& Nuove linee guida ACOG per lo screening Tumore al seno Professional Edition ovaio Tumori ovarici progressivi Chemioterapia o nano terapia? Dieta epigenetica E prevenzione del cancro Tumore mammario Varianti genetiche e previsione del rischio IN CL Tr yg ICAL LEAD ve Tolle ER o fsb l 1 Clinical Shot La scienza in immagini Clinical Shot Tumore mammario Le donne anziane con tumori mammari clinicamente linfonodo-negativi potrebbero evitare la biopsia linfonodale senza compromettere le proprie probabilità di sopravvivenza. Questa conclusione deriva da uno studio condotto su 140 donne di età non inferiore a 70 anni con tumori piccoli ed a crescita lenta, in cui è stato riscontrato che la mortalità legata al tumore a 5 anni è del 2,9% anche senza sottoporsi alla procedura. Secondo Armando Giuliano del Cedars-Sinai Medical Center di Los Angeles, nelle donne di questa età con tumore mammario in fase precoce, una biopsia potrebbe non influenzare trattamento o esiti. Nel 2014 l’American Society of Clinical Oncology (ASCO) aveva raccomandato che le pazienti dovessero ricevere più biopsie del linfonodo sentinella che dissezioni linfonodali ascellari; tuttavia non effettuare la biopsia potrebbe evitare potenziali morbidità. Inoltre è stato riscontrato che le raccomandazioni fornite alle pazienti difficilmente cambiano in funzione dei risultati e che la terapia adiuvante viene prescritta di rado, a prescindere dallo status linfonodale. Le donne anziane tendono ad avere tumori mammari a crescita lenta e più problemi medici rispetto a quelle più giovani e, molto spesso, non vanno incontro a decesso per via del tumore. Spesso esse non ricevono chemioterapia perché non la tollererebbero e viene loro prescritta una terapia ormonale a prescindere dai dati bioptici. Secondo alcuni esperti, la biopsia del linfonodo sentinella andrebbe praticata soltanto se risulta determinante ai fini del trattamento. Fonte:JAMA Surg online 2015 8 sh ut t er sto ck Possibile evitare biopsia del linfonodo sentinella nelle anziane 9 10 sh ut te r stoc k Clinical Shot Tumori ovarici avanzati Chemioterapia primaria efficace quanto la chirurgia primaria Nelle donne con una nuova diagnosi di carcinoma ovarico avanzato, la chemioterapia basata sul platino seguita da chirurgia costituisce un’alternativa sicura ed efficace alla rimozione chirurgica primaria seguita dalla chemioterapia. Ciò è stato accertato dallo studio CHORUS, condotto da Matthew Nankivell dello University College di Londra su più di 500 pazienti allo scopo di esaminare la tempistica della chemioterapia prima o dopo la chirurgia, la quale secondo molti esperti rappresenta il problema maggiormente critico che le donne con tumore ovarico affrontano oggi. Nell’ambito di precedenti studi osservazionali, la strategia incentrata sulla chemioterapia primaria sembrava migliorare i tassi di rimozione ottimale della massa tumorale e ridurre le complicazioni della chirurgia, ma due meta-analisi di studi non randomizzati hanno prodotto risultati conflittuali sugli effetti del ritardo della chirurgia sulla sopravvivenza. I risultato dello studio CHORUS ha dimostrato la parità dei due approcci in termini di sopravvivenza, ma grazie alla riduzione sulla morbidità e mortalità associate al trattamento ed alla tendenza ad un miglioramento della qualità della vita per la paziente, la chemioterapia primaria rappresenterebbe una valida opzione per il trattamento di questi tumori. Tuttavia alcuni esperti raccomandano di ricorrere alla chirurgia primaria qualora vi sia la possibilità di eliminare del tutto la lesione senza reliquati di patologia residua, il che rappresenta la migliore possibilità di cura completa per la paziente, ricorrendo se necessario alla chemioterapia intraperitoneale. Secondo alcuni, se le due strategie sono realmente equivalenti, molte pazienti verranno comunque sottoposte a terapia neoadiuvante in quanto essa rende l’intervento più breve e semplice, con maggiore comodità per pazienti, medici ed ospedali, ma ciò implica sia una buona qualità della pratica chirurgica che la certezza del fatto che questa strategia non ponga a rischio la sopravvivenza della paziente stessa. Fonte: Lancet online 2015 11 Clinical Shot Chemioterapia Una singola dose endovenosa di fosaprepitant aiuta a ridurre nausea e vomito indotti dalla chemioterapia. Secondo uno studio di fase III, condotto su 1000 pazienti, l’aggiunta di questo antagonista del recettore NK-1 ad ondansetrone e desametasone produce una risposta superiore del 10% circa rispetto ai soli altri due farmaci nei pazienti sottoposti a chemioterapia moderatamente emetogena. Secondo l’autore, Bernardo Rapoport del Medical Oncology Centre of Rosebank di Johannesburg (Sudafrica), l’agente risulta particolarmente attivo nella fase tardiva, che spesso è sotto diagnosticata. In questa fase, che ricade fra le 25 e le 120 ore dopo il trattamento, la maggior parte dei pazienti si trova lontana dai reparti medici e può non aderire ai regimi di antiemetici orali. il fosaprepitant, poiché viene somministrato in una singola dose, non presenta problemi di aderenza. Nello studio sudafricano il gruppo di controllo ha continuato ad assumere ondansetrone per via orale otto ore dopo la prima dose e poi ogni 12 ore nel secondo e terzo giorno, mentre nel gruppo trattato con fosaprepitant non sono stati somministrati altri farmaci antiemetici. L’introduzione di questo medicinale consente di evitare sia il vomito, sia l’uso di farmaci d’emergenza nel 79% dei pazienti. Secondo alcuni esperti, si tratta di dati affidabili di primo livello a supporto di una pratica che è già stata adottata da molti professionisti. Fonte: Am Soc Clin Oncol online 2015 12 sh ut te r stoc k Singola dose antiemetico riduce la nausea Highlights Nuove linee guida ACOG per lo screening Le linee guida raccomandano che il medico indirizzi la paziente ad un genetista specializzato se lo screening iniziale suggerisce la presenza di un rischio familiare. 14 mutazioni ereditarie su uno o più geni”. La maggior parte di queste sindromi presentano un’ereditarietà autosomica dominante e molti causano tumori che interessano molteplici organi. Gli indizi del rischio di tumori ereditari comprendono diagnosi in età insolitamente giovanile, diversi tipi di tumore nella stessa paziente, molteplici tumori primari nello stesso organo, diversi parenti con lo stesso tipo di tumore, presentazione inusuale di uno specifico tipo di tumore, difetti di nascita associati a sindromi oncologiche ereditarie e tumori mammari tripli negativi o altri tumori suggestivi di sindromi specifiche. Le più comuni sindromi oncologiche ereditarie cor- relate ai tumori ginecologici comprendono sindromi oncologiche mammarie ed ovariche, sindrome di Lynch, sindrome di Li-Fraumeni, sindrome di Cowden e sindrome di Peuz-Jeghers. Fonte: Obstet Gynecol. 