Placebo: l'impossibile causa dell'effetto di Massimo Biondi Non è un farmaco, perché per definizione non esercita nessuna azione specifica sulle malattie e sui disturbi di chi lo prende. Non è "acqua fresca", cioè senza attività, perché può comportarsi come un farmaco e avere perfino effetti collaterali. Non è una pozione magica, perché può essere anche un atto, un atteggiamento, la simulazione di un intervento sanitario. Malgrado oltre 50 anni di studi intensi, malgrado l'uso praticamente quotidiano che se ne fa, malgrado gli enormi progressi compiuti in tutte le discipline scientifiche, il placebo o meglio l'effetto-placebo rimane uno degli "oggetti misteriosi" della medicina. Al principio, ovvero agli inizi del Novecento, tutto sembrava semplice e chiaro. Nel corso degli studi clinici placebo era la sostanza inerte data al gruppo di pazienti che dovevano servire da "controllo" dell'efficacia di un certo prodotto farmaceutico che si voleva sperimentare. Placebo e farmaco attivo dovevano essere confezionati nella stessa maniera, avere la medesima modalità di somministrazione ed essere esteriormente indistinguibili: l'ideale era che tanto il medico quanto il paziente ignorassero la vera natura del preparato utilizzato caso per caso, in modo da evitare ogni pregiudiziale dovuta a suggestione. In un secondo momento, a ricerca conclusa, gli effetti riscontrati nei pazienti che avevano ricevuto la vera sostanza terapeutica sarebbero stati confrontati con le condizioni dei malati che avevano ricevuto il placebo: e per semplice sottrazione numerica si sarebbe potuta dedurre l'azione benefica - se ce n'era - del farmaco sotto esame. Tutto ciò secondo il presupposto che, trattandosi di una sostanza biologicamente inattiva, il placebo non avrebbe potuto avere alcuna conseguenza sulle condizioni cliniche del paziente. L'unico effetto, ovviamente minimo, sarebbe stato quello psicologico della consapevolezza di curare o di essere curato. Con il tempo questo schema semplice si è andato complicando sempre più, per una serie di motivi. In primo luogo ci si è accorti che in molte occasioni un atto medico non può essere controllato con un placebo. Non lo si può fare, ad esempio, quando si tratta di interventi chirurgici impegnativi (aprire e richiudere "per finta" una persona, allo scopo di "vedere" che cosa succede dopo un'operazione vera, serve solo a farsi denunciare dal paziente) o quando l'effetto del farmaco da sperimentare è immediato (ad esempio nel provare una nuova compressa contro il mal di testa il paziente di solito si accorge entro pochi minuti se sta meglio o se ha ingoiato una sostanza senza alcuna attività terapeutica). Ci sono poi circostanze nelle quali l'uso di un placebo appare moralmente riprovevole: quando si sperimenta un nuovo prodotto per una malattia già curabile con altri farmaci, ogni controllo di efficacia andrebbe fatto rispetto alle terapie esistenti e non rispetto al placebo, perché quest'ultimo caso corrisponde a un'omissione di assistenza che nessun medico potrebbe condividere. Di recente il caso dell'Aids ha prospettato una serie di problemi connessi alla sperimentazione con il placebo che in precedenza si erano manifestati soltanto di rado. Dopo i primi anni di disorientamento e disperazione, una prima, fievole speranza si è accesa verificando in laboratorio le proprietà antivirali specifiche di una sostanza divenuta nota come Azt. Iniziata la sperimentazione su un ampio numero di pazienti, secondo il programma ci sarebbero voluti almeno un paio d'anni prima di completare lo studio e decidere se la sostanza fosse davvero efficace: ma già a un controllo preliminare dopo pochi mesi si vide che c'era una differenza notevole tra i malati che seguivano il trattamento con Azt e quelli che invece prendevano il placebo. Nei primi la gravità della malattia si attenuava, talvolta con un chiaro miglioramento delle condizioni generali; tra i secondi tutto procedeva come