1 L’Asia Orientale: il tramonto dopo la crescita? Gianni Vaggi1 Università degli Studi di Pavia, Giugno 1998 In L’Asia tra Recessione Economica e Minaccia Nucleare – Asia Major 1998, a cura d Giorgio Borsa, Il Mulino 1998 via S.Felice 5 27100 PAVIA Italy Tel +39 +382 506222 Fax +39 +382 304226 Email [email protected] Introduzione Nel Giugno del 1997 alcuni paesi del Sud Est Asiatico vengono colpiti dalla “Tequila Syndrome”, un malessere che aveva colpito il pesos messicano appena due anni e mezzo prima e sono costrette a svalutare le loro monete. In poche settimane il baht tailandese, il pesos filippino, il ringitt della Malesia e la rupia indonesiana perdono il 20-30% del loro valore rispetto al dollaro. Si spezza il mito della crescita a tassi elevati e soprattutto continua per più di una generazione. E’ la fine della via asiatica al benessere e al capitalismo? Ci sono importanti differenze, oltre che alcune analogie, fra i paesi dell’ASEAN, Indonesia, Malesia, Filippine Tailandia2, che sono i primi quattro ad essere colpiti dalla crisi, ed il Messico, come vi sono importanti differenze fra di loro e fra questi paesi e quelli di prima industrializzazione, le primi quattro ‘tigri’: Singapore, Hong Kong, Taiwan e Corea del Sud, per non dire della Cina. La crisi finanziaria e valutaria del 1997-98 mette in luce forse più le differenze che le analogie fra i vari paesi dell’Asia Orientale. Ancora una volta sarebbe pericoloso leggere la crisi come un fatto omogeneo, e ciò nonostante la quasi contemporaneità del crollo delle valute e delle borse di quei paesi. Si è trattato sicuramente di un ‘effetto domino’, o di una forma di ‘contagio’, come si usa dire ora, ma per azzardare qualche riflessione sull’evoluzione possibile della crisi vanno sottolineate le differenze anche fra le economie, oltre che nelle condizioni politiche, dei paesi di quest’area economica che per vent’anni è stata oggetto di ammirazione e di studio da parte degli economisti. Resta il fatto che anche l’Asia Orientale del boom economico e non solo la travagliata America Latina è soggetta a gravi crisi, e qualche lezione da tutto ciò bisogna trarre. Ma in che cosa è consistito il modello di crescita e di industrializzazione dell’Asia Orientale? Sezione I. La storia di un successo economico Fra il 1965 e il 1996 l’Asia Orientale ha avuto un tasso medio annuo di crescita del prodotto pro capite che ha sfiorato il 6%, a fronte di poco più del 2% per i paesi sviluppati e dell’Asia Meridionale, l’1% dell’America Latina e tassi negativi per Medio Oriente e Africa. I tassi medi annui di crescita del PIL sono stati del 7.2% dal 1965 al 1980, del 7.6% negli anni ottanta e del 10.3% dal 1990 al 1995(cfr. World Development Report 1989, p. 167 e 1997 p. 235; cfr. anche World Bank 1994, p. 7). Questa crescita impressionante ha portato alcuni paesi, ad esempio la Corea ad aumentare di dieci volte il Prodotto Pro Capite fra il 1965 e il 1995 e a raddoppiarlo negli ultimi dieci. . Questo lavoro ha avuto inizio durante un soggiorno come Visiting Scholar al St. John’s College di Cambridge nel periodo Aprile-Agosto 1997, ringrazio il Master e i Fellows del College per l’opportunità fornitami. 2 I paesi dell’ASEAN sono ora in numero maggiore, ma salvo diversa indicazione nel testo si intende con ASEAN i quattro paesi indicati. 1 1 2 Come ha riconosciuto Joseph Stiglitz, Vice Presidente della Banca Mondiale è stato proprio il successo delle economie dell’Asia Orientale che ha portato quell’istituzione a riconsiderare alcune delle ricette e dei suggerimenti di politica economica che vengono spesso indicati con il termine di Washington Consensus(cfr. Stiglitz 1998, pp. 2-3, 34). Lasciare spazio al mercato, liberalizzazioni, assenza di sussidi a imprese e settori industriali e così via. Per capire le ragioni degli alti tassi di crescita dell’Asia Orientale nel 1993 la Banca Mondiale pubblicato uno studio dal nome importante The East Asian Miracle. La Banca sottolineava che le principali politiche economiche attuate dai paesi dell’area erano comunque orientate verso il mercato, market friendly(cfr. World Bank 1993, cap. 1) e quindi non sembrava notare contraddizioni con le politiche liberiste che essa e il Fondo Monetario suggerivano. Ma la spiegazione del successo asiatico fornita dalla Banca Mondiale non è molto soddisfacente. Al di la di un generico richiamo ai famosi ‘valori asiatici’ le esperienze di politica economica e industriale sono state assai diverse. Dei primi quattro Paesi di Nuova Industrializzazione, Newly Industrializing Economies o NIEs, solo Hong Kong aveva seguito politiche liberiste(cfr. Akyüz 1998, p. 1), mentre la struttura economica e industriale degli altri tre si è evoluta in modo differente e ha visto l’intervento più o meno deciso del governo, fino a giungere al sistema dei piani quinquennali in Corea del Sud. Il paese che più colpiva gli economisti era la Corea del Sud per la quale già dieci anni fa non era difficile prevedere un avvenire economico da gigante, per parafrasare il libro della Amsden(cfr. Amsden 1989). Questa autrice vede nel ruolo dello stato ed in particolare nella formazione di capitale umano ed il suo collegamento con il mondo del lavoro la chiave del successo coreano(cfr. Amsden 1989, cap. 5, para, 5.5). Anche per Robert Wade il successo della Corea e di Taiwan è dovuto al ruolo attivo giocato dallo stato nell’economia, ma in particolare per il caso della Corea egli sottolinea il ruolo della politiche industriale e commerciale(cfr. Wade 1990, cap. 4, para. 3), che ha portato nel 1964 all’istituzione da parte del governo dell’Associazione Coreana per la Promozione del Commercio, o KOTRA. In sostanza lo stato pur non contrapponendosi al mercato3 ha giocato un ruolo importante nell’orientare il credito, nel favorire l’investimento in particolare nei settori manifatturieri, nell’incentivare e sostenere le esportazioni. Le ‘oche volanti’ di Akamatsu. Ma la spiegazione più convincente del modello economico asiatico, e anche quella che ci aiuta meglio a capire le caratteristiche e le implicazioni della crisi recente, si trova in uno studio dell’UNCTAD secondo cui la crescita economica in Asia Orientale risponderebbe al paradigma di sviluppo delle ‘oche volanti’(cfr. UNCTAD 1996, p. 75, 102-103) per via della formazione in volo a V invertita. Infatti, vi è una sorta di ciclo vitale dei settori industriali che nel corso dello sviluppo prevede la ricollocazione dei settori ad alta intensità di lavoro verso paesi più poveri, mentre il paese più ricco si specializza in nuovi prodotti. Perciò vi sono paesi a diverso livello di industrializzazione e di sviluppo che crescono insieme grazie al fatto che di volta in volta si specializzano nella produzione di beni di diverso livello tecnologico. C'è così un'‘oca di testa’ che guida tutte le altre, qui ovviamente il Giappone e in effetti questo modello è dovuto allo studioso giapponese Akamatsu che nel 1932 lo applicò al caso del suo paese e nell’ambito dell’idea di un ciclo del prodotto. Nel 1996 l’UNCTAD ha ripreso questo modello e l’ha utilizzato in modo esplicito per spiegare il processo di 3 . Sul tipo di intervento dello stato che ha sempre lasciato spazio ai privati si veda anche Chang 1993. 2 3 crescita di tutta l’Asia orientale4. Il ciclo del prodotto si combina con le fasi di crescita dei paesi dell’area: guida il Giappone con i prodotti tecnologicamente più avanzati, seguono i primi NIEs, le ‘prime tigri’ con beni manifatturieri tradizionali, poi vengono i paesi dell’ASEAN e la Cina con i prodotti a più alta intensità di lavoro e minor contenuto tecnologico. Gli investimenti diretti esteri, ma anche gli scambi commerciali sono lo strumento per trasferire tecnologia e capitali nei paesi che stanno dietro nel ciclo di vita dei settori. Il modello di integrazione economica dell’Asia Orientale ha visto un ruolo fondamentale degli investimenti diretti esteri, FDI, Foreign Direct Investments. L'Asia Sud Orientale è stata l'area che ha ricevuto in assoluto più investimenti esteri(cfr. World Bank 1996a, p. 95) e soprattutto una percentuale rilevante di questi investimenti è arrivata dalla stessa regione come mostra la Tavola 1. Tavola 1. Investimenti Diretti Esteri in Asia Orientale per origine e destinazione(1986-92). Economia Economia ricevente (o regione) (percentuale di FDI dall’economia d’origine) d’origine Cina Indonesia Malesia Filippine Tailandia Hong Kong 62.8 7.6 3.1 10.4 17.1 Sud Corea 0.4 5.7 5.5 3.3 0.6 Singapore 1.3 3.8 6.8 1.5 9.5 Taiwan 6.4 8.0 22.3 2.7 8.2 70.9 25.1 37.7 17.9 35.4 Totale NIEs Giappone 10.2 17.6 22.2 26.4 35.6 73 42.7 59.9 NIESs + Giappone Fonte: Elaborazioni su dati World Bank, 1996b, p. 29. 44.3 71 Va sottolineato che spesso questi flussi di investimento si concentrano in pochi paesi e anche i paesi d'origine non sono molto differenziati. Dal 1986 al 1992 oltre l'80% degli investimenti diretti esteri in Cina proviene da cinque paesi asiatici: il Giappone e i quattro NIEs: Singapore, Hong Kong, Corea del sud e Taiwan. In Tailandia la percentuale di FDI dai NIEs supera il 70% e fra gli altri paesi del Sud Est Asiatico solo nelle Filippine la quota di investimenti dagli Stati Uniti è significativa. L'UNCTAD sottolinea che per ciò che concerne gli investimenti diretti verso altri paesi emergenti dell'Asia (i cosiddetti second-tier NIEs: Indonesia, Tailandia, Malesia, Filippine e Cina) i NIEs svolgono oggi un ruolo simile a quello svolto nel passato dal Giappone nei loro confronti(cfr. UNCTAD 1996, pp. 81-5). In sostanza negli anni sessanta e settanta il Giappone ha effettuato forti investimenti nei quattro NIEs favorendone la crescita. Nella seconda parte degli anni ottanta i NIEs, e ancora il Giappone, hanno investito in altri paesi asiatici. Se gli investimenti diretti hanno sicuramente svolto un ruolo importantissimo nella crescita economica del Sud Est Asiatico anche il commercio infraregionale è aumentato nel corso dei decenni. Dal 1980 al 1994 le esportazioni delle economie in via di sviluppo dell'Asia Orientale verso altri paesi della stessa area sono aumentate più di nove volte, contro le cinque volte delle esportazioni totali verso il mondo nel 4 . Cfr. Unctad 1966 pp. 75 e ss., in inlgese il modello di Akamatsu è disponibile dagli anni sessanta cfr., Akamatsu 1962. 