“Popsci tumori ovaio e seno” in pdf

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&
Nuove linee guida ACOG per lo screening
Tumore al seno
Professional
Edition
ovaio
Tumori ovarici
progressivi
Chemioterapia o
nano terapia?
Dieta
epigenetica
E prevenzione
del cancro
Tumore mammario
Varianti genetiche
e previsione del rischio
IN
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1
Clinical Shot
La scienza in immagini
Clinical Shot
Tumore
mammario
Le donne anziane con tumori mammari clinicamente linfonodo-negativi potrebbero evitare la biopsia linfonodale senza
compromettere le proprie probabilità di sopravvivenza. Questa conclusione deriva da uno studio condotto su 140 donne di
età non inferiore a 70 anni con tumori piccoli ed a crescita lenta, in cui è stato riscontrato che la mortalità legata al tumore a
5 anni è del 2,9% anche senza sottoporsi alla procedura.
Secondo Armando Giuliano del Cedars-Sinai Medical Center di
Los Angeles, nelle donne di questa età con tumore mammario
in fase precoce, una biopsia potrebbe non influenzare trattamento o esiti. Nel 2014 l’American Society of Clinical Oncology
(ASCO) aveva raccomandato che le pazienti dovessero ricevere
più biopsie del linfonodo sentinella che dissezioni linfonodali
ascellari; tuttavia non effettuare la biopsia potrebbe evitare
potenziali morbidità. Inoltre è stato riscontrato che le raccomandazioni fornite alle pazienti difficilmente cambiano in funzione dei risultati e che la terapia adiuvante viene prescritta di
rado, a prescindere dallo status linfonodale.
Le donne anziane tendono ad avere tumori mammari a crescita lenta e più problemi medici rispetto a quelle più giovani
e, molto spesso, non vanno incontro a decesso per via del
tumore. Spesso esse non ricevono chemioterapia perché non
la tollererebbero e viene loro prescritta una terapia ormonale a prescindere dai dati bioptici. Secondo alcuni esperti, la
biopsia del linfonodo sentinella andrebbe praticata soltanto
se risulta determinante ai fini del trattamento.
Fonte:JAMA Surg online 2015
8
sh ut t er sto ck
Possibile evitare biopsia
del linfonodo sentinella
nelle anziane
9
10
sh ut te r stoc k
Clinical Shot
Tumori ovarici
avanzati
Chemioterapia primaria efficace
quanto la chirurgia primaria
Nelle donne con una nuova diagnosi di carcinoma ovarico
avanzato, la chemioterapia basata sul platino seguita da chirurgia costituisce un’alternativa sicura ed efficace alla rimozione
chirurgica primaria seguita dalla chemioterapia. Ciò è stato
accertato dallo studio CHORUS, condotto da Matthew Nankivell
dello University College di Londra su più di 500 pazienti allo scopo
di esaminare la tempistica della chemioterapia prima o dopo la
chirurgia, la quale secondo molti esperti rappresenta il problema
maggiormente critico che le donne con tumore ovarico affrontano oggi.
Nell’ambito di precedenti studi osservazionali, la strategia incentrata sulla chemioterapia primaria sembrava migliorare i tassi di
rimozione ottimale della massa tumorale e ridurre le complicazioni della chirurgia, ma due meta-analisi di studi non randomizzati
hanno prodotto risultati conflittuali sugli effetti del ritardo della
chirurgia sulla sopravvivenza. I risultato dello studio CHORUS ha
dimostrato la parità dei due approcci in termini di sopravvivenza,
ma grazie alla riduzione sulla morbidità e mortalità associate al
trattamento ed alla tendenza ad un miglioramento della qualità
della vita per la paziente, la chemioterapia primaria rappresenterebbe una valida opzione per il trattamento di questi tumori.
Tuttavia alcuni esperti raccomandano di ricorrere alla chirurgia
primaria qualora vi sia la possibilità di eliminare del tutto la
lesione senza reliquati di patologia residua, il che rappresenta la
migliore possibilità di cura completa per la paziente, ricorrendo se
necessario alla chemioterapia intraperitoneale.
Secondo alcuni, se le due strategie sono realmente equivalenti,
molte pazienti verranno comunque sottoposte a terapia neoadiuvante in quanto essa rende l’intervento più breve e semplice, con
maggiore comodità per pazienti, medici ed ospedali, ma ciò implica sia una buona qualità della pratica chirurgica che la certezza
del fatto che questa strategia non ponga a rischio la sopravvivenza della paziente stessa.
Fonte: Lancet online 2015
11
Clinical Shot
Chemioterapia
Una singola dose endovenosa di fosaprepitant
aiuta a ridurre nausea e vomito indotti dalla chemioterapia. Secondo uno studio di fase III, condotto su
1000 pazienti, l’aggiunta di questo antagonista del
recettore NK-1 ad ondansetrone e desametasone
produce una risposta superiore del 10% circa rispetto ai soli altri due farmaci nei pazienti sottoposti a
chemioterapia moderatamente emetogena. Secondo
l’autore, Bernardo Rapoport del Medical Oncology
Centre of Rosebank di Johannesburg (Sudafrica),
l’agente risulta particolarmente attivo nella fase
tardiva, che spesso è sotto diagnosticata.
In questa fase, che ricade fra le 25 e le 120 ore dopo
il trattamento, la maggior parte dei pazienti si trova
lontana dai reparti medici e può non aderire ai regimi di antiemetici orali.
il fosaprepitant, poiché viene somministrato in una
singola dose, non presenta problemi di aderenza.
Nello studio sudafricano il gruppo di controllo ha
continuato ad assumere ondansetrone per via orale
otto ore dopo la prima dose e poi ogni 12 ore nel
secondo e terzo giorno, mentre nel gruppo trattato
con fosaprepitant non sono stati somministrati altri
farmaci antiemetici. L’introduzione di questo medicinale consente di evitare sia il vomito, sia l’uso di
farmaci d’emergenza nel 79% dei pazienti.
Secondo alcuni esperti, si tratta di dati affidabili di
primo livello a supporto di una pratica che è già stata
adottata da molti professionisti.
Fonte: Am Soc Clin Oncol online 2015
12
sh ut te r stoc k
Singola dose antiemetico
riduce la nausea
Highlights
Nuove linee guida ACOG
per lo screening
Le linee guida raccomandano che il medico indirizzi la paziente ad un genetista
specializzato se lo screening iniziale suggerisce la presenza di un rischio familiare.
14
mutazioni ereditarie su
uno o più geni”. La maggior
parte di queste sindromi
presentano un’ereditarietà
autosomica dominante e
molti causano tumori che
interessano molteplici
organi.
Gli indizi del rischio di
tumori ereditari comprendono diagnosi in età insolitamente giovanile, diversi
tipi di tumore nella stessa
paziente, molteplici tumori
primari nello stesso organo,
diversi parenti con lo stesso
tipo di tumore, presentazione inusuale di uno specifico
tipo di tumore, difetti di
nascita associati a sindromi
oncologiche ereditarie e
tumori mammari tripli negativi o altri tumori suggestivi di sindromi specifiche.