prima, con i malati che continuavano a peggiorare e a morire senza trarre alcun giovamento dall'essere stati inclusi nella ricerca. La conseguenza fu che lo studio venne interrotto prima del tempo e il farmaco dato a tutti i pazienti che ne avessero fatto richiesta: continuare a somministrare placebo sarebbe stato come negare una speranza di vita a chi era destinato a morire. Di fatto, emerse che l'Azt poteva solo attenuare e ritardare il decorso della malattia, senza curarla: era un effetto chiaramente insufficiente a fini clinici ma che risultava meglio di niente, anche perché allungando le prospettive di sopravvivenza di un malato inguaribile gli si dava l’opportunità di beneficiare di eventuali cure efficaci che fossero state ancora in sperimentazione ma poi approvate per l’uso. Singolare comunque fu quello che accadde poco dopo nella comunità dei sieropositivi, che cercavano in tutti i modi di partecipare ai nuovi studi clinici per ricevere l'Azt e rallentare così il progresso della malattia. Effettuando analisi del sangue dei loro pazienti, i medici si accorsero che quasi tutti i malati di Aids inclusi nelle nuove sperimentazioni avevano preso il farmaco, il che era inspiegabile sapendo che soltanto la metà di loro lo riceveva effettivamente, mentre agli altri veniva dato il placebo. Facendo una rapida indagine, i ricercatori vennero a capo dell'enigma: poiché l'Azt era molto amara e i malati se n'erano accorti, quando ricevevano le capsule del trattamento, senza farsi vedere, le rompevano e le assaggiavano. Poi buttavano via quelle senza sapore (il placebo) e si dividevano le dosi del farmaco. Un simile comportamento rischiava di confondere i risultati degli studi, per cui i ricercatori furono costretti a studiare nuove formule di placebo per renderlo davvero indistinguibile dall'Azt. Questo però aveva posto in tutta la sua urgenza il problema del rispetto della terapia da parte dei pazienti: in una ricerca che non si compie in ospedale, cioè teoricamente sotto il controllo diretto dei medici, come si può essere sicuri che i malati si attengano alle indicazioni ricevute? e che non prendano altre sostanze, oltre quelle che fanno parte dello studio? Quando si tratta di malattie gravi e di disturbi gravemente debilitanti, l'uso del placebo diventa molto problematico, con conseguenze che si ripercuotono sulla valutazione dell'efficacia del farmaco. Ciò che oggi lascia maggiormente perplessi è l'aver accertato che, a dispetto di ogni buona intenzione, il placebo non è mai quella sostanza inerte che si crederebbe, bensì un preparato che si accompagna sempre a una molteplicità di effetti. Andando a riesaminare i lavori che hanno controllato i vantaggi terapeutici di nuovi farmaci, alcuni autori si sono accorti che anche il placebo può avere conseguenze cliniche di opposta natura, non diversamente da tutte le sostanze attive note. I malati che a loro insaputa ingeriscono il placebo possono riceverne effetti benefici, come un'attenuazione dei sintomi, un rallentamento del decorso della malattia, la guarigione totale. Effetti, come si vede, molto diversi dalla sensazione soggettiva di star meglio e che corrispondono a profondi cambiamenti biochimici e organici ben evidenziabili con analisi di laboratorio o strumentali, cioè in maniera oggettiva. Ma il placebo si associa anche ai cosiddetti effetti collaterali, altra conseguenza paradossale che non dovrebbe manifestarsi. Sebbene di solito inferiori a quelli causati dai farmaci attivi, questi disturbi possono essere di varia natura e colpire tutti i sistemi del corpo, con una certa predominanza a carico degli apparati gastrointestinale e nervoso. È stato calcolato che complessivamente il 14% degli individui giovani e il 24% di quelli anziani manifesta almeno un evento indesiderato dopo aver assunto una sola volta una preparazione di placebo; mentre in seguito a un’assunzione ripetuta i valori si modificano, rispettivamente, al 28% e al 32%. E' da