2015; 125: 1538-43) sshhut te rtoc u tte rto ckk (3 ( 3)) La valutazione del rischio di tumori ereditari rappresenta la chiave per identificare pazienti e famiglie che potrebbero essere esposte ad un aumento del rischio di sviluppare alcune neoplasie ginecologiche. Secondo gli autori delle nuove linee guida ACOG (American College of Obstetricians and Gynecologists) in materia, incentrate sulle sindromi oncologiche ereditarie che comprendono il rischio di tumori mammari, ovarici ed endometriali, ostetriche e ginecologi svolgono un importante ruolo nell’identificazione e nell’indirizzamento delle donne a rischio di queste patologie. Le linee guida raccomandano che il medico indirizzi la paziente ad un genetista specializzato se lo screening iniziale suggerisce la presenza di un rischio familiare. Le sindromi oncologiche ereditarie sono state definite come “una predisposizione genetica a determinati tipi di tumore, spesso ad insorgenza in età precoce, causati da HIGHLIGHTs Tumore al seno Non sempre la storia familiare incide sulla sopravvivenza 2850 Le donne under 40 prese in considerazione dallo studio Secondo un nuovo studio, in giovani donne con cancro al seno, avere una storia familiare di questa malattia potrebbe non incidere negativamente sulle possibilità di sopravvivenza. Il gruppo di ricerca coordinato da Ramsey Cutress, dell’Università di Southampton (Gran Bretagna), ha studiato 2850 donne ammalatesi di questo tipo di cancro entro i 40 anni, curate in 127 ospedali del Regno Unito dal 2000 al 2008.Due terzi delle donne non riportavano una storia familiare di cancro al seno. All’inizio dello studio, la metà delle donne aveva almeno 36 anni. L’obiettivo principale era capire se la storia familiare influisse sul tempo di sopravvivenza dei pazienti dopo il trattamento,senza provocare un aggravamento della malattia. I ricercatori hanno riportato che, dopo cinque anni, circa il 77% delle donne con una storia familiare alle spalle e il 75% senza nessun caso in famiglia non presentava sintomi, mentre dopo otto anni le percentuali si attestavano rispettivamente al 72% e al 69%. La differenza era così piccola da poter essere attribuita solo al caso. Quando i ricercatori hanno esaminato i dati basati sul tipo di carcinoma mammario hanno riscontrato che la storia familiare non faceva registrare differenza nella sopravvivenza libera da sintomi, a prescindere dal fatto che le donne avessero o meno tumori cresciuti in risposta all’ormone estrogeno. Inoltre, dallo studio non sono emerse differenze nelle probabilità di sopravvivenza tra le donne senza una storia familiare alle spalle e quelle con una madre, sorella o figlia affette dallo stesso male. Un limite dello studio è rappresentato dal cosiddetto bias di sopravvivenza. Poiché sono state reclutate donne che avevano ricevuto la diagnosi fino a un anno prima, sono rimaste escluse le persone con i tumori più aggressivi che sono morte nel giro di poco tempo, ammettono gli autori. È anche possibile che l’impatto della storia familiare impieghi più tempo a manifestarsi, soprattutto nelle donne con tumori che crescono lentamente. FONTE: British Journal of Surgery 2015 15 HIGHLIGHTs Menopausa La terapia ormonale aumenta il rischio di sanguinamento gastrointestinale 16 presentavano un rischio molto elevato di avere un episodio di sanguinamento gastrointestinale (rapporto di rischio, 1,46; p=0.02) rispetto a coloro che non ne avevano mai fatto uso. Inoltre, le donne in terapia ormonale avevano più del doppio delle possibilità di sviluppare colite ischemica (HR, 2.30; p=0.04) e sanguinamento del tratto gastrointestinale inferiore (HR, 2.12; p<0.01). “Per colite ischemica si intende il blocco del flusso ematico all’intestino crasso e in precedenza era stata identificata come complicanza della terapia ormonale post menopausa”, ha precisato il dottor. Singh. “Tale condizione può far sì che i vasi sanguigni si coagulino, portando alla morte della mucosa gastrointestinale e causando il sanguinamento del tratto gastrointestinale inferiore” L’uso prolungato degli ormoni in menopausa è risultato associato a un elevato rischio di qualsiasi tipo di sanguinamento gastrointestinale (p-trend<0.01) e sanguinamento gastrointestinale del tratto inferiore (p-trend<0.01). “La nostra analisi è stata aggiustata per altri fattori di rischio noti per il sanguinamento gastrointestinale, come l’indice di massa corporea, il fumo, l’uso di contraccettivi orali e l’assunzione di FANS (farmaci anti-infiammatori non steroidei) e aspirina – ha concluso il dottor Singh – Inoltre è importante notare che il numero complessivo di episodi di sanguinamento gastrointestinale è risultato essere basso: 270 casi in più di 70.000 pazienti. Il rischio di sanguinamento gastrointestinale dovuto a terapia ormonale post menopausa è scarso, ma comunque notevolmente più elevato rispetto alle donne che non assumono questo tipo di farmaci”. s h u tt e rto ck ( 2) Le donne che usano la terapia ormonale post-menopausa (MHT) sono soggette elevato rischio di sanguinamento del tratto gastrointestinale inferiore e a colite ischemica, sebbene il rischio assoluto sia basso. È quanto emerge da uno studio di coorte retrospettivo su più di 73.800 donne coinvolte nel Nurses’ Health Study II. Il lavoro è stato condotto da Prashant Singh del Massachussets General Hospital di Boston (USA). “Abbiamo riscontrato che l’uso di estrogeni e progesterone nella terapia ormonale post-menopausa aumenta il rischio di coaguli di sangue nelle donne, ma non sappiamo se costituisca la causa effettiva del sanguinamento gastrointestinale. Lo studio conferma l’ipotesi che l’assunzione di ormoni aumenta tale rischio di sanguinamento, soprattutto nel tratto gastrointestinale inferiore” ha dichiarato il dottor. Prashant Singh. Alla partenza dello studio, nel 1989, le partecipanti avevano dai 24 ai 44 anni.. Ogni due anni, le donne hanno fornito informazioni sulla condizione menopausale, sull’uso della terapia ormonale in questa fase della vita e su altri fattori medici e relativi allo stile di vita. Nel 2005 e nel 2009, è stato chiesto loro di riportare episodi di sanguinamento gastrointestinale che hanno richiesto