Le più comuni sindromi
oncologiche ereditarie cor-
relate ai tumori ginecologici comprendono sindromi
oncologiche mammarie ed
ovariche, sindrome di Lynch, sindrome di Li-Fraumeni, sindrome di Cowden e
sindrome di Peuz-Jeghers.
Fonte: Obstet Gynecol. 2015;
125: 1538-43)
sshhut
te rtoc
u tte
rto ckk (3
( 3))
La valutazione del rischio di tumori ereditari
rappresenta la chiave per
identificare pazienti e famiglie che potrebbero essere
esposte ad un aumento del
rischio di sviluppare alcune
neoplasie ginecologiche. Secondo gli autori delle nuove
linee guida ACOG (American College of Obstetricians and Gynecologists)
in materia, incentrate sulle
sindromi oncologiche ereditarie che comprendono il
rischio di tumori mammari,
ovarici ed endometriali,
ostetriche e ginecologi
svolgono un importante
ruolo nell’identificazione
e nell’indirizzamento delle
donne a rischio di queste
patologie.
Le linee guida raccomandano che il medico indirizzi
la paziente ad un genetista
specializzato se lo screening iniziale suggerisce
la presenza di un rischio
familiare. Le sindromi
oncologiche ereditarie sono
state definite come “una
predisposizione genetica a
determinati tipi di tumore,
spesso ad insorgenza in
età precoce, causati da
HIGHLIGHTs
Tumore al seno
Non sempre la storia familiare incide sulla sopravvivenza
2850
Le donne under 40 prese in
considerazione dallo studio
Secondo un nuovo studio,
in giovani donne con cancro
al seno, avere una storia
familiare di questa malattia
potrebbe non incidere negativamente sulle possibilità
di sopravvivenza. Il gruppo
di ricerca coordinato da
Ramsey Cutress, dell’Università di Southampton (Gran
Bretagna), ha studiato 2850
donne ammalatesi di questo
tipo di cancro entro i 40
anni, curate in 127 ospedali
del Regno Unito dal 2000 al
2008.Due terzi delle donne
non riportavano una storia
familiare di cancro al seno.
All’inizio dello studio, la
metà delle donne aveva
almeno 36 anni. L’obiettivo
principale era capire se la
storia familiare influisse sul
tempo di sopravvivenza dei
pazienti dopo il trattamento,senza provocare un aggravamento della malattia.
I ricercatori hanno riportato
che, dopo cinque anni, circa
il 77% delle donne con una
storia familiare alle spalle
e il 75% senza nessun caso
in famiglia non presentava
sintomi, mentre dopo otto
anni le percentuali si attestavano rispettivamente al
72% e al 69%. La differenza
era così piccola da poter
essere attribuita solo al caso.
Quando i ricercatori hanno
esaminato i dati basati sul
tipo di carcinoma mammario hanno riscontrato che la
storia familiare non faceva
registrare differenza nella
sopravvivenza libera da
sintomi, a prescindere dal
fatto che le donne avessero o
meno tumori cresciuti in risposta all’ormone estrogeno.
Inoltre, dallo studio non
sono emerse differenze nelle
probabilità di sopravvivenza
tra le donne senza una storia
familiare alle spalle e quelle
con una madre, sorella o
figlia affette dallo stesso
male. Un limite dello studio
è rappresentato dal cosiddetto bias di sopravvivenza.
Poiché sono state reclutate
donne che avevano ricevuto
la diagnosi fino a un anno
prima, sono rimaste escluse
le persone con i tumori più
aggressivi che sono morte
nel giro di poco tempo, ammettono gli autori. È anche
possibile che l’impatto della
storia familiare impieghi
più tempo a manifestarsi,
soprattutto nelle donne con
tumori che crescono lentamente.
FONTE: British Journal of
Surgery 2015
15
HIGHLIGHTs
Menopausa
La terapia ormonale aumenta il rischio di sanguinamento
gastrointestinale
16
presentavano un rischio molto elevato
di avere un episodio di sanguinamento
gastrointestinale (rapporto di rischio,
1,46; p=0.02) rispetto a coloro che non ne
avevano mai fatto uso. Inoltre, le donne
in terapia ormonale avevano più del
doppio delle possibilità di sviluppare
colite ischemica (HR, 2.30; p=0.04) e
sanguinamento del tratto gastrointestinale inferiore (HR, 2.12; p<0.01). “Per
colite ischemica si intende il blocco del
flusso ematico all’intestino crasso e in
precedenza era stata identificata come
complicanza della terapia ormonale
post menopausa”, ha precisato il dottor.
Singh. “Tale condizione può far sì che i
vasi sanguigni si coagulino, portando alla
morte della mucosa gastrointestinale e
causando il sanguinamento del tratto
gastrointestinale inferiore”
L’uso prolungato degli ormoni in menopausa è risultato associato a un elevato
rischio di qualsiasi tipo di sanguinamento gastrointestinale (p-trend<0.01)
e sanguinamento gastrointestinale del
tratto inferiore (p-trend<0.01). “La nostra
analisi è stata aggiustata per altri fattori
di rischio noti per il sanguinamento
gastrointestinale, come l’indice di massa
corporea, il fumo, l’uso di contraccettivi
orali e l’assunzione di FANS (farmaci anti-infiammatori non steroidei) e aspirina
– ha concluso il dottor Singh – Inoltre
è importante notare che il numero
complessivo di episodi di sanguinamento gastrointestinale è risultato essere
basso: 270 casi in più di 70.000 pazienti.
Il rischio di sanguinamento gastrointestinale dovuto a terapia ormonale post
menopausa è scarso, ma comunque
notevolmente più elevato rispetto alle
donne che non assumono questo tipo di
farmaci”.
s h u tt e rto ck ( 2)
Le donne che usano la terapia ormonale post-menopausa (MHT) sono soggette elevato rischio di sanguinamento
del tratto gastrointestinale inferiore e a
colite ischemica, sebbene il rischio assoluto sia basso. È quanto emerge da uno
studio di coorte retrospettivo su più di
73.800 donne coinvolte nel Nurses’ Health Study II. Il lavoro è stato condotto
da Prashant Singh del Massachussets
General Hospital di Boston (USA).
“Abbiamo riscontrato che l’uso di
estrogeni e progesterone nella terapia
ormonale post-menopausa aumenta il
rischio di coaguli di sangue nelle donne,
ma non sappiamo se costituisca la causa
effettiva del sanguinamento gastrointestinale. Lo studio conferma l’ipotesi
che l’assunzione di ormoni aumenta tale
rischio di sanguinamento, soprattutto
nel tratto gastrointestinale inferiore” ha
dichiarato il dottor. Prashant Singh. Alla
partenza dello studio, nel 1989, le partecipanti avevano dai 24 ai 44 anni..