specificare che tali effetti negativi compaiono anche nei soggetti sani che si sottopongono volontariamente alle sperimentazioni e che non sono legati a una particolare predisposizione alla suggestione: persone che non lamentano eventi collaterali da placebo in una certa occasione possono soffrirne mentre partecipano a un diverso studio. Notevole poi è il fatto che gli effetti avversi legati alla medesima preparazione di placebo cambino a seconda del tipo di farmaco che si sta controllando. Se questo è specifico per problemi cardiaci, ad esempio, la maggior parte dei disturbi del placebo consiste in un'accentuata sonnolenza, mentre se il prodotto è attivo sul sistema nervoso centrale il placebo causa soprattutto mal di testa. E non meno straordinario è che aumentando il dosaggio del placebo si abbia un aumento degli effetti negativi conseguenti. A livello di opinione comune, per effetto-placebo si intende una conseguenza positiva che si produce a seguito di una causa aspecifica (cioè del tutto generale) che non dovrebbe avere quella conseguenza. Di solito lo si attribuisce all'autosuggestione, come ad esempio nel caso di un miglioramento della salute dopo un atto indifferente che ha l'apparenza di essere significativo, quale potrebbe essere un rituale magico. Questa però è una visione limitativa del fenomeno, che non tiene conto della complessità di tutti i riscontri oggettivi che riguardano la questione. Il ricorso a dinamiche psicologiche semplici non sembra in grado di chiarire la globalità delle manifestazioni biologiche e cliniche osservate: ed è dalla constatazione di tale difficoltà esplicativa che si è prodotto di recente un notevole fermento in campo medico con la nascita di nuove, originali ricerche incentrate sul placebo. Considerato, forse per la prima volta, un vero e proprio oggetto di studio e non soltanto elemento di fondo sul quale misurare il valore e l'ampiezza di un altro effetto importante, come quello terapeutico dei farmaci. La clinica dell’effetto placebo di Roberto Maggioni, M.D. Storicamente, la ricerca sul placebo ha riguardato per lo più sintomi che in varia misura afferiscono alla sfera psicologica, quali la condizione di depressione o il dolore, ed è stato a causa di ciò che si è diffusa la tendenza a ritenere la risposta al placebo non un processo concreto e oggettivo, ma solo una distorsione soggettiva della realtà esperita dai pazienti. Una simile convinzione è del tutto errata, perché è ora chiaro che la risposta al placebo non soltanto è in grado di indurre cambiamenti anche molto evidenti nell’organismo, ma si basa su alterazioni fisiologiche e biochimiche ben definite. Lo dimostra, ad esempio, il fatto che la somministrazione di placebo può stimolare la produzione di endorfine contro il dolore, è in grado di indurre il rilascio di dopamina nei soggetti con morbo di Parkinson, oppure riesce ad alterare il tono delle fibre muscolari a livello bronchiale nei pazienti con asma. Le risposte al placebo, in altri termini, sono reali e concrete come qualunque altra reazione dell’organismo, anche se a produrle è un “agente” di natura diversa da ogni altro. Ciò spiega come mai la definizione di risposta al placebo che si è andata maggiormente affermando negli ambienti della ricerca clinica sia quella di una “attenuazione di un sintomo prodotta da fattori connessi alla percezione che il paziente ha dell’intervento terapeutico”. Nella valutazione sperimentale dei trattamenti farmacologici le risposte spontanee al placebo costituiscono un vero e proprio “inconveniente”, nei cui confronti ci si premunisce ricorrendo a studi controllati e randomizzati, che prevedono cioè l’assegnazione casuale di pazienti con medesime caratteristiche a gruppi diversi, sottoposti poi a trattamenti analoghi fondati su sostanze probabilmente efficaci o su preparati fittizi (placebo). Confrontando ciò che si osserva nei due gruppi di pazienti e sottraendo le risposte al placebo