un ricovero o una trasfusione. Il 74% degli episodi riferiti dalle partecipanti sono stati confermati dall’analisi delle cartelle cliniche. In 22 anni di follow-up, sono stati 270 i casi confermati di grave sanguinamento gastrointestinale in donne dopo la menopausa. Dopo l’aggiustamento statistico, le partecipanti che in quel momento assumevano ormoni per la menopausa HIGHLIGHTs Tumore ovarico Scoperto come le cellule resistono alla chemioterapia Un gruppo di ricercatori australiani ha eseguito la più estesa analisi genetica del cancro alle ovaie mai compiuta finora e ha scoperto come questa forma di tumore diventa resistente alla chemioterapia e ad alcuni farmaci Gli studiosi del Peter McCallum Cancer Centre di Melbourne guidati da David Bowtell, Direttore di genetica e genomica del cancro, hanno registrato la sequenza del Dna di 114 campioni di cancro sieroso alle ovaie di alto grado di 92 pazienti, per mostrare come le cellule cancerose resistano alle terapie. “La ricerca, a cui hanno collaborato l’University of Queensland e il Millennium Institute di Sydney, consentirà di decidere quali farmaci hanno più probabilità di risultare efficaci”, scrive Bowtell sulla rivista Nature. “Mappando tutte queste mutazioni potremo cominciare a catalogare i modi in cui il cancro evade un dato trattamento e compiere scelte mirate riguardo ai farmaci che possono essere usati in uno scenario ricorrente”, aggiunge. La maggior parte delle donne diagnosticate con questa diffusa forma, attualmente muoiono entro cinque anni dalla diagnosi, al ritmo di 80 mila l’anno globalmente e i ricercatori sperano che la scoperta possa migliorarne l’aspettativa di vita. Fonte: Nature, 2015 17 HIGHLIGHTs Sindrome dell’ovaio policistico La palestra migliora i sintomi e l'attività sessuale È il primo studio che ha mostrato come un allenamento di resistenza (opposto all’attività aerobica) abbia migliorato molti aspetti della sessualità nelle donne obese affette da PCOS, rispetto a quelle sovrappeso non colpite da questa sindrome. 18 tronco. L’intensità degli esercizi di resistenza aumentava ogni settimana, mentre con la progressione del programma si riducevano le ripetizioni..All’inizio del programma e dopo 16 settimane le donne hanno risposto a domande sulla loro funzione sessuale, tra cui desiderio, eccitazione, lubrificazione, orgasmo, appagamento, dolore, ansia e depressione. Dopo il regime di esercizio, il gruppo di controllo lamentava molto meno dolore. Inoltre, entrambi i gruppi facevano registrare tassi inferiori di ansia e depressione. Alla sedicesima settimana, i punteggi delle partecipanti con PCOS in merito alla funzione sessuale sono risultati più alti di quanto fossero all’inizio; le donne riferivano molto più desiderio, eccitazione e lubrificazione e meno dolore. Esse avevano anche livelli di desiderio più elevati rispetto alle donne senza PCOS. È il primo studio che ha mostrato come un allenamento di resistenza (opposto all’attività aerobica) abbia migliorato molti aspetti della sessualità nelle donne obese affette da PCOS, rispetto a quelle sovrappeso non colpite da questa sindrome. Fonte: Journal of Sexual Medicine 2015 s h ut te rtoc k (2 ) Rafforzare i muscoli di braccia, gambe e tronco può rendere il sesso meno doloroso e più piacevole per le donne con sindrome dell’ovaio policistico.È quanto emerge da uno studio brasilianocondotto dal team guidato Lucia Alves Silva Lara – che ha reclutato 43 donne con sindrome dell’ovaio policistico (PCOS) e 51 senza tale condizione. Nello studio sono state coinvolte sia donne con un peso normale, sia sovrappeso. L’indice di massa corporea medio nelle partecipanti con PCOS rientrava nel range del sovrappeso, con circonferenze medie del girovita di 81 centimetri. Nel gruppo di controllo, la massa corporea era leggermente inferiore ma sempre nel range del sovrappeso, con circonferenze del girovita di circa 76 cm. Entrambi i gruppi hanno partecipato a 16 settimane di regime di esercizio fisico che includeva lo stretching e prevedeva l’uso di panche piane, panche extensor e altri strumenti di resistenza fisica per allenare i muscoli di fianchi, gambe, braccia e EBM Evidence Based Medicine Cosa sono? L’EBM, in italiano “medicina basata sulle prove di efficacia”, ha come obiettivo quello di assicurare che le decisioni cliniche siano informate dai risultati della ricerca, in particolare della ricerca clinica. Tra le sue funzioni chiave c’è quella di fornire uno strumento di lettura rispetto ai dati della ricerca e di ricondurli al singolo paziente. Per accrescere la credibilità delle deduzioni di un medico – rispetto, per esempio, all’utilità di un test o all’efficacia di una terapia o per una corretta prognosi – e per trasformare tali deduzioni in nozioni condivisibili dai colleghi e dall’intera comunità scientifica, diventa imprescindibile lo sforzo di standardizzare e validare le osservazioni maturate nel contesto della pratica medica. E per interpretare la letteratura scientifica esistente su eziologia, diagnosi, prognosi ed efficacia delle strategie terapeutiche è necessario comprendere e condividere le regole metodologiche di base. Non tutti gli studi clinici forniscono informazioni di uguale affidabilità, quindi nella decisione clinica le prove di effi- cacia avranno un peso maggiore a seconda della robustezza della fonte che le ha prodotte. La visualizzazione più efficace di questa gerarchia è quella della piramide delle evidenze, che posiziona al proprio vertice le prove sperimentali più affidabili e alla base quelle aneddotiche. Sebbene esistano diverse varianti di piramide delle evidenze, la scala gerarchica di ciascuna pone al primo posto le informazioni desunte da revisioni sistematiche che includono studi clinici controllati di buona qualità; all’opposto, il parere degli esperti senza supporto di studi empirici occupano l’ultima posizione. Nelle posizioni intermedie si trovano gli studi di popolazione e gli studi osservazionali, nei quali la relazione tra l’intervento e l’effetto (o tra l’esposizione a un fattore di rischio e l’effetto) non è causale e le inferenze di associazione sono spesso esposte a errori sistematici. Solidità delle evidenze: gradi e definizioni A = ELEVATA Abbiamo molta fiducia nel fatto che la stima dell’efficacia sia vicina all’efficacia reale negli esiti considerati. Le evidenze accumulate presentano deficit scarsi o nulli. E’ nostra opinione che i dati siano stabili, ossia che un nuovo studio non porterebbe ad un cambiamento nelle conclusioni. B = MODERATA Siamo moderatamente certi che la stima dell’efficacia sia vicina alla reale efficacia per gli esiti considerati. Le evidenze accumulate presentano alcuni deficit. E’ nostra opinione che i dati siano probabilmente stabili, ma permangono alcuni dubbi. C = BASSA La certezza del fatto che la stima dell’efficacia sia vicina alla reale efficacia per gli esiti considerati è limitata. Le evidenze accumulate presentano deficit numerosi o importanti (o entrambi). E’ nostra opinione che siano necessarie ulteriori evidenze prima di poter concludere che i dati siano stabili o che la stima dell’efficacia sia vicina all’efficacia reale. D = INSUFFICIENTE Non abbiamo evidenze, non siamo in grado di stimare l’efficacia, o non abbiamo fiducia nella stima dell’efficiacia per quanto riguarda l’esito considerato. Non sono disponibili evidenze, oppure le evidenze accumulate presentano deficit inaccettabili, precludendo il raggiungimento di una conclusione. 