Ogni due anni, le donne hanno fornito
informazioni sulla condizione menopausale, sull’uso della terapia ormonale
in questa fase della vita e su altri fattori
medici e relativi allo stile di vita. Nel
2005 e nel 2009, è stato chiesto loro di
riportare episodi di sanguinamento
gastrointestinale che hanno richiesto
un ricovero o una trasfusione. Il 74%
degli episodi riferiti dalle partecipanti sono stati confermati dall’analisi
delle cartelle cliniche. In 22 anni di
follow-up, sono stati 270 i casi confermati di grave sanguinamento gastrointestinale in donne dopo la menopausa.
Dopo l’aggiustamento statistico, le
partecipanti che in quel momento
assumevano ormoni per la menopausa
HIGHLIGHTs
Tumore ovarico
Scoperto come le cellule resistono alla chemioterapia
Un gruppo di ricercatori
australiani ha eseguito
la più estesa analisi
genetica del cancro alle
ovaie mai compiuta
finora e ha scoperto come
questa forma di tumore
diventa resistente alla
chemioterapia e ad alcuni
farmaci
Gli studiosi del Peter McCallum Cancer Centre di Melbourne guidati da
David Bowtell, Direttore di genetica e
genomica del cancro, hanno registrato
la sequenza del Dna di 114 campioni di
cancro sieroso alle ovaie di alto grado di
92 pazienti, per mostrare come le cellule
cancerose resistano alle terapie.
“La ricerca, a cui hanno collaborato
l’University of Queensland e il Millennium Institute di Sydney, consentirà di
decidere quali farmaci hanno più probabilità di risultare efficaci”, scrive Bowtell
sulla rivista Nature. “Mappando tutte
queste mutazioni potremo cominciare a
catalogare i modi in cui il cancro evade
un dato trattamento e compiere scelte
mirate riguardo ai farmaci che possono
essere usati in uno scenario ricorrente”,
aggiunge. La maggior parte delle donne
diagnosticate con questa diffusa forma,
attualmente muoiono entro cinque anni
dalla diagnosi, al ritmo di 80 mila l’anno
globalmente e i ricercatori sperano che
la scoperta possa migliorarne l’aspettativa di vita.
Fonte: Nature, 2015
17
HIGHLIGHTs
Sindrome dell’ovaio
policistico
La palestra migliora i sintomi e l'attività sessuale
È il primo studio che ha mostrato come un allenamento di resistenza (opposto all’attività
aerobica) abbia migliorato molti aspetti della sessualità nelle donne obese affette da PCOS,
rispetto a quelle sovrappeso non colpite da questa sindrome.
18
tronco. L’intensità degli esercizi di resistenza aumentava
ogni settimana, mentre con la
progressione del programma si
riducevano le ripetizioni..All’inizio del programma e dopo
16 settimane le donne hanno
risposto a domande sulla loro
funzione sessuale, tra cui desiderio, eccitazione, lubrificazione, orgasmo, appagamento,
dolore, ansia e depressione.
Dopo il regime di esercizio, il
gruppo di controllo lamentava
molto meno dolore. Inoltre,
entrambi i gruppi facevano
registrare tassi inferiori di
ansia e depressione.
Alla sedicesima settimana, i
punteggi delle partecipanti
con PCOS in merito alla
funzione sessuale sono risultati più alti di quanto fossero
all’inizio; le donne riferivano
molto più desiderio, eccitazione e lubrificazione e meno
dolore. Esse avevano anche
livelli di desiderio più elevati
rispetto alle donne senza
PCOS. È il primo studio che
ha mostrato come un allenamento di resistenza (opposto
all’attività aerobica) abbia
migliorato molti aspetti della
sessualità nelle donne obese
affette da PCOS, rispetto a
quelle sovrappeso non colpite da questa sindrome.
Fonte: Journal of Sexual
Medicine 2015
s h ut te rtoc k (2 )
Rafforzare i muscoli di
braccia, gambe e tronco
può rendere il sesso meno
doloroso e più piacevole per le
donne con sindrome dell’ovaio
policistico.È quanto emerge
da uno studio brasilianocondotto dal team guidato
Lucia Alves Silva Lara – che
ha reclutato 43 donne con
sindrome dell’ovaio policistico
(PCOS) e 51 senza tale condizione. Nello studio sono state
coinvolte sia donne con un
peso normale, sia sovrappeso.
L’indice di massa corporea
medio nelle partecipanti con
PCOS rientrava nel range
del sovrappeso, con circonferenze medie del girovita di
81 centimetri. Nel gruppo di
controllo, la massa corporea
era leggermente inferiore
ma sempre nel range del
sovrappeso, con circonferenze
del girovita di circa 76 cm.
Entrambi i gruppi hanno
partecipato a 16 settimane
di regime di esercizio fisico
che includeva lo stretching
e prevedeva l’uso di panche
piane, panche extensor e
altri strumenti di resistenza
fisica per allenare i muscoli
di fianchi, gambe, braccia e
EBM
Evidence Based Medicine
Cosa sono?
L’EBM, in italiano “medicina basata sulle
prove di efficacia”, ha come obiettivo quello di assicurare che le decisioni cliniche
siano informate dai risultati della ricerca,
in particolare della ricerca clinica. Tra le
sue funzioni chiave c’è quella di fornire uno strumento di lettura rispetto
ai dati della ricerca e di ricondurli
al singolo paziente. Per accrescere la credibilità delle deduzioni di un medico – rispetto, per
esempio, all’utilità di un test o
all’efficacia di una terapia o per
una corretta prognosi – e per
trasformare tali deduzioni in
nozioni condivisibili dai colleghi
e dall’intera comunità scientifica,
diventa imprescindibile lo sforzo di
standardizzare e validare le osservazioni maturate nel contesto della pratica
medica. E per interpretare la letteratura
scientifica esistente su eziologia, diagnosi, prognosi ed efficacia delle strategie
terapeutiche è necessario comprendere
e condividere le regole metodologiche di
base. Non tutti gli studi clinici forniscono
informazioni di uguale affidabilità, quindi nella decisione clinica le prove di effi-
cacia avranno un peso maggiore a seconda della robustezza della fonte che le ha
prodotte. La visualizzazione più efficace
di questa gerarchia è quella della piramide delle evidenze, che posiziona al proprio vertice le prove sperimentali più affidabili e alla base quelle aneddotiche.
Sebbene esistano diverse varianti di
piramide delle evidenze, la scala gerarchica di ciascuna pone al primo
posto le informazioni desunte da
revisioni sistematiche che includono studi clinici controllati di
buona qualità; all’opposto, il parere degli esperti senza supporto
di studi empirici occupano l’ultima
posizione. Nelle posizioni intermedie
si trovano gli studi di popolazione e gli
studi osservazionali, nei quali la relazione
tra l’intervento e l’effetto (o tra l’esposizione a un fattore di rischio e l’effetto) non
è causale e le inferenze di associazione
sono spesso esposte a errori sistematici.