dall’effetto totale riscontrato nel gruppo del preparato attivo, si definisce quella che dovrebbe essere la vera efficacia del farmaco. Nella pratica clinica corrente, invece, la risposta al placebo può avere un impatto decisivo sull’evoluzione di una malattia ed è per questo motivo che ha le potenzialità di diventare uno strumento terapeutico importante sia per i medici che per i pazienti stessi. In generale le risposte al placebo non sono uniformi, cioè identiche in qualunque contesto, ma si modificano notevolmente per qualità, natura e percentuale di incidenza in rapporto alla patologia verso la quale vengono sollecitate (tabella). In ogni caso percentuali anche consistenti di pazienti dimostrano un miglioramento, un’alterazione significativa della propria condizione fisiologica o perfino una guarigione completa, dopo essersi sottoposti a quello che considerano un “trattamento”, anche se in realtà è stato effettuato solo con placebo. Contrariamente a quanto si ritiene di solito, inoltre, queste risposte possono mantenersi per mesi o anni, dimostrandosi dunque assai durature. Disturbo Disturbi affettivi Attacchi di panico Disturbi di personalità Demenza Artrite reumatoide Dolore Cancro % miglioramento trattamento placebo 65 46 49 23 65 35 32 10 45 23 68 21 37 33 Tassi di miglioramento in funzione del disturbo Una difficoltà nella quale ci si imbatte nel valutare le conseguenze a lungo termine del placebo nelle patologie croniche è rappresentata dalla possibilità, tutt’altro che teorica, che questi casi vadano incontro a remissione spontanea. Per una stima corretta dell’effetto del placebo, perciò, quest’ultimo va confrontato non con la situazione registrata all’inizio di uno studio, ma con la storia naturale della malattia. Se si attuano confronti di questo genere, di solito l’ampiezza della risposta al placebo si riduce. Una metanalisi recente relativa a studi sperimentali su sostanze analgesiche ha paragonato il placebo con la storia naturale delle patologie incluse in quei lavori, nei quali i pazienti erano ben consapevoli di poter essere assegnati al gruppo del trattamento attivo o a quello di controllo, e ha stimato l’entità dell’effetto placebo complessivo (effect size) in un valore di 0,15, che è piuttosto modesto. Confrontando invece l’effetto placebo con la storia naturale della malattia nei soli studi nei quali i pazienti erano convinti di subire un trattamento con un farmaco vero, l’effetto è risultato molto maggiore, raggiungendo il livello assai alto di 0,95. Una simile differenza non va sottovalutata, in quanto dimostra che la risposta al placebo può cambiare a seconda del contesto nel quale la sostanza “inerte” viene somministrata. In altri termini, dare il placebo nell’ambito di studi sperimentali o nella pratica clinica corrente è molto diverso e può evocare risposte sensibilmente differenti. Tutte le metanalisi sugli studi clinici sono giunte alla conclusione che le risposte al placebo sono molto frequenti, pur con differenze molto ampie legate al contesto della somministrazione e alla specifica malattia da “trattare”. E risposte particolarmente intense, inoltre, si hanno quando la componente psicologica nella condizione dei pazienti è rilevante. Un’altra metanalisi di studi relativi alla depressione ha evidenziato una dimensione globale di effetto placebo di 0,79; e secondo gli autori del lavoro il 25% dell’effetto attribuito al farmaco antidepressivo sarebbe in realtà dovuto all’evoluzione spontanea della malattia, il 50% al placebo e solo il restante 25% al farmaco stesso. Un buon esempio della sostanziale imprevedibilità della risposta al placebo è fornito da ciò che accade quando si somministrano questi preparati a soggetti con asma. In uno studio recente sul salbutamolo, nel quale si misurava l’aumento del valore massimo del flusso espiratorio, in alcuni pazienti gli inalatori caricati con placebo hanno mostrato un’efficacia pari a 2/3 di quella esplicata