ma si ripete semplicemente l’enumerazione di unità spaziali uniformi e omogenee tra di loro. Ora, secondo Bergson questa forma di tempo non è “sbagliata”, anzi è utile all’uomo per lo studio scientifico dei fenomeni e per l’applicazione tecnologica che ne consegue, ma non può pretendere, in virtù dell’autorevolezza della scienza, l’esclusiva dell’unicità e della “verità”. L’alternativa proposta da Bergson è quella del tempo vissuto o tempo della coscienza. Questo tipo di tempo, che “scorre” dentro di noi, viene chiamato anche “durata reale”, per non confonderla con la durata cronometrica degli eventi. Infatti, mentre quest’ultima è quantitativa e spaziale, la durata reale è qualitativa poiché i vari momenti che la compongono non sono mai paragonabili tra di loro sulla base della loro ampiezza, essendo vissuti sempre in modo diverso dalla nostra coscienza. Si pensi, per esempio, ai cinque minuti di una donna che sta partorendo un bambino, rispetto ai cinque minuti di quella stessa donna in una tranquilla passeggiata; oppure ai dieci minuti di intervallo vissuti da uno studente, rispetto ai dieci minuti di una noiosa lezione scolastica. Quindi, nonostante l’omogeneità spaziale delle unità di tempo, la “durata reale” è fatta da intervalli eterogenei tra di loro che, inoltre, sono avvertiti dalla coscienza come un flusso continuo, un fluire ininterrotto di stati di coscienza, ognuno dei quali “preannuncia quello che lo segue e contiene quello che lo precede”, in modo tale che, mentre li viviamo, non siamo in grado di dire quando finisce l’uno e quando comincia l’altro: “Orologio molle” – Particolare di: La Persistenza Della Memoria, Salvador Dalì (1931) - The Museum of Modern Art, New York <<...come avviene quando ci ricordiamo le note di una melodia fuse, per così dire, insieme. Ma non si potrebbe dire che, sebbene queste note si succedano, noi le percepiamo comunque le une nelle altre, e che il loro insieme è paragonabile a un essere vivente le cui parti, per quanto distinte, si compenetrano per l’effetto stesso della loro solidarietà? La prova di ciò è che quando andiamo fuori misura insistendo più del necessario su una nota della melodia, ciò che ci avverte del nostro errore, non è la sua esagerata lunghezza in quanto tale, ma il cambiamento qualitativo che in questo modo abbiamo apportato all’insieme della frase musicale. È quindi possibile concepire la successione senza la distinzione come una compenetrazione reciproca, una solidarietà, una organizzazione intima di elementi, ciascuno dei quali, pur rappresentando il tutto, può essere distinto e isolato solo mediante un pensiero capace di astrazione. È certamente questo il modo in cui un essere contemporaneamente identico e mutevole, che non avesse alcuna idea dello spazio, si rappresenterebbe la durata2. Ma familiarizzati con l’idea dello spazio, addirittura ossessionati da essa, l’introduciamo a nostra insaputa nella rappresentazione della pura successione; giustapponiamo i nostri stati di coscienza in modo da 2 La dimostrazione empirica di questa ipotesi bergsoniana si trova nelle ricerche di Psicologia genetica di Jean Piaget del 1946 (Lo sviluppo della nozione di tempo nel bambino, La Nuova Italia, FI, 1979). Nei bambini di età prescolare la nozione del tempo è intuitiva e si fonda da un lato sulla percezione dell’ordine di successione degli eventi, dall’altro sulla valutazione soggettiva delle durate basandosi, per esempio, sullo sforzo compiuto o sulla stanchezza. In seguito, però, vivendo immersi nella civiltà tecnologica occidentale (che è lo sfondo culturale degli studi piagetiani), i bambini imparano ad astrarre dal vissuto soggettivo e a considerare solo i dati cronometrici, ovvero il tempo spazializzato. percepirli simultaneamente, non più l’uno nell’altro, ma l’uno accanto all’altro; in breve, proiettiamo il tempo nello spazio, esprimiamo la durata attraverso l’estensione, e la successione assume per noi la forma di una linea continua o di una catena, le cui parti si toccano senza penetrarsi>>3. Mentre gli intervalli di tempo tra le note sono “spazialmente” identici, ogni singola nota, all’interno della melodia prodotta dalla loro successione, assume un significato musicale ed una tonalità emotiva diversa dalle altre. La concezione “spazializzata” del tempo viene anche paragonata da Bergson ad una collana di perle i cui grani (tutti uguali tra di loro) sono meccanicamente accostati gli uni agli altri, senza compenetrarsi reciprocamente, mentre il fluire della “durata reale” viene paragonato all’arrotolarsi di un filo su un gomitolo “poiché il nostro passato ci segue, e s’ingrossa, senza sosta, del presente che raccoglie sul suo cammino”. Per questo motivo ogni momento della coscienza è irripetibile perché è il risultato di tutti i momenti precedenti e, quindi, assolutamente nuovo rispetto ad essi. Tali momenti sono quindi differenti qualitativamente, anche se in realtà non possono essere distinti l’uno dall’altro se non quando sono già trascorsi: “coscienza significa memoria”. L’io vive il presente con la memoria del passato e l’anticipazione del futuro; passato e futuro possono vivere soltanto in una coscienza che li salda nel presente. Così l’intero svolgersi di un’esperienza (la “durata reale”) è anche irreversibile. Mentre tutti i procedimenti scientifici, in quanto fondati sui rapporti spazio-temporali tra i fenomeni, devono essere ripetibili e reversibili, nel tempo vissuto non è mai possibile tornare indietro poiché la durata è una sequenza continua che si accresce, sia per accumulazione successiva, sia per mutua compenetrazione dei fatti di coscienza. La Persistenza Della Memoria, Salvador Dalì (1931) The Museum of Modern Art - New York Con questi “orologi molli” (definiti dallo stesso Dalì il “formaggio camembert dello spaziotempo”) deformabili e adattabili alle superfici su cui poggiano, il pittore surrealista invita l’osservatore a riconsiderare la concezione del tempo. Per il senso comune l’orologio, con la sua rigidità e precisione “geometrica” è sicuramente lo strumento razionale per eccellenza: permette di misurare il tempo e scandisce le nostre esigenze empiriche quotidiane. L’orologio che si scioglie, invece, non può misurare il corso del nostro tempo, perché esso varia secondo la psiche e gli attimi della vita di ciascuno di noi. I due orologi dilatati (quello sospeso all’albero e quello adagiato sul parallelepipedo) ricordano che la durata di un evento può essere dilatata nella memoria, secondo quanto sosteneva lo stesso Bergson, il terzo orologio deformato (avvolto su una strana forma) è il simbolo del modo in cui la vita distorce la forma geometrica e l’esattezza matematica del tempo meccanico. Questi tre orologi deformati, sul punto di sciogliersi al sole, rappresentano, perciò, l’aspetto psicologico del tempo, il cui trascorrere, nella soggettiva percezione umana, assume una velocità e una connotazione diversa, interna, che segue solo la logica dello stato d’animo e del ricordo. L’unico orologio non deformato è ricoperto di formiche, che sembrano divorarlo, quasi ad indicare l’annullamento di un tempo cronologico e dello strumento razionale per eccellenza che ha sempre permesso di misurare il tempo e di dividerlo, in modo da piegarlo alle esigenze pratiche quotidiane e a quelle della scienza. 