19 EBM Evidence summaries 18/1/2011 LIVELLO EVIDENZE = B Evidence summaries 23/4/2008 LIVELLO EVIDENZE = D L’esercizio appare efficace per migliorare la funzionalità della spalla nelle donne con tumore mammario. Gli interventi praticati da personale infermieristico specializzato per l’assistenza al seno (BCN) sembra portare ad un qualche beneficio nelle donne con tumore mammario, specie nell’identificazione di ansia e depressione, ma le evidenze sono insufficienti. Una revisione del database Cochrane ha incluso 24 studi per un totale di 2132 soggett. Dieci studi hanno esaminato l’effetto dell’implementazione precoce o ritardata (di circa una settimana) dell’esercizio postoperatorio. L’esercizio precoce è risultato più efficace di quello ritardato nella ripresa a breve termine del range di movimento (ROM) della spalla (WMD: 10,6 gradi, 95% CI 4,51-16,6; 3 studi, n = 677), ma non dopo 4-6 settimane o 6 mesi. In ogni caso, l’esercizio precoce ha anche prodotto un aumento nel volume e nella durata del drenaggio delle ferite (WMD: 15 giorni, 95% CI 0,65-1,65). 14 studi (6 postoperatori, 3 durante il trattamento adiuvante e 5 a seguito del trattamento antitumorale) hanno esaminato l’effetto dell’esercizio strutturato rispetto all’assistenza standard. I programmi di esercizio strutturato nel periodo postoperatorio hanno migliorato significativamente il ROM di flessione della spalla a breve termine (WMD: 12,92 gradi, 95% CI 0,69-25,16; 6 studi, n = 324) ed a 6 mesi (WMD 11,86, 95% CI 4,25-19,46; 3 studi, n = 149). Il trattamento basato sulla terapia fisica ha portato a benefici addizionali per la funzionalità della spalla nella fase post-intervento e dopo 6 mesi di monitoraggio. Non sussistono evidenze di un aumento del rischio di linfedema correlato all’esercizio in qualunque fase temporale. Commento: La qualità delle evidenze risulta ridotta per via della qualità degli studi (diversi difetti nella maggior parte degli studi) e migliorata per via della notevole entità degli effetti registrati. Bibliografia; McNeely ML, Campbell K, Ospina M, Rowe BH, Dabbs K, Klassen TP, Mackey J, Courneya K. Exercise interventions for upper-limb dysfunction due to breast cancer treatment. Cochrane Database Syst Rev 2010 Jun 16;(6):CD005211. 20 Personale infermieristico specializzato per la cura del seno (BCN) per l’assistenza di supporto nelle donne con tumore mammario Una revisione del database Cochrane ha incluso 5 studi per un totale di 1052 pazienti con tumore mammario. Tre studi che hanno validato gli interventi infermieristici psicosociali in prossimità della diagnosi e delle prime fasi del trattamento hanno riscontrato che i BCN potrebbero influenzare alcune componenti della qualità della vita, come ansia e riconoscimento precoce dei sintomi depressivi. In ogni caso, il loro impatto sugli aspetti sociali e funzionali dell’andamento della malattia è stato inconcludente. Gli interventi di supporto durante la radioterapia sono stati valutati da uno studio che ha dimostrato che interventi specifici dei BCN possono alleviare la percezione dello stress durante il trattamento radioterapeutico, ma non ha migliorato le skill di coping, l’umore o la qualità della vita complessiva. Uno studio ha valutato gli interventi di monitoraggio condotti dal personale infermieristico e non è stata identificata alcuna differenza statisticamente significativa per quanto riguarda principali variabili demografiche, soddisfazione dell’assistenza, accesso all’assistenza medica ed ansia o depressione. Commento: La qualità delle evidenze risulta ridotta per via della qualità degli studi (diversi problemi) e della mancata costanza (eterogeneità negli interventi e negli esiti). Bibliografia: Cruickshank S, Kennedy C, Lockhart K, Dosser I, Dallas L. Specialist breast care nurses for supportive care of women with breast cancer. Cochrane Database Syst Rev 2008 Jan 23;(1):CD005634. s h u tte rsto ck ( 2) Esercizio fisico per le disfunzioni degli arti superiori dovuti al trattamento del tumore mammario Chirurgia intercalare di debulking per i tumori ovarici epiteliali avanzati Bypass coronarico off-pump o minimamente invasivo a raffronto con l’intervento percutaneo Evidence summaries 16/3/2014 LIVELLO EVIDENZE = D Evidence summaries 17.9.2008 LIVELLO EVIDENZE = A La chirurgia intercalare di debulking per i tumori ovarici epiteliali avanzati potrebbe essere efficace nei casi in cui la chirurgia primaria non è stata praticata da oncologi ginecologici, ma le evidenze sono insufficienti. Nelle patologie che interessano uno o due vasi, il bypass coronarico off-pump (OPCAB) riduce la necessità di nuovi interventi per ischemia, le recidive dell’angina e gli eventi coronarici maggiori su un periodo da 1 a 5 anni rispetto all’intervento percutaneo (PCI), ma è associato ad un aumento della durata della degenza ospedaliera. Sembrano non essere presenti differenze fra OPCAB e PCI per quanto riguarda: mortalità, infarto miocardico ed ictus. Una revisione sistematica su 6 studi per un totale di 989 soggetti è stata riassunta nel database DARE. Rispetto all’intervento percutaneo (PCI), il bypass coronarico off-pump (OPCAB) ha ridotto la frequenza dell’angina (OR 0.54, 95% CI 0.34 / 0.87) e la necessità di nuovi interventi su un periodo da 1 a 5 anni (OR 0.24, 95% CI 0.15 / 0.40; 5 studi). Gli eventi coronarici maggiori risultano significativamente ridotti (OR 0.44, 95% CI 0.30 to 0.63) e la sopravvivenza libera da eventi risulta significativamente aumentata su un periodo da 1 a 5 anni (OR 2.32, 95% CI 1.62 /3.32) con