dall’agente attivo, mentre in altri non hanno avuto alcun effetto. Per di più, è da tener presente che negli stessi soggetti il placebo talora suscita una risposta attiva, talaltra risulta del tutto inefficace: ed è tutt’altro che facile predire quando si avrà l’una o l’altra reazione. Nella pratica clinica quotidiana, in cui i pazienti si aspettano che venga loro prescritto sempre un farmaco, le risposte al placebo, la storia naturale della malattia e l’efficacia propria del trattamento si intrecciano e si confondono a formare un “mix” inestricabile. Quando un paziente riferisce un miglioramento seguito alla terapia con un agente attivo, è difficile distinguere i contributi relativi di ciascuno di questi fattori. I medici tendono a valutare l’efficacia di un trattamento sulla base della propria esperienza e sono naturalmente inclini ad attribuire i benefici al solo preparato farmacologico. In parte questo è vero, in quanto una sostanza attiva è certamente efficace, tuttavia non va sottovalutato che la sua azione può essere (e in genere è) incrementata dall’effetto placebo. Nei tempi passati, prima dell’avvento della medicina moderna basata su studi ed evidenze, i medici più accorti si servivano consapevolmente dei loro atteggiamenti verso il paziente per alleviare le sue sofferenze o per aumentare le probabilità di suscitare reazioni specifiche. Questo approccio, almeno in parte, altro non era che un modo per creare specifiche “percezioni” nel paziente in grado di alleviare i sintomi della malattia. È chiaro, in altri termini, che non si può considerare il placebo efficace quanto un sofisticato farmaco moderno, ma è altresì certo che anche questo strumento può essere utile, quanto meno per potenziare le risposte di piccola entità indotte da un trattamento poco attivo o addirittura pressoché inefficace. L’effetto aggiuntivo fornito dall’effetto placebo è particolarmente importante nella pratica clinica corrente, e in special modo nell’attività dei medici di famiglia, in quanto l’efficacia di qualunque trattamento può venire incrementata quasi sempre, se si riesce ad agire in maniera opportuna sui fattori che modulano la risposta al placebo. Quattro sono i meccanismi psicologici associati alla risposta al placebo: le attese dei pazienti e dei medici stessi nei confronti del trattamento; una sorta di riflesso condizionato che si instaura nei pazienti alla somministrazione/assunzione dei farmaci; lo specifico rapporto terapeutico che si stabilisce tra medico e assistito; una speciale responsabilizzazione del paziente nei confronti della sua cura. Conoscendo i termini generali secondo cui si svolgono questi processi e sfruttandoli in maniera opportuna, il clinico potrebbe incrementare anche in maniera notevole l’efficacia della propria attività, sollecitando reazioni benefiche nei pazienti che porteranno (lo insegna l’esperienza clinica) a un incremento dei tassi di guarigione e miglioramento. In ciascuno di quegli ambiti il medico potrebbe in realtà determinare un cambiamento fisiologico e una riduzione dei sintomi ricorrendo a effetti mediati psicologicamente, tenendo presente che a effetti psicologici diversi si associano meccanismi fisiologici differenti. In riferimento al fattore “attesa” da parte dei pazienti, ad esempio, i mutamenti fisiologici sembrano quelli che si associano di norma alla percezione di una riduzione della sintomatologia (come può accadere per un incremento di endorfine o di dopamina) piuttosto che quelli in grado di ridurre la patologia nel lungo termine. Gli inalatori con placebo, ad esempio, negli studi effettuati hanno aumentato il picco massimo del flusso espiratorio dei soggetti con asma, ma non hanno ridotto la sottostante infiammazione. Il che non significa che le attese non possano produrre risoluzioni della patologia, ma solo che i meccanismi associati alle aspettative causano più spesso altre cose. Per contro, i cambiamenti fisiologici prodotti dal sostegno