Solidità delle evidenze: gradi e definizioni
A = ELEVATA
Abbiamo molta fiducia nel fatto
che la stima dell’efficacia sia vicina
all’efficacia reale negli esiti considerati. Le evidenze accumulate
presentano deficit scarsi o nulli. E’
nostra opinione che i dati siano
stabili, ossia che un nuovo studio
non porterebbe ad un cambiamento nelle conclusioni.
B = MODERATA
Siamo moderatamente certi che la
stima dell’efficacia sia vicina alla reale efficacia per gli esiti considerati.
Le evidenze accumulate presentano
alcuni deficit. E’ nostra opinione che
i dati siano probabilmente stabili,
ma permangono alcuni dubbi.
C = BASSA
La certezza del fatto che la stima
dell’efficacia sia vicina alla reale
efficacia per gli esiti considerati è
limitata. Le evidenze accumulate
presentano deficit numerosi o
importanti (o entrambi). E’ nostra
opinione che siano necessarie
ulteriori evidenze prima di poter
concludere che i dati siano stabili o
che la stima dell’efficacia sia vicina
all’efficacia reale.
D = INSUFFICIENTE
Non abbiamo evidenze, non siamo
in grado di stimare l’efficacia, o non
abbiamo fiducia nella stima dell’efficiacia per quanto riguarda l’esito
considerato. Non sono disponibili
evidenze, oppure le evidenze accumulate presentano deficit inaccettabili, precludendo il raggiungimento
di una conclusione.
19
EBM
Evidence summaries
18/1/2011
LIVELLO EVIDENZE = B
Evidence summaries
23/4/2008
LIVELLO EVIDENZE = D
L’esercizio appare efficace per migliorare la funzionalità della
spalla nelle donne con tumore mammario.
Gli interventi praticati da personale infermieristico specializzato
per l’assistenza al seno (BCN) sembra portare ad un qualche beneficio nelle donne con tumore mammario, specie nell’identificazione di ansia e depressione, ma le evidenze sono insufficienti.
Una revisione del database Cochrane ha incluso 24 studi per
un totale di 2132 soggett. Dieci studi hanno esaminato l’effetto
dell’implementazione precoce o ritardata (di circa una settimana) dell’esercizio postoperatorio. L’esercizio precoce è risultato
più efficace di quello ritardato nella ripresa a breve termine del
range di movimento (ROM) della spalla (WMD: 10,6 gradi, 95% CI
4,51-16,6; 3 studi, n = 677), ma non dopo 4-6 settimane o 6 mesi. In
ogni caso, l’esercizio precoce ha anche prodotto un aumento nel
volume e nella durata del drenaggio delle ferite (WMD: 15 giorni,
95% CI 0,65-1,65). 14 studi (6 postoperatori, 3 durante il trattamento adiuvante e 5 a seguito del trattamento antitumorale) hanno
esaminato l’effetto dell’esercizio strutturato rispetto all’assistenza standard. I programmi di esercizio strutturato nel periodo
postoperatorio hanno migliorato significativamente il ROM di
flessione della spalla a breve termine (WMD: 12,92 gradi, 95% CI
0,69-25,16; 6 studi, n = 324) ed a 6 mesi (WMD 11,86, 95% CI 4,25-19,46;
3 studi, n = 149). Il trattamento basato sulla terapia fisica ha portato a benefici addizionali per la funzionalità della spalla nella fase
post-intervento e dopo 6 mesi di
monitoraggio. Non sussistono evidenze di un aumento del rischio di
linfedema correlato all’esercizio in
qualunque fase temporale.
Commento: La qualità delle evidenze risulta ridotta per via della
qualità degli studi (diversi difetti
nella maggior parte degli studi) e
migliorata per via della notevole
entità degli effetti registrati.
Bibliografia; McNeely ML, Campbell K, Ospina M, Rowe BH, Dabbs
K, Klassen TP, Mackey J, Courneya K. Exercise interventions for
upper-limb dysfunction due to
breast cancer treatment. Cochrane Database Syst Rev 2010 Jun
16;(6):CD005211.
20
Personale infermieristico specializzato
per la cura del seno (BCN) per
l’assistenza di supporto nelle donne
con tumore mammario
Una revisione del database Cochrane ha incluso 5 studi per un
totale di 1052 pazienti con tumore mammario. Tre studi che hanno validato gli interventi infermieristici psicosociali in prossimità
della diagnosi e delle prime fasi del trattamento hanno riscontrato che i BCN potrebbero influenzare alcune componenti della
qualità della vita, come ansia e riconoscimento precoce dei sintomi depressivi. In ogni caso, il loro impatto sugli aspetti sociali
e funzionali dell’andamento della malattia è stato inconcludente.
Gli interventi di supporto durante la radioterapia sono stati valutati da uno studio che ha dimostrato che interventi specifici
dei BCN possono alleviare la percezione dello stress durante il
trattamento radioterapeutico, ma non ha migliorato le skill di
coping, l’umore o la qualità della vita complessiva. Uno studio
ha valutato gli interventi di monitoraggio condotti dal personale
infermieristico e non è stata identificata alcuna differenza statisticamente significativa per quanto riguarda principali variabili
demografiche, soddisfazione
dell’assistenza, accesso all’assistenza medica ed ansia o depressione.
Commento: La qualità delle
evidenze risulta ridotta per
via della qualità degli studi
(diversi problemi) e della mancata costanza (eterogeneità
negli interventi e negli esiti).
Bibliografia:
Cruickshank
S, Kennedy C, Lockhart K,
Dosser I, Dallas L. Specialist
breast care nurses for supportive care of women with
breast cancer. Cochrane
Database Syst Rev 2008 Jan
23;(1):CD005634.
s h u tte rsto ck ( 2)
Esercizio fisico per le disfunzioni
degli arti superiori dovuti al
trattamento del tumore mammario
Chirurgia intercalare di debulking
per i tumori ovarici epiteliali
avanzati
Bypass coronarico off-pump o
minimamente invasivo a raffronto
con l’intervento percutaneo
Evidence summaries
16/3/2014
LIVELLO EVIDENZE = D
Evidence summaries
17.9.2008
LIVELLO EVIDENZE = A
La chirurgia intercalare di debulking per i tumori ovarici epiteliali avanzati potrebbe essere efficace nei casi in cui la chirurgia primaria non è stata praticata da oncologi ginecologici,
ma le evidenze sono insufficienti.
Nelle patologie che interessano uno o due vasi, il bypass coronarico off-pump (OPCAB) riduce la necessità di nuovi interventi per
ischemia, le recidive dell’angina e gli eventi coronarici maggiori su
un periodo da 1 a 5 anni rispetto all’intervento percutaneo (PCI),
ma è associato ad un aumento della durata della degenza ospedaliera. Sembrano non essere presenti differenze fra OPCAB e PCI
per quanto riguarda: mortalità, infarto miocardico ed ictus.