3 Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, in Opere, 1889-1896, Mondadori, MI, 1986, pp. 59-60 Che il tempo della vita sia irripetibile e irreversibile lo sa bene il protagonista della Recherche4 di Marcel Proust. Infatti, anche se l’ultima parte della monumentale opera si intitola Il tempo ritrovato (titolo che si giustifica solo per la funzione salvifica attribuita da Proust all’arte che, cogliendo e fissando l’essenza delle cose, riesce a sottrarle “poeticamente” al flusso deformante del tempo) essa rappresenta una strenua ed impari lotta contro il divenire temporale che travolge e disintegra tutte le sensazioni e le cose. In particolare, l’impossibilità per il protagonista di possedere interamente l’amata Albertine non dipende tanto dalla sua fuggevolezza o infedeltà, ma per una ragione più profonda: perché l’azione del tempo ha già contribuito a formare in quel determinato modo la persona di Albertine e al suo innamorato non sarà più possibile recuperare quel passato che non ha vissuto con lei, dal quale è stato escluso per sempre, e trasformarlo in esperienze condivise. Così la coscienza di Albertine (che, dal punto di vista di Bergson, altro non è che memoria) rimane inaccessibile per il suo innamorato che, anche tenendo prigioniera presso di sé la giovane donna, è costretto a constatare con struggimento che può solo sfiorare il chiuso involucro dell’essere amato, la cui vita interiore profonda gli rimane preclusa. Il presente di Alberatine, come di ogni altro essere umano, non è solo un fotogramma che si aggiunge a tutti i fotogrammi del passato, bensì il risultato di una compenetrazione tra tutti i ricordi passati e il presente a formare la continuità della coscienza in perenne ristrutturazione di se stessa. Sul concetto di durata come continuità, rispetto al tempo concepito come somma di intervalli omogenei, si possono confrontare le due seguenti opere futuriste: Dinamismo di un cane al guinzaglio (1912) di Giacomo Balla – Buffalo, New York (collezione privata) In quest’opera l’autore rappresenta la continuità del movimento (ossia lo spostamento continuo di un oggetto nello spazio) ripetendo più volte in posizioni diverse, ma attigue, la stessa forma, come si può notare dalle zampe, dalla coda e dalla testa del cane, ma anche dai piedi della donna e perfino dal guinzaglio. È lo stesso principio sfruttato dalla tecnica cinematografica che raggiunge l’apparenza del moto con la proiezione rapida e consecutiva di immagini immobili e diverse. 4 Forme uniche della continuità nello spazio (1913); bronzo di Umberto Boccioni – Milano, Galleria d’Arte Cont. In questa scultura la figura umana in movimento veloce (che ha già raggiunto una posizione e si accinge a procedere oltre) è ancora presente nello spazio precedente, perché sulla nostra retina restano le immagini, ma soprattutto perché il moto è continuo e noi (a differenza di come viene rappresentato da Balla nel Dinamismo di un cane al guinzaglio) lo percepiamo in sintesi. Boccioni, infatti, ricerca “una forma unica che sostituisca al vecchio concetto di divisione, il nuovo concetto di continuità”, appellandosi proprio alla filosofia di Bergson secondo la quale è arbitraria ogni separazione della materia in corpi indipendenti, con contorni esattamente determinati. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Einaudi, Torino, 2008, XXIX-2340 pp. Se la vita interiore si caratterizza per la compenetrazione e la reciproca integrazione di tutti gli elementi che la compongono, vuol dire che la simultaneità, e non la successione, è l’essenza dei fenomeni della coscienza. Il carattere essenziale dello spazio (il mondo degli oggetti in cui la coscienza opera) è l’esteriorità reciproca dei suoi elementi, per cui la determinazione di un evento da parte di quelli che lo precedono (successione causale) è l’unica spiegazione possibile. “Ma l’essere profondo della coscienza è un flusso indivisibile, in cui nessun istante si lascia isolare dall’altro e dunque non ha senso dire che l’uno determini l’altro. Per esempio, non ha senso dire che un motivo x determina l’atto di volere y, perché x e y sono una realtà sola che si determina da sé: nella durata, dunque, noi siamo liberi” 5. Libertà che, oltre a manifestarsi nell’identità del passato col presente, constatiamo con l’irruzione, nel presente, del futuro (nelle forme della progettualità) non prevedibile con le leggi del determinismo causale. Quindi, quando scorgiamo che alcuni nostri atti scaturiscono dalla totalità della nostra personalità, allora noi siamo liberi. Ma non sempre, se non raramente, i nostri atti scaturiscono da questo nucleo profondo della coscienza (io profondo o fondamentale), spesso sono dettati dal nostro io superficiale (o parassitario) che, stando a contatto con il mondo spazializzato, subisce gli automatismi dell’abitudine, tra i quali hanno particolare incidenza le pressioni sociali. I rapporti tra l’io superficiale, che ostacola la libertà assoluta della coscienza (teorizzata dallo Spiritualismo classico), e l’io profondo non vengono affrontati nel Saggio, ma costituiscono il tema centrale di Materia e memoria, del 1896. RIEPILOGO DELLE DUE CONCEZIONI DEL TEMPO TEMPO DELLA SCIENZA TEMPO DELLA VITA Tempo dell’orologio Tempo della coscienza Quantitativo (“spazializzato”) Qualitativo (interiore) Omogeneo Eterogeneo Discontinuo Continuo Ripetibile Irripetibile Reversibile Irreversibile 4 – Materia e memoria: ricordo puro, ricordo-immagine e percezione Il sottotitolo di Materia e memoria: “Saggio sulla relazione tra il corpo e lo spirito”, rende subito esplicito il filo conduttore dell’opera. Infatti, nonostante il Saggio del 1889 si concludesse con la tesi della libertà dell’io come “durata”, contro i tentativi di lettura dello psichico in funzione del fisico (come accadeva nella psicofisica), ora Bergson deve fare i conti con l’epifenomenismo, ovvero il tentativo di ridurre la mente al cervello, come conseguenza delle indagini di Broca, l’interpretazione delle afasie come esito di lesioni cerebrali e l’ipotesi di una localizzazione cerebrale dei ricordi. I nuovi studi sul cervello, organo della percezione e guida dell’azione, pongono quindi il problema dei rapporti tra anima e corpo, tra spirito e materia e, di conseguenza, portano Bergson a confrontarsi con le tesi dello spiritualismo e del materialismo. Lo spiritualismo, nella sua forma estrema (alla Berkeley), riduce la materia ad una produzione dello spirito; mentre il materialismo (Hobbes, Taine), secondo l’ipotesi epifenomenista della fisiologia, fa dello spirito un effetto della materia. La critica delle due tesi contrapposte porta Bergson ad elaborare una concezione biologica della percezione che ne mette in rilievo il ruolo pratico per la sopravvivenza: “Quando il materialista e l’idealista, su due fronti opposti, cercano di dar ragione dell’esperienza, ora facendo sorgere la coscienza dalla materia, ora riducendo la materia al suo essere percepito, commettono il medesimo errore: ritengono che la percezione abbia un ruolo teoretico, sia una prima forma di conoscenza” 6. 