sociale e dalla responsabilizzazione sembrano destinati ad avere effetti terapeutici a lungo termine. Un incremento a livello immunitario può avere infatti conseguenze notevoli, quali una riduzione nell’incidenza dei tumori. L’ampiezza e la durata di questo effetto dipendono dal processo o dai processi psicologici stimolati dal medico. Il quale può determinare un’attesa di salute che riduce i sintomi ma non la sottostante patologia, oppure instaurare percezioni e atteggiamenti capaci di influire sui meccanismi fisiopatologici in aggiunta alla sintomatologia. Un modo per massimizzare la risposta al placebo è far ricorso a una comunicazione di buona qualità con il paziente e a una corretta gestione della sua psicologia. Se qui è in ballo qualcosa in più rispetto alle relazioni tradizionali tra medico è paziente, è la necessità di fornire al paziente l’idea di essere seriamente coinvolti dal suo problema ma anche fiduciosi nell’esito del trattamento consigliato. Un atteggiamento di questo genere andrebbe tenuto nei confronti di tutti i pazienti, indipendentemente dalla natura della loro patologia e dal loro temperamento: talvolta porterà a una netta riduzione dei sintomi e/o della patologia sottostante, talaltra non mostrerà grandi effetti. Il placebo è uno strumento delicato e volubile della pratica clinica; ma uno strumento utile, che si dovrebbe imparare ad usare e a sfruttare al meglio. Le attese dei pazienti Le attese dei pazienti scaturiscono dalla loro cultura (intendendo con questo termine l’insieme delle nozioni che si ricevono dall’ambiente, dalla famiglia, dai conoscenti), dalle informazioni fornite dai medici, dal preparato fisico che viene usato per il trattamento (compresse, inalatori, medicazioni ritenute efficaci). I pazienti talora si attendono conseguenze negative, e ciò viene definito effetto nocebo. Casi di questo tipo sono: la cosiddetta “morte per voodoo”, che si produce quando un soggetto che crede nell’efficacia di tali riti viene informato che gli è stata effettuata una “fattura a morte”; e l’isteria di massa (o “contagiosa”), che si sviluppa in un gruppo di persone che in apparenza senza motivo presentano sintomi “enigmatici” quali svenimenti o nausea. I medici dovrebbero essere in grado di gestire le aspettative dei pazienti e considerare le opzioni terapeutiche solo dopo aver verificato quali sono le loro attese iniziali. I pazienti che hanno una percezione negativa di un particolare trattamento beneficeranno più raramente dei vantaggi di quel trattamento, rispetto a coloro che hanno attese positive. Il clinico può anche cercare di indurre attese specifiche, in particolare quando non sono ancora ben strutturate nel paziente: per esempio tentando di trasmettere un’impressione di estrema fiducia nella terapia consigliata. Quando un medico nutre dei dubbi sulle cause dei problemi del paziente e afferma cose del tipo «non so bene di che si tratta», «non so se questo rimedio le farà bene», si dimostra senz’altro molto onesto, però manca di creare una benefica attesa di miglioramento. Il medico deve apparire al paziente assolutamente esperto nella questione che sta trattando, per sviluppare la sua fiducia nella terapia prescritta: il che si ottiene presentando spiegazioni accurate della situazione senza far ricorso a termini tecnici incomprensibili. Gli individui che descrivono vantaggi e svantaggi di un particolare trattamento vengono percepiti più veritieri di chi presenta solo un aspetto della questione. In pari tempo, i pazienti amano avvertire che il loro medico ha davvero a cuore la loro condizione, in quanto una giusta preoccupazione appare garanzia di una prescrizione ottimale. Il riflesso condizionato Il fenomeno dei riflessi condizionati è stato scoperto un secolo fa da Pavlov, con il famoso esperimento dei cani indotti a salivare con il suono di un campanello. Se un paziente esperisce un sollievo da un sintomo dopo aver assunto un farmaco in compresse, il