l’OPCAB rispetto alla PCI (OR 0.31, 95% CI 0.18 / 0.55). La degenza ospedaliera risulta significativamente aumentata con l’OPCAB rispetto alla PCI (WMD 4.03, 95% CI 2.37 / 5.70). Due studi hanno valutato la qualità della vita dei pazienti. Uno studio ha riportato un significativo miglioramento nella qualità della vita associato alla PCI rispetto all’OPCAB dopo un mese, ma non ha riportato alcuna differenza significativa dopo un anno. L’altra ricerca ha riportato miglioramenti statisticamente significativi associati all’OPCAB su soli tre domini di quattro strumenti per il calcolo della qualità della vita. Mortalità, infarto miocardico ed ictus non presentavano differenze significative. Una revisione del database Cochrane ha incluso 3 studi per un totale di 853 donne, di cui 781 sono state valutate. La chirurgia secondaria, effettuata dopo alcuni cicli di chemioterapia e prima di procedere ad ulteriori cicli di chemioterapia, è chiamata chirurgia intercalare di debulking (IDS). La sopravvivenza complessiva ha dimostrato una sostanziale eterogeneità fra i vari studi. L’analisi dei sottogruppi per la sopravvivenza complessiva in due studi, in cui l’intervento primario non era stato praticato da un oncologo ginecologico, ha dimostrato i benefici dell’IDS (HR 0,7 95% CI 0,5-0,9, I2 = 0%). I tassi di reazioni tossiche alla chemioterapia sono risultati simili in entrambi i settori dello studio, ma sono disponibili scarse informazioni sugli altri effetti collaterali. Soltanto uno studio ha riportato la qualità della vita, che risultava generalmente simile in entrambi i settori terapeutici dello studio. Commento: La qualità delle evidenze risulta ridotta per via della mancata costanza (variabilità dei risultati fra i vari studi), dei risultati indiretti (differenze nei pazienti studiati e nel grado di esperienza dei chirurghi) e dell’imprecisione dei risultati (dimensioni degli studi limitate per ciascun raffronto). Bibliografia : Tangjitgamol S, Manusirivithaya S, Laopaiboon M, Lumbiganon P. I nterval debulking surgery for advanced epithelial ovarian cancer. Cochrane Database Syst Rev. 2008;(4):CD006014 [Review content assessed as up-to-date: 5 March 2013]. Bibliografia: Bainbridge D, Cheng D, Martin J, Novick R; Evidence-based Peri-operative Clinical Outcomes Research (EPiCOR) Group. Does off-pump or minimally invasive coronary artery bypass reduce mortality, morbidity, and resource utilization when compared with percutaneous coronary intervention? A meta-analysis of randomized trials. J ThoracCardiovasc Surg. 2007;133(3):623-31. 21 Tumore mammario Varianti genetiche e previsione del rischio 23 24 cosa valutata la possibilità che l’interazione fra coppie di SNP riesca ad influenzare la contribuzione congiunta dei fattori genetici sul rischio di malattia testando tutte le possibili interazioni derivanti da ogni accoppiamento di SNP. Sono state poi costruite tabelle di rischio poligeniche (PRS) per catturare gli effetti combinati dei 77 SNP sul rischio complessivo di tumore mammario, come anche sul rischio di tumori ER-positivi ed ER-negativi separatamente. E’ stato stimato il rischio assoluto di sviluppare tumore mammario per ciascun diverso livello di PRS, tenendo conto del concomitante rischio di mortalità per altre cause. Le proporzioni dell’effetto sono state confermate in un ampio studio, denominato KARMA, che non era parte di alcun set di scoperta di SNP. E’ stato infine discusso il grado di stratificazione del rischio di tumore mammario ottenuto nelle donne con sh ut te rs toc k I l tumore mammario rappresenta la neoplasia più comune fra le donne occidentali, con 1,67 milioni di casi diagnosticati ogni anno in tutto il mondo. Alcune strategie come i farmaci per la riduzione del rischio endocrino ed il rilevamento precoce tramite tecniche di screening possono ridurre il carico derivante dalla malattia, ma presentano svantaggi fra cui effetti collaterali, sovradiagnosi ed incremento dei costi. La stratificazione delle donne in base al rischio di sviluppare tumore mammario potrebbe migliorare la riduzione del rischio e le strategie di screening individuando le categorie con le maggiori probabilità di trarne beneficio. Nell’eziologia dei tumori mammari sono implicati sia fattori genetici che elementi legati allo stile di vita: le donne con un’anamnesi familiare di tumore mammario in un parente di primo grado presentano un rischio quasi doppio rispetto a quelle con anamnesi familiare negativa. Alcune rare mutazioni ad alto rischio, specie nei geni BRCA1 e BRCA2, spiegano meno del 20% dei rischio relativo familiare, e sono responsabili di una piccola proporzione dei casi di tumore mammario che interessano la popolazione generale. Le varianti a bassa frequenza che conferiscono un rischio intermedio, come quelle nei geni CHEK2, ATM e PALB2, spiegano fra il 2% ed il 5% del rischio relativo familiare. Gli studi associativi condotti sull’intero genoma (GWAS) hanno portato alla scoperta di molteplici varianti comuni a basso rischio (polimorfismi a carico di un singolo nucleotide, SNP) associate al rischio di tumore mammario, molte delle quali sono differenzialmente associate allo status relativo ai recettori per gli estrogeni (ER). Sono state recentemente identificate nuove varianti associate al rischio in un ampio studio replicativo condotto dal Breast Cancer Association Consortium (BCAC) come parte del Collaborative Oncological Gene-Environment Study (COGS). Sono stati genotipizzati SNP su più di 40000 casi di tumore mammario e 40000 donne di controllo, utilizzando un esame personalizzato (ICOGS). Questo esperimento ha incrementato il numero di SNP saldamente associati ai tumori mammari da 27 a più di 70, ed ha identificato ulteriori varianti specifiche per i tumori mammari ER-negativi. Il rischio conferito dai SNP non è sufficientemente ampio da risultare utile nella previsione del rischio individuale, ma l’effetto combinato di molteplici SNP potrebbe raggiungere un grado di discriminante del rischio che risulti utile per i programmi di prevenzione e diagnosi precoce del tumore mammario basati sulla popolazione. E’ stato effettuato uno studio approfondito sulla valenza dell’impiego di tutti i77 loci di suscettibilità al tumore mammario identificati sinora per la stratificazione del rischio. Gli studi precedenti sul livello di rischio poligenico sono stati basati su un modello dipendente dai registri per la combinazione degli SNP, ma questa posizione dovrebbe essere prima valutata empiricamente. Nel