5 6 Francesca Occhipinti, Logos, Vol. 3, Einaudi Scuola, MI, 2005, p. 612 Adriano Pessina, Introduzione a Bergson, cit., p. 19 Per sostenere la tesi del ruolo pratico, e non teoretico, della percezione, Bergson parte dalla tesi dell’identità tra materia e immagine, ovvero dalla tesi che la materia non è altro che un insieme di immagini. Queste immagini non sono solo nostre rappresentazioni (come vorrebbe l’Idealismo), ma hanno una loro esistenza autonoma; al tempo stesso, pur avendo un’esistenza indipendente dal soggetto, non sono l’effetto di “cose” di natura diversa dalla rappresentazione stessa (come vorrebbe il Realismo), ma sono, appunto, immagini. In questo mondo delle immagini, spicca quella del corpo: in quanto materia è anch’esso un’immagine che, però, ha la caratteristica di poter agire sulle altre immagini mediante la percezione, funzione del cervello. In questa concezione “olistica” dell’esperienza non esiste una differenza di natura tra le immagini, ma solo di grado, tra il loro essere e il loro essere percepite. Che cosa distingue le immagini “semplicemente esistenti” dalle immagini che vengono anche percepite? Per tentare di rispondere si deve ritenere che nella rappresentazione cosciente vi sia meno della totalità delle immagini o materia. Infatti, le nostre rappresentazioni (sia di natura percettiva, sia prodotte dalla libera immaginazione) sorgono dalla messa tra parentesi, o dall’oblio, di tutte quelle immagini depositate nella memoria che nell’immediato non ci interessano e, per contro, nella concomitante messa a fuoco di quelle che ci interessano ai fini dell’azione. Quindi la rappresentazione è una funzione della libertà della coscienza poiché esprime il superamento dell’automatismo percettivo, ovvero l’intervallo che intercorre tra stimolo e risposta, la quale, lungi dall’essere immediata, può essere scelta dal cervello tra più opzioni. E’ qui che si affaccia il fenomeno della memoria come dimensione dello spirito indipendente dalla materia. Per Bergson, come per Platone, “conoscere è ricordare”, non in modo meccanico, come nella “memoria abitudine” (che serve, per esempio, per imparare una poesia dividendola in parti e ripetendola, quindi “spazializzandola”), ma la “memoria pura”, fatta di tutti i momenti irripetibili del passato, che sempre si rinnovano perché sempre si compenetrano tra loro. Se riflettiamo bene, ci rendiamo conto che noi non percepiamo che il passato. Infatti, ogni nuova conoscenza, anche la più istantanea, presuppone tutta la moltitudine delle esperienze passate più la loro interpretazione attuale che rende irripetibile ogni presente. Vediamo allora come, secondo Bergson, si rapportano tra loro le due memorie sopra citate nel fenomeno della percezione: <<Ci sono, dicevamo, due memorie profondamente distinte: l’una, fissata nell’organismo, è semplicemente e soltanto l’insieme dei meccanismi intelligentemente costruiti che assicurano una conveniente replica alle diverse interpellanze possibili. Essa fa sì che ci adattiamo alla situazione presente e che le azioni subite da noi si prolunghino da sole in reazioni …. Abitudine piuttosto che memoria, essa mette in atto la nostra esperienza passata, ma non ne evoca l’immagine. L’altra è la vera memoria. Coestensiva alla coscienza, trattiene e allinea gli uni di seguito agli altri tutti i nostri stati via via e man mano che si producono, lasciando ad ogni fatto il suo posto e, di conseguenza, segnandolo con la sua data, muovendosi realmente nel passato definitivo e non, come la prima, in un presente che ricomincia senza soste. Ma, distinguendo profondamente queste due forme della memoria, non ne avevamo mostrato il legame. Al di sopra del corpo, con i suoi meccanismi che rappresentano lo sforzo accumulato delle azioni passate, la memoria che immagina e ripete aleggiava, come sospesa nel vuoto. Ma, se noi percepiamo sempre soltanto il nostro passato immediato, se la nostra coscienza del presente è già memoria, i due termini, che prima avevamo separato, si salderanno intimamente insieme. Considerato da questo nuovo punto di vista, in effetti, il nostro corpo non è nient’altro che la parte invariabilmente rinascente della nostra rappresentazione, la parte sempre presente, o piuttosto quella che, in ogni momento, è appena passata. Esso stesso immagine, questo corpo non può immagazzinare le immagini, poiché fa parte delle immagini ….. Ma quest’immagine tutta particolare, che persiste in mezzo alle altre e che chiamo il mio corpo, costituisce ad ogni istante…il luogo di passaggio dei movimenti ricevuti e rinviati, il tratto di congiunzione tra le cose che agiscono su di me e le cose sulle quali agisco, la sede, in una parola, dei fenomeni sensorio-motori. Se rappresento con un cono SAB la totalità dei ricordi accumulati nella mia memoria, la base AB, posta nel passato, rimane immobile, mentre il vertice S, che raffigura in ogni momento il mio presente, avanza senza sosta e senza A B sosta tocca anche, così, il piano mobile P della mia attuale rappresentazione dell’universo. In S si concentra l’immagine del corpo; e quest’immagine, che fa parte del piano P, si limita a ricevere e a rendere le azioni emanate da tutte le immagini di cui si compone il piano. La memoria del corpo, costituita dall’insieme dei sistemi sensorio-motori che l’abitudine ha organizzato, è, dunque, una memoria quasi istantanea, a cui la vera memoria del passato serve da base. Siccome esse non costituiscono due cose separate, siccome la prima è soltanto, dicevamo, la punta mobile inserita grazie alla seconda P nel piano mobile dell’esperienza, è naturale che queste due funzioni si prestino un mutuo sostegno. Da un lato, in effetti, la memoria del passato presenta ai S meccanismi sensorio-motori tutti i ricordi capaci di guidarli nel loro compito e di dirigere la reazione motoria nel senso suggerito dagli insegnamenti dell’esperienza: in questo consistono precisamente le associazioni per contiguità e per somiglianza. Ma, d’altra parte, gli apparati sensorio-motori forniscono ai ricordi impotenti, cioè inconsci, il modo di prendere corpo, di materializzarsi, insomma di diventare presenti. Perché un ricordo riappaia alla coscienza, infatti, bisogna che discenda dalle alture della pura memoria fino al punto preciso in cui si compie l’azione. In altri termini, è dal presente che parte il richiamo al quale risponde il ricordo, ed è dagli elementi sensorio-motori dell’azione presente che il ricordo prende il calore che dà la vita>>7. In sintesi: da un lato la memoria pura fornisce alla memoria-abitudine il materiale per il suo funzionamento, poiché alcuni ricordi puri, raccolti nella coscienza, si traducono in ricordi-immagine (o abitudini) che condizionano la percezione; d’altro lato, solo quest’ultima consente ai ricordi puri, depositati nei luoghi più lontani e profondi della coscienza, di ripresentarsi e di “materializzarsi” in abitudini e quindi in azioni, ovvero in risposte alla situazione attuale, riferite direttamente ai ricordi-immagine e indirettamente ai ricordi puri. Quindi il corpo, tramite il cervello, seleziona le immagini, ma esso non svolge tutte le funzioni psichiche, poiché anche le abitudini più