3 4 suo complesso. Investimenti diretti e crescita del commercio infraregionale sono andati di pari passo. Le esportazioni svolgono un ruolo fondamentale nello schema di sviluppo regionale asiatico come mostra la Tavola 2. Da un lat0, dal 1980 al 1994 tutte le economie dell’area vedono crescere le esportazioni verso il resto del mondo, ma ancor di più aumentano le esportazioni all’interno delle singole aree, da notare che le esportazioni dei NIEs, le ‘primi quattro tigri’, all’interno dello stesso gruppo aumentano di quasi dieci volte. Sempre i NIEs costituiscono il gruppo più dinamico in termini di volumi di esportazioni sugli altri mercati dell’Asia Orientale Tavola 2. Esportazioni Totali di alcuni paesi dell'Asia Orientale, per destinazione principale (1980 e 1994, miliardi di dollari). Esportazioni Verso Mondo da 1980 1994 NIEsa 1980 1994 b ASEAN 1980 1994 Giappone 1980 1994 Fonte: UNCTAD 1996, p. 88. a:Corea del NIEs ASEAN Giappone 70.3 313.8 6.4 58.4 6.3 41.6 7.2 31.8 47.0 156.8 8.0 39.9 1.5 7.4 16.2 27.6 129.5 395.3 19.1 93.2 9.1 40.5 - Sud, Taiwan, Singapore, Hong Kong. b: Indonesia, Malesia, Filippine Tailandia. Queste sono importazioni come .riportate dai paesi. dComprende la Germania Orientale dal 1991. c La spiegazione del successo dell'Asia Orientale secondo il modello delle ‘oche volanti’ appare molto convincente. Inoltre questo modello ha il pregio di tenere conto del ruolo svolto dalle politiche commerciali e di investimento che hanno rappresentato un aspetto essenziale della crescita economica di quest'area. Va anche notato che il paradigma ha funzionato bene in un contesto di crescita costante della quota del commercio mondiale di tutte le ‘oche’ i paesi, che partecipano alla formazione in volo. Nella Tavola 10 si vede che dagli anni sessanta ad oggi la percentuale di esportazioni di manufatti del Giappone e dei primi NIEs è più che raddoppiata passando dal 10.5% al 21.2%. O, se vogliamo, la crescita della quota di esportazioni dei NIEs, che passano dal 2% degli anni 1965-96 al 9% degli anni 1991-93(cfr. UNCTAD, 1996, p.93) non è cresciuta a scapito di quella del Giappone. La crescita costante del peso di queste economie nel mercato mondiale ha rappresentato una condizione estremamente favorevole per il loro rapido sviluppo. Sezione II L’influenza asiatica e il ‘contagio’ Una delle caratteristiche di breve periodo più interessanti nell’evolversi della crisi economica in Asia orientale consiste nelle modalità e nei tempi con cui si è manifestata la crisi valutaria per i vari paesi. Ripercorrendo le vicende dell’ultimo anno attraverso i dati e i commenti delle organizzazioni e delle riviste specializzate si scopre che le differenze nei tempi e neimodi di svolgimento delle crisi valutarie dei questi paesi sono forse più importanti delle somiglianze. La Figura 1 descrive l’andamento dei cambi e dei corsi azionari nel 1996 e nei mesi della crisis. 4 5 In principio, la Tailandia La crisi delle valute inizia nella seconda metà di Giugno del 1997 con forti attacchi speculativi da parte di fondi di investimento internazionali5 al bath Tailandese che nel corso delle due ultime settimane di Giugno perde il 15% del suo valore rispetto al dollaro, dal 2 Luglio vi è una fluttuazione controllata, ma verso la fine di Luglio perde già il 30%. In un certo senso questo fatto era relativamente atteso, o per lo meno era stato in parte pronosticato(cfr., The Economist 11 Gennaio e 24 Maggio 1997). In effetti da parecchi mesi l’economia Tailandese presentava somiglianze molto forti con la situazione del Messico nel 1994, quando a Dicembre il pesos svalutò pesantemente rispetto al dollaro. Nella caso della Tailandia vi erano tre elementi che si potevano considerare indicatori della possibilità che vi fosse una crisi valutaria. Primo, un deficit di parte corrente pari a circa l’8% del PIL, all’incirca lo stesso del Messico due anni e mezzo prima. Secondo, un tasso di cambio sostanzialmente ancorato al dollaro che aveva portato ad un apprezzamento del tasso di cambio reale(che tiene conto del tasso di inflazione relativo dei vari paesi) del 17% fra il 1995 e il Giugno 1997, con conseguente perdita di competitività e conseguenti rischi di peggioramento del deficit di parte corrente(cfr. World Bank 1997b) . Terzo, un elevato debito estero e soprattutto un rapporto fra riserve valutarie e debiti esteri a breve assai elevato, fra il 1990 e 1996 il 46% dei flussi privati di capitali erano costituiti da prestiti a breve(cfr. World Bank 1997b). Vi erano molte ragioni per parlare di una crisi annunciata e comunque si riteneve di dimensioni più contenute rispetto a quella messicana. Il pacchetto di salvataggio per la Tailandia si aggirava sui 17 miliardi di dollari, meno della metà di quello messicano e la svalutazione del bath era comunque assai più contenuta di quella del pesos. Inoltre fra la metà di Luglio e la fine di Agosto il bath si era stabilizzato attorno ai 32 bath per dollaro. Sembrava una crisi largamente contenibile, anche se l’effetto ‘contagio’ verso le altre valute era già iniziato. Il ‘primo contagio’ Il ‘contagio’ o effetto domino descrive la situazione in cui un’economia subisce uno shock esterno -svalutazione, crollo della borsa- in seguito ad una crisi analoga in un altro paese. Sui meccanismi di trasmissione del ‘virus’ vi sono varie interpretazioni che si possono racchiudere in due grandi campi. Primo si ha il contagio perchè gli operatori economici, soprattutto gli investitori sui mercati finanziari vedono somiglianze significative fra due economie, soprattutto ‘patologie’ simili, ad esempio dei deficit di conto corrente elevati, dopo la crisi messicana del 1994 si riteneva che deficit superiori al 3% fossero difficilmente sostenibili(cfr. World Bank 1995). In questo caso vi sono somiglianze della Tailandia nel 1997 con il Messico nel 1994, o della crisi di fiducia che nel 1995 ha colpito l’Argentina e, in modo meno facilmente prevedibile ha coinvolto l’Ungheria, in seguito alla svalutazione del pesos messicano 6 . 5 . Pare che i fondi speculativi, gli hedge funds, abbiano giocato un ruolo importante nelle crisi valutarie asiatiche solo nel caso del bath(cfr. IMF 1998a, pp. 5-6). 6 . Nel caso della crisi del Messico del Dicembre 1994 gli investitori internazionali abbandonarono rapidamente i titoli di debito del Governo Messicano, i Tesobonos, portando alla svalutazione del peso. La causa scatenante la crisi sembra essere stato l'eccessivo deficit di parte corrente, che nel 1994 superò l'8% del PIL. Gli investitori internazionali ritennero quel livello di deficit incoerente con il tasso di cambio di poco più di 3 pesos per dollaro e si determinò una crisi di fiducia. Il pesos si svalutò di circa il 100% in pochi mesi, e i tassi di interesse a breve sfiorarono l'80%. Si parlo in quell'occasione di 'effetto Tequila', cioè della possibilità che la crisi messicana coinvolgesse altri paesi che avevano seguito politiche di stabilizzazione monetaria e del tasso di cambio simili, in primo luogo l'Argentina, 5 6 Già dopo la crisi messicano del Dicembre 1994 sono stati indicati vari fattori che possono portatre alla costruzione di un indice delle crisi dovute a squilibri macroeconomici. Alcuni sostengono che nel caso dei paesi tre fattori indicano in anticipo la possibilità di una crisi valutaria: l’apprezzamento del tasso di cambio, un’espansione veloce del credito e un basso rapporto fra riserve valutarie e quantità di moneta(vedi Sachs, Tornell e Velasco 1996)7. Un secondo meccanismo di trasmissione riguarda invece i rapporti commerciali, per cui un’economia viene ‘infettata’ perchè un partner commerciale importante subisce una crisi valutaria e quindi entra in una fase recessiva8. Nel caso della crisi valutaria asiatica il contagio si manifesta abbastanza rapidamente, ma in forma lieve su altre tre valute: il ringitt della Malesia, il pesos delle Filippine e la rupia indonesiana. A questo punto tutti i paesi originari dell’ASEAN, i cosiddetti ‘quattro dell’ASEAN’, la ‘seconda generazione di tigri’ conoscono la crisi valutaria. Verso la metà di Luglio si svaluta del 15% il pesos, rupia e ringitt reggono ancora una settimana e poi scendono seppure in modo non brusco. Fin qui la crisi è preoccupante, ma non in modo eccessivo ne si può dire che anche l’’effetto contagio’ su Filippine, Malesia e Indonesia fosse del tutto inatteso. A dire il vero qualche curiosità era già presente. Ad esempio le Filippine avevano un deficit di parte corrente inferiore al 4% del PIL e lo stesso valeva per la Malesia9. Anzi il caso della Malesia è particolarmente interessante. Questo paese nel 1997 stava migliorando i suoi conti con l’estero, che nel 1995 presentavano un deficit corrente del 10% del PIL(cfr. IMF 1998a p. 57) superiore al fatidico 8%, cioè il livello messicano del 1994. Va notato che nonostante il forte deficit di parte corrente e la recentissima crisi messicana nessuna tempesta valutaria si è scatenata sul ringitt nel corso del 1995 e soprattutto del 1996, quando i dati sul peggioramento della bilancia dei pagamenti malese fra il 1994 e il 1995 erano ormai disponibili. Questo fatto depone contro l’ipotesi del contagio per l’esistenza di analogie negli squilibri macroeconomici. Ma forse in quel caso l’elemento considerato determinante dai mercati è stato comunque la forte crescita economica, che superava il 9% nel 1995 e si attestava all’8% nel 1996. In sostanza la Malesia non ha subito ‘l’effetto tequila’ anche se sembrava averne molte delle condizioni, invece la crisi si è manifestata in Tailandia un anno dopo. Il caso della Malesia nel periodo 1995-1997 indica un fenomeno che nell’ormai numerosissima letteratura sulla crisi dell’Asia orientale non è stato adeguatamente sottolineato e che può indicare come gli investitori internazionali e i grandi centri finanziari considerassero l’Asia Orientale un’area comunque promettente grazie agli elevati saggi di crescita del PIL e forse soprattutto alla prolungata fase di crescita economica. Sembrava che crisi del tipo di quelle che colpivano abbastanza regolarmente l’America Latina non potessero avvenire in Asia Orientale. In sostanza il che in effetti subì un aumento di circa 150 punti base nel differenziale dei tassi di interesse dei propri Brady Bonds, con un significativo aumento del costo del servizio del debito estero. Si tratta di titoli di stato argentini garantiti da Treasury Bonds degli Stati Uniti, secondo uno schema previsto dal Piano Brady a favore dei paesi indebitati. 