presente studio è stata per prima Sono state recentemente identificate nuove varianti associate al rischio in un ampio studio replicativo condotto dal Breast Cancer Association Consortium (BCAC) come parte del Collaborative Oncological Gene-Environment Study (COGS). Sono stati genotipizzati SNP su più di 40000 casi di tumore mammario e 40000 donne di controllo, utilizzando un esame personalizzato (ICOGS) e senza anamnesi familiare di tumore mammario. Nelle indagini precedentemente riportate, il miglioramento nella discriminazione del rischio tramite i profili genomici al di là di quello conferito dai fattori di rischio noti non è stato sostanziale, benché si sia ottenuta una migliore discriminazione in alcuni sottogruppi di donne. Le analisi precedenti, comunque, erano basate su un set di SNP nettamente più limitato di quello considerato nel presente studio: esso ha portato a precise stime empiriche degli effetti combinati degli SNP e del livello di stratificazione possibile, e queste stime potrebbero informare il dibattito sull’utilità per la salute pubblica dell’implementazione dei PRS nella pratica clinica. Lo studio ha suggerito che i PRS, specie se impiegati in combinazione con altri fattori di rischio, potrebbero aiutare ad identificare sottogruppi di donne a diverso livello di rischio, per le quali le strategie gestionali potrebbero differire. I PRS potrebbero facilitare la diagnosi precoce dei tumori nelle donne giovani, e cosa più importante, identificare le pazienti a rischio di sottotipi specifici di tumore mammario. Infine, sussiste il potenziale per un maggiore impatto nella modifica dei fattori ambientali per le donne a maggior rischio di tumore mammario. L’analisi prospettica dei 77 PRS di SNP, in combinazione con altri fattori di rischio, sarà necessaria per convalidare l’accuratezza complessiva della previsione del rischio: questo algoritmo di previsione del rischio omnicomprensivo potrebbe garantire una solida base per i programmi di prevenzione stratificata dei tumori mammari. Fonte: J Natl Cancer Inst. 2015;107(5)) 25 Chemioterapia o nanoterapia? 26 sh ut te rs toc k Tumori ovarici progressivi 28 difetti metodologici minano alla base la stessa rilevanza dei CEA, portando a conclusioni erronee a carico di pazienti e società. Alcune recenti evidenze a supporto dei benefici clinici della nanoterapia, unitamente alle crescenti preoccupazioni per gli elevati costi dei trattamenti mirati, hanno portato allo svolgimento della prima analisi economica omnicomprensiva che abbia paragonato fra loro le possibili alternative terapeutiche per i tumori ovarici. L’analisi si è basata sui dati derivanti da uno studio randomizzato di fase III che ha paragonato GEM e PLD dimostrando che la GEM non è superiore alla PLD nelle pazienti che vanno incontro a recidiva dopo una prima terapia con un regime contenente platino/paclitaxel entro 12 mesi dal completamento della terapia. La PLD si è dimostrata più vantaggiosa rispetto alla GEM in termini di tossicità e di preservazione sh ut te rs toc k (2 ) I tumori ovarici rappresentano la causa maggiormente prevalente di mortalità legata a tumori maligni ginecologici, con circa 225.000 nuovi casi e 140.000 decessi ogni anno. Dato che la malattia rimane asintomatica per un lungo periodo di tempo, le donne presentano spesso una patologia in stato avanzato all’atto della diagnosi. La prognosi è pertanto infausta, con un tasso di sopravvivenza a 5 anni del 25-30% nei casi metastatici. Dato che il prolungamento della sopravvivenza e la palliazione dei sintomi rimangono gli obiettivi maggiormente realistici, è necessario rivolgere una particolare attenzione alla qualità della vita per la quale ancora si prevede la sopravvivenza della paziente. Nonostante il fatto che la chemioterapia rappresenti la forma predominante di trattamento di seconda linea, essa probabilmente potrebbe causare effetti collaterali di diverso grado di gravità, e nel contempo manifestare una scarsa attività ed efficacia sul tumore. A causa dei ricoveri e della terapia, i costi del trattamento delle reazioni negative potrebbero essere elevati. Sussiste una critica necessità di stabilire un equilibrio costo/beneficio in termini di preservazione della qualità della vita con le terapie attualmente disponibili: in questo contesto, è stato dimostrato che la gemcitabina (GEM) e la doxorubicina PEGilata liposomale (PLD) sono attive come trattamenti di seconda linea nei tumori ovarici. Tuttavia, la GEM spesso porta a tossicità ematologica, mentre la PLD, che rappresenta una nanoterapia di prima generazione, dimostra una tossicità ridotta grazie alle sue proprietà farmacocinetiche uniche, con l’eccezione di mucositi ed eritrodisestesie palmo-plantari, specie nella dose consigliata di 50 mg/m2. La PLD pertanto è attualmente oggetto di considerazione come alternativa alla chemioterapia. Sinora pochi studi si sono occupati di accertare se le nanoterapie, oltre a ridurre la tossicità, risultino anche economicamente convenienti. I costi del trattamento per le malattie con elevati tassi di incidenza, come i tumori ovarici, potrebbero aumentare significativamente in futuro. Ai programmatori sanitari si richiede di valutare se le nuove terapie offrano una maggiore valenza rispetto a quelle in uso: un recente studio ha riportato che le nove analisi costo/beneficio (CEA) sinora effettuate - che abbiano paragonato nanoterapie e chemioterapie - sono di fatto incomplete, in quanto in primo luogo non considerano i costi indiretti, ed in secondo luogo non hanno approssimato i propri risultati in termini di efficacia secondo la qualità della vita della paziente, ad eccezione di uno. Dato che il trattamento non influenza soltanto la durata della sopravvivenza ma anche la qualità della vita, è importante esprimere i dati di efficacia in termini di QALY (Quality-Adjusted Life Years). Infine, questi studi hanno impiegato definizioni non uniformi dei costi, il che ha reso qualunque raffronto economico fra le terapie virtualmente impossibile. Questi Sussiste una critica necessità di stabilire un equilibrio costo/beneficio in termini di preservazione della qualità della vita con le terapie attualmente disponibili: in questo contesto, è stato dimostrato che la gemcitabina (GEM) e la doxorubicina PEGilata liposomale (PLD) sono attive come trattamenti di seconda linea nei tumori ovarici. della qualità della vita. In particolare, i minori tassi di mucosite e tossicità cutanea osservati con la PLD sono probabilmente correlati