meccaniche hanno la loro origine nella memoria pura, dimensione dello spirito, e questo consente a Bergson di fondare il suo “antipositivismo” e giustificare la libertà dell’uomo, tipica rivendicazione dello spiritualismo francese. I risultati di Materia e memoria (in particolare la traduzione dei ricordi puri in ricordi-immagine nella percezione) hanno avuto notevoli ricadute in ambito artistico-letterario nei primi decenni del ‘900, per esempio nel “cubismo orfico” di Robert Delaunay e nella poetica di Marcel Proust. Tour Eiffel (1910) di Robert Delaunay – New York, Guggenheim Museum Nel dipingere questa Tour Eiffel (come tante altre dello stesso autore) l’artista esprime l’identità di percezione e immaginazione. Partendo da un’immagine spaziale che gli è nota e familiare fin dall’infanzia, l’autore la caratterizza con una molteplicità di rapporti sincronici e diacronici depositati nell’inconscio della sua memoria. La città in cui è cresciuto Delaunay, la città inconscia che si porta dentro, è Parigi; il suo simbolo visibile, l’accento del suo spazio urbano, è la Torre Eiffel. Ecco allora che sulla tela prende corpo l’immagine interiore di quel simbolo così radicato nell’humus urbano di Parigi: “ed ecco la vediamo abbarbicata alle case vicine; incombe sulla città; ed ecco la vediamo inclinarsi sui tetti delle case; balza verso il cielo ed ecco è in mezzo alle nuvole, che le scoppiano intorno come granate antiaeree; dà alla città una spinta ascensionale, ed ecco le case borghesi proiettate nel cielo…percezione e fantasia, lanciate sulla stessa traiettoria, fanno lo stesso cammino” (8). 8 7 8 Bergson, Materia e memoria, Laterza, Roma-Bari, 1996, pp.127-129 G. C. Argan, L’arte moderna, 1770-1970, Sansoni, Firenze, 1977, p. 522 Per quanto riguarda la letteratura, invece, nel primo volume della Ricerca9 di Proust il narratore-protagonista descrive come, in una fredda giornata invernale, il sapore di un pezzetto di madeleine inzuppata nel tè (casualmente preparatagli dalla madre) abbia provocato in lui un complesso rapporto di sensazioni e analogie, che andavano ben al di là del piacere fisiologico. Il piacere che lo invadeva, tutt’a un tratto lo rendeva indifferente alle vicissitudini della vita, alle sue calamità, alla sua brevità illusoria, come accade agli innamorati; tutt’a un tratto cessava di sentirsi mediocre, contingente, mortale. Si rendeva conto che l’origine di quel piacere non stava nella madeleine, ma in lui, essa lo aveva solo risvegliato. Quel sapore era quello del pezzetto di madeleine che la domenica mattina, a Combray, la zia Léonie gli offriva quando andava a salutarla nella sua camera, dopo averlo intinto nel suo infuso di tè o di tiglio. Da qui la marea dei ricordi, sepolti nella memoria della sua infanzia, si affollavano davanti alla sua coscienza: la vecchia casa grigia sulla strada, la città, la piazza dove lo mandavano prima di colazione, le vie dove andava in escursione dalla mattina alla sera, tutti i fiori del giardino e del parco di Swann, le ninfee della Vivonne e la buona gente del villaggio, e le loro casette, e la chiesa, e tutta Combray e i suoi dintorni; tutto quello che veniva prendendo forma e solidità, tutto sorgeva dalla sua tazza di tè. 5 – Scienza e metafisica, ovvero: analisi e intuizione Nelle due opere già analizzate (Saggio sui dati immediati della coscienza e Materia e memoria) era in atto, se pur implicitamente, un metodo, quello dell’intuizione, che ora, con Introduzione alla metafisica, del 1903, Bergson intende esplicitare e giustificare, proprio come intendeva fare Cartesio con il suo Discorso sul metodo. Bergson parte dalla distinzione, ricorrente nella storia del pensiero (a partire da Platone), tra due forme irriducibili di conoscenza: la prima, riconducibile al sapere scientifico, implica che si giri intorno alla cosa, dipendendo quindi dal punto di vista in cui ci si pone e dai simboli con cui ci si esprime; la seconda, prerogativa della filosofia, implica che si entri nella cosa stessa, senza riferirsi ad alcun punto di vista e senza avvalersi di simboli. La prima forma di conoscenza si ferma al relativo, mentre la seconda cerca di attingere l’assoluto. <<Prendiamo ad esempio il movimento di un oggetto nello spazio. Io lo percepisco in modo diverso a seconda del punto di vista, mobile o immobile, da cui lo guardo; lo esprimo diversamente a seconda del sistema di assi o di punti, a cui lo riferisco, vale a dire, a seconda dei simboli con cui lo traduco. E lo chiamo relativo per questa doppia ragione: che, in un caso come nell’altro, mi pongo all’esterno dell’oggetto medesimo. Quando parlo di un movimento assoluto, ciò avviene perché attribuisco al mobile un interno e qualcosa di simile a stati d’animo, e perché simpatizzo con gli stati, e mi inserisco in essi con uno sforzo d’immaginazione. Allora, se l’oggetto sarà fermo o in movimento, se adotterà un movimento o un movimento diverso, non proverò la medesima cosa: e ciò che proverò non dipenderà né dal punto di vista che posso scegliere intorno all’oggetto, dato che sarò dentro all’oggetto medesimo, né dai simboli con cui posso cercar di tradurlo, dato che avrò rinunciato a qualsiasi traduzione per possedere l’originale. In breve, il movimento non sarà più colto dall’esterno e, in qualche modo, di dove son io, bensì dall’interno, in se stesso. Possiederò un assoluto. Prendiamo ancora un personaggio di romanzo, di cui mi vengono raccontate le avventure. Il romanziere potrà moltiplicare i tratti del suo carattere, far parlare e agire il suo eroe quanto vorrà: tutto ciò non equivarrà al sentimento semplice e indivisibile che proverei se, per un istante, coincidessi con il personaggio medesimo. Allora azioni, gesti e parole mi sembrerebbero fluire naturalmente, come dalla loro fonte. Non si tratterebbe più di accidenti che s’aggiungono via via all’idea che mi facevo del personaggio, arricchendolo sempre più senza mai arrivare a completarlo: il personaggio mi sarebbe dato d’un sol tratto nella sua totalità; e i mille incidenti che lo rivelano, in luogo di aggiungersi alla sua idea e di arricchirla, sembrerebbero, al contrario, venirne fuori, senza tuttavia esaurirne o impoverirne l’essenza. Tutto ciò che mi si narra della persona, mi fornisce altrettanti punti di vista su di essa; tutti i tratti che me la descrivono, e che non possono farmela conoscere se non con altrettanti paragoni con persone o cose già conosciute, sono segni con cui la si esprime più o meno simbolicamente. Simboli e punti di vista mi collocano dunque all’esterno di essa: non mi danno di essa se non ciò che ha di comune con altre e non le appartiene in proprio. Ma ciò che essa propriamente è, e costituisce la sua essenza, non lo si può percepire dall’esterno, perchè è, per definizione, interiore, né si può esprimere con simboli, perché è incommensurabile con qualsiasi altra cosa. Descrizione, storia e analisi mi lasciano, quindi, nel relativo: solo la coincidenza con la persona stessa mi darebbe l’assoluto. In questo senso, e in questo senso soltanto, assoluto è sinonimo di perfezione. Tutte le fotografie di una città, prese da tutti i punti di vista possibili, per quanto si completino indefinitamente