Una revisione sistematica su 6 studi per un totale di 989 soggetti è
stata riassunta nel database DARE. Rispetto all’intervento percutaneo (PCI), il bypass coronarico off-pump (OPCAB) ha ridotto la
frequenza dell’angina (OR 0.54, 95% CI 0.34 / 0.87) e la necessità di
nuovi interventi su un periodo da 1 a 5 anni (OR 0.24, 95% CI 0.15 /
0.40; 5 studi). Gli eventi coronarici maggiori risultano significativamente ridotti (OR 0.44, 95% CI 0.30 to 0.63) e la sopravvivenza
libera da eventi risulta significativamente aumentata su un periodo da 1 a 5 anni (OR 2.32, 95% CI 1.62 /3.32) con l’OPCAB rispetto
alla PCI (OR 0.31, 95% CI 0.18 / 0.55).
La degenza ospedaliera risulta significativamente aumentata con l’OPCAB rispetto alla PCI (WMD 4.03, 95% CI 2.37 / 5.70).
Due studi hanno valutato la qualità della
vita dei pazienti. Uno studio ha riportato
un significativo miglioramento nella qualità della vita associato alla PCI rispetto
all’OPCAB dopo un mese, ma non ha riportato alcuna differenza significativa
dopo un anno. L’altra ricerca ha riportato
miglioramenti statisticamente significativi associati all’OPCAB su soli tre domini di
quattro strumenti per il calcolo della qualità della vita. Mortalità, infarto miocardico ed ictus non presentavano differenze
significative.
Una revisione del database Cochrane ha incluso 3 studi per un
totale di 853 donne, di cui 781 sono state valutate. La chirurgia
secondaria, effettuata dopo alcuni cicli di chemioterapia e prima di procedere ad ulteriori cicli di chemioterapia, è chiamata chirurgia intercalare di debulking (IDS). La sopravvivenza
complessiva ha dimostrato una sostanziale eterogeneità fra i
vari studi. L’analisi dei sottogruppi per la sopravvivenza complessiva in due studi, in cui l’intervento primario non era stato
praticato da un oncologo ginecologico, ha dimostrato i benefici dell’IDS (HR 0,7 95% CI 0,5-0,9, I2 = 0%). I tassi di reazioni
tossiche alla chemioterapia sono risultati simili in entrambi i
settori dello studio, ma sono disponibili scarse informazioni
sugli altri effetti collaterali.
Soltanto uno studio ha riportato la qualità della vita,
che risultava generalmente
simile in entrambi i settori
terapeutici dello studio.
Commento: La qualità delle
evidenze risulta ridotta per
via della mancata costanza (variabilità dei risultati
fra i vari studi), dei risultati
indiretti (differenze nei pazienti studiati e nel grado di
esperienza dei chirurghi) e
dell’imprecisione dei risultati
(dimensioni degli studi limitate per ciascun raffronto).
Bibliografia : Tangjitgamol
S, Manusirivithaya S, Laopaiboon M, Lumbiganon P. I
nterval debulking surgery for
advanced epithelial ovarian
cancer. Cochrane Database
Syst Rev. 2008;(4):CD006014
[Review content assessed as
up-to-date: 5 March 2013].
Bibliografia: Bainbridge D, Cheng D, Martin J, Novick R; Evidence-based Peri-operative Clinical Outcomes Research (EPiCOR) Group. Does off-pump or minimally
invasive coronary artery bypass reduce
mortality, morbidity, and resource utilization when compared with percutaneous
coronary intervention? A meta-analysis
of randomized trials. J ThoracCardiovasc
Surg. 2007;133(3):623-31.
21
Tumore
mammario
Varianti genetiche
e previsione del rischio
23
24
cosa valutata la possibilità che l’interazione fra coppie di
SNP riesca ad influenzare la contribuzione congiunta dei
fattori genetici sul rischio di malattia testando tutte le possibili interazioni derivanti da ogni accoppiamento di SNP.
Sono state poi costruite tabelle di rischio poligeniche (PRS)
per catturare gli effetti combinati dei 77 SNP sul rischio
complessivo di tumore mammario, come anche sul rischio
di tumori ER-positivi ed ER-negativi separatamente. E’ stato
stimato il rischio assoluto di sviluppare tumore mammario
per ciascun diverso livello di PRS, tenendo conto del concomitante rischio di mortalità per altre cause. Le proporzioni
dell’effetto sono state confermate in un ampio studio, denominato KARMA, che non era parte di alcun set di scoperta
di SNP. E’ stato infine discusso il grado di stratificazione
del rischio di tumore mammario ottenuto nelle donne con
sh ut te rs toc k
I
l tumore mammario rappresenta la neoplasia più comune fra le donne occidentali, con 1,67 milioni di casi
diagnosticati ogni anno in tutto il mondo. Alcune
strategie come i farmaci per la riduzione del rischio
endocrino ed il rilevamento precoce tramite tecniche di screening possono ridurre il carico derivante dalla
malattia, ma presentano svantaggi fra cui effetti collaterali,
sovradiagnosi ed incremento dei costi.
La stratificazione delle donne in base al rischio di sviluppare tumore mammario potrebbe migliorare la riduzione del
rischio e le strategie di screening individuando le categorie
con le maggiori probabilità di trarne beneficio. Nell’eziologia dei tumori mammari sono implicati sia fattori genetici
che elementi legati allo stile di vita: le donne con un’anamnesi familiare di tumore mammario in un parente di primo
grado presentano un rischio quasi doppio rispetto a quelle
con anamnesi familiare negativa. Alcune rare mutazioni ad
alto rischio, specie nei geni BRCA1 e BRCA2, spiegano meno
del 20% dei rischio relativo familiare, e sono responsabili di
una piccola proporzione dei casi di tumore mammario che
interessano la popolazione generale. Le varianti a bassa frequenza che conferiscono un rischio intermedio, come quelle
nei geni CHEK2, ATM e PALB2, spiegano fra il 2% ed il 5%
del rischio relativo familiare. Gli studi associativi condotti
sull’intero genoma (GWAS) hanno portato alla scoperta di
molteplici varianti comuni a basso rischio (polimorfismi a
carico di un singolo nucleotide, SNP) associate al rischio di
tumore mammario, molte delle quali sono differenzialmente associate allo status relativo ai recettori per gli estrogeni
(ER). Sono state recentemente identificate nuove varianti
associate al rischio in un ampio studio replicativo condotto
dal Breast Cancer Association Consortium (BCAC) come
parte del Collaborative Oncological Gene-Environment
Study (COGS). Sono stati genotipizzati SNP su più di 40000
casi di tumore mammario e 40000 donne di controllo, utilizzando un esame personalizzato (ICOGS). Questo esperimento ha incrementato il numero di SNP saldamente associati
ai tumori mammari da 27 a più di 70, ed ha identificato ulteriori varianti specifiche per i tumori mammari ER-negativi.