al suo impiego ad una dose di 40 mg/ m2, il che negli studi di fase II è stato giudicato ugualmente efficace ma meno tossico rispetto al dosaggio convenzionale. Come previsto, l’investimento iniziale associato alla nanoterapia risulta significativamente maggiore rispetto a quello necessario per la chemioterapia, ma questi costi sono stati ampiamente coperti da risparmi su altri costi diretti, specie quelli connessi alla somministrazione dei farmaci, e questo effetto è risultato ancora più marcato tenendo conto dei costi indiretti. La nanoterapia per i tumori ovarici dunque non presenta soltanto un buon rapporto costo/beneficio, ma porta anche a sorprendenti risparmi a livello della società. Nei prossimi decenni la nanoterapia potrebbe rivoluzionare la medicina: ai fini di supportare pubblicamente queste nuove terapie, è di importanza cruciale che i loro ulteriori effetti ne giustifichino i costi aggiuntivi. La ricerca economica sulle terapie basate sulla nanotecnologia, comunque, è ancora ai primordi. Gli studi sui rapporti costo/beneficio saranno particolarmente importanti per le prossime generazioni di nanoterapeutici, così come anche gli agenti specifici mirati. Dato che queste terapie saranno verosimilmente molto efficaci, ma potrebbero anche comportare elevati costi di acquisizione, sarà fondamentale dimostrare la loro convenienza includendo tutti i costi rilevanti sia diretti che indiretti, come anche stime della qualità della vita del paziente. Fonte: Nanomedicine. 2014; 9: 2175-86 29 bibliografia http://www.medscape. com/viewarticle/583427 Clear Cell Adenocarcinoma of the Ovary Associated With In Utero Diethylstilbestrol Exposure: Case Report and Clinical Overview 2009 Hatch EE, Herbst AL, Hoover RN, et al. Incidence of squamous neoplasia of the cervix and vagina in women exposed prenatally to diethylstilbestrol (United States). In uno studio del 2008 l’esposizione in utero a DES era associata a un elevato rischio di cancro ovarico. Tuttavia, nessuno dei tumori ovarici descritti ha dimostrato di essere di istologia a cellule chiare. Eppure si potrebbe concludere che, dal momento che i tumori a cellule chiare costituiscono il 5% e il 10% di tutte le neoplasie epiteliali ovariche maligne, il caso descritto, secondo gli autori, potrebbe rappresentare la normale distribuzione di questa malattia e l'associazione, è precisamente tra DES e il cancro ovarico epiteliale. Al contrario, un altro ampio studio epidemiologico (2007) non ha dimostrato un aumento del rischio di cancro in figlie DES-esposte diversi dall’adenocarcinoma a cellule chiare del tratto genitale inferiore e dal cancro al seno nelle donne anziane. In questo studio il rischio di cancro al seno è stata elevato solo tra le donne di età superiore ai 40 anni. Inoltre, l’incidenza dell’adenocarcinoma a cellule chiare appariva diminuita di oltre l'80% nelle donne di 25 anni e oltre rispetto a quelle di 20-24 anni. Escludendo l’adenocarcinoma a cellule chiare e il cancro al seno, il rapporto complessivo del rischio era 1.21 (95% CI, 0,742,0). E ancora, il DES non è stato associato con eccesso di rischio sia per il cancro endometriale sia per quello ovarico. Questi dati suggeriscono che l'aumento dell’incidenza dell’adenocarcinoma a cellule chiare rimane elevato nel corso degli anni riproduttivi. Per quanto riguarda l'associazione tra l'esposizione in utero DES e il cancro al seno, ci potrebbero essere somiglianze eziologiche e di sviluppo tra l'aumento del rischio per il cancro al seno e alle ovaie. Va ricordato che le esposizioni in utero possono non agire direttamente sul seno, ma possono modificare altri percorsi fisiologici, come il metabolismo degli ormoni, che potranno influenzare tale rischio nel corso della vita. In conclusione, questo caso di probabile carcinogenesi transplacentare DES-indotta più di 4 quattro decenni dopo l'esposizione rafforza, secondo gli autori, la necessità di proseguire con maggiore attenzione gli esami ginecologici di routine nei soggetti esposti in età prenatale. Cancer Causes Control. 2001;12:837-845 Wise LA, Palmer JR, Rowlings K, et al. Risk of benign gynecologic tumors in relation to prenatal diethylstilbestrol exposure. Obstet Gynecol. 2005;105:167-173 Titus-Ernstoff L,Troisi R, Hatch EE, et al. Offspring of women exposed in utero to diethylstilbestrol (DES): a preliminary report of benign and malignant pathology in the third generation. Epidemiology. 2008;19:251-257. Troisi R, Hatch EE,Titus-Ernstoff L, et al. Cancer risk in women prenatally exposed to diethylstilbestrol. Int J Cancer. 2007;121:356-360. 33 CLINICAL LEADER Dieta epigenetica. Una nuova strada per la prevenzione del cancro al seno? A tu per tu con Trygve Tollefsbol Trygve Tollefsbol e colleghi hanno studiato, per diversi anni, il legame tra mRNAs e alimentazione nella modificazione dell’espressione dei geni coinvolti nella genesi del cancro, in particolare quello del seno 34 grado avanzato, mentre altri miRNA come quella della famiglia let-7 possono essere espressi in livelli minori in questo sottotipo di tumori al seno. Perché avete deciso di studiare l’impatto dell’alimentazione sui miRNAs? Uno dei componenti principali coinvolto nel rischio del cancro al seno è lo stile di vita e la dieta è un fattore leader che può essere facilmente manipolato per abbassare il rischio del tumore al seno. Ci siamo interessati a quella che chiamiamo “dieta epigenetica” per diversi anni ed abbiamo coniato questo termine alcuni anni fa. Questa dieta coinvolge il consumo di prodotti come i vegetali cruciferi (come broccoli, cavolo, cavolfiore, ed i broccoletti di Bruxelles), il te verde, la soia ed alcune spezie, come la curcuma nel curry, capaci di modificare l’espressione epigenetica dei geni per prevenire il cancro. Il nostro laboratorio ha studiato diversi aspetti dei meccanismi epigenetici rispetto a questa dieta: abbiamo studiato la metilazione del DNA e le modifiche agli istoni da parte dei composti fitochimici della dieta epigenetica. Brevemente, quali sono i composti fitochimici con un effetto dimostrato sull’epigenetica? I composti fitochimici sono molecole biologicamente attive presenti nelle piante e diversi studi provenienti anche dal nostro laboratorio hanno dimostrato che alcuni composti presenti nei mirtilli, la soia, l’uva rossa, i vegetali cruciferi, il te verde, ed alcune spezie possono ridurre il rischio del cancro al seno. La nostra ricerca, per esempio, ha scoperto che nonostante queste molecole possano funzionare tramite