le une con le altre, non varranno mai quell’esemplare in rilievo che è la città in cui si va a passeggio. Tutte le traduzioni di un poema in tutte le lingue possibili, per quante sfumature aggiungano alle sfumature e, correggendosi a vicenda con una specie di ritocco reciproco diano un’immagine sempre più fedele del poema che traducono, non renderanno mai il senso interiore dell’originale… Per la stessa ragione, senza dubbio, si sono spesso identificati “assoluto” e “infinito”. Quando io voglia comunicare a qualcuno che non conosca il greco l’impressione semplice che mi dà un verso d’Omero, prima gli tradurrò il verso, poi 9 Proust, Alla ricerca del tempo perduto, cit. gli commenterò la mia traduzione, poi svilupperò il mio commento e, di spiegazione in spiegazione, mi avvicinerò sempre più a ciò che voglio esprimere: ma non vi arriverò mai … Visto dall’interno un assoluto è, dunque, qualcosa di semplice; ma visto dall’esterno, cioè relativamente ad altro, diviene, in rapporto a quei segni che lo esprimono, la moneta d’oro di cui non si sarà mai finito di dare il resto. Ora, ciò che si presta nel medesimo tempo a una apprensione indivisibile e ad una enumerazione inesauribile, è, per definizione, un infinito. Ne viene che un assoluto non può essere dato che per intuizione, mentre tutto il resto dipende dall’analisi. Intuizione chiamiamo qui la simpatia per cui ci si trasporta all’interno di un oggetto, in modo da coincidere con ciò che esso ha di unico e, conseguentemente, di inesprimibile. L’analisi, al contrario, è l’operazione che riporta l’oggetto a elementi già conosciuti, vale a dire comuni a questo oggetto e ad altri. Analizzare consiste, dunque, nell’esprimere una cosa in funzione di ciò che essa non è… Detto ciò, si vedrà senza fatica che la scienza positiva ha , abitualmente, la funzione di analizzare. Essa lavora, anzitutto, su simboli … Se esiste un mezzo per possedere una realtà assolutamente invece di conoscerla relativamente, per porsi in essa invece di assumere punti di vista su di essa, per averne l’intuizione invece di farne l’analisi, insomma, per coglierla all’infuori di qualsiasi espressione, traduzione o rappresentazione simbolica, la metafisica è proprio questo. La metafisica è, dunque, la scienza che pretende di fare a meno dei simboli>> 10. Ma come può questa metafisica “senza linguaggio” comunicare la realtà profonda che, di tanto in tanto (“ove sia possibile”), qualcuno riesce a cogliere con il “colpo d’occhio” dell’intuizione? La risposta sta, da un lato, nello stile di scrittura dello stesso Bergson, ricco di figure, paragoni, metafore che ci guidano nel percorso di avvicinamento all’interno dell’oggetto di cui, però, solo un atto finale di “auscultazione interiore” può farci cogliere il senso autentico; dall’altro, Bergson suggerisce la via che, dall’intuizione della propria durata coscienziale, può portarci, per via analogica, alla realtà delle cose esterne, fino a “sentirne palpitare l’anima”. Questa metafisica intuizionista e immaginativa, che si avvale dell’introspezione e della metafora, che pretende semplicemente di cogliere il “nocciolo” della realtà, ha influenzato moltissimo l’arte contemporanea, in particolare il futurismo di Boccioni, che fa del “dinamismo” e della “simultaneità” i concetti basici della sua realizzazione artistica. “Dinamismo”, poiché ogni realtà è, bergsonianamente, “durata”, cioè un continuum in divenire; “simultaneità”, poiché la realtà vera delle cose non sta in una loro “fotografia” prospettica o in una somma di punti di vista, ma nella totalità diveniente di tutti i possibili punti di vista. La città che sale (1910) di Umberto Boccioni Milano Pinacoteca di Brera Se invece di “contemplare” la città come spettatori, ci immergiamo in essa come attori, riusciamo a cogliere intuitivamente la vita che pulsa intorno a noi come un flusso inarrestabile. Nel quadro scorgiamo il moto vorticoso della moderna città industriale, accentuato dal dinamismo dei cavalli, simboli del lavoro, con vivide linee di forza pluridirezionali e le verticali dei pali, nel cantiere edile sullo sfondo, che danno l’idea dello sviluppo ascensionale della città. In questa visione non è possibile focalizzare un oggetto, poiché, simultaneamente, con la “coda dell’occhio” percepiamo tutto il complesso e tumultuoso ambiente circostante di cui esso fa parte; percepiamo, per analogia con noi stessi, la “durata” della città. 10 Bergson, Introduzione alla metafisica, Laterza, Roma-Bari, 1970, pp.41-46 Bergson, nell’Introduzione alla metafisica, aveva affermato che i concetti scientifici stanno alla conoscenza intuitiva della vita come un servizio fotografico relativo a una città sta alla sua conoscenza diretta. Così Boccioni, in alcuni suoi quadri, cercò di tradurre questo concetto, rappresentando una città contemporaneamente da una molteplicità di punti di vista: Visioni simultanee (1911) di Boccioni La strada entra nella casa (1911) di Boccioni - Sprengel Museum, Hannover - Von der Heydt-Museum, Wuppertal Nella Prefazione al catalogo della mostra futurista del 1912, alla galleria BernheimJeune di Parigi, Boccioni stesso descrive così La strada entra nella casa: “Dipingendo una persona al balcone vista dall’interno noi non limitiamo la scena a ciò che il quadro della finestra permette di vedere; ma ci sforziamo di dare il complesso di sensazioni plastiche provate dal pittore che sta al balcone: brulichio soleggiato della strada, doppia fila delle case che si prolungano a destra e a sinistra, balconi fioriti ecc. Il che significa simultaneità d’ambiente, e quindi dislocazione e smembramento degli oggetti, sparpagliamento e fusione dei dettagli, liberati dalla logica comune e indipendenti gli uni dagli altri”. L’atmosfera caotica della vita cittadina irrompe nella silenziosa intimità dell’abitazione privata; il cantiere operoso, la strada, le case, la stanza si compenetrano reciprocamente. Persino scalpitanti cavallini rossi, sbalzati dalla strada, prorompono al di qua del balcone attraverso la ringhiera da cui si affaccia la madre del pittore. D’altra parte, anche chi osserva il quadro è catapultato nella stessa sensazione di immersione totale del soggetto nelle forze vive della città, nelle infinite relazioni tra gli oggetti. Il compenetrarsi, sovrapporsi e intersecarsi delle cose è reso dalle verticali che diventano oblique in relazione alle varie posizioni assunte dall’osservatore nel giro di pochi attimi. Mentre i personaggi di un Manet si limitavano a “contemplare” serenamente la vita cittadina dalle loro finestre, lo sguardo “attivo” della donna di Boccioni sembra “assorbire” nel suo stato d’animo la vita che la circonda. La distinzione tra intuizione metafisica e analisi scientifica non deve far credere che lo scopo di Bergson sia quello di svalutare la scienza. Come già osservato nel Par. 2, il procedimento scientifico “risponde ad un interesse pratico dell’uomo, in quanto applicare un concetto alla realtà, leggere il nuovo in funzione del noto, significa chiedersi che cosa si possa fare della realtà, o che cosa possa fare la realtà per noi uomini. E poiché gli interessi dell’uomo sono spesso complessi, anche le prospettive conoscitive