7 . Secondo questi autori il deficit di parte corrente e i flussi di capitali svolgono un ruolo minore. 8 .Nel caso dei paesi industrializzati e tenendo conto del periodo 1959-1993, è stato sottolineato che la presenza di una crisi valutaria in un paese aumenta la probabilità che essa avvenga in altri paesi(cfr. Eichengreen, Rose e Wyplosz 1996). Ma il meccanismo di trasmissione prevalente sembra essere legato all’esistenza di importanti relazioni commerciali fra i paesi più che a somiglianze nelle condizioni macroeconomiche(ivi). 9 . Anche l’indebitamento a breve di Malesia e Filippine era assai modesto, e semmai solo per l’Indonesia il debito estero sembrava avere dimensioni preoccupanti(cfr. World Bank 1997b). 6 7 meccanismo o miracolo della crescita economica asiatica sembrava immunizzare queste economie pur in presenza di squilibri macroeconomici assai forti. Nell’estate del 1997 la crisi sembra ancora limitati ai quattro paesi dell’ASEAN e anche le sue dimensioni sembrano inferiori a quelle della crissi messicana. Nell’estate del 1997 è facile leggere commenti sulla tenuta delle ‘prime quattro tigri’: Singapore , Hong Kong, Taiwan, Corea del Sud, e della Cina. Le monete di questi paesi deprezzano ma in modo limitato e soprattutto senza crolli violenti in pochi giorni. 7 8 Figura 1. Alcune Economie Asiatiche: Tassi di Cambio Bilaterali con il Dollaro e Corsi Azionari. (In dollari per unità di valuta, scala logaritmica, 5 Gennaio 1996=100) Fonte: IMF 1998b. 1.Ancorato al dollaro USA. 2. La valuta indonesiana ha raggiunto un livello di cambio basso di 14.750 rupie per dollaro(corrispondente ad un valore di 15.5 nell’indice qui utilizzato) durante la settimana terminata il 23 Gennaio 1998 e ha recuperato fino a 8.150(28.1 in termini dell’indice) nella settimana terminata il 10 Aprile 1998. 8 9 Il ‘secondo contagio’ e la rottura delle ’dighe’ Nell’autunno del 1997 si succedono tre eventi che danno la misura di un cambiamento sia nelle dimensioni della crisi che nella sua natura e che ripropongono all’attenzione del mondo le differenze, e non solo economiche, ma anche politiche e istituzionali fra i vari paesi dell’Asia Orientale. Soprattutto la crisi non si ferma e il contagio non solo si estende, ma anche muta la natura della ‘patologia’, cioè dei problemi che le varie economie devono affrontare. In primo luogo, viene meno una ‘prima diga’. L’apparente stabilizzazione dei cambi di Agosto viene smentita e le valute dei quattro paesi ASEAN continuano a deprezzarsi per quattro mesi con crolli violenti. Alla fine di gennaio del 1998 il bath tailandese ha perso più del 50% sul dollaro, ringitt e pesos circa il 45%. Successivamente vi è un certo recupero delle quotazioni per cui il livello della svalutazione si attesta fra il 30 e il 40% per le tre monete(cfr. Figura 1). Ma durante la primavera del 1998 sia le borse che le monete dei tre paesi continuano ad avere forti oscillazioni, soprattutto verso il basso e le scosse interessano prevalentemente la Tailandia, che delle tre economie appare decisamente la più debole e quella per cui è difficile definire soglie credibili per il tasso di cambio e le quotazioni di borsa. Ma sono gli altri due eventi a segnare le svolte più drammatiche della crisi. Il secondo fatto riguarda il vero e proprio collasso economico dell’Indonesia seguito nella primavera dall’acuirsi della crisi politica che sfocia in Maggio nelle dimissioni di Suharto e la sua sostituzione con Habibie. Crolla la rupia che a fine Gennaio arriva ad una svalutazione del’85% rispetto al dollaro per risalire al 72% in Aprile. Dei quattro paesi dell’ASEAN toccati dalla crisi valutaria l’Indonesia è quello che pone più problemi e che presentava la situazione politica e economica più delicata. Un paese di 200 milioni di abitanti, dotato di ricchezze enormi, ma anche caratterizzato da una distribuzione del reddito e della ricchezza estremamente sperequata, elementi che rendono l’Indonesia simile ad un paese Latino Americano, più che a un paese asiatico. Come i paesi Latino Americani l’Indonesia si trascina da decenni in forte debito estero che già prima della crisi del 1997 ammontava a più di 100 miliardi di dollari. A ciò si aggiungano le tensioni interetniche, soprattutto l’ostilità nei confronti della dinamica comunità cinese; gli enormi squilibri regionali, l’Indonesia che cresce economicamente è soprattutto Giava, ma vi sono territori completamente emarginati; l’esistenza di un sistema politico praticamente dittatoriale. Il trentennale dominio di Suharto è stato accompagnato da una forte crescita, ma fra i Second-Tier NIES l’Indonesia è quello che ha iniziato il processo di crescita con ritmi ‘asiatici’ più di recente. Ancora alla metà degli anni ottanta l’Indonesia aveva un reddito pro-capite di poco superiore a quello dell’India e della Cina(cfr. World Development Report 1989, p. 164), e solo nel 1994 era stata riclassificata da paese povero a paese a reddito medio. Nel 1995 il reddito pro capite indonesiano era di 980 dollari, quello delle Filippine superava di poco i 1000 dollari, mentre la Tailandia si collocava a 2740 dollari e la Malesia sfiorava i 3900(cfr. World Development Report 1997, pp. 21415). Il terzo elemento che segna la gravità della crisi e che determina l’intervento massiccio del Fondo Monetario Internazionale riguarda la Corea del Sud e quindi una delle ‘prime tigri’. Il caso Coreano merita attenzione perchè è con l’inclusione della Corea che la crisi sfonda una ‘seconda diga’, assume dimensioni non più solo regionali, e può creare seri problemi sia ai mercati finanziari che al sistema monetario internazionale. Negli ultimi mesi del 1997 il won Coreano si svaluta del 50% rispetto al cambio con il dollaro dell’inizio dell’estate, anch’esso si riprende un poco nella 9 10 primavera del 1998, ma rispetto al 1996 la svalutazione si colloca comunque fra il 40 e il 50%. Ma il caso coreano mette in luce un aspetto della crisi che era rimasto in ombra, tranne che per alcuni riflessi Tailandia; non si tratta più di una crisi valutaria, ma di una vera e propria crisi finanziaria e bancaria10. Le crisi bancarie sono caratterizzate dall’insolvenza di grandi banche nazionali e internazionali sostanzialmente a causa dell’elevata proporzione di crediti che divengono inesigibili, fino a determinare il fallimento potenziale delle banche stesse11. E’ vero che in Tailandia 58 società finanziarie sono state sospese fin nei primi mesi della crisi, ma il caso Coreano è diverso per caratteristiche e dimensioni. Come si è visto nella sezione I il sistema economico della Corea del Sud è quello che più da vicino ha seguito l’esempio Giapponese nel costruire stretti legami fra sistema bancario, imprese e governo e le crisi bancarie mettono direttamente in pericolo l’ossatura del sistema economico. La Corea del Sud dal 1995 è classificata come paese ad alto reddito dalla Banca Mondiale(cfr. World Bank 1997c, p. 63 e World Bank 1997a, p. 215) con un reddito pro capite di 9700 dollari; è il più importante dei NIEs della prima generazione e con un PIL di oltre 430 milioni di dollari si colloca all’undicesimo posto fra le nazioni economicamente più grandi, dopo Spagna, Canada, Brasile e Cina, ma prima di Australia e India. Le dimensioni del salvataggio organizzato dal Fondo Monetario, con il concorso della Banca Mondiale e degli stati più ricchi, nel caso coreano sono impressionanti, oltre 58 miliardi di dollari, ben più del Messico 1994 e superiore anche ai pacchetti di salvataggio congiunti di Tailandia e Indonesia. Inoltre degli oltre 20 miliardi di dollari direttamente impegnati dal Fondo Monetario al 10 di Aprile 1998 ben 15 erano già stati concessi(cfr. IMF 1998b, Box 1), un chiaro segno della gravità della crisi di liquidità in cui la Corea si è venuta a trovare. La dimensione del salvataggio e il fatto che si aggiunge a interventi già rilevanti predisposti per Tailandia e Indonesia danno alla crisi finanziaria e valutaria dell’Asia Orientale dimensioni tali da porre la questione dell’adeguatezza delle risorse disponibili del Fondo Monetario e più in generale degli stati membri per far fronte a crisi di questa rilevanza. Anche nel caso Coreano qualche segnale premonitore c’era. Se si osserva la Figura 1 si vede che nel caso della Tailandia la crisi borsistica inizia prima di quella valutaria; già nel 1996 e soprattutto nei primi mesi del 1997 si assiste ad un continuo deterioramento dei corsi azionari che porta ad un perdita di quasi il 50% dell’indice della borsa di Bangkok fra la primavera del 1996 e quella del 1997. Nello stesso periodo anche l’indice della borsa di Seul perde circa il 40% del proprio valore ed è l’unica delle borse asiatiche, oltre a quella di Bangkok, a conoscere questa precoce caduta dell’indice; solo nella seconda metà del 1997 si ha il crollo di tutte le principali borse asiatiche. Come vedremo meglio nella sezione IV la crisi valutaria sembra essere più un prodotto della caduta dei corsi azionari che la causa di quest’ultima circostanza. La Corea del Sud si è trovata di fronte ad una crisi di liquidità con caduta delle riserve e rischio di crollo del sistema bancario. Per la prima volta dopo oltre vent’anni la Corea del Sud si è trovata a dover contrattare con i creditori esteri un riscadenzamento del debito. Fin dai primi anni ottanta la Corea era un paese indebitato, ma fino ai primi mesi del 1998 non aveva mai dovuto chiedere una modificazione dei termini di ripagamento del debito estero e degli interessi, anzi era l’unico paese ad aver sempre 10 . Per la classificazione dei vari tipi di crisi cfr. IMF 1998a, pp. 112-ss e 133. . Nel caso delle banche del sud est asiatico la percentuale di crediti in sofferenza si colloca fra il 10 e il 20%, contro circa l’1% delle banche degli USA. 11 10 11 onorato i propri debiti. La Corea