suo sollievo sarà, nel tempo, condizionato dall’assumere compresse. Se una compressa reale viene sostituita con una di placebo, si ottiene ugualmente l’attenuazione del sintomo. Riflesso condizionato e attese si combinano tra loro, così che per esempio l’attenuazione di un dolore diventa più intensa quando il paziente se l’aspetta ed è stato condizionato alla riduzione del sintomo da una particolare terapia. Il condizionamento dimostra anche quanto può essere importante illustrare una certa terapia al paziente. Per capire come mai pazienti soddisfatti del loro tipo di trattamento talvolta trovino che le stesse sostanze confezionate in altro modo esplicano effetti farmacologici inferiori, si deve tener presente che la risposta condizionata a un certo tipo di confezione si perde quando la confezione cambia. Il significato pratico di tutto ciò è che un paziente abituato a un genere di terapia può incontrare difficoltà a passare a un altro tipo: bisogna considerare attentamente questo problema, prima di prescrivere un altro farmaco, o un preparato generico. Il rapporto terapeutico Molti dati sperimentali e osservazionali suggeriscono che i rapporti interpersonali dei pazienti siano un buon indice predittivo di salute. Il sostegno sociale e l’empatia, ad esempio, e in particolare la componente emotiva dei legami interpersonali, influiscono su un’ampia gamma di parametri fisiologici, nei sistemi cardiovascolare, endocrino e immunitario. Ciò è dovuto in parte al fatto che il supporto sociale agisce come una sorta di barriera protettiva nei riguardi dello stress, ma anche che sembra avere effetti fisiologici diretti con una riduzione a lungo termine dello stato di malattia. Il medico rientra nel mondo di relazioni interpersonali del paziente: ed è una figura importante per lui. Non sorprende, perciò, considerare che la qualità del rapporto tra medico e paziente influisce sulla salute e sull’esito stesso della malattia. I medici che adottano un atteggiamento empatico e amichevole, fornendo un sostegno emotivo e cognitivo al malato, prospettano speranze maggiori di quelli che si attengono a uno stile più formale. In particolare, l’approccio centrato sul paziente sembra molto importante ai fini della soddisfazione e dell’esito clinico. Un colloquio ben condotto con un paziente spesso lascia quel paziente molto meglio, anche se non gli è stata prescritta alcuna terapia. Responsabilizzazione Quando gli esseri umani sono posti in condizioni di mancanza di controllo (quando cioè le loro azioni non influiscono in alcun modo sull’esito di una situazione) possono prodursi diversi cambiamenti negativi: sia psicologici, quali la comparsa di depressione, demotivazione e così via; sia fisiologici, del genere associato a uno stress protratto. Non essere indipendenti è una condizione che non fa bene alla salute ed è probabile che perfino un trattamento medico diventi un’esperienza “depotenziante”. Quando i pazienti vengono curati in ospedale, ad esempio dopo un intervento chirurgico, con il passare del tempo le loro funzioni cognitive si abbassano in rapporto al fatto che tutte le loro necessità vengono assolte dal personale infermieristico e di assistenza, indipendentemente da ogni loro partecipazione attiva. Per contro, un’utile responsabilizzazione e autonomia può essere sollecitata incoraggiando i pazienti a operare le scelte per la propria vita. Depotenziante spesso è la malattia stessa. Il medico può contribuire ad arginare il problema fornendo informazioni opportune ai pazienti e coinvolgendoli attivamente nell’assunzione delle decisioni mediante la ricerca di un accordo. In effetti, malgrado i pazienti siano in genere portati a prendere decisioni solo sulla base delle informazioni fornite loro, è meglio dar loro quella opportunità piuttosto che scegliere al posto loro, in quanto l’atto stesso di prendere una decisione favorisce l’autonomia e la reazione, psicologica e fisiologica, dell’individuo.