variano” 11 Allora l’errore non sta nell’uso scientifico dell’intelligenza, ma nella sua indebita applicazione ad ambiti che le sono estranei, come accade con la filosofia che, per sua natura, pretende di costituirsi come un sapere disinteressato. Se l’intuizione diventa l’organo della filosofia, non va però intesa romanticamente come una forma irrazionale di conoscenza, sentimento o confusa empatia, poiché essa ha un metodo. Si tratta di un metodo dicotomico (di ispirazione Platonica) volto a individuare i concetti puri, che consiste nello “scomporre i misti”, cioè le nozioni che contengono più concetti confusi tra loro, distinguendo in esse differenze di grado (puramente quantitative, quindi “spaziali”) e differenze di natura (qualitative), come aveva già fatto Bergson negli studi 11 Adriano Pessina, Introduzione a Bergson, cit., p. 36 sul tempo, la percezione e la memoria: vi sono, per esempio, differenze di grado tra i tempi dell’orologio, ma differenze di natura tra tempo misurato e tempo vissuto; differenze di grado tra percezioni, ma differenze di natura tra percezione e memoria. Durata e simultaneità (1922) A proposito del concetto di simultaneità, così spesso utilizzato in questo paragrafo, occorre ricordare che, nel 1922, Bergson pubblica Durata e simultaneità. A proposito della teoria di Einstein. Il filosofo vuole arrivare a distinguere ciò che è reale e ciò che è simbolico nella nuova fisica. Quest'ultima è certamente superiore alla fisica classica sul piano del calcolo, ma non ne rappresenta un superamento sul piano metafisico. Per comprendere questa differenza di piani, e non fraintendere il senso filosofico della temporalità presente nella teoria della relatività, occorre tematizzare il passaggio dal punto di vista fisico a quello matematico. Per Bergson due avvenimenti sono simultanei tra loro quando sono di fatto simultanei alla coscienza che li percepisce, poiché la coscienza è il presupposto ineliminabile di ogni misurazione. Ora, in fisica, sono compresenti due concetti di simultaneità: intuitiva o assoluta, interna agli avvenimenti, e relativa ad un ipotetico osservatore esterno. E’ noto l’esempio dei treni utilizzato da Einstein nella versione divulgativa della sua teoria per cui, attraverso i calcoli, risulterebbe che due avvenimenti (l’emissione di due raggi luminosi), simultanei per un osservatore immobile posto lungo la via, sarebbero invece successivi per un osservatore posto sul treno in movimento. Ma secondo Bergson questa differenza appartiene solo al modello fisico-matematico. Per spiegarsi meglio egli propone l’esempio dei due pittori, posti ad una certa distanza, uno di fronte all’altro, che devono ritrarre due persone, Gianni e Giacomo, rispettivamente al loro fianco. Ogni pittore dipingerà a grandezza reale il modello che ha al suo fianco, mentre rappresenterà quello lontano come un nano. Da questa legittima rappresentazione non si può certo concludere che Gianni e Giacomo siano diventati effettivamente piccoli, anche se i pittori che li ritraggono da lontano sono autorizzati a rappresentarli così. Ebbene, secondo Bergson, questo “esperimento” è analogo a quello dei due gemelli, esposto al Congresso di Bologna del 1911 da Langevin, per esprimere la teoria della relatività: se di due gemelli, Pietro e Paolo, Pietro viene lanciato nello spazio ad una velocità prossima a quella della luce e, raggiunta una stella, tornasse poi sulla Terra, secondo i calcoli della teoria della relatività, mentre Pietro avrà vissuto due anni, Paolo sarà invecchiato di duecento anni. Ma Bergson obietta che, assumendo il movimento come reciproco, poiché non esiste sistema preferenziale, non si può affermare chi dei si allontana e chi resta fermo, quindi chi dei due invecchia e chi resta giovane, poiché se si assume il punto di vista del viaggiatore sarà la terra ad allontanarsi e quindi sarà il viaggiatore ad invecchiare di duecento anni. Dovremmo allora concludere paradossalmente che, di volta in volta, i due fratelli vivono o due o duecento anni. Per interpretare filosoficamente la tesi della relatività di Einstein, secondo Bergson, bisogna allora dire che il tempo reale è sempre uno solo (vissuto o vivibile) mentre gli altri sono solo tempi fittizi, ovvero matematici: il rallentamento degli orologi per la velocità del loro spostamento, nella teoria della relatività, è tanto esatto e reale quanto il rimpicciolimento degli oggetti per la loro distanza dall’osservatore. Invece, così come il rimpicciolimento degli oggetti che si allontanano rimane un valido mezzo, per l’occhio, di notare il loro allontanamento, allo stesso modo il rallentamento dell’orologio che si sposta è un mezzo, per la teoria della relatività, per notare lo scarto tra la velocità del sistema mobile a cui l’orologio è attaccato e la velocità, supposta nulla, del sistema di riferimento. Bergson conclude ironicamente le sue considerazioni facendo notare che i fautori della relatività, sostenendo che i tempi, pur essendo multipli, sono tutti reali, si comportano come se Pietro, che si era allontanato da Paolo e sembrava rimpicciolito, una volta tornato da Pietro si presentasse realmente come un nano. In conclusione, dal punto di vista spiritualistico del pensatore francese, quanto non è direttamente sperimentato dalla coscienza, ma solo simbolicamente rappresentato o astrattamente concettualizzato, non può essere conosciuto, ovvero non esiste, in quanto non esiste per la coscienza stessa. 6 – Lo “slancio vitale” e l’evoluzione creatrice Nelle pagine conclusive dell’Introduzione alla metafisica Bergson, trattando dell’idea di tempo in riferimento ai sistemi filosofici occidentali, ne individua l’errore di fondo nell’aver assunto l’intellettualismo greco come unico modello di conoscenza. Si tratta di un tipo di pensiero (da Platone a Plotino) che privilegia l’immutabile rispetto al mobile e che vede il passaggio dallo stabile all’instabile come una diminuzione d’essere. Ora, per Bergson, la verità è il contrario: la realtà che cogliamo con l’intuizione è autenticamente in divenire, mentre la mobilità trattata dalla scienza è solo una costruzione simbolica. A partire da questi risultati Bergson, con L’evoluzione creatrice (1907) affronta la domanda sul senso globale della vita, riformulandola a partire dai dati della biologia contemporanea. L’indagine bergsoniana accoglie, come dato di partenza, la tesi biologica secondo la quale l’intelligenza è il prodotto di un processo evolutivo che, dalle forme più elementari di vita, conduce all’uomo, svolgendo la funzione di favorirne l’adattamento e l’azione nel suo ambiente. Ma, essendo la stessa teoria evoluzionistica un prodotto dell’intelligenza, anch’essa rischia di essere solo uno schema utile, capace di agevolare l’azione dell’uomo sull’ambiente, come accade, secondo Bergson, al “falso evoluzionismo” spenceriano che consisterebbe nel ritagliare la realtà attuale, già evoluta, in segmenti altrettanto evoluti, per poi ricomporla con queste parti, dotandosi così anticipatamente di ciò che invece dovrebbe essere spiegato. Secondo Bergson l’autentica impostazione del problema della vita deve partire dalla domanda circa il significato stesso