del Sud aveva così evitato il rescheduling che ha contraddistinto le economie latino americane, ma anche alcune dell’Asia, e che per quindici anni ha costituito il principale strumento con cui affrontare la crisi del debito degli anni ottanta(cfr., Vaggi 1993, pp. 97-ss.). Insomma si è infranto il mito del debitore modello: indebitato ma con un’economia che cresce moltissimo e che consente di ripagare puntualmente i debiti. La crescita dello stock di debito estero è l’altra faccia del deficit nella parte corrente della bilancia dei pagamenti ed in effetti fin dai primi anni sessanta la Corea ha sempre presentato deficit di parte corrente, che in alcuni anni hanno raggiunto percentuali del 8-10% del PIL, salvo un periodo di surplus nella seconda metà degli anni ottanta12. Sezione III - Gli interventi del Fondo Monetario Internazionale e gli effetti della crisi Il Fondo Monetario Internazionale Fin dall’Agosto 1998 il Fondo Monetario interviene organizzando vari pacchetti di intervento(vedi Tavola 3), nonchè i programmi di riforme che devono rimettere in sesto quelle economie. L’obiettivo dichiarato del Fondo è stato fin dall’inizio quello di mantenere attivi i canali finanziari fra le economie in crisi e i mercati internazionali, in modo che esse mantenessero l’acceso a questi mercati. In sostanza si trattava di impedire che si determinasse un blocco dei flussi. Tavola 3. Impegni della Comunità Internazionale e Versamenti del Fondo Monetario Internazionale in Risposta alla Crisi Asiatica (miliardi di dollari statunitensi) Impegni Versamenti del IMF Paese IMF1 Multilaterali2 Bilaterali3 Totale al 10 Aprile 1998 Indonesi 9.9 8.0 18.7 36.6 3.0 Corea 20.9 14.0 23.3 58.2 15.1 Tailandia 3.9 2.7 10.5 17.1 2.7 Totale 34.7 24.7 52.5 111.9 20.8 1 Gli impegni del Fondo Monetario ammontano a 36 miliardi di dollari se si includono quelli del 1997 verso le Filippine. 2 Banca Mondiale e Banca Asiatica di Sviluppo.3 Da governi. Fonte: IMF 1998b, Box 1. E’ noto che il sistema creditizio giapponese è fra i grandi creditori delle economie in crisi dell’Asia orientale, ciò deriva dal paradigma di sviluppo della regione visto nella prima sezione. Meno noto è che l’Europa ha crediti totali complessivi verso le banche dei paesi asiatici, inclusi Cina e Taiwan, che superano quelli del Giappone. Secondo dati della Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea su un totale di circa 357 miliardi di dollari di debito estero bancario alla fine di Giugno del 1997, l’Europa 12 . Dopo la crisi messicana del Dicembre 1994 si è sottolineato che per giudicare la solidità di un sistema economico bisogna considerare le cause che producono un deficit di parte corrente e non limitarsi a registrare la sua dimensione. In particolare si contrapponeva il Messico proprio alla Corea del Sud. Nel paese latino americano il deficit era causato dall’ecceso di importazioni di beni di consumo e dalla debolezza delle esportazioni, mentre la Corea importava beni di investimento e comunque esportava molto. Il deficit coreano appariva giustificato da esigenze di accumulazione e non di consumo, ma questo non ha impedito l’emergere in modo violento della crisi. 11 12 deteneva crediti per oltre il 39%, con in testa la Germania, il Giappone superava il 33% e gli Stati Uniti erano creditori per solo l’8%. L’esposizione europea era pari a circa 140 miliardi di dollari, una cifra impressionante. Le misure di risanamento dettate il Fondo Monetario non si discostano sostanzialmente da quelle tradizionali dei programmi di aggiustamento strutturale degli anni ottanta, seppur con alcune precisazioni e cautele che vengono via rinforzandosi nel corso dell’evolversi della crisi. Vengono fatte alcune raccomandazioni principali(cfr. IMF 1998b, pp. 1-2). Le società finanziarie sull’orlo del fallimento devono esser chiuse, mentre vanno tenute sotto attenta osservazione quelle che possono sopravvivere. Si raccomandano restrizioni fiscali, soprattutto tagli alle spese correnti, per far fronte ai costi derivanti dalla ristrutturazione del settore finanziario e creditizio, anche se si accenna alla protezione della spesa sociale. All’Indonesia viene anche chiesto di ridurre o eliminare i sussidi su alcuni beni, soprattutto prodotti energetici come la benzina e il kerosene, anche se ci si rende conto dell’impatto che questo può avere sulle condizioni di vita della popolazione(cfr. IMF Survey, 11 Maggio 1998). La politica monetaria deve essere temporaneamente restrittiva, con l’innalzamento dei tassi di interesse, per contenere l’inflazione e le pressioni sulla bilancia dei pagamenti. I tassi di cambio devono essere flessibili. Non sempre viene esplicitata ma è chiara la richiesta di maggior flessibilità nel mercato del lavoro per favorire licenziamenti e assunzioni onde poter riallocare rapidamente la mano d’opera in eccesso nei settori in crisi. E assai importante in questo contesto la richiesta di liberalizzazione dell’accesso di capitali stranieri soprattutto nel settore finanziario e creditizio, sia per garantire capitali freschi a queste economie in crisi di liquidità, sia per aumentare la partecipazione del capitale estero nelle imprese locali, soprattutto nel settore finanziario. Nel caso coreano il Fondo insiste particolarmente sulla rimozione delle pratiche e delle regole che pongono ostacoli al liberalizzazione commerciale e all’accesso di capitali stranieri, indicando addirittura nel 31 Dicembre 1997 la data per la rimozione di tutte le restrizioni al movimento dei capitali (cfr. IMF 1998a, box 4). Un caso particolare è quello dell’Indonesia in cui vi è stato un esplicito legame fra l’esborso degli aiuti finanziari promessi e la modificazione della situazione di potere, cioè la richiesta dell’allontanamento di Suharto. Il Fondo Monetario è stato criticato per aver usato sempre gli stessi strumenti per questa nuova crisi come per altre in precedenza, in sostanza sottovalutando l’impatto deflazionistico di misure combinate di stretta creditizia e fiscale. Queste misure non solo possono avere pesanti effetti sociali, ma addirittura possono portare ad ulteriori situazioni di insolvenza di istituzioni finanziarie e di banche, soprattutto in seguito all’innalzamento dei tassi di interesse e alla caduta dei valori azionari e obbligazionari. Questa critica è corretta, ma va notato che la crisi asiatica mostra alcune novità anche nel comportamento del Fondo. Da un alto si tratta di novità positive: il Fondo rivede in tempi rapidi le proprie richieste di stretta fiscale e in particolare l’indicazione di conseguire in tempi rapidi un surplus di bilancio. Il programma di aggiustamento per la Tailandia dell’Agosto 1997 viene modificato una prima volta alla fine di Novembre e successivamente alla fine di Febbraio 1998. Dalla richiesta iniziale di avere un surplus di bilancio pari all’1% del PIL il Fondo passa ad accettare un deficit del 2%(IMF 1998b, box 2). Anche per l’Indonesia dall’indicazione di conseguire un surplus dell’1% del PIL in Novembre si passa alla considerazione in Gennaio che un deficit dell’1% può essere accettabile 12 13 vista la riduzione della crescita economica13. Inoltre il Fondo insiste sulle misure sociali, le reti di protezione -social safety nets, a favore della parte della popolazione e dei lavoratori più colpiti dalla crisi. D’altra canto queste continue e ravvicinate revisioni nelle previsioni testimoniano le difficoltà con cui anche il Fondo segue gli sviluppi della crisi. Anche le previsioni circa l’impatto reale della crisi, e soprattutto gli effetti sui tassi di crescita, vengono continuamente riviste al ribasso. Nel corso dell’autunno 1997 e dell’inverno 1998 diviene eveidente che si tratta di una crisi sicuramente diversa e più grave di quella del Messico del 199414. Gli effetti reali e finanziari L’effetto più importante della crisi riguarda l’impatto sull’economia reale, cioè la riduzione potenziale del PIL che è dovuto in primo luogo al fallimento di molte imprese, società finanziarie e banche. La domanda interna in questi paesi potrebbe crollare anche del 10%, una cifra che ricorda quelle dei primi anni novanta in Russia e nei paesi dell’ex Unione Sovietica all’inizio del processo di transizione verso l’economia di mercato. In termini di dollari si hanno dati impressionanti; al tasso di cambio con il dollaro del 4 Febbraio 1998 le economie coreana e tailandese hanno quasi dimezzato il valore del PIL rispetto al 1996, la Malesia e le Filippine perdono rispettivamente il 12% e 20% e il PIL dell’Indonesia passa da 226 a 51 miliardi di dollari15. Queste cifre esprimono la misura della perdita di potere di acquisto di queste economie sui mercati internazionali e quindi spiegano il crollo delle loro importazioni, circa il 30% in meno nel primo trimestre 1998. Nello stesso periodo il PIL indonesiano si è contrae dell’8.5%, quello della Malesia del 1.8% e anche Hong Kong vede diminuire il PIL del 2% circa. E’ come se questi paesi stessero tornando indietro di 5 o 10 anni. Ovviamente il crollo delle importazioni comporta un rapido miglioramento nella bilancia dei pagamenti e nei conti con l’estero, per cui già nel 1998 i quattro paesi dell’ASEAN e il Sud Corea avranno un surplus nella bilancia commerciale, che da un deficit di circa 50 miliardi di dollari nel 1996 passerà ad un surplus di uguali dimensioni nel 1998(cfr. IMF 1998a, p. 64). Questo miglioramento impressionante di 100 miliardi in un anno è però ottenuto grazie alla contrazione drastica delle importazioni a causa della caduta della domanda interna e non ancora al rilancio delle esportazioni in seguito alla svalutazione del cambio. D’altra parte la svalutazione comporta un aumento dei prezzi all’importazione e quindi una spinta all’inflazione, che in Indonesia potrebbe raggiungere l’85% nel 1998. I fallimenti a catena e il rinvio a tempi migliori dei progetti di investimento, anche in infrastrutture che erano in cantiere comporterà sicuramente una forte crescita dei tassi di disoccupazione che nel caso dell’Indonesia potrebbero arrivare ben presto al 10%, ma non è escluso che a tassi simili si collochino anche Corea e Tailandia. Va sottolineato che questi paesi per il momento non hanno sistemi di protezione contro la disoccupazione, il che può portare forti tensioni sociali. Inoltre vi sono paesi, come Malesia e Tailandia, in cui una quota di forza lavoro significativa è immigrata da paesi 13 . Anche per la Corea il Fondo accetta la permanenza di un deficit di bilancio(cfr. IMF 1998b, box 4). . Nel Novembre 1997 il Fondo prevedeva per l’Indonesia una crescita del PIL in diminuzione dall’8% del 1996/97 al 5% per il 1997/98 e al 3% per il1998/99, crescita economica che restava comunque positiva(cfr. IMF Survey 17 Novembre 1997). 