Il rischio conferito dai SNP non è sufficientemente ampio
da risultare utile nella previsione del rischio individuale,
ma l’effetto combinato di molteplici SNP potrebbe raggiungere un grado di discriminante del rischio che risulti
utile per i programmi di prevenzione e diagnosi precoce
del tumore mammario basati sulla popolazione. E’ stato
effettuato uno studio approfondito sulla valenza dell’impiego di tutti i77 loci di suscettibilità al tumore mammario
identificati sinora per la stratificazione del rischio. Gli studi
precedenti sul livello di rischio poligenico sono stati basati
su un modello dipendente dai registri per la combinazione
degli SNP, ma questa posizione dovrebbe essere prima valutata empiricamente. Nel presente studio è stata per prima
Sono state recentemente
identificate nuove varianti
associate al rischio in un
ampio studio replicativo
condotto dal Breast Cancer
Association Consortium
(BCAC) come parte del
Collaborative Oncological
Gene-Environment
Study (COGS). Sono stati
genotipizzati SNP su più
di 40000 casi di tumore
mammario e 40000 donne
di controllo, utilizzando
un esame personalizzato
(ICOGS)
e senza anamnesi familiare di tumore mammario. Nelle
indagini precedentemente riportate, il miglioramento nella
discriminazione del rischio tramite i profili genomici al di
là di quello conferito dai fattori di rischio noti non è stato
sostanziale, benché si sia ottenuta una migliore discriminazione in alcuni sottogruppi di donne. Le analisi precedenti,
comunque, erano basate su un set di SNP nettamente più
limitato di quello considerato nel presente studio: esso ha
portato a precise stime empiriche degli effetti combinati
degli SNP e del livello di stratificazione possibile, e queste
stime potrebbero informare il dibattito sull’utilità per la
salute pubblica dell’implementazione dei PRS nella pratica
clinica. Lo studio ha suggerito che i PRS, specie se impiegati
in combinazione con altri fattori di rischio, potrebbero aiutare ad identificare sottogruppi di donne a diverso livello
di rischio, per le quali le strategie gestionali potrebbero
differire. I PRS potrebbero facilitare la diagnosi precoce dei
tumori nelle donne giovani, e cosa più importante, identificare le pazienti a rischio di sottotipi specifici di tumore
mammario. Infine, sussiste il potenziale per un maggiore
impatto nella modifica dei fattori ambientali per le donne
a maggior rischio di tumore mammario. L’analisi prospettica dei 77 PRS di SNP, in combinazione con altri fattori di
rischio, sarà necessaria per convalidare l’accuratezza complessiva della previsione del rischio: questo algoritmo di
previsione del rischio omnicomprensivo potrebbe garantire
una solida base per i programmi di prevenzione stratificata
dei tumori mammari.
Fonte: J Natl Cancer Inst. 2015;107(5))
25
Chemioterapia
o nanoterapia?
26
sh ut te rs toc k
Tumori
ovarici
progressivi
28
difetti metodologici minano alla base la stessa rilevanza dei
CEA, portando a conclusioni erronee a carico di pazienti
e società. Alcune recenti evidenze a supporto dei benefici
clinici della nanoterapia, unitamente alle crescenti preoccupazioni per gli elevati costi dei trattamenti mirati, hanno
portato allo svolgimento della prima analisi economica
omnicomprensiva che abbia paragonato fra loro le possibili alternative terapeutiche per i tumori ovarici. L’analisi
si è basata sui dati derivanti da uno studio randomizzato
di fase III che ha paragonato GEM e PLD dimostrando che
la GEM non è superiore alla PLD nelle pazienti che vanno
incontro a recidiva dopo una prima terapia con un regime
contenente platino/paclitaxel entro 12 mesi dal completamento della terapia. La PLD si è dimostrata più vantaggiosa
rispetto alla GEM in termini di tossicità e di preservazione
sh ut te rs toc k (2 )
I
tumori ovarici rappresentano la causa
maggiormente prevalente di mortalità legata
a tumori maligni ginecologici, con circa 225.000
nuovi casi e 140.000 decessi ogni anno. Dato che la
malattia rimane asintomatica per un lungo periodo
di tempo, le donne presentano spesso una patologia in stato avanzato all’atto della diagnosi. La prognosi è
pertanto infausta, con un tasso di sopravvivenza a 5 anni
del 25-30% nei casi metastatici. Dato che il prolungamento
della sopravvivenza e la palliazione dei sintomi rimangono
gli obiettivi maggiormente realistici, è necessario rivolgere una particolare attenzione alla qualità della vita per la
quale ancora si prevede la sopravvivenza della paziente.
Nonostante il fatto che la chemioterapia rappresenti la
forma predominante di trattamento di seconda linea,
essa probabilmente potrebbe causare effetti collaterali di
diverso grado di gravità, e nel contempo manifestare una
scarsa attività ed efficacia sul tumore. A causa dei ricoveri e
della terapia, i costi del trattamento delle reazioni negative
potrebbero essere elevati. Sussiste una critica necessità di
stabilire un equilibrio costo/beneficio in termini di preservazione della qualità della vita con le terapie attualmente
disponibili: in questo contesto, è stato dimostrato che la
gemcitabina (GEM) e la doxorubicina PEGilata liposomale
(PLD) sono attive come trattamenti di seconda linea nei
tumori ovarici. Tuttavia, la GEM spesso porta a tossicità
ematologica, mentre la PLD, che rappresenta una nanoterapia di prima generazione, dimostra una tossicità ridotta
grazie alle sue proprietà farmacocinetiche uniche, con
l’eccezione di mucositi ed eritrodisestesie palmo-plantari,
specie nella dose consigliata di 50 mg/m2. La PLD pertanto
è attualmente oggetto di considerazione come alternativa
alla chemioterapia. Sinora pochi studi si sono occupati
di accertare se le nanoterapie, oltre a ridurre la tossicità,
risultino anche economicamente convenienti. I costi del
trattamento per le malattie con elevati tassi di incidenza,
come i tumori ovarici, potrebbero aumentare significativamente in futuro. Ai programmatori sanitari si richiede di
valutare se le nuove terapie offrano una maggiore valenza
rispetto a quelle in uso: un recente studio ha riportato che
le nove analisi costo/beneficio (CEA) sinora effettuate - che
abbiano paragonato nanoterapie e chemioterapie - sono di
fatto incomplete, in quanto in primo luogo non considerano
i costi indiretti, ed in secondo luogo non hanno approssimato i propri risultati in termini di efficacia secondo la qualità
della vita della paziente, ad eccezione di uno. Dato che il
trattamento non influenza soltanto la durata della sopravvivenza ma anche la qualità della vita, è importante esprimere i dati di efficacia in termini di QALY (Quality-Adjusted
Life Years). Infine, questi studi hanno impiegato definizioni
non uniformi dei costi, il che ha reso qualunque raffronto
economico fra le terapie virtualmente impossibile. Questi
Sussiste una critica necessità di
stabilire un equilibrio costo/beneficio
in termini di preservazione della
qualità della vita con le terapie
attualmente disponibili: in questo
contesto, è stato dimostrato che la
gemcitabina (GEM) e la doxorubicina
PEGilata liposomale (PLD) sono attive
come trattamenti di seconda linea nei
tumori ovarici.
della qualità della vita. In particolare, i minori tassi di mucosite e tossicità cutanea osservati con la PLD sono probabilmente correlati al suo impiego ad una dose di 40 mg/
m2, il che negli studi di fase II è stato giudicato ugualmente
efficace ma meno tossico rispetto al dosaggio convenzionale.