dell’esistenza. Ora, noi uomini abbiamo la possibilità di accedere al significato dell’esistenza tramite noi stessi, l’unica realtà conoscibile dall’interno senza mediazioni, e, per noi esseri coscienti, il vivere consiste nel mutare, maturando e creando indefinitamente noi stessi nel flusso continuo della nostra “durata”. Ebbene, per Bergson, la realtà assomiglia al flusso di una coscienza: al pari dell’esistenza umana, anche l’universo “dura”. Alla base del divenire cosmico vi è una “esplosione” delle potenzialità immanenti alla materia, uno “slancio vitale” (élan vital) che sospinge in avanti la materia, irradiandosi in tutte le direzioni, anche se in modo disomogeneo. E’ come se una larga corrente di coscienza fosse penetrata nella materia, conducendola all’organizzazione, ma al tempo stesso rallentando e dicotomizzandosi. E’ (come vedremo, solo per modo di dire) la “resistenza della materia” che provoca il frantumarsi dell’unità dello slancio in diverse linee evolutive: MATERIA (élan vital) Inorganico Organico Vegetale Improvvisazione 26 (1912) di Kandinskij - Monaco, Städtische Galerie. In questo slancio di linee ed “esplosione” di colori ci sentiamo proiettati nella tela spinti dalle forze delle diagonali convergenti che premono dall’angolo a sinistra verso il centro, come in una scarica di energia spirituale, simile alla corrente di coscienza dello “slancio vitale”. Animale Istinto Intelligenza Intuizione <<La vita tutta, sia animale che vegetale, in quel che ha di essenziale, appare, pertanto, come uno sforzo per accumulare energia e per sprigionarla poi in canali flessibili, deformabili, all’estremità dei quali essa effettuerà lavori infinitamente vari. Tale risultato, lo slancio vitale, che attraversa la materia, tende a conseguirlo tutto in un colpo; e ci riuscirebbe certamente, se la sua potenza fosse illimitata o se potesse ricevere qualche aiuto dall’esterno. Invece, esso è finito, ed è stato dato una volta per tutte: non può superare tutti gli ostacoli. Il movimento a cui esso dà l’impulso ora è deviato, ora diviso, sempre contrariato, e l’evoluzione del mondo organico è lo svolgimento di questa lotta. La prima grande scissione che dovette effettuarsi fu quella tra i due regni vegetale e animale, che si son trovati così ad essere complementari l’uno dell’altro, pur senza che vi sia stata tra di essi un’intesa. … A tale sdoppiamento ne seguirono molti altri: di qui le linee divergenti di evoluzione, almeno in quel che hanno di essenziale. Ma bisogna tener conto dei regressi, degli arresti, degli accidenti di ogni genere; e, soprattutto, non dimenticare che ogni specie si comporta come se il movimento generale della vita si arrestasse a essa, invece di attraversarla: ciascuna pensa solo a se stessa, vive solo per sé. Di qui le lotte senza numero di cui è teatro la natura; di qui una disarmonia che colpisce e offende, ma di cui non bisogna rendere responsabile il principio della vita. Grande è, dunque, nell’evoluzione la parte che spetta alla contingenza. Contingenti sono, nel maggior numero dei casi, le forme adottate, o, per meglio dire, inventate. Contingente, e relativa agli ostacoli incontrati in un dato luogo, in un dato momento, la dissociazione della tendenza primordiale in queste o quelle tendenze complementari, che creano linee divergenti di evoluzione. Contingenti gli arresti e i regressi; contingenti, in larga misura, gli adattamenti. Due cose soltanto sono necessarie: 1° un’accumulazione graduale di energia; 2° una canalizzazione elastica di essa in direzioni variabili e indeterminabili, all’estremità delle quali sono gli atti liberi>>12. Finora abbiamo parlato di “materia” come se fosse qualcosa di esistente che si contrappone allo sforzo della coscienza (e lo stesso Bergson ne parla in questi termini); ma se assumiamo (sempre con Bergson) il divenire come originario, allora, con un atto di intuizione filosofica, la materia, che ci appare immobile e definitiva, può essere considerata come un arresto di un processo immateriale. 12 Bergson, L’evoluzione creatrice, Mondadori, Milano, 1956, cap. 3, pp. 227-229 Bergson, infatti, paragona lo “slancio vitale” ad un’onda marina che si infrange in tutte le direzioni e in mille rivoli, ma che, al tempo stesso, con la risacca si oppone all’onda successiva. La grande onda di Kanagawa (1832) di Katsushika Hokusai, Library of Congress, Washington, D.C. La silografia rappresenta tempestose onde che minacciano alcune imbarcazioni nel mare al largo della prefettura di Kanagawa. Come in altre opere appartenenti alla stessa serie, sullo sfondo compare il Monte Fuji. Anche se per consuetudine linguistica continuiamo a parlare di materia come un ostacolo esterno che oppone resistenza allo slancio vitale, essa deve essere invece pensata come un limite interno alla stessa forza di espansione, ovvero alle diverse ramificazioni in cui lo slancio si divide. Per cui è la vita stessa che si “materializza” nel momento in cui una determinata direzione dello slancio vitale esaurisce le sue possibilità, ricadendo su se stessa, proprio come accade alle diverse scintille di un fuoco d’artificio che, arrestandosi a diverse altezze, ricadono verso il basso e cambiano natura da forza viva in “materia” pesante. Così la materia, in questa nuova prospettiva bergsoniana, si risolve nell’unica realtà dello slancio vitale originario, perdendo autonomia e specificità, diventando (rispetto ai precedenti dualismi) una manifestazione dello spirito. “La vita è invenzione”, creazione incessante e Irreversibile di forme e individui sempre diversi, quindi ciò che riserva il futuro non è meccanicisticamente deducibile dal passato. Ma se appare inadeguata un’interpretazione meccanicistica dell’evoluzione, per Bergson, lo è altrettanto quella finalistica: essa presupponendo un programma o un piano prestabilito che gli esseri dovrebbero realizzare, non spiega la spontaneità del divenire. Questo non significa che meccanicismo e finalismo siano invenzioni arbitrarie; esse, come prodotto della nostra intelligenza, rispondono alle esigenze pratiche dell’azione umana nel mondo che necessita di previsioni e calcoli esatti per agire L’oeuvre ultime di Hans Hartung, efficacemente rispetto a uno scopo. esposta con altre sedici tele, realizzate prima della Per mostrare intuitivamente l’inadeguatezza del scomparsa dell’artista, alla Caserma Cosenz di Gaeta meccanicismo e del finalismo rispetto al problema del (dal 26 luglio al 31 ottobre 2009). divenire, Bergson paragona l’evoluzione al moto di una mano nella limatura di ferro che viene compressa e che Dipinti astratti nati da uno slancio vitale che esprime una vera e propria euforia spirituale creativa negli oppone resistenza, fino al punto in cui la mano avrà ultimi giorni di una vita dedicata all’arte. esaurito il suo sforzo e i grani della limatura si saranno giustapposti e coordinati in una forma determinata. Se supponiamo che la mano sia rimasta invisibile (come invisibile è la corrente di coscienza che attraversa la “materia”) alcuni osservatori del fenomeno, i meccanicisti, interpreteranno la posizione assunta da ogni grano come l’effetto dell’azione che i grani vicini esercitano su di esso; altri