15 . In termini di Parità di Potere d’Acquisto e quindi tenendo conto dell’incidenza dei prezzi interni sul costo della vita la diminuzione non è così catastrofica. Va notato che alla metà di Giugno del 1998 Cina, Hong Kong, Taiwan e Singapore non hanno ancora subito forti svalutazioni e quindi l’impatto negativo riguarda soprattutto i paesi dell’ASEAN e la Corea del Sud. 14 13 14 vicini e potrebbe essere più o meno forzatamente indotta al rimpatrio, con forti tensioni politiche. Il precedente della crisi Messicana All’inizio si riteneva che la crisi asiatica potesse essere riassorbita abbastanza rapidamente, l’esempio del Messico mostrava che nel 1995 il PIL si era ridotto di quasi il 6% , ma già nel 1996 la crescita era ripresa ad un ritmo del 4%; la crisi era stata violenta ma breve, anche se i salari reali non sono ancora oggi ritornati ai livelli del 1994. Ma a differenza della crisi messicana, sostanzialmente limitata a quel paese, quella asiatica coinvolge troppe economie e, con l’ingresso della Corea nel novero dei paesi in crisi, anche troppo grandi. Nel caso del Messico l’intervento internazionale di 50 miliardi di dollari si era dimostrato sufficiente a tamponare le falle e soprattutto a convincere i mercati che la comunità internazionale, ma in particolare gli Stati Uniti, avrebbero sostenuto il paese in crisi. Inoltre il NAFTA ha assicurato un rapido effetto positivo della svalutazione del pesos sui conti con l’estero. In sostanza nel caso del Messico si sono verificate alcune circostanze favorevoli: l’esistenza del ‘grande fratello’ del Nord, che garantisce sotto l’aspetto finanziario e che provvede un mercato di sbocco importante, anchegrazie alla fase espansiva attraversata in quegli anni dall’economia americana. Per quanto criticabile sotto molti punti di vista il commitment complessivo, finanziario, economico e politico degli Stati Uniti nei confronti del Messico che va sotto il nome di NAFTA, svolge un ruolo fondamentale nel bloccare la crisi. Nel caso asiatico esistevano situazioni diverse che potevano essere di grande vantaggio nel caso la crisi si fosse limitata a pochi paesi, ma che invece sono diventate dei veri e propri boomerang per via del suo allargamento. All’inizio molti paesi dell’area sono intervenuti a sostegno della Tailandia, Giapponee Australia, ma anche Corea , Malesia, Hong Kong, Singapore e la stessa Indonesia, chi con 1 miliardo di dollari chi con mezzo(cfr. IMF Survey18 Agosto1997 e17 Settembre1997). In questo caso si trattava di una condivisione del rischio da parte dei principali partners commerciali e anche dei paesi che in Tailandia avevano fatto investimenti diretti e finanziari. Il modello delle ’oche volanti’ basato su scambi commerciali regionali e investimenti diretti esteri(cfr. sezione I) poteva rappresentare un elemento di sostegno anche per la fase di ripresa dell’economia Tailandese. Ma l’estendersi della crisi tramutava questo punto di forza in una situazione di debolezza, dal momento che veniva meno il sostegno all’economia tailandese dalla domanda dei paesi vicini, e anzi la recessione stessa si poteva estendere anche a economie con situazioni finanziarie più solide16. L’integrazione regionale poteva rappresentare uno scudo efficace nel caso di crisi isolate, ma è diventata un elemento negativo nel caso di crisi più estese. A ciò si aggiunga che il ’grande fratello’ più prossimo, il Giappone, è in una situazione di stagnazione economica dal 1990, e in particolare dal 1992. A dire il vero il Giappone si era offerto di predisporre un fondo di 100 miliardi di dollari per il salvataggio delle economie dell’Asia Orientale, ma aveva trovato il rifiuto degli Stati Uniti e del Fondo Monetario, che avevano di fatto imposto le procedure tradizionali attraverso i programmi e i vincoli del Fondo Monetario. Il Giappone oltre ad avere 220 miliardi di dollari di riserve valutarie, ha una posizione netta sull’estero pari a circa il 23% del proprio PIL(cfr. Banca d’Italia 1998a, Appendice, p. 52), più di 800 miliardi di dollari di attività, o se vogliamo di crediti, verso l’estero. L’intervento giapponese era perciò perfettamente credibile quanto a dimensioni, ma avrebbe . Abbiamo già visto che secondo alcuni autori l’effetto contagio si trasmette attraverso i rapporti commerciali (cfr. Eichengreen, Rose e Wyplosz 1996). 16 14 15 probabilmente comportato il disinvestimento di parte di queste attività, anche di quelle impiegate in titoli di stato americani, con possibili ripercussioni sul sistema finanziario americano e sui tassi di interesse. In ogni caso la via della soluzione regionale della crisi proposta dal Giappone non è stata seguita. Gli effetti al di fuori dell’area Secondo il Fondo Monetario la crisi asiatica può comportare una riduzione dell’1% del tasso di crescita del PIL mondiale(cfr. IMF 1998b, p. 1), ma si spera di non dover rivedere la stima in peggio, come in altri casi è successo. Se si evitano fallimenti importanti nel sistema creditizio giapponese ad essere più colpiti dalla recessione dell’Asia Orientale saranno i paesi che hanno con quest’area, un forte interscambio commerciale. I paesi europei e gli Stati Uniti esportano verso l’Asia, Giappone escluso, circa il 2% del PIL, ma Nuova Zelanda e Australia raggiungono il 7-8% e questi due paesi risentiranno maggiormente del crollo della domanda nella regione. D’altra parte nel corso del 1998 si sentiranno gli effetti del crollo delle importazioni dell’Asia Orientale e prima o poi anche quello delle forti svalutazioni e quindi dell’aumentata competitività delle esportazioni di quelle economie. Questo fatto porterà ad un ribaltamento dei saldi di parte corrente della bilancia dei pagamenti dei principali paesi europei, nel 1997 sostanzialmente in attivo nell’interscambio con l’Asia Orientale. Nei confronti dei quattro NIEs l’Italia aveva un surplus di circa 10,000 miliardi di lire nel 1996 e nel 1997 (cfr. Banca d’Italia 1998b, p. 26), che si ridurrà sensibilmente nel corso del 1998. Gli Stati Uniti potrebbero veder peggiorare il saldo di parte corrente della bilancia dei pagamenti di oltre 40 miliar di dollari che andrebbero ad aggiungersi al già enorme deficit. Gli effetti immediati della crisi asiatica sulle economie più sviluppate sono quindi contenuti, in alcuni casi si hanno effetti persino positivi, ad esempio i capitali in uscita da quei paesi ritornano verso le aree a valuta forte, il dollaro ma anche le valute europee del gruppo dell’Euro, alla ricerca di investimenti sicuri, il cosiddetto flight to quality. Le conseguenze a medio termine sono di più difficile valutazione, ma certamente la competitività di prezzo dovuta alle svalutazioni si farà sentire. Un effetto poco sottolineato della crisis asiatica riguarda il vero e proprio crollo dei prezzi delle materie prime, dal petrolio al legname, alla gomma, a molti minerali(cfr. IMF 1998a, p. 48), che deriva dal rallentamento e dalla diminuzione del PIL dei paesi dell’Asia Orientale. Questa situazione comporta grossi problemi economici per i paesi in via di sviluppo produttori di quei beni, in alcuni casi si tratta degli stessi paesi asiatici interessati dalla crisi, in particolare l’Indonesia, esportatrice sia di legname che di petrolio, ma anche dei paesi dell’America Latina, dell’area del Golfo Persico e dell’Africa. Inoltre la crisi asiatica si è inserita in un momento in cui i prezzi delle materie prime erano già deboli, e ha rappresentato un ulteriore calo della domanda internazionale17. Sezione IV Le cause vicine e lontane della crisi 17 . Un altro della crisi finanziaria asiatica riguarda gli spreads, le differenze, fra i tassi di interesse sui titoli emessi sui mercati internazionali da alcuni paesi emergenti, soprattutto in Asia e in America Latina, rispetto a quelli dei buoni del tesoro americani. Questa differenza è un indice del ‘rischio paese’ e rappresenta il costo in più che alcuni paesi devono pagare per collocare le loro obbligazioni; questi spreads erano scesi fino a circa 3 punti percentuali nell’estate 1997, sono risaliti a quasi 7 nel corso dell’autunno, per scendere a circa 4.5 punti percentuali nella primavera 1998. 15 16 Come è potuta avenire una crisi di queste dimensioni in paesi con tanti indicatori economici positivi; forte e prolungata crescita, elevati saggi di risparmio, deficit pubblici assai modesti, inflazione sotto controllo, diversificazione delle esportazioni, basate soprattutto su manufatti e non su materie prime come in Africa e in America Latina? Con saggi di risparmio e di investimento superiori al 30% del PIL e il bilancio pubblico sotto controllo i NIEs non sembravano nella condizione di dover soffrire di un vincolo estero stringente o di carenza di risparmio all'interno18. Eccesso di investimenti e sovrapproduzione Gli anni novanta hanno portato alcune novità che si sono rivelate fra le cause fondamentali della crisi. Se esaminiamo i tassi medi di investimento e di risparmio in percentuale del PIL dei quattro paesi dell’ASEAN e della Corea fra il 1989 e il 1993 vediamo che i primi si collocano 32.2% i secondi 28.9%; nche can tassi di risparmio sempre elevati vi è un eccesso di investimento di oltre 3 punti percentuali del PIL(cfr. World Bank 1996b, p. 22). La differenza fra risparmio interno e investimenti deve essere finanziata dall’estero e appare come un deficit di parte corrente. Va sottolineato che l’eccesso di investimenti sul risparmio è un fenomeno abbastanza normale in alcuni paesi dell’Asia Orientale, e in particolare in Filippine, Tailandia e Corea(cfr. World Bank 1996b, pp. 58-9). Uno studio del Fondo Monetario del 1996 ha messo in evidenza il fenomeno dell’eccesso di investimenti privati confrontandolo