Come previsto, l’investimento iniziale associato alla nanoterapia risulta significativamente maggiore rispetto a quello
necessario per la chemioterapia, ma questi costi sono stati
ampiamente coperti da risparmi su altri costi diretti, specie
quelli connessi alla somministrazione dei farmaci, e questo
effetto è risultato ancora più marcato tenendo conto dei
costi indiretti. La nanoterapia per i tumori ovarici dunque
non presenta soltanto un buon rapporto costo/beneficio, ma
porta anche a sorprendenti risparmi a livello della società.
Nei prossimi decenni la nanoterapia potrebbe rivoluzionare
la medicina: ai fini di supportare pubblicamente queste
nuove terapie, è di importanza cruciale che i loro ulteriori
effetti ne giustifichino i costi aggiuntivi.
La ricerca economica sulle terapie basate sulla nanotecnologia, comunque, è ancora ai primordi. Gli studi sui rapporti
costo/beneficio saranno particolarmente importanti per le
prossime generazioni di nanoterapeutici, così come anche
gli agenti specifici mirati. Dato che queste terapie saranno verosimilmente molto efficaci, ma potrebbero anche
comportare elevati costi di acquisizione, sarà fondamentale
dimostrare la loro convenienza includendo tutti i costi
rilevanti sia diretti che indiretti, come anche stime della
qualità della vita del paziente.
Fonte: Nanomedicine. 2014; 9: 2175-86
29
bibliografia
http://www.medscape.
com/viewarticle/583427
Clear Cell Adenocarcinoma of the Ovary Associated With In Utero
Diethylstilbestrol Exposure: Case Report and
Clinical Overview
2009
Hatch EE, Herbst AL, Hoover RN, et al. Incidence of
squamous neoplasia of the
cervix and vagina in women exposed prenatally to
diethylstilbestrol (United
States).
In uno studio del 2008 l’esposizione in utero
a DES era associata a un elevato rischio di
cancro ovarico. Tuttavia, nessuno dei tumori
ovarici descritti ha dimostrato di essere di
istologia a cellule chiare. Eppure si potrebbe
concludere che, dal momento che i tumori a
cellule chiare costituiscono il 5% e il 10% di
tutte le neoplasie epiteliali ovariche maligne,
il caso descritto, secondo gli autori, potrebbe
rappresentare la normale distribuzione di
questa malattia e l'associazione, è precisamente tra DES e il cancro ovarico epiteliale.
Al contrario, un altro ampio studio epidemiologico (2007) non ha dimostrato un aumento
del rischio di cancro in figlie DES-esposte
diversi dall’adenocarcinoma a cellule chiare
del tratto genitale inferiore e dal cancro al
seno nelle donne anziane. In questo studio il
rischio di cancro al seno è stata elevato solo
tra le donne di età superiore ai 40 anni. Inoltre, l’incidenza dell’adenocarcinoma a cellule
chiare appariva diminuita di oltre l'80% nelle
donne di 25 anni e oltre rispetto a quelle di
20-24 anni. Escludendo l’adenocarcinoma a
cellule chiare e il cancro al seno, il rapporto
complessivo del rischio era 1.21 (95% CI, 0,742,0). E ancora, il DES non è stato associato
con eccesso di rischio sia per il cancro endometriale sia per quello ovarico. Questi dati
suggeriscono che l'aumento dell’incidenza
dell’adenocarcinoma a cellule chiare rimane
elevato nel corso degli anni riproduttivi.
Per quanto riguarda l'associazione tra
l'esposizione in utero DES e il cancro al seno,
ci potrebbero essere somiglianze eziologiche
e di sviluppo tra l'aumento del rischio per il
cancro al seno e alle ovaie. Va ricordato che
le esposizioni in utero possono non agire direttamente sul seno, ma possono modificare
altri percorsi fisiologici, come il metabolismo
degli ormoni, che potranno influenzare tale
rischio nel corso della vita.
In conclusione, questo caso di probabile
carcinogenesi transplacentare DES-indotta
più di 4 quattro decenni dopo l'esposizione
rafforza, secondo gli autori, la necessità di
proseguire con maggiore attenzione gli esami
ginecologici di routine nei soggetti esposti in
età prenatale.
Cancer Causes Control.
2001;12:837-845
Wise LA, Palmer JR,
Rowlings K, et al. Risk
of benign gynecologic
tumors in relation to
prenatal diethylstilbestrol
exposure. Obstet Gynecol.
2005;105:167-173
Titus-Ernstoff L,Troisi R,
Hatch EE, et al. Offspring
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utero to diethylstilbestrol (DES): a preliminary
report of benign and
malignant pathology in the
third generation. Epidemiology. 2008;19:251-257.
Troisi R, Hatch EE,Titus-Ernstoff L, et al. Cancer
risk in women prenatally
exposed to diethylstilbestrol. Int J Cancer.
2007;121:356-360.
33
CLINICAL LEADER
Dieta epigenetica. Una nuova strada
per la prevenzione del cancro al seno?
A tu per tu con Trygve Tollefsbol
Trygve Tollefsbol e colleghi hanno studiato, per diversi anni, il legame tra mRNAs e alimentazione nella
modificazione dell’espressione dei geni coinvolti nella genesi del cancro, in particolare quello del seno
34
grado avanzato, mentre altri miRNA come quella della famiglia let-7 possono essere espressi in livelli minori in questo
sottotipo di tumori al seno.
Perché avete deciso di studiare l’impatto dell’alimentazione
sui miRNAs?
Uno dei componenti principali coinvolto nel rischio del cancro al seno è lo stile di vita e la dieta è un fattore leader che
può essere facilmente manipolato per abbassare il rischio
del tumore al seno. Ci siamo interessati a quella che chiamiamo “dieta epigenetica” per diversi anni ed abbiamo coniato questo termine alcuni anni fa. Questa dieta coinvolge il
consumo di prodotti come i vegetali cruciferi (come broccoli,
cavolo, cavolfiore, ed i broccoletti di Bruxelles), il te verde, la
soia ed alcune spezie, come la curcuma nel curry, capaci di
modificare l’espressione epigenetica dei geni per prevenire
il cancro. Il nostro laboratorio ha studiato diversi aspetti
dei meccanismi epigenetici rispetto a questa dieta: abbiamo
studiato la metilazione del DNA e le modifiche agli istoni da
parte dei composti fitochimici della dieta epigenetica.
Brevemente, quali sono i composti fitochimici con un effetto dimostrato sull’epigenetica?