diversi meccanismi, un meccanismo molto importante è la prevenzione dell’aumento della telomerasi. L’enzima telomerasi mantiene la lunghezza dei cromosomi e le cellule cancerose dipendono fortemente dalla telomerasi per continuare a replicarsi, mentre le cellule normali non cancerose non dipendono dalla telomerasi. In un certo senso, questo pe r g e n ti l e co n ce ss i o n e d i T ry g v e to l le f sb ol Professor Tollefsbol, cosa sono i microRNAs e qual è la loro relazione con il tumore al seno? I miRNAs sono porzioni dell’RNA che non codificano una specifica proteina, ma che hanno comunque un impatto importante sui processi biologici come la formazione del cancro. Questi miRNAs sono in grado di modificare l’espressione di molti geni che conducono alla formazione del cancro ed altre malattie. Fanno naturalmente parte di una cellula del corpo umano e consistono in circa 18-25 nucleotidi: poiché si legano all’RNA messaggero codificato da specifici geni ,i miRNA possono regolare l’espressione dei geni stessi tramite degradazione od inibizione dell’RNA messaggero. Le aberrazioni nell’espressione dei geni sono molto comuni nell’eziologia e nella progressione di tumori come il cancro al seno. In alcuni casi, un miRNA può anche evitare il cancro agendo come soppressore tumorale, ed in altri casi quello stesso miRNA può agire come un oncogeno che porta all’oncogenesi ed alla progressione del tumore. Per esempio, il miRNA chiamato miR-93 può essere sovraespresso e portare alla soppressione del cancro al seno. Tuttavia, la progressione del cancro al seno è uno dei fattori da considerare, poiché un aumento dell’espressione del miR-93 in un tumore poco differenziato può fermare la progressione del cancro, mentre in tumori più differenziati può risultare in un avanzamento del tumore attraverso la stimolazione delle cellule staminali cancerose. In più, il rischio di cancro al seno può dipendere da fattori come lo stile di vita e l’eredità genetica. I fattori genetici BRCA1 e BRCA2 possono essere mutati per aumentare il rischio di cancro al seno, ma specifici miRNAs come miR-146a e miR146b-5p possono diminuire l’infuenza del BRCA1. Quindi i miRNA possono influenzare il tumore al seno sia nella sue origini ambientali che genetiche. Si può, potenzialmente, stabilire la progressione del tumore al seno tramite analisi del miRNAs. Per esempio, certi miRNAs come il miR-18a possono essere fortemente espressi in tumori di ci offre la possibilità di uccidere le cellule cancerose che si stanno formando lasciando intatte le cellule normali. Il gene che regola la telomerasi, chiamato hTERT, è controllato tramite processi epigenetici ed i composti fitochimici sono in grado di neutralizzare le aberrazioni epigenetice che potrebbero condurre all’aumento della telomerasi e la conseguente formazione di un cancro. Quali sono i miRNAs coinvolti nella riduzione del rischio di cancro al seno? Le nostre conoscenze nei cambiamenti del miRNA possono essere importanti sotto diversi aspetti del controllo del cancro al seno. Per esempio, possono essere utili per diagnosticare e valutare lo stato del tumore tramite analisi del miR-28 nel siero, che ha una alta accuratezza diagnostica per il cancro al seno, ed il miR-17-92 e miR-93 possono essere utili per determinare lo stato del tumore. Inoltre, il miR-200c è associato con la progressione del cancro al seno ed il let-7 diminuisce nel tumore metastatico del seno. Possiamo anche essere in grado di determinare la prognosi monitorando i miRN, dal momento che il miR-34a, miR-21,miR155, miR-497 e miR-210 hanno la possibilità di predire la prognosi del tumore al seno. I composti fitochimici assunti tramite la dieta possono avere un impatto su specifici miRNA per ridurre il rischio di cancro del seno. La curcumina, per esempio, presente nel curry può diminuire il miR-19a ed il miR-19b, e questo è associato con l’apoptosi delle cellule tumorali. Inoltre, questa molecola può aumentare il miR-15a e miR-16 i quali conducono anch’essi alla morte delle cellule tumorali. Alcune molecole contenute nella soia (ed anche i lupini, le fave,e nel caffè, n.d.r.), come la genisteina, possono anche aumentare l’apoptosi delle cellule cancerose diminuendo il livello di miR-155. Ed il resveratrolo degli acini d’uva rossa (la buccia, per essere precisi, n.d.r.) ed il vino rosso possono aumentare numerosi miRNA capaci di rallentare l’invasione delle cellule cancerose. Allo stesso modo, i polifenoli contenuti nel té verde possono produrre aumenti negli stessi miRNA (let-7a, miR-107, miR-548m, etc.) oppure diminuire i miRNA let-7c, let-7e, let-7g, miR-21, miR-25, eccetera, in modo da inibire la crescita delle cellule cancerose. Quale potrebbe essere il ruolo clinico di queste molecole fitochimiche? Il consumo di questi composti fitochimici nel cibo e nelle bevande ha il potenziale più importante nel prevenire il cancro del seno, per la loro modulazione del miRNA. C’è anche il potenziale di poterli utilizzare per la terapia oncologica per quanto riguarda il miRNA. Per esempio i miRNA let-7, miR-34, miR-29 potrebbero potenzialmente essere somministrati ai pazienti per la soppressione del tumore. Trygve Tollefsbol, è professore di Biologia e Senior Scientist del Comprehensive Cancer Center, presso l’Università dell’Alabama a Birmingham (USA). Le sue ricerche si concentrano da più di 25 anni sull’epigenetica della prevenzione del cancro e la regolazione della telomerasi in risposta alle sostanze nutrienti. Attualmente è redattore associato di Frontiers in Epigenomics. Assieme ai suoi colleghi ha messo a punto il sequencing ChIPGBS per lo studio degli effetti epigenetici degli alimenti. È però fondamentale la somministrazione combinata dei composti fitochimici e della chemioterapia standard. Come esempio, abbiamo scoperto che somministrando un fitochimico come il sulforafano da vegetali cruciferi e polifenoli dal té verde si aumenta l’effetto chemioterapico di agenti come il cisplatino od il paclitaxel nel trattamento delle cellule cancerose. Tuttavia, alcuni composti fitochimici come la curcumina potrebbero interferire con la chemioterapia. Quindi, è chiaro che nonostante sia stati fatti molti passi avanti per quanto riguarda la dieta, il miRNA, ed il cancro del seno, è ancora necessaria molta ricerca. Posso anticipare che alcune importanti scoperte sono all’orizzonte, e potrebbero rivoluzionare l’approccio di diversi aspetti del trattamento del tumore al seno, dalla diagnosi alla prevenzione, al trattamento. 35 38