con quanto era avvenuto negli anni settanta in alcuni paesi latino americani(cfr. Milesi-Ferretti e Razin 1996). Lo studio mostra che per Corea e Malesia fin dal 1970 si vede che quando il risparmio supera l’investimento vi è un surplus di parte corrente e viceversa(ivi, pp. 24c e 24d). Contrariamente a quelli dell’America Latina negli anni ottanta, i deficit di bilancia dei pagamenti degli anni novanta in Asia sono chiaramente causati da un eccesso di investimenti privati. Questi ultimi non vengono valutati di per se come fattore di rischio poiché sono ritenuti intrinsecamente più efficienti degli investimenti pubblici dal momento che comportano un rischio diretto per l’investitore e quindi si suppone una più oculata valutazione dell’efficienza dell’operazione(cfr. Eatwell 1997, pp. 911)19. Già nel corso degli anni settanta e ottanta queste economie, e anche quella tailandese avevano conosciuto forti deficit di parte corrente che però erano stati superati grazie alla diversificazione della base produttiva dell’economia e al boom delle esportazioni(cfr. Milesi-Ferretti e Razin 1996, p. 23). Inoltre in Asia il debito estero consisteva di prestiti bancari, ma anche di investimenti di portafoglio, e soprattutto di investimenti diretti, e quindi da quella parte dei flussi di capitali esteri che era considerata più stabile e meno fluttuante. Anche questo era un elemento che sembrava rendere la situazione asiatica assai più stabile di quella dell’America Latina negli anni ottanta20. Gli elevati saggi di investimento hanno portato ad un forte processo di accumulazione anche in settori che già nel corso degli anni novanta mostravano chiari segni di 18 . Nella letteratura sullo sviluppo economico i fenomeni relativi all'esistenza di questi deficits prendono il nome di foreign exchange constraint e di saving constraint rispettivamente(cfr. ad esempio Taylor 1991, pp.160-ss; Grilli 1994, pp.151-2). Sistemi economici che presentano questi due tipi di vincoli hanno sicuramente difficoltà a intraprendere processi di sviluppo sostenibili nel medio-lungo periodo, soprattutto sotto l'aspetto macroeconomico. 19 Per alcuni autori si tratta di una tipica crisi da eccesso di debito estero privato in cui anche i flussi di capitali che non creano debito, come l’acqusito di azioni e di immobili da parte di stranieri,hanno contribuito ad alimentare la bolla speculativa sui due mercati(cfr. Akyuz 1998, p. 4). 20 . L’eccesso di investimenti privati sul risparmio privato era stato già segnalato per il Messico nel 1994, in quel caso il settore publico avea un surplus, mentre fra il 1987 e il 1994 era diminuito fortemente il saggio di risparmio privato (cfr. Lopez 1997, pp. 168-70). 16 17 eccesso di capacità produttiva, come per il settore degli autoveicoli. Ma anche le ‘nuove tigri’ hanno cercato di ripetere l’esperienza del Giappone e della Corea del Sud che sono riusciti ha imporsi sui mercati internazionali degli autoveicoli. Così la Malesia ha la sua auto nazionale, realizzata a Proton City con una joint venture con la Mitsubishi. Ma dall’Agosto 1997 le vendite di auto sono crollate dei due terzi e la Proton ha seguito le sorti del settore, dovendo rinviare l’aumento della capacità produttiva dell’impianto. Altro settore in cui molto si è investito in Asia Orientale è quello delle nuove tecnologie; soprattutto nella produzione di semiconduttori e di strutture hardware. Per entrambe queste produzioni la domanda mondiale non sembra in grado di tenere il passo con l’offerta potenziale. Nel caso dei semiconduttori vi è stato un calo notevole dei prezzi, che ha ulteriormente contribuito a ridurre il valore delle esportazioni. Per parecchi e importanti settori produttivi si può parlare di crisi da sovrapproduzione, dovuta al fatto che nel corso degli ultimi vent’anni una nuova regione, per la punto l’Asia delle ’tigri’ vecchie e nuove, si proposta come nuovo produttore. Da qui nascono le difficoltà di far rendere in modo adeguato gli investimenti effettuati, sostanzialmente attraverso la continua crescita delle esportazioni. Altri due fenomeni hanno causato difficoltà alle esportazioni dei paesi dell’Asia Orientale. La svalutazione dello yuan cinese del 35% rispetto al dollaro all’inizio del 1994 e il sostegno fiscale fornito alle esportazioni hanno fatto si che i prezzi dei beni esportabili della Cina si siano ridotti di circa un quarto fra il 1994 e il 1997. Inoltre la rivalutazione del dollaro rispetto allo yen ha creato ulteriori problemi di competitività ai paesi della regione che in varia misura avevano il cambio ancorato al dollaro. Questo legame aveva favorito le esportazioni quando lo yen si era rivalutato rispetto al dollaro, ma ora diventava un problema. Il risultato è stato un apprezzamento del tasso di cambio reale dal 1995 in poi e una perdita di competitività. Vanno anche sottolineati gli errori di gestione dell’economia commessi nel corso degli anni novanta e soprattutto dal 1994 in poi da parte di questi paesi, che in sostanza hanno pensato di poter continuare con il modello che era stato così efficace fino ad allora21. In primo luogo è stata sottovalutata la pericolosità del tasso di cambio fisso con il dollaro, e qui i segnali erano stati assai chiari dopo la crisi messicana. Sarebbe stato necessario un graduale sganciamento o per lo meno il passaggio ad una forma di legame del cambio basato su fascie di riferimento più che su valori fissi, come ha il Cile da parecchi anni e come più recentemente ha adottato il Brasile. Altra possibilità consisteva nel fissare il cambio rispetto ad un paniere di valute, che comprendesse quelle dei principali partners commerciali, e non il solo dollaro. In secondo luogo si è pensato di poter continuare comunque ad assorbire gli eventuali shocks esterni o interni con gli alti tassi di crescita, per cui in qualche modo si è guardato suolo al ‘lato buono’ dell’investimento e dell’accumulazione. Inoltre i paesi della regione hanno vissuto appieno il fenomeno delle bolle speculative, sia sul mercato borsistico che in quello immobiliare. I capitali che entravano non erano tutti investiti in impianti e capacità produttiva, ma alimentavano anche il mercato azionario e quello immobiliare. Così i valori crescenti dei titoli azionari e degli immobili nascondevano i problemi di bilancio di molte società finanziarie e industriali, per cui gli indicatori di sostenibilità microeconomica apparivano positivi e così pure gli indici di affidabilità per nuovi prestiti internazionali. Grazie al continuo 21 Va detto che le oscillazioni dei cambi sono spesso assai difficili da prevedere. Il cambio fra dollaro e yen è passato da 260 yen per dollaro del 1985 agli 80 del 1995 per tornare a quasi 150 nel Giugno 1998, quando l’accordo fra Hashimoto e Clinton porta sembra portare il sostegno della Federal Reserve alla moneta nipponica che risale sopra la quota di 140 yen per dollaro. Queste variazioni difficilemente possono essere spiegate dai cosiddetti fondamentali dell’economia. 17 18 accesso di capitali, soprattutto di investimenti di portafoglio a breve si producevano elevate quotazioni che a loro volta sembravano giustificare ulteriori afflussi di fondi dall’estero. Paul Krugman sottolinea la natura di crisi del sistema finanziario, e vede la crisi del cambio più come effetto che come causa(cfr. Krugman 1998a pp. 5-6). Il crollo della borsa e del mercato immobiliare riduce il valore del patrimonio delle società quotate e delle società di intermediazione finanziaria, queste ultime in difficoltà o vendono e quindi provocano ulteriori cedimenti dei corsi azionari, o addirittura falliscono. Meccanismo simile si applica ai crediti garantiti da immobili e entrambe le circostanze aumentano il valore dei crediti bancari in sofferenza il che provoca ulteriori riduzioni nei valori delle azioni e innesca una crisi di fiducia negli investitori, stranieri ma anche nazionali, per cui inizia la fuga dal sistema finanziario locale e si innesta la crisi valutaria. La crisi finanziaria nasce dal fatto che operatori interni e internazionali sono stati presi dal meccanismo noto come moral hazard, per cui essi ritengono che l’investimento non possa che andare a buon fine, miopia da crescita continua, o che se ci fossero dei problemi di bilancio per società finanziarie e/o banche private comunque il governo, o un finanziatore esterno, il Giappone?, interverrebbero per impedirne il fallimento. In queste condizioni è facile vedere che l’investitore sottovaluta i rischi(cfr. Krugman 1998b, pp. 2-ss.). I mercati finanziari internazionali sono facilmente soggetti a ondate di ottimismo e di pessimismo che possono portare a bolle speculative o a eccessi di ribasso, con forti effetti destabilizzanti. Questo avviene anche per il cosiddetto herding, cioè il fenomeno per cui gli operatori tendono a seguire in massa il mercato e quindi si buttano ad acquistare o a vendere seguendo come un gregge gli operatori di punta e i gestori di fondi speculativi. In questo caso spesso le profezie si autoconfermano, sia nelle ondate di pessimismo che in quelle di ottimismo , con fenomeni di overshooting, cioè di eccesso di reazione sia verso il basso che verso l’alto dei prezzi che vanno al di la dei valori che possono essere ritenuti ragionevoli in base ai cosiddetti ‘fondamentali’ dell’economia.. Sia le valute che i corsi azionari asiatici appaiono al momento sottovalutati, il che fra l’altro determina un ulteriore fenomeno: quello degli acquisti di imprese e società, soprattutto Coreane, a prezzi di vero e proprio saldo da parte di investitori e società dei paesi OCSE e soprattutto americani. E queste considerazioni non vengono solo dal leader della Malesia Mahathir Mohamad, ma sono fatte anche da Krugman (cfr. Krugman 1998b, p. 2). Se per questi fenomeni appare esagerato parlare di nuova colonizzazione è però vero che si possono creare situazioni foriere di notevoli tensioni politiche nel futuro, soprattutto se la ripresa economica dovesse tardare. La finanza internazionale negli anni novanta Gli errori di valutazione dei governi asiatici nella gestione dell’economia riflettono la difficoltà ad interpretare i cambiamenti intervenuti nel quadro del sistema finanziario