I composti fitochimici sono molecole biologicamente attive
presenti nelle piante e diversi studi provenienti anche dal
nostro laboratorio hanno dimostrato che alcuni composti
presenti nei mirtilli, la soia, l’uva rossa, i vegetali cruciferi,
il te verde, ed alcune spezie possono ridurre il rischio del
cancro al seno. La nostra ricerca, per esempio, ha scoperto
che nonostante queste molecole possano funzionare tramite
diversi meccanismi, un meccanismo molto importante
è la prevenzione dell’aumento della telomerasi. L’enzima
telomerasi mantiene la lunghezza dei cromosomi e le cellule
cancerose dipendono fortemente dalla telomerasi per continuare a replicarsi, mentre le cellule normali non cancerose
non dipendono dalla telomerasi. In un certo senso, questo
pe r g e n ti l e co n ce ss i o n e d i T ry g v e to l le f sb ol
Professor Tollefsbol, cosa sono i microRNAs e qual è la loro
relazione con il tumore al seno?
I miRNAs sono porzioni dell’RNA che non codificano una
specifica proteina, ma che hanno comunque un impatto importante sui processi biologici come la formazione del cancro. Questi miRNAs sono in grado di modificare l’espressione
di molti geni che conducono alla formazione del cancro ed
altre malattie. Fanno naturalmente parte di una cellula del
corpo umano e consistono in circa 18-25 nucleotidi: poiché
si legano all’RNA messaggero codificato da specifici geni ,i
miRNA possono regolare l’espressione dei geni stessi tramite
degradazione od inibizione dell’RNA messaggero. Le aberrazioni nell’espressione dei geni sono molto comuni nell’eziologia e nella progressione di tumori come il cancro al seno.
In alcuni casi, un miRNA può anche evitare il cancro agendo
come soppressore tumorale, ed in altri casi quello stesso
miRNA può agire come un oncogeno che porta all’oncogenesi ed alla progressione del tumore. Per esempio, il miRNA
chiamato miR-93 può essere sovraespresso e portare alla
soppressione del cancro al seno. Tuttavia, la progressione
del cancro al seno è uno dei fattori da considerare, poiché
un aumento dell’espressione del miR-93 in un tumore poco
differenziato può fermare la progressione del cancro, mentre
in tumori più differenziati può risultare in un avanzamento
del tumore attraverso la stimolazione delle cellule staminali
cancerose.
In più, il rischio di cancro al seno può dipendere da fattori
come lo stile di vita e l’eredità genetica.
I fattori genetici BRCA1 e BRCA2 possono essere mutati per
aumentare il rischio di cancro al seno, ma specifici miRNAs
come miR-146a e miR146b-5p possono diminuire l’infuenza
del BRCA1. Quindi i miRNA possono influenzare il tumore al
seno sia nella sue origini ambientali che genetiche. Si può,
potenzialmente, stabilire la progressione del tumore al seno
tramite analisi del miRNAs. Per esempio, certi miRNAs come
il miR-18a possono essere fortemente espressi in tumori di
ci offre la possibilità di uccidere le cellule cancerose che si
stanno formando lasciando intatte le cellule normali.
Il gene che regola la telomerasi, chiamato hTERT, è controllato tramite processi epigenetici ed i composti fitochimici
sono in grado di neutralizzare le aberrazioni epigenetice che
potrebbero condurre all’aumento della telomerasi e la conseguente formazione di un cancro.
Quali sono i miRNAs coinvolti nella riduzione del rischio di
cancro al seno?
Le nostre conoscenze nei cambiamenti del miRNA possono essere importanti sotto diversi aspetti del controllo del
cancro al seno. Per esempio, possono essere utili per diagnosticare e valutare lo stato del tumore tramite analisi del
miR-28 nel siero, che ha una alta accuratezza diagnostica
per il cancro al seno, ed il miR-17-92 e miR-93 possono essere
utili per determinare lo stato del tumore. Inoltre, il miR-200c
è associato con la progressione del cancro al seno ed il let-7
diminuisce nel tumore metastatico del seno. Possiamo anche
essere in grado di determinare la prognosi monitorando i
miRN, dal momento che il miR-34a, miR-21,miR155, miR-497 e
miR-210 hanno la possibilità di predire la prognosi del tumore al seno.
I composti fitochimici assunti tramite la dieta possono avere
un impatto su specifici miRNA per ridurre il rischio di cancro
del seno. La curcumina, per esempio, presente nel curry può
diminuire il miR-19a ed il miR-19b, e questo è associato con
l’apoptosi delle cellule tumorali. Inoltre, questa molecola può
aumentare il miR-15a e miR-16 i quali conducono anch’essi
alla morte delle cellule tumorali. Alcune molecole contenute
nella soia (ed anche i lupini, le fave,e nel caffè, n.d.r.), come la
genisteina, possono anche aumentare l’apoptosi delle cellule
cancerose diminuendo il livello di miR-155. Ed il resveratrolo
degli acini d’uva rossa (la buccia, per essere precisi, n.d.r.) ed
il vino rosso possono aumentare numerosi miRNA capaci
di rallentare l’invasione delle cellule cancerose. Allo stesso
modo, i polifenoli contenuti nel té verde possono produrre
aumenti negli stessi miRNA (let-7a, miR-107, miR-548m, etc.)
oppure diminuire i miRNA let-7c, let-7e, let-7g, miR-21, miR-25,
eccetera, in modo da inibire la crescita delle cellule cancerose.
Quale potrebbe essere il ruolo clinico di queste molecole
fitochimiche?
Il consumo di questi composti fitochimici nel cibo e nelle
bevande ha il potenziale più importante nel prevenire il cancro del seno, per la loro modulazione del miRNA. C’è anche il
potenziale di poterli utilizzare per la terapia oncologica per
quanto riguarda il miRNA. Per esempio i miRNA let-7, miR-34,
miR-29 potrebbero potenzialmente essere somministrati ai
pazienti per la soppressione del tumore.
Trygve Tollefsbol, è professore di Biologia e Senior Scientist del
Comprehensive Cancer Center, presso l’Università dell’Alabama a Birmingham (USA). Le sue ricerche si concentrano da
più di 25 anni sull’epigenetica della prevenzione del cancro e la
regolazione della telomerasi in risposta alle sostanze nutrienti.
Attualmente è redattore associato di Frontiers in Epigenomics.
Assieme ai suoi colleghi ha messo a punto il sequencing ChIPGBS per lo studio degli effetti epigenetici degli alimenti.
È però fondamentale la somministrazione combinata dei
composti fitochimici e della chemioterapia standard. Come
esempio, abbiamo scoperto che somministrando un fitochimico come il sulforafano da vegetali cruciferi e polifenoli dal
té verde si aumenta l’effetto chemioterapico di agenti come
il cisplatino od il paclitaxel nel trattamento delle cellule
cancerose.
Tuttavia, alcuni composti fitochimici come la curcumina
potrebbero interferire con la chemioterapia.
Quindi, è chiaro che nonostante sia stati fatti molti passi
avanti per quanto riguarda la dieta, il miRNA, ed il cancro del
seno, è ancora necessaria molta ricerca. Posso anticipare che
alcune importanti scoperte sono all’orizzonte, e potrebbero
rivoluzionare l’approccio di diversi aspetti del trattamento
del tumore al seno, dalla diagnosi alla prevenzione, al trattamento.
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