osservatori, i finalisti, vorranno che un piano d’insieme abbia presieduto ai vari dettagli di quelle azioni elementari. La verità invece è che c’è stato un unico atto indivisibile, quello della mano che ha attraversato la limatura. Il confronto di Bergson con la letteratura biologica sull’argomento dell’evoluzione individua un punto debole anche nella teoria di Darwin. Se è pienamente accettabile l’idea delle variazioni interne agli individui e non dovute causalmente ai processi di adattamento all’ambiente, appare inadeguato il carattere “accidentale” attribuito da Darwin alle variazioni, in particolare l’ipotesi del loro sommarsi in modo favorevole alla sopravvivenza. La vita, per Bergson, non procede per associazione e addizione di elementi, ma per dissociazione e sdoppiamento. Come abbiamo già visto, gli estremi divergenti della stessa tendenza vitale di fondo sono l’istinto e l’intelligenza, soluzioni diverse del medesimo problema della vita. Nel regno animale è come se la coscienza, latente nella “materia”, operasse una progressiva liberazione: <<nelle diverse forme di vita animale si accentua, infatti, una certa indeterminazione nell’adattamento all’ambiente, misurabile dallo “scarto” che intercorre tra le diverse sollecitazioni e le reazioni, sempre meno automatiche. Secondo Bergson, si attua una biforcazione decisiva tra il processo biologico che termina agli artropodi, animali privi di cervello, ma dotati di un sistema nervoso gangliare, e quello che conduce ai vertebrati, in cui compare anche la materia cerebrale. L’stinto degli insetti e l’intelligenza umana… Sia l’istinto, sia l’intelligenza sono funzionali alla vita: ma, mentre l’istinto pone il vivente in diretto contatto con ciò che gli è utile, e gli permette di usare la materia come strumento, l’intelligenza porta l’uomo a fabbricarsi i propri strumenti per poter intervenire sulla materia. La conoscenza, quindi, va innanzitutto riletta in chiave biologica, nella sua funzione operativa…>>13. Ma l’intelligenza ha anche in sé la capacità di superare il proprio schematismo funzionale, grazie alla sua innata propensione a cogliere i rapporti tra le cose. La conoscenza formale, per agevolare l’azione, traccia i confini tra le cose, pensa in termini geometrici, spezzando la continuità del divenire. Il prezzo pagato dall’intelligenza per la liberazione della coscienza dal bisogno immediato (garantendosi la possibilità di riflettere sulla realtà) è la sua separazione dalla vita stessa. Finalmente con l’intuizione, definita come “l’istinto divenuto disinteressato”, Bergson vede la possibilità di una convergenza tra i due: tra la capacità dell’istinto di aderire alle cose dall’interno (ma inconsapevolmente) e l’autocoscienza dell’intelligenza generalizzatrice (ma “esterna” alle cose). Qui l’intuizione, rispetto all’Introduzione alla metafisica del 1903, non è più contrapposta all’intelligenza, ma sembra sorgere dalla stessa radice unitaria. E’ come se la corrente di coscienza che ha attraversato la “materia”, per liberare se stessa, dopo essersi scissa nell’organizzazione vegetale e animale della vita, abbia cercato una via d’uscita nella duplice direzione dell’istinto e dell’intelligenza; non l’ha trovata nell’istinto, ma nell’intelligenza, grazie al brusco salto dall’animale all’uomo che, in questo modo, sembrerebbe (se dovessimo ragionare finalisticamente) la “ragion d’essere” dell’intera organizzazione della vita sul nostro pianeta. Ma nell’uomo istinto e intelligenza, anche se in modo inversamente proporzionale, coesistono e possono trovare una sintesi proprio nell’intuizione, con la quale l’istinto acquista la consapevolezza dell’intelligenza, mantenendo però al tempo stesso l’immediatezza che essa non ha: allora l’uomo non agisce più sulla base dell’interesse contingente e diventa capace di cogliere in modo diretto la realtà. 13 Adriano Pessina, Introduzione a Bergson, cit., p. 48 BERGSON PAROLE CHIAVE Tempo della scienza: tempo dell’orologio, quantitativo o “spazializzato”, che consente la misura del movimento e si presenta come discontinuo, ripetibile e reversibile. Tempo della vita: tempo della coscienza, qualitativo o “durata”, che “scorre” dentro di noi e si caratterizza per essere continuo, irripetibile e irreversibile. Io profondo: io fondamentale, ovvero “nucleo profondo” della coscienza che coincide con la memoria. Io superficiale: io parassitario che, stando a contatto con il mondo spazializzato, subisce gli automatismi dell’abitudine, tra i quali hanno particolare incidenza le pressioni sociali. Psicofisica: Psicologia sperimentale che studia i fenomeni fisici come riflessi di mutamenti fisiologici e viceversa, presupponendo continuità tra il “fisico” e lo “psichico”. Epifenomenismo: tentativo di ridurre la mente al cervello. Materialismo: concezione del mondo e dell’uomo che fa dello spirito un effetto della materia, come nell’ipotesi epifenomenista della fisiologia. Spiritualismo: concezione del mondo e dell’uomo che riduce la materia ad una produzione dello spirito. Materia: secondo la gnoseologia di Bergson essa sarebbe un insieme di immagini. A loro volta queste immagini non sono solo nostre rappresentazioni (come vorrebbe l’Idealismo), ma hanno una loro esistenza autonoma; al tempo stesso, pur avendo un’esistenza indipendente dal soggetto, non sono l’effetto di “cose” di natura diversa dalla rappresentazione stessa (come vorrebbe il Realismo), ma sono, appunto, immagini. Memoria pura: o semplicemente “memoria”, dimensione dello spirito indipendente dalla materia, fatta di tutti i momenti irripetibili del passato (ricordi puri), che sempre si rinnovano perché sempre si compenetrano tra loro. Memoria abitudine: memoria meccanica (costituita da ricordi-immagine) che serve, per esempio, per imparare una poesia dividendola in parti e ripetendola. Intuizione: secondo Bergson è la simpatia per cui ci si trasporta all’interno di un oggetto, in modo da coincidere con ciò che esso ha di unico e, conseguentemente, di inesprimibile. E’ “l’istinto divenuto disinteressato”, una sintesi tra la capacità dell’istinto di aderire alle cose dall’interno (ma inconsapevolmente) e l’autocoscienza dell’intelligenza generalizzatrice (ma “esterna” alle cose). Slancio vitale: élan vital, una sorta di “esplosione” delle potenzialità immanenti alla materia, che sospinge in avanti la materia, irradiandosi in tutte le direzioni. E’ come se una larga corrente di coscienza fosse penetrata nella materia, conducendola all’organizzazione, ma al tempo stesso rallentando e dicotomizzandosi. BERGSON BIBLIOGRAFIA UTILIZZATA Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, in Opere, 1889-1896, Mondadori, MI, 1986 Jean Piaget, Lo sviluppo della nozione di tempo nel bambino, La Nuova Italia, FI, 1979 Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Einaudi, Torino, 2008 Bergson, Materia e memoria, Laterza, Roma-Bari, 1996 Bergson, Introduzione alla metafisica, Laterza, Roma-Bari, 1970 Bergson, L’evoluzione creatrice, Mondadori, Milano, 1956 Adriano Pessina, Introduzione a Bergson, Laterza, Bari, 1994 Francesca Occhipinti, Logos, Vol. 3, Einaudi Scuola, MI, 2005 G. C. Argan, L’arte moderna, 1770-1970, Sansoni, Firenze, 1977