internazionale negli anni novanta. I flussi di capitali, soprattutto di capitali a breve termine, e gli scambi in valuta arrivano nel corso di pochi anni a livelli imprevedibili solo dieci anni prima. Eatwell sottolinea che nel 1973 sul mercato delle valute si scambiavano fra i 10 e i 20 miliardi di dollari al giorno che hanno raggiunto gli 80 miliardi nel 1980. Ma nel 1992 le transazioni in valuta erano pari a 880 miliardi al giorno e nel 1995 erano salite a ben 1,260, secondo dati della Banca dei Regolamenti Internazionali, e soprattutto erano di 50 volte superiori al valore del commercio mondiale e 70 volte superiori al valore di tutte le riserve auree e valutarie del mondo, e questo in un giorno di scambi medi e non nei giorni di crisi valutarie(cfr. Eatwell 18 19 1997, p. 4). Inoltre la maggior parte di queste transazioni valutarie ha vita brevissima; più dell’80% hanno durata inferiore alla settimana(cfr. ivi). Quest’analisi è sostanzialmente condivisa anche dal Fondo Monetario, che già nel 1996 a proposito del funzionamento del mercato valutario internazionale sottolineava che si poneva il problema di “come ridurre il potenziale distorsivo nel mercato internazionale delle valute. Questo mercato, che è al centro del sistema finanziario internazionale, è il più grande, il più liquido, il più innovativo, e l’unico mercato finanziario globale al mondo aperto 24 ore su 24. Gli scambi giornalieri su questo mercato sono arrivati a 1,200 miliardi di dollari, e molti di essi sono concentrati in un pugno di banche internazionali”(IMF Survey, 23 Settembre 1996)22. Questo non giustifica gli errori di valutazione dei governi e degli operatori del sud est asiatico, ma spiega che la lettura dei possibili impatti di questa nuova situazione non è semplicissima o scontata. Così queste economie hanno continuato ad indebitarsi, e negli ultimi tre-quattro anni soprattutto con capitali a breve termine(vedi Tavola 4). Tavola 4. Cinque Economie Asiatichea: Flussi Netti di Capitali Privati (miliardi di dollari) 1994 1995 1996 1997b 1998c Flussi privati netti 40.5 77.4 93.0 -12.1 -9.4 Investimenti azionari Acquisti diretti di azioni Tramite investimenti di portafoglio 12.3 4.7 7.6 15.5 4.9 10.6 19.1 7.0 12.1 -4.5 7.2 -11.6 7.9 9.8 -1.9 Creditori privati Banche commerciali Creditori non bancari 28.2 24.0 4.2 61.8 49.5 12.4 74.0 55.5 18.4 -7.6 -21.3 13.7 -17.3 -14.1 -3.2 a . Corea del Sud, Indonesia, Tailandia, Malesia e Filippine. b. stime. c Previsioni Fonte: IIF 1998, p. 2. In questi paesi sono esplosi soprattutto i flussi bancari il che ha portato ad una struttura dell’indebitamento estero molto squilibrata verso il breve periodo e quindi soggetta a crisi di liquidità. Una misura della fragilità della struttura del debito estero è data dalla somma del deficit di parte corrente e del debito a breve in rapporto alle riserve, che indica la capacità dell’economia di far fronte ad una rapida uscita di capitali. La Tavola 5 mostra l’andamento in tre anni di questo rapporto per alcune economie dell’Asia Orientale e lo confronta con quello di quattro paesi latino americani. Tavola 5. Debito a breve più deficit di parte corrente(% delle riservea) 1994 1995 1996 Cina 42 40 35 Indonesia 139 169 138 22 , Queste cifre sono confermate da ul Haq, Kaul e Grunberg 1996, appendice statistica. Vale la pena di ricordare che nel Settembre 1992 anche la Banca d’Inghilterra e la Banca d’Italia furono ‘sorprese’ dalle dimensioni e dalla determinatezza della cosiddetta ‘speculazione’ internazionale. Entrambe queste prestigiose istituzioni cercarono di difendere il cambio della valuta nazionale per un giorno e poco più, bruciando quantità notevolissime di riserve. La crisi del Sistema Monetario Europeo del 1992 è stato forse il primo segnale del nuovo contesto che negli anni novanta si era determinato sul mercato delle valute. 19 20 Corea del Sud 125 164 251 Malesia 46 60 55 Tailandia 127 152 153 Filippine 212 203 149 Argentina 151 118 110 Brasile 101 124 121 b Messico 900 267 241 Cile 43 37 31 a . Riserve internazionali meno l’oro alla fine del periodo; alla fine del Febbraio 1997 per Indonesia e Malesia. b. Stima delle riserve a metà Dicembre, appena prima della crisi. Fonte: UNCTAD 1997, pp. 32-33. Emerge la situazione particolare della Corea, che nel corso di due anni si indebita in modo inverosimile, è come se in un periodo brevissimo l’economia avesse perso il controllo sui meccanismi creditizi e finanziari, scommettendo implicitamente sulla possibilità di valorizzare questa massa di dollari in tempi molto brevi e con rendimenti elevati, mettendo così a rischio un processo trentennale di crescita23. Basti pensare che nel 1996 le 30 chaebols più importanti avevano un rapporto fra debito e valore del capitale azionario di circa il 400%, che ha portato alla bancarotta otto di esse(cfr. IIF 1998, p. 12a). Cina, Malesia e Cile presentavano situazioni molto più tranquille, in linea con gli indicatori di altri paesi emergenti. Il sistema finanziario e creditizio di molti di questi paesi ha dimostrato di non essere sufficientemente trasparente e di non avere regole che garantissero la solidità delle istituzioni che in esso operavano, per cui vi è stata una carenza di interventi da parte del governo e delle autorità monetarie che hanno permesso la crescita di società finanziarie non affidabili e che si reggevano solo grazie al continuo afflusso di capitali esteri e al boom del mercato borsistico e immobiliare. Ma all’origine dei flussi di capitali a breve verso l’Asia Orientale vi è anche il rallentamento della crescita e soprattutto il calo dei tassi di interesse nei paesi più industrializzati, per cui molti investitori istituzionali, fondi pensione e mutualistici, si sono orientati sui titoli dei mercati emergenti e soprattutto dell’Asia Orientale. Al tempo stesso diminuivano gli spreads fra questi titoli e quelli dei paesi industrializzati, rendendo meno oneroso per le imprese locali finanziarsi sul mercato internazionale(cfr. IIF 1998, p. 11a). D’altra parte l’aumento degli spreads durante la crisi rende ora molto più costoso il servizio del debito estero24. La Tavola 4 mostra che fra il 1994 e il 1996 nelle cinque economie più interessate dalla crisi i flussi di prestiti bancari a breve, sono raddoppiati; la gran parte dei nuovi prestiti bancari si è concentrata in Corea e Tailandia(cfr. UNCTAD, 1997, p. 30). Ma anche gli investimenti di portafoglio, soprattutto quelli in titoli obbligazionari, sono di fatto parte di quella hot money, investimenti tipicamente finanziari alla ricerca di rendimenti elevati nel breve periodo, che hanno causato i forti deflussi di capitali dal Messico dopo il Dicembre 1994 Le emissioni di obbligazioni da parte dei mercati emergenti sono passate dai circa 40 miliardi di dollari del 1995 ai 108 del 1997, con un picco di quasi 40 miliardi di dollari nel terzo trimestre di quell’anno(cfr. IIF 1998, 23 . Tecnicamente il problema è legato al fatto che al crescere dei capitali esteri a breve termine, e quindi dei debiti in valuta, le istituzioni private e il governo non hanno proveduto a attaure delle operazioni finanziarie e assicurative di copertura rispetto al rischio di deflusso dei capitali stessi o di crollo nel tasso di cambio, nel linguaggio della finanza internazionale: questi debiti a breve erano unhedged. 24 . Per la Corea lo spread sulle obligazioni rispetto alle obligazioni europea era quasi nullo fino al 1997 ed è salito a oltre 700 punti base alla fine del 1997 per secendere poi verso i 500 punti. 20 21 p. 5-6). Indonesia e Corea hanno continuato a emettere obbligazioni, e quindi hanno trovato acquirenti per il loro titoli fino all’Autunno 1997, il che ancora una volta segnala la difficoltà a prevedere le crisi anche per gli investitori istituzionali. La crisi dell’Asia Orientale non può essere spiegata solo dall’imponente massa di capitali a breve che si muove giornalmente sui mercati internazionali, ma certamente l’entità di questo fenomeno è un fatto nuovo, che porrà nuovi problemi nella fase di aggiustamento delle economie in crisi. La liberalizzazione del mercato dei capitali resta un fatto importante, soprattutto per garantire finanziamenti ai paesi in via di sviluppo, ma alcune considerazioni di cautela appaiono necessarie, anche alla luce della crisi asiatica del 1997-98. Già dopo la crisi messicana del 1994 il Fondo Monetario sosteneva che i paesi che avevano fatto pochi progressi nel rafforzamento del mercato finanziario interno avrebbero dovuto essere molto cauti nel rimuovere le barriere ai flussi di capitali esteri, particolarmente per quelli a breve termine(cfr. IMF Survey, 23 Ottobre 1995). Ovviamente dopo la crisi del Sud Est Asiatico viene ripetuta la raccomandazione affinchè si proceda ad una apertura graduale ai movimenti di capitali, con l’indicazione che ”i mercati emergenti devono trovare modi di proteggere le loro economie contro gli aumenti indesiderati di flussi di breve periodo”(IMF Survey 6 Aprile 1998). Molte voci si sono elevate a favore di una tassazione dei flussi di capitali a breve(cfr. Eatwell 1997 e ul Haq., Kaul e Grunberg 1996). Anche all’interno del Fondo Monetario vi sono studi che indicano come i flussi di capitali possano avere effetti destabilizzanti; vengono considerati esempi di efficace controllo dei movimenti speculativi in Cile e Colombia, ma anche in Corea e Tailandia negli anni ottanta(cfr. Lee 1997, p. 3) In presenza di forti movimenti di capitali sui mercati delle valute non e facile individuare il regime di cambio migliore e la gestione del tasso di cambio può essere problematica(cfr. Caramazza e Aziz 1998). Il Fondo Monetario ribadisce l’opportunità di liberalizzare gli afflussi di capitale, ma indica anche quali condizioni devono essere soddisfatte affinché si possa procedere su questa strada; in particolare vi deve essere un settore finanziario interno già solido, caratterizzato da trasparenza e dovutamente sorvegliato, inoltre le misure di controllo sui movimenti di capitali devono essere rimosse gradualmente(cfr. Fischer 1997, pp. 5-6). Sezione V. Le prospettive Continueranno a procedre in stormo le ‘oche volanti’ dell’Asia Orientale? Quando e come si supererà la crisi? E’ difficile fare previsioni, ma alcune considerazioni si possono tentare. Nel Gennaio 1998 le banche internazionali creditrici hanno accettato di estendere i debiti a breve della Corea in scadenza fino a Marzo(cfr. IIF 1998, p. 13a); questo fatto fa entrare il Sud Corea nel novero delle economie indebitate e soggette a queste procedure di riscadenzamento dei debiti concordate con i creditori. Ma si tratta anche di un segnale positivo perchè indica la volontà dei creditori stessi di mettere in moto dei meccanismi che almeno nel breve periodo forniscono soluzioni, o scappatoie, alla montagna di debiti di quel paese. Il 4 Giugno 1998 anche l’Indonesia ha raggiunto un accordo con le banche creditrici(IMF Survey 8 Giugno 1998, p. 175), per il resto bisognerà attendere i frutti del possibile rinnovamento politico del paese. La Malesia sembra reggere discretamente e più che altro risente delle crisi che colpiscono le borse e le valute 21 22 delle altre ‘tigri’. La Tailandia sta subendo una crisi seconda solo a quella indonesiana. Per questi paesi è facile prevedere periodi di forti oscillazioni nel tasso di cambio e nei corsi azionari, oltre che di crescente disoccupazione. Quest’ultimo problema è particolarmente serio poiché si tratta di paesi che sono stati abituati a lunghi periodi di crescita economica, con disoccupazione quasi inesistente e che non hanno ‘ammortizzatori sociale’, o un sistema di welfare capace di attutire gli effetti della disoccupazione sulle condizioni di vita della popolazione. Del resto le politiche fiscali restrittive che sono chiamati ad attuare rendono più difficile porre in atto interventi a sostegno dei nuovi disoccupati, o sottoccupati. Ma il vero problema è costituito da Cina e Giappone, che rappresentano le due ‘dighe’ finali, e le due grandi questioni aperte per la stabilizzazione dell’economia in Asia Orientale. Le ultime dighe Fino alla metà del 1998 il ‘contagio’ non ha toccato in modo profondo le varie Cine: la Repubblica Popolare Cinese, Hong Kong, Taiwan e vista la percentuale della popolazione di etnie cinese anche Singapore. Si arresterà l’’effetto domino’, sfiorando soltanto l’area cinese? Terranno queste ulteriori dighe o vi sarà una lenta, ma inesorabile, inondazione? La Cina ha tuttora un surplus di parte corrente superiore a 23 miliardi di dollari e riserve, con quelle di Hong Kong di oltre 200 miliardi di dollari e sembra quindi in una posizione molto solida. Il problema può però nascere dal fatto che il territorio di Hong Kong ha un tasso di cambio fisso rispetto al dollaro, a 7.80 HK$, dollari di Hong Kong, con il dollaro che viene sostenuto attraverso il sistema del currency board introdotto addirittura nel 1983. Con questo sistema l’Hong Kong Monetary Authority non stampa moneta, vi sono tre banche commerciali che lo fanno in sua vece, ma solo dopo aver versato l’esatto equivalente di dollari all’Autorità stessa. Quindi il dollaro di Hong Kong è sempre garantito da dollari statunitensi, e in teoria non può svalutare, è un sistema a tasso rigido che dopo la crisi messicana del Dicembre 1994 viene considerato estremamente pericoloso, anzi è ritenuto una delle cause o degli indicatori di possibili crisi25. Un crollo del dollaro di Hong Kong difficilmente non toccherebbe lo yuan della Cina Popolare. L’incognita consiste nel vedere se le due valute marceranno separate, ma sembra difficile, o se la Cina gradualmente abbandonerà il sistema del cambio fisso con il dollaro per Hong Kong. Se non lo farà è possibile che vi siano attacchi speculativi contro la valuta, che possono anche fallire loro tentativo, come è già successo nella prima metà del Giugno 1997, ma il cui esito è sempre incerto e comporta notevoli rischi. Una svalutazione dello yuan porterebbe probabilmente a una catena di svalutazioni competitive nell’Asia orientale e non solo in quell’area. La seconda grande questione riguarda il Giappone, il cui ruolo per lo sviluppo di tutta l’Asia Orientale è stato così determinante(cfr. Sezione I). A Giugno 1998 Clinton e la Federal Reserve sembrano avere mandato segnali di appoggio allo yen che quindi potrebbe anche stabilizzarsi o per lo meno non subire ulteriori significative svalutazioni. Ma il vero problema è l’ormai lunga stagnazione dell’economia giapponese e soprattutto l’inerzia e l’incapacità di reagire che sembra avere colto il governo e il sistema industriale e creditizio del paese. Vi è una sorta di ‘sclerosi’ che . L’esperienza più nota di currency board è quella Argentina dove nel il piano di Convertibilità di Domingo Cavallo è stabilito per legge un rapporto uno a uno fra pesos e dollaro. Va notato che negli anni novanta in Argentina l’inflazione è crollata. 25 22 23 ricorda la ‘trappola della liquidità’ keynesiana, quando pur a tassi di interessi bassissimi, praticamente nulli, gli imprenditori non investono, e quindi l’economia non riparte, anzi crollano i consumi interni, le vendite e la produzione. Da ormai tre anni in Giappone il livello dei tassi di interesse a breve è di poco superiore allo 0(cfr. IMF 1998a, p. 34). L’’oca di testa’ si è inceppata e non trova più la direzione giusta, e questo rende più difficile l’uscita dalla crisi per tutta la regione. Può dalla crisi giapponese innescarsi una crisi mondiale di sovrapproduzione? La possibilità di una deflazione generalizzata non si può escludere soprattutto se si realizzano svalutazioni competitive e se l’Europa e il Giappone continuano con politiche non espansive della domanda(cfr. Akyüz 1998, pp. 8-ss). Questa prospettiva non viene scartata dal Fondo Monetario che però la lega soprattutto al persistere di politiche restrittive della domanda in Giappone(cfr. IMF 1998a, p. 62). Per l’economia giapponese si è assistito all’allargamento del cosiddetto output gap, cioè della differenza fra il prodotto potenziale di un paese e quello effettivo, questo è un indicatore significativo dell’esistenza di un processo deflazionistico(cfr. IMF 1998a, p. 34). Una sindrome latino-americana? Non solo. Qualche analogia con la crisi del debito in America Latina negli anni ottanta esiste, e soprattutto le economia asiatiche si trovano ora ad avere in comune con quelle dell’America Latina una quantità elevatissima di debito estro. L'esistenza di uno stock di debito estero assai rilevante, si manifesta nel cosiddetto problema del debt overhang. Si tratta di un circolo vizioso per cui l'esistenza di un debito estero elevato e il conseguente servizio del debito scoraggiano gli investitori stranieri, sia istituti di credito che imprese. Infatti vi è un evidente elemento di rischio per i nuovi prestiti, dal momento che le risorse del paese dovrebbero essere utilizzate per il pagamento degli interessi arretrati sul debito già in essere. La situazione scoraggia anche gli investimenti diretti esteri, dal momento che in teoria eventuali profitti generati dall'attività locale potrebbero essere utilizzati, attraverso forme di tassazione, per ripagare i debiti precedenti, ma soprattutto per via dell'instabilità macroeconomica che un servizio del debito elevato comporta, primo fra tutti il rischio di forti aumenti dei tassi di interesse. Molti paesi dell’Asia Orientale dovranno abituarsi a vivere questa condizione di paese non solo indebitato, già lo erano, ma di paese in cui il servizio del debito estero pone problemi di finanziamento e assorbe percentuali significative delle entrate valutarie che derivano delle esportazioni. L’instabilità finanziaria che deriva da questa situazione potrebbe protrarsi per parecchi anni. Ma a differenza dell’America Latina questi paesi hanno già costruito una solida base industriale e in alcuni casi anche nel settore dei servizi, le loro esportazioni non sono concentrate su pochi beni primari, ma sono fortemente diversificate. La qualità della forza lavoro, i livelli di istruzione primaria e secondaria fanno si che vi sia un ‘capitale umano’ di qualità assai elevata e che certamente aiuterà a superare la crisi. Nonostante vi sia l’esigenza di ampliare e migliorare le infrastrutture queste esistono e hanno contribuito ad ottenere importanti risultati nella lotta alla povertà. Dopo il fallimento delle società più deboli rimarranno strutture e istituzioni finanziarie che comunque constiranno a questi paesi di intervenire sui mercati finanziari e creditizi internazionali. In sostanza in Asia Orientale il processo di crescita economica degli ultimi trent’anni è stato anche un processo di sviluppo umano, seppur con molte ombre. I tempi di allentamento della morsa della crisi saranno più lunghi di quelli conosciuti dal Messico nel 1994-95, e ciò perchè la crisi ha dimensioni più ampie e coinvolge più 23 24 paesi della stessa area. A differenza di quella Messicana, in Asia si tratta di una crisi regionale, e le interdipendenze economiche fra i paesi dell’area si sono tramutate in uno svantaggio. Ma nonostante la crisi finanziaria iniziata nel 1997 questi paesi continueranno a costituire un polo di crescita per il commercio e l’economia mondiale e un polo di attrazione per gli investimenti diretti e di portafoglio. L’Asia Orientale resterà anche un concorrente importante sui mercati internazionali per i paesi più industrializzati. Infine, questa crisi è diversa da altre che l’hanno preceduta e anch’essa ci insegna qualche cosa. Nessuna economia è immune a possibili crisi finanziarie, i segnali premonitori che pure esistevano non sono stati colti per tempo dagli operatori economici, e la situazione sta evolvendo con modalità che solo in parte ricalcano quelle di altre crisi valutarie degli anni novanta26. Ma forse questa è una caratteristica a cui dovremo adattarci per le fluttuazioni economiche del prossimo secolo. BIBLIOGRAFIA Akamatsu K. 1962, “A Historical Pattern of Economic Growth in Developing Countries”, The Developing Economies, vol. 1, n. 1, Marzo-Agosto. Akyuz Y. 1998, The East Asain Financial Crisi: Back to the Future?, UNCTAD, mimeo, Ginevra. Amsden A. 1989, Asia’s Next Giant. On South Korea and Late Industrialization, Oxford University Press, Oxford. Banca d’Italia 1998a, Relazione Generale, Roma, Maggio. Banca d’Italia 1998b